Libertà Edizioni
Transcript
Libertà Edizioni
Libertà Edizioni La dea compensatrice Un racconto e alcune poesie di Luca Franceschi Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. Dante, Inferno, Canto I Dedicato a mia figlia Marta che mi ispira come la ninfa Egeria e a mio fratello Roberto che mi protegge da lassù La dea compensatrice LA DEA COMPENSATRICE LA CURA Matteo si mise in bocca l’ennesimo pezzetto di carne sui ferri, intingolò un tocco di pane all’olio nel condimento delle sue verdure cotte e tirò un sospiro profondo. Mai aveva masticato così lentamente; era abituato nella vita di tutti i giorni ad ingollare i bocconi quasi per intero. “Cattiva abitudine! Uno di questi giorni ti strozzi!” gli ripeteva sempre una sua amica che in fatto di mangiare lento e cultura della cucina macrobiotica, preparata di rado, era un asso. Senza dubbio erano l’atmosfera della clinica e quei giorni lenti, passati a curare un brutto fegato le cause che facevano scandire i tempi della masticata. “Mi aggiusterò un po’ di linea” pensava, mentre si tocchicchiava la pancia e i fianchi. Un tempo era stato magro, non esile, perché comunque aveva giocato a pallone fino a diciassette anni. In seguito ad un brutto infortunio al ginocchio, e al suo impegno nel subbuglio sociale, culturale e all’aspettativa rivoluzionaria di quegli anni si era dedicato totalmente alla causa. I lineamenti delicati del viso, i capelli neri e riccioluti cozzavano con la determinatezza del suo carattere così incline al radicalismo e alle scelte estreme verso le quali riusciva a portare molti uomini e donne, anche più grandi di lui. L’attivismo politico era intenso come la sua attività sessuale con le donne. Nel suo letto di cura ora pensava che in quel campo era stato come la cicala che canta d’estate sull’albero e prende in giro la formica che sgobba preparando le provviste per l’inverno. Era iperattivo, quasi non più in grado di tenersi, di fermarsi, di fare scelte razionali ma solo di pancia e di cuore. Rivedendosi avrebbe poi ammesso di essere fuori controllo. Dopo la fine del ciclo di lotte, con la perdita dei contatti e con l’incedere di un grigio riflusso, si sentiva molto cicala. Il fegato in disordine era il paradigma della confusione e del malanno mentale in cui si trovava; un fenomeno conseguente, che 7 La dea compensatrice era sfociato in una forma di bulimia a cui dovette porre fine. Soffriva per la resa che molti suoi amici e compagni avevano scelto; quasi un pentitismo di massa, che assumeva via via forme diverse con scelte di vita in contraddizione con i pensieri e le azioni degli anni precedenti, uno sbracamento fisico e mentale. Matteo cercava di non esser risucchiato in quel gorgo. Pensava alla sconfitta di massa subita. Lui era sconfitto e verso le sconfitte ci sono modi diversi di porsi. Pensava ai tanti rinchiusi nelle patrie galere, alcuni li aveva conosciuti. “I ricordi hanno una duplice identità” - questa volta parlò sommessamente da solo - “servono per conservare la memoria, ci sono quelli belli e quelli brutti. A volte però diventano ossessivi e guastano la vita o ti fanno arrampicare su per un crinale per poi tornare al punto di partenza.” Si trovò allora ad osservare, con gli occhi un po’ persi nel vuoto, le due pasticche in un vasettino di vetro accanto alla saliera. Già, le pasticche, lo sciroppo e poi la flebo e molto riposo: questa era la terapia di fondo che seguiva. Ma c’era qualcosa di più che lo colpì in quel momento. Si rese conto che stava scivolando dalle riflessioni empiriche a quelle più profonde ed esistenziali vicine alla sua condizione e a quella e del genere umano. Si scordò della terapia e i suoi pensieri rincorsero ombre che lui voleva squarciare, afferrare. Una rincorsa affannosa che ogni momento trovava nuove forze per trascinarlo più avanti. Ma chi ha stabilito per l’uomo la quantità necessaria al suo sfamarsi? Si chiese in silenzio. Decine di tabelle fatte da medici e specialisti, libri e pubblicazioni più o meno periodiche, orari dei pasti inflessibili: un grande “suk” in cui volteggiavano miliardi pensò Matteo. “Chi le aveva stabilite tutte queste cose?” si chiese. “L’uomo” - pensava - “ha la propria vita organizzata da tutti questi cultori di equilibrio. In ogni campo, in ogni atto hanno preparato per te una media. Questo mio pasto non è casuale ma il frutto di quelle operazioni. Del resto mi devo stupire di poco: la media è quello che occorre per mantenere la normalità; la norma deve sopravvivere e così 8 La dea compensatrice sia.” Lui era stato considerato un esagerato e in fondo lo sapeva. “L’importante è esagerare” principiava una canzone di quel periodo, e Matteo non se lo faceva ripetere due volte, non cercava mediazioni, neppure con se stesso. Questa era anche la sua forza di convincimento; sempre in prima fila, sempre in testa, esagerato, rischiando e pagando di persona. Riprese a mangiare e gli vennero in mente, chissà perché, degli uomini primitivi. I nostri primordiali antenati mangiavano fino a quando non sentivano i morsi della fame allentare la presa allo stomaco, poi subentrava in loro un gustoso e dolce senso di pienezza e sazietà, meta raggiunta e soddisfazione totale di un bisogno, soprattutto anche in conseguenza dell’enorme fatica che dovevano aver fatto per procurarsi il cibo. Quel fiume di pensieri lo aveva stancato ma si sentiva leggero. Eppure era consapevole che, a dispetto delle pseudo-scienze sull’alimentazione controllata e salutista, tante persone soffrivano la fame e ci morivano di fame. Quel giorno stava aspettando che lo venisse a trovare, come sempre, sua zia per portargli il suo quotidiano preferito, un monumento della stampa nazionale. La zia era una donna piccola, bassa e tozza, quasi tonda, fastidiosa ma con una salute di ferro. Aveva il viso pieno di nei cresciuti con gli anni a dismisura e lo sguardo era poco benevolo verso il mondo in genere, ma era una fervente cristiana e sorella di sua nonna Emma. La sua devozione cattolica la costringeva ad essere servizievole e apparentemente caritatevole verso il prossimo, tuttavia era sempre pronta a rinfacciare le debolezze altrui, ergendosi a giudice. Nonna Emma invece era una donna sensibile, dai tratti dolci, e la sua persona spandeva un profumo gradevole e sensuale, tutti la dicevano così. Matteo ricordava una sua foto dei primi del novecento, di quelle foto che hanno il giallo del tempo e che non hanno il movimento di certe istantanee moderne ma assomigliano ad un quadro di Tiziano da cui si può cogliere il tratto essenziale del carattere di 9 La dea compensatrice una persona. Nella foto Emma teneva gli occhi bassi rivolti maliziosamente verso una lettera che teneva nella mano sinistra, appoggiata alla gamba accavallata e coperta da una lunga gonna nera con sopra una camicetta bianca col colletto di trine che scendevano su un petto generoso; il viso era un ovale perfetto e i capelli neri, non molto lunghi, erano divisi sul lato destro, più corto, in modo che la parte sinistra degli stessi le girasse intorno alla fronte a scoprire la parte inferiore dell’orecchio minuto, mostrandola in tutta la sua giovane, esuberante età di donna pronta ad affrontare la vita di sposa. Quando sua zia gli consegnò il quotidiano, Matteo cominciò a leggere con avidità. Gli articoli da tutto il mondo erano una fonte preziosa per lui. Era come se, conoscendo le cose tremende che succedevano anche a migliaia di chilometri di distanza, la sua indignazione prima o poi avesse portato qualche risultato in termini riparatori. Che differenza c’era in fondo tra questo suo modo di rapportarsi alle ingiustizie con i paternostri biascicati in chiesa da sua zia? Questa considerazione lo spiazzò. Lesse un servizio di uno storico inglese sulla figura di Churchill durante la prima guerra mondiale. Allora un filo sottile, che sembrava rompersi ogni momento, ma che ogni volta lo trascinava più avanti, finì per lasciarlo davanti a dei nitidi ricordi. PANE E VETRO Molte volte la sera, quando era piccolo, Matteo si era addormentato al suono delle parole dei racconti al tavolo del dopocena, dove un numero imprecisato di familiari, zii, cugine e nuore restavano radunati dopo il pasto in comune e ognuno argomentava a suo piacimento. Solo lui voleva ogni volta risentire come si faceva a vivere sotto le bombe, coi soldati in casa, con i parenti scomparsi in Africa o a lavorare in Germania nel periodo di quella che tutti gli dicevano essere stata la seconda di una serie di guerre mondiali che forse non sarebbero finite mai. 10 La dea compensatrice E fu in uno di quei giorni che sua nonna Emma, toccandosi i capelli neri raccolti dietro la nuca in una treccia arrotolata, non riusciva ad assumere un’aria severa come avrebbe voluto. Il bambino la guardava imbronciato, sporco e con i calzoni corti stracciati, impettito e orgoglioso; oramai i sandali erano ridotti a poca cosa e la polvere dell’estate si era incrostata tra le dita dei piedi come sulle gambe e sui ginocchi sbucciati; le bretelle color marrone percorrevano un magro torace nudo che sosteneva un viso stranamente quasi paffuto e sul capo c’erano dei capelli castani e lisci che facevano risaltare due occhi scuri. Era così piccolo che parlava in modo buffo e in mano aveva un sasso. “Dai pane sì, ‘pacco vetro no! Dai pane no, ‘pacco vetro sì” disse tutto d’un fiato, respirando poi profondamente. La nonna scese con calma lo scalino della porta del negozio del pane e il movimento, come ogni giorno, provocò l’immediato passo indietro del bambino che si irrigidì nella nuova posizione in atto di sfida con le gambe divaricate. Dalla porta arrivava fin sulla strada l’odore del pane fresco, appena cotto. La guerra era così avara di quegli odori ma nessuno aveva il tempo per queste riflessioni. “Risparmiami il vetro per oggi, ho un po’ di pane per te, domani non so.” Disse la nonna al piccolo porgendogliene un grosso pezzo. Il bambino lo afferrò e corse via nella polvere. Fu così rapido nel voltarsi e nello scattare che la cosa suscitò un istintivo gesto collettivo di difesa di un gruppo di soldati tedeschi che stava incamminandosi nell’opposta direzione. I soldati, ricomposta la formazione, entrarono nel negozio di pane come ogni giorno. La bottega era molto antica anche per quei tempi e conservava la sua struttura classica: il banco delle vendite era a sinistra, a destra scaffali di legno e cassettoni; sportelli a vetro ospitavano poche cose: c’era la farina bianca, il sale, pochissime varietà di caramelle e poi scatole di latta colorate, vasi panciuti di vetro grosso con coperchi di metallo color oro, vuoti. Una piccola porta dirimpetto l’ingresso, in fondo al locale non molto lungo, lasciava intravedere un’enorme basculla e alcune bilance piccole. 11 La dea compensatrice Quel gruppo di soldati entrò senza salutare nessuno, spaventando le due persone presenti davanti al banco che stavano esibendo la tessera. Oltrepassarono la piccola porta e si diressero in fondo verso il forno che sprigionava ancora calore e sul bancone da lavoro infarinato, proprio sotto un orologio a pendolo appeso alla parete, deposero i mitra e le bombe, si levarono gli elmetti e cominciarono a parlottare. Uno di loro si accese una sigaretta e la nonna stava per dirgli di non fumare ma si trattenne. Quel soldato aspirò l’ennesima boccata e tirò fuori il fumo con aria beata; socchiudendo gli occhi alzò la testa e fissò l’enorme finestra a circa due metri di altezza da cui si intravedevano le cime immobili degli alberi del giardino della famiglia Emiliani. Il suo sguardo ruotò sull’intero soffitto e si fermò sulla lampada spenta che pendeva. Fu allora che l’espressione ebete e beata si tramutò nei guizzi nervosi dei tratti che denunciavano stupore e sospetto, diffidenza e curiosità o forse tutto questo sembrò alla nonna. Emma, come tutti, aveva sentito dei rumori venire dal soffitto, uno forte ed altri regolari come dei passi; anche i tedeschi sapevano che nella casa di sopra non dovevano esserci persone. “I topi!” disse la nonna con la voce rotta e un po’ incerta e indicò un’altra porta piccola ma robusta cui si poteva accedere, più in alto, solo con una scala a pioli. “Si divertono tra le legna e i trucioli che servono per cuocere il pane” e cercò con gli occhi gli altri per essere più convincente, con un sorrisetto di circostanza. “Ja, ja!” disse il tedesco che fumava. Un miagolio fece sciogliere la tensione che si era impadronita di Emma e tutti si voltarono e seguirono con lo sguardo l’incedere lento e maestoso di un enorme gatto bianco. L’estate stava davvero per finire, ma se ottobre era alle porte i partigiani erano ancora lontani e l’altro esercito, quello americano e inglese, era bloccato più a sud. I soldati tedeschi entravano e uscivano dal negozio di pane tutti i giorni e tutti i giorni aumentavano le armi e le bombe; una vera 12 La dea compensatrice polveriera cresceva insieme ai trucioli e alla farina. Due volte al giorno Emma montava e scendeva le scale di legno interne che dal retro bottega conducevano alla sua casa, al primo piano: due rampe di scala ripide che si dovevano salire aggrappandosi ad una delle sbarre di legno poste ai lati. Tutte le volte che bussava all’armadio, il negozio di sotto era chiuso: quattro tocchi decisi. Quel giorno il cuore le era quasi salito in gola; colpa del tedesco che fumava: avrebbe potuto scoprire il suo segreto, o forse lo aveva intuito? Di nuovo si toccò la treccia arrotolata alla nuca e rimase in attesa davanti al grande armadio nella stanza più grande della casa, una stanza che serviva per tutto. La nonna sembrò quasi prepararsi al risultato di una magia. Lentamente il grosso mobile cominciò a scorrere verso destra per poi essere spinto leggermente in avanti tanto da creare un vuoto tra il muro e il legno, sufficiente per far passare una persona anche di corporatura robusta; la nonna scomparve in quel vuoto, così come erano scomparsi, alcune settimane prima, i suoi due figli. Nessuno sapeva dove fossero e si dice che Emma contribuisse con il suo atteggiamento affranto ad alimentare il mistero. Erano i giorni della guerra nei quali sembrava che la vita non valesse più niente ed era sempre meglio pensare a chi era improvvisamente scomparso che non a chi era certamente morto. Quando Emma fu completamente entrata da quell’apertura e l’armadio fu di nuovo al suo posto, non perse tempo in convenevoli. Li contò rapidamente con lo sguardo. Nascosti in quella stanza c’erano cinque giovanotti compresi i suoi due figli. Erano lì e non in qualche campo di lavoro o di concentramento, magari in Germania. La stanza era grande ma non sufficiente per tutti: le si presentò, come ogni giorno, disordinata e soffocante, piena di fumo. I calzini erano appesi dovunque, le magliette sparse sui mobili, i vetri appannati. La nonna corse alla finestra senza dire una parola e l’aprì con violenza liberatoria. “Andate a mangiare della frutta nel giardino degli Emiliani, svelti! 13 La dea compensatrice Ho portato il pane e dell’affettato, ma anche una boccata d’aria è importante.” Forse solo in quel momento si rese conto del rischio che stavano correndo. Se i tedeschi li avessero scoperti, per loro sarebbe stata la fucilazione o la deportazione. Guardò i suoi figli e gli altri che stavano scendendo nell’orto, protetti dal buio e li vide nascondere la scala che era servita per la discesa. Sorrise: un po’ perché erano lì con lei vivi; un po’ perché di nuovo aveva ingannato la guerra, come ogni giorno. La nonna di Matteo era morta: a lui era rimasta la zia. Riprese a sfogliare il giornale fresco di stampa, gli piaceva quell’odore. Lesse con attenzione quasi tutto. Quel giorno aveva la mente in continuo fermento e non c’era articolo che non gli smuovesse qualcosa, come se ogni notizia lo chiamasse per farsi collegare ad un fatto che gli era capitato o ad una situazione che aveva vissuto intensamente. L’esercizio mentale lo stancò. Si sarebbe addormentato ma una folla di volti, di città, di paesaggi lo assalirono prepotentemente. In quel momento un buon whisky sarebbe stata la medicina migliore. Il whisky lo aveva aiutato molto quando si infervorava nei suoi voli fantastici. Era un buon carburante, anche se a volte il sovrappiù aveva sortito l’effetto di bagnargli le candele, lasciandolo in panne. Matteo accese la radiolina che teneva vicino e sentì il suono di una musica irlandese travolgente e ritmica, una cascata di strumenti che insieme trasmettevano gioia e angoscia di vivere. Matteo continuò a volgere la mente ai ricordi e cercò di materializzare le idee. Fu così che vicino al suo letto gli apparve nonna Emma. “Parlami dell’Irlanda” disse la nonna. “Tante volte io ti ho raccontato di ben due guerre e di tutte le sofferenze che hanno procurato, ma quelle moderne non devono essere migliori, anche se più piccole.” “Ti posso dire solo poche cose sulla guerra d’Irlanda” rispose 14 La dea compensatrice Matteo. “Non importa” sussurrò la nonna. “Ognuno vede il mondo dal suo osservatorio; l’importante è ricordare, anche le piccole storie.” “La mia è proprio piccola.” “Non importa” lo incoraggiò la nonna. “Comincia dall’inizio, io ti ascolterò in silenzio, senza interromperti, come facevi tu.” DA DUNKERQUE A BELFAST Un fiume di parole cominciò a uscirgli dalla testa… “Quella sera, nonna, avevamo il cuore in gola e la faccia rossa. Avevamo bevuto birra belga dei frati Trappisti. Cercai gli occhi di Rizzo e li trovai sgranati come due chicchi d’uva, pieni di sole e di vento. Senza dircelo stavamo vedendo le stesse cose. Il sole del Nord faceva ancora brillare gli elmetti dei soldati inglesi in fuga verso il mare che la bassa marea aveva allontanato di due o tre chilometri. Si erano formate delle linee orizzontali ininterrotte colme di pozzanghere che rifrangevano un bianco tramonto. Eravamo vicini al canale della Manica a ridosso di un borgo chiamato Dunkerque. Il mare brulicava di navi e di barche di ogni tipo. I Tedeschi bombardavano, sparavano ed avanzavano con le facce gonfie di birra. Come fossimo invisibili, con passo deciso, senza correre, ognuno seguendo una sua traiettoria, ci buttammo dentro questa gelida battaglia. Ricordo che avevo uno strano sorriso e persi di vista il mio amico Rizzo. Scansavo gli scoppi delle mine e dei mortai, irridente a qualsiasi paura di essere ucciso, sicuro che anche il mio amico se la sarebbe cavata. Camminai per un chilometro, forse di più, fino a che piccole onde mi bagnarono i calzoni a metà stinco. Mi voltai e vidi il mio amico Rizzo lontano che rideva a bocca aperta fermo sulle gambe divaricate per tenersi in equilibrio. Ma eravamo davvero dei soldati 15 La dea compensatrice in zona di guerra? In Francia? La nostra meta era un’altra, ancora lontana: Irlanda del Nord, Belfast. Allora mi ritenevo un vero pacifista ma non come quei piagnoni che “porgono l’altra guancia” perché sono sicuri di non esporre la prima allo schiaffo. “Si vis pacem, para bellum”. Su questo avevo impostato gran parte del mio pensiero e della mia azione, anche se la guerra a cui mi riferivo era combattuta non da nazioni, non da imperi, ma da classi sociali contrapposte. Questa visione delle cose mi legava molto a Rizzo che era una vera e propria forza della natura. Le decisioni, come spesso avveniva in quei tempi, le prendevamo durante serate di vini e bisbocce, di canti, di idee, di sfide impossibili. Essere per la pace vuol dire anche essere capaci di amare una guerra combattuta da gente oppressa e sfruttata, magari contro uno degli eserciti più agguerriti del mondo. Io e Rizzo convenimmo quella sera che era facile per molti parlare bene della lotta del popolo irlandese, nelle comodità delle loro esistenze. Così per sfidare i troppi benpensanti decidemmo di partire dall’Italia, attraversare l’Europa e arrivare nel Regno Unito di Elisabetta e più oltre, di fianco alla Scozia, nell’isola d’Irlanda dove ancora si parla il gaelico. Dieci anni prima in quel periodo, gli anfibi dei soldati che sventolavano la Union Jack avevano stuprato la landa di terra irlandese delle sei contee che era scesa in lotta per l’indipendenza e la liberazione sociale, in nome di una falsa guerra di religione. Guardai Belfast dai vetri della libreria “Justa Book”, tra riviste dell’I.R.A., dei Provisionals, volantini anarchici, giornali irredentisti o del Sinn Fein che ricordavano le confraternite dei guerrieri mitologici, i Fianna, guidati da Fionn Mac Cumhaill. Case diroccate, buchi di pallottole sui muri, volti fieri, vicoli percorsi di fretta da persone che apparivano e di colpo sparivano chissà dove e per fare che cosa. Passarono alcuni giorni in cui si saldò l’amicizia con un gruppo di frequentatori di quella libreria. Erano operai, trasportatori, 16 La dea compensatrice disoccupati, e chi sa cos’altro, insegnanti come la piccola Ghinny con gli occhi celesti e suo marito Ray che faceva il camionista per una ditta del porto. Ray era alto, sopra la media degli irlandesi, con i capelli neri e lisci e un profilo quasi greco. Pacato nel parlare, attento a farsi capire da noi due, gesticolava poco e si metteva sempre a braccia conserte come a voler dare maggior peso ai suoi discorsi. Oltre a Ghinny e Ray, ci legammo a due loro amici, Tom e Roddy, giovani irlandesi disoccupati. Le loro vite erano trascorse tra piccoli furti e azioni di protesta contro gli inglesi o per difendere i quartieri cattolici dalle scorribande dei protestanti. Il primo moro e robusto, l’altro mingherlino e coi riccioli rossastri si assomigliavano negli occhi chiari sempre presenti con lampi di vitalità incredibile. La loro camminata era simile, ciondolante, non indolente. I loro padri erano stati arrestati dieci anni prima, protagonisti entrambi della scissione che subì l’I.R.A. tra l’ala Official e quella Provisional critica verso la leadership che accusavano di ortodossia socialista ma soprattutto di non essere stata in grado di difendere i quartieri cattolici di Belfast quando furono attaccati da gruppi di estremisti di estrema destra di fede protestante. Il giorno era passato via svelto, come gli altri. Troppo svelto. L’eccitazione per gli incontri con donne e uomini che ci raccontarono i risvolti crudi, quotidiani di una lotta senza quartiere, ripulì le nostre menti da facili idealizzazioni. Discutemmo anche di Mazzini con questi irlandesi e delle analogie delle forme di lotta praticate, della clandestinità, del prezzo che si deve pagare contro re, regine e regimi di sfruttamento di classi sociali oppresse. Dovevamo trovare un posto per dormire, perché stare fuori a quell’ora tarda poteva procurarci delle noie. Vedemmo una casa abbandonata. Con un calcio sfondammo la porta per entrare. All’interno era rimasto poco dell’arredamento originale, ma quel poco mi fece ricordare i racconti di Joyce, le ambientazioni descritte nelle quindici novelle dei Dubliners. C’erano ancora due divani sopra un tappeto consumato, delle seggiole scompaginate, alcune impagliate coi gambi sottili, altre di 17 La dea compensatrice legno massello, tozze ma instabili, tende strappate alle finestre, un giradischi, una vecchia radio con le manopole mancanti, una lampada su un mobile. La piccola cucina aveva ancora la luce e siccome si trovava nella parte più lontana della casa ed era senza finestre, decidemmo di accendere solo quella. Mangiammo qualcosa e fumammo insieme. Nella semioscurità accennammo a delle canzoni a bassa voce e tutto contribuiva a creare un’atmosfera di familiarità, di complicità che ci stupiva. Io e Rizzo ci facemmo insegnare qualche parola e frase in gaelico, ma tutte le volte che parlavano in irlandese dovevamo chiedere “Please, speak slowly!” L’inglese parlato in conversazione dagli irlandesi è come un mitraglia! Tom e Roddy cominciarono a polemizzare con gli altri due. Attaccò Roddy: “Voi continuate, come dieci anni fa, a fare propaganda dei vostri astratti programmi, avete troppa fiducia nel Sinn Fein, cercate un compromesso politico e ci lasciate di nuovo soli nei nostri quartieri!” e incalzò Tom: “Mio padre era amico del tuo, Ray, ma il tuo disse che era scellerato armarsi in massa per respingere gli estremisti, disse che avremmo favorito la repressione inglese. Noi ci siamo difesi e voi lo avete capito tardi, con i parà inglesi che proteggevano gli assassini della nostra gente! I nostri padri si sono riparlati dopo gli anni di prigione. E poi ti scordi come trattano i prigionieri dell’Ira, di qualunque frazione? Le torture, i pestaggi, e li considerano solo dei delinquenti comuni, non prigionieri politici… dovremmo fare qualcosa per questo!” Ray sembrava in difficoltà. “Occorre essere uniti! Costringere la Thatcher a trattare.” “Sì, e magari continuare a chiamare Derry, Londonderry! È una storia che si ripete e non vogliamo che finisca come nel 1922, divisi da un trattato che ci ha separato e ha portato la guerra civile nello stato libero d’Irlanda e non in una repubblica!” rispose Roddy. “L’Irlanda deve essere una e repubblicana!” Tom e Roddy erano giovani, si arrangiavano nella vita, nessuno gli dava lavoro, erano stati poco a scuola, ma avevano la capacità di chi dalla vita, dalla lotta, dalle proprie radici esprime concetti che travalicano il grado di cultura in sé, per come a volte viene 18 La dea compensatrice concepito. Un grande poeta, morto assassinato all’idroscalo di una metropoli, ce lo aveva già detto, ma c’era passato sopra le chiorbe, distrattamente. Ghinny partecipava emotivamente ma ci accorgemmo che il suo impegno tra i ghetti cattolici, miseri, poveri la portava a vedere l’aspetto umano, civile della questione. Interagiva con le famiglie smembrate dalla morte, dal carcere, dall’alcool, aiutava gli orfani della guerra, quegli stessi che, laceri e sporchi, sbucavano dai vicoli di Belfast sulle Roads principali tirando sassi con le mani o le fionde contro i vetri dei bus di linea cittadini, simboli della sottomissione all’Inghilterra, gesto quasi gioioso e irriverente come in una guerra tra ragazzi della via Pal. Ella cercava il collante tra la guerra e i suoi drammi personali, scriveva lettere alle mogli per i mariti prigionieri o semplicemente portava fiori sulle tombe di chi non aveva più neanche quel conforto. Io e Rizzo a stento ci inserivamo in quel serrato scambio di battute. Lì c’era tutta L’Irlanda del Nord. Dopo alcune birre decidemmo di uscire per andare ad un pub dove c’era la tombola per i prigionieri politici. Nei pub disadorni delle strade vicino a Falls Road la tombola per la raccolta di soldi a favore dei prigionieri politici era un rito che si ripeteva ogni sera. È difficile che oggi dimentichi i volti di quelle donne anziane, di quelle più giovani, dei vecchi o dei pochi giovani irlandesi presenti mentre tiravano su i numeri e sistemavano i chicchi sulle loro cartelle, bevendo piccoli bicchieri di whisky tutto d’un fiato, raffreddandosi la gola con piccoli sorsi da grossi boccali di birra. Quasi ogni sera io e Rizzo avevamo visto la fierezza degli irlandesi oppressi: allineati contro una parete del pub, mostravano i documenti, e noi i nostri, alla pattuglia inglese che immancabilmente faceva irruzione. Questi uomini e queste donne, apparentemente e concretamente disarmati di tutto, trasmettevano un coraggio attraverso i loro gesti e i loro sguardi che ci aiutava a superare i momenti davvero brutti. I loro corpi parlavano in faccia ai soldati, militari perfetti: “Voi, servi sciocchi, stivali e guanti neri lucenti, canna del mitra spianata, 19 La dea compensatrice non ci sottometterete mai!” Conclusa l’irruzione, senza commenti, la tombola poteva proseguire. Fuori le strade bagnate dalla pioggia fine e costante sembravano andare verso il nulla; il filo spinato le bloccava in ogni direzione o sparivano nella luce fioca dei pochi lampioni che illuminavano case diroccate e sforacchiate dai proiettili. Erano case basse prevalentemente di mattone rosso con molti muretti tra l’una e l’altra. Vidi la pattuglia inglese, come altre volte, con due soldati davanti e due che seguivano a distanza camminando all’indietro, i fucili puntati verso tetti e finestre. Era un quadrato perfetto che scompariva come un unico fantasma in quella parte di buio risparmiato dalla luce, per riapparire alla luce del pallido lampione successivo. Finita la tombola e salutati tutti gli amici che quella sera avevamo incontrato ci riunimmo fuori dal pub. Un giovane ubriaco irlandese stava picchiando la sua donna per strada. Ghinny conosceva quei due perché il suo impegno sociale la portava ad affrontare quelle situazioni da ghetto dettate a volte dall’impotenza, dalla miseria, dallo sfruttamento, dalla rabbia di una sottomissione che si incanalava per le strade tortuose della mente. Ghinny cercò d’intervenire per fare qualcosa e calmare la situazione: era il suo impegno su quel fronte che la spingeva ad intervenire, e rischiò di buscarne dall’uomo. Fu allora che noi ci battemmo per lei. Uno alla volta cademmo a terra colpiti duro. La mattina ci svegliammo tutti presto. Avevo ancora nella bocca e nelle narici il gusto e l’odore della birra rossa, del whiskey irlandese, nei ricordi appannati le cartelle della tombola e i volti dei giocatori. Il primo sole d’agosto aiutava poco ad alzarmi. Quando tutti furono svegli si fecero i conti. Quella scazzottata aveva lasciato un segno addosso ad ognuno di noi. Ray portava una benda nera sull’occhio sinistro, Rizzo camminava 20 La dea compensatrice appoggiandosi ad una stampella di legno improvvisata, necessaria per il suo ginocchio rotto, mentre io mi massaggiavo la mascella e pensai che per qualche giorno non avrei potuto masticare. Ghinny, militante femminista, era l’unica intatta. Ghinny ci guardava ogni tanto mentre sfogliava un libro e ci sorrideva, rivelando ancora di più la sua giovane età: la bocca larga e rosa, gli occhi celesti, i capelli chiari, raccolti in una lunga treccia. In seguito lei ci disse che il nostro avversario era un pugile dilettante, di discreto livello, alcolizzato; comunque lei ci ringraziò con la tenerezza che solo le donne riescono a trovare verso gli uomini in determinate situazioni. Dopo alcuni giorni passati a rimetterci in sesto, organizzammo una cena. Fu una festa d’addio. Ghinny e Ray ci fecero capire che il loro impegno nella lotta non era marginale. Allora capimmo che Ray e Ghinny erano ancora vicini all’ala degli Official. Assieme a Tom e Roody passammo una settimana nel sud dell’Irlanda cosiddetta libera sulle rive del mare di un promontorio. Durante la trasferta, da Belfast alla Repubblica, Tom ci raccontò una leggenda irlandese della mitologia irlandese. “Sapete ci furono due fratelli che, dopo essersi divisi i comandanti dei Fianna, cinque per ciascuno, si contesero un poeta, Cir figlio di Cis, e l’arpista Cennfinn, entrambi venuti da oriente insieme alle schiere. La spartizione fu affidata alla sorte, e il risultato fu che l’arpista con la musica e l’armonia andò con Eber Finn nella Metà Meridionale di Eriu. Il poeta andò invece con Eremon così che il canto e la poesia lo seguirono, e rimasero per sempre nella Metà Settentrionale” rise subito dopo e non disse più nulla. Ed era infatti nella metà meridionale che si svolgeva un festival di musica con gruppi da tutta l’Irlanda, e noi quattro ci andammo. Il clima era molto caldo. Tom disse: “Sentiremo musica reggae.” “Ci rilasseremo” gli fece eco Rizzo. “Sì, ma ci sarà anche musica punk! Musica ribelle!” disse il mingherlino. Io intervenni: “Ma il punk è distruttivo. È la musica del “no future”, come può piacervi se voi avete ancora forza di lottare?” 21 La dea compensatrice “Il punk non è solo nichilista. C’è un punk che porta nei testi la rabbia delle periferie di Londra, c’è Londra che chiama alla rivolta gli sfruttati di tutte le città operaie inglesi e poi si unisce alla nostra musica folk, alle nostre ballate ribelli, aumentandone nei ritmi il battito dei nostri tempi.” Mi replicò con enfasi convincente Roddy “e poi ci sono anche temi di solidarietà internazionale coi popoli sfruttati”. Che replicare. C’era solo ammirazione in me per quelle parole. Ascoltavamo musica di quei gruppi, imparavamo testi dei Clash, dei Pogues e di altri meno famosi. L’ambiente eccitato dalla birra, dagli strumenti e dalle voci dei gruppi che si susseguivano ininterrottamente dalle dieci di mattina fino all’una di notte aumentava la temperatura. Rizzo si fece curare il ginocchio rotto presso la “Tenda medica” che, con nostro stupore, era gestita da impeccabili giovanotti in divisa grigia che facevano parte dei Cavalieri della Croce di Malta. Solo nella magia irlandese si possono trovare le risposte a questi fatti, come magica ci sembrò essere la stampella che gli costruirono per il viaggio di ritorno. Lasciammo l’isola di Eriu, mitico nome dell’Irlanda dei Túatha Dé Danann.** Tom e Roddy sparirono nella calca dopo i saluti. Durante il viaggio di ritorno, che durò alcuni giorni e con mezzi di fortuna, cara nonna Emma, leggemmo dell’attentato allo yacht di Lord Mountbatten, ultimo viceré inglese delle Indie e zio di Filippo di Edimburgo da parte dei Provisional dell’IRA. Era saltato in aria e non fu più ritrovato, nonostante le ricerche nel mare davanti alla contea di Sligo,* provincia del Connacht. Due anni dopo sapemmo dello sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, negli H-Blocks, iniziato da Bobby Sands e altri nove detenuti dell’I.R.A. per il riconoscimento dello stato di prigionieri politici e contro le disumane e brutali condizioni di detenzione. Morirono tutti, uno dopo l’altro. “Fu allora nonna”- disse Matteo - “che mi ricordai la frase che spesso si pronunciava in Irlanda con i nostri amici: “Tiocfaidh àr là” - Il nostro giorno verrà. Era stata scritta da Bobby Sands. Ho parlato troppo nonna? Non mi hai mai interrotto!” 22 La dea compensatrice Ma Emma, così come gli era apparsa, così era svanita anche se sentì un profumo di cose buone che invase la stanza della clinica portandosi via, per un momento, l’odore inconfondibile di quell’ambiente. Cercò di richiamarla ma la cosa non sortì l’effetto sperato. A volte la magia funziona, a volte no. AFRICA La fragranza di quel profumo lo cullò nel sonno che sopraggiunse quasi d’improvviso. Quando si risvegliò trovò sul comodino una bella tazza di tè tiepido. La sorseggiò con calma e riprese il giornale che gli aveva portato sua zia. In terza pagina gli accadde di posare gli occhi sopra un articolo che parlava delle “Condizioni economiche e sociali del grande paese africano: la Nigeria”. Lesse l’articolo in fretta. La Nigeria, l’Africa, la magia, le medicine, il petrolio, i telefoni, le infrastrutture. In un punto il giornalista scriveva “I vecchi Yoruba nei villaggi dell’interno della Nigeria per definire chi emigra a Lagos, la megalopoli, in cerca di un lavoro, usano il verbo svanire”. Questa cosa lo colpì molto e gli smosse una selva intricata di immagini. Soprattutto rivide il suo vecchio amico Romano. Non si ricordava esattamente per quale destinazione era partito anni fa, all’improvviso, per un lavoro verso l’Africa. Romano era un suo amico conosciuto per caso. Entrambi poco più che adolescenti, si ritrovavano quasi sempre alla stessa ora, prima della cena, e la simpatia crebbe giorno per giorno. Se lo ricordava nevrotico, molto magro, non alto, con tutte le parti del corpo sempre in movimento, con una faccia pulita, scura di carnagione. Una guancia era percorsa da una sottile cicatrice, lunga, ma che invece di renderlo sgradevole contribuiva quasi ad addolcirgli i tratti marcati del viso, a spezzargli quella simmetria del volto non in modo violento. Sembrava che invece di un ferro o di 23 La dea compensatrice una lama gli avessero passato sulla guancia un fiore e che questo, come lascia una scia di profumo, gli avesse lasciato un segno finissimo. Era terribile, pensò Matteo, la serie di coincidenze che si stavano verificando in quel letto di cura: l’articolo sulla Nigeria, le medicine, l’amico farmacista e tanto altro. Già perché Romano lo aveva conosciuto quando questi lavorava come garzone in una farmacia e allora era molto povero, povero anche di famiglia. La sua povertà lo aveva portato a partire improvvisamente, ora se lo ricordava, per la Nigeria, con la prospettiva di un buon lavoro per tirare su due soldi facendo il camionista. L’amicizia fu intensa e di breve durata. Coincidenze! “C’è chi fa delle coincidenze una scienza”- pensò sorridendo debolmente Matteo - “come i cabalisti con i numeri o le lettere, pensando di ricavarne verità future o presenti!” Lui ora non voleva essere scientifico né razionale, non voleva niente; si sentiva solo un po’ agitato, come era sempre Romano quando gli raccontava con enfasi le sue avventure in farmacia e i modi che escogitava per imboscarsi, o di un suo amico che finì in ospedale per infarto perché, raccontava, “mangiava anfetamine selvagge e beveva molto alcool”. Matteo si ricordò di quella volta che lo rivide dopo la prima partenza per l’Africa. Gli raccontò che lavorava con un camion sulle rotte del deserto assieme ad un socio, un suo amico nero, un omone sempre in canottiera che metteva in evidenza la muscolatura perfetta dei bicipiti e il collo taurino. Con un bestione di quella fatta non aveva “punto paura” diceva ridendo a tutta bocca. Per spengere l’arsura del caldo e della polvere che seccava la gola attingevano da un rudimentale frigo attaccato al camion lattine di birra fresca, e quando trovavano una sorta di agglomerato di case o un villaggio polveroso fornito di bar, spaccio di sigarette e somministrazione di cibo, abbondavano in bevute di liquori, tutti rigorosamente occidentali, come indicavano le insegne arrugginite della pubblicità. Dopo si sollazzavano con prostitute del posto a poco prezzo in letti bagnati dall’afa soffocante. Romano ne parlava 24 La dea compensatrice come esperienze estreme. Matteo capì che il ritmo di vita che il suo amico stava conducendo lo stava stravolgendo e che il suo fisico era impegnato in una sfida per stare al passo col fisico bestiale del nero, che avrebbe retto senz’altro più a lungo. Decisero di passare una serata in discoteca per rimorchiare. Si ubriacarono e finirono incolpevoli in mezzo ad una rissa con accoltellamento; intervenne la Polizia che portò tutti in Questura, compresi loro due. “Torna dall’Africa una o due volte l’anno per rivedere la famiglia e sistemare qualche faccenda di soldi e fra un po’ l’arrestano!” pensò quella volta. Le loro discussioni, in quelle circostanze, erano molto più animate di quelle precedenti la partenza. In quel letto Matteo si stupì di come si ricordasse delle dissertazioni espresse sempre con enfasi e ilarità da parte del suo amico. Matteo riascoltò quella voce mai così monotona che si modulava su uno spartito immaginario di un brano di jazz, un be-bop di Charlie Parker: fatti accaduti, incontri, contrattempi, disagi, amici, nemici, donne, prostitute, posti e città, foreste, deserti; e tutto prendeva forma e colore. Come il racconto che gli fece sui pastori Masai, incontrati sulle rotte della transumanza di questi pastori semi-nomadi. Il lavoro di camionista che faceva lo portava a battere le rotte dalla Nigeria fino a posti misteriosi. Come misteriosa era la leggenda dello spirito di vendetta che anima questo popolo nomade e guerriero che appare nelle città civilizzate, uccide chi ha travolto con una macchina o una jeep o un camion uno di loro, una sposa, un fratello, un capo di bestiame nell’entroterra arido e torrido. E allora una parola cominciò a ronzare nelle orecchie di Matteo: Africa, Africa, Africa nera, Africa colorata, Africa. Continente che conserva nelle viscere i primordi dei primi passi dell’uomo, continente percorso per mille anni da un esercito di mercanti bianchi e di schiavisti arabi, portoghesi, spagnoli, inglesi, francesi, olandesi, benedetti con bolla papale da Santa Romana Chiesa, colonialisti di un tempo, rigenerati nei rapaci capitalisti moderni, continente mutilato nel corpo e nell’anima, continente emigrato in 25 La dea compensatrice altri continenti. Ora Matteo non voleva trovarsi in quel letto di cura; si sentiva addosso una carica di energia infinita, pensò di vestirsi e uscire. Era un trucco che giocava la sua fantasia che galoppava con Hemingway nelle verdi colline d’Africa contro il cielo della savana. Smise un attimo di pensare e di colpo tornò a Romano che con la sua arte di divertirsi e di far divertire aveva trovato delle sue motivazioni per rimanere così a lungo in quei posti. Un giorno gli arrivò una telefonata. Era Romano che si trovava a casa e gli chiedeva di incontrarsi. Solita ora, soliti posti, stesse risate. “Ho passato un anno incredibile” disse Romano “tra puttane di ogni tipo, bevute, viaggi su piste polverose per quasi tutta l’Africa centrale, dal Kenia al Senegal fino a nord nel Sahara, e ho anche guadagnato parecchio. A volte abbiamo messo di mezzo dei negri, appioppandogli orologi fasulli, gioielli falsi, frigoriferi che si sarebbero rotti dopo pochi mesi, e loro come se la ridevano a prenderla nel di dietro!” Matteo ebbe un attimo di turbamento. Allibito, non riusciva a guardare il suo amico negli occhi. Farfugliò qualcosa che Romano non capì ma lui si rese conto che non gli importava nulla. Continuava con suoi discorsi, rimarcando un disprezzo insopportabile per quella gente. Matteo evidentemente non aveva capito il suo amico negli anni precedenti oppure era cambiato. A quel punto il pudore di Matteo si fece da parte e fissò negli occhi Romano e disse con veemenza: “Gli africani sono neri, non negri. Nigger è un termine dispregiativo! E poi godi a fregarli?” “Quante storie fai per un termine e per delle piccole truffe, e poi è proprio vero: è gente arretrata, selvaggia, che ha meritato quello che gli è capitato e merita quello che noi bianchi gli stiamo facendo.” “Ma non hai un amico e collega nero?” “Sì ma lui è un bianco di testa e vorrebbe essere nato in occidente, con la pelle bianca, perché è razza dominante.” “Te sei fuori di testa o peggio sei un razzista!” 26 La dea compensatrice La disputa rischiava di degenerare e dopo altre frasi pesanti Matteo girò i tacchi e se ne andò. Non si sarebbero più rivisti. Rimase alcune ore a pensare, combattuto tra delusione e rabbia, dando dei giudizi severi sulla sua incapacità di soppesare in tempo quella persona. Ma sarebbe stato possibile? “Succede che ti accontenti di un’amicizia superficiale” concluse Matteo. Tuttavia elaborò oltre il suo ragionamento. La povertà di Romano aveva radici profonde anche in famiglia. In quella casa dove era stato, aveva visto la miseria che si faceva odore di cose stantie, di sudiciume, di arte dell’arrangiarsi, con il padre che detestava il lavoro e la madre dolente rassegnata a quel destino di sottoproletariato. Nel caldo africano Romano era diventato un misero, pronto a trovare deboli da sottomettere, incapace di sviluppare una sorta di emancipazione condivisa con altri, visti solo come compari o vittime da spolpare, in una tremenda lotta tra poveri. D’un tratto si ricordò della morte di Romano e inciampò in una profonda malinconia, nonostante il loro ultimo e definitivo incontro. Era deceduto nel deserto libico - “Ma cosa ci faceva in Libia?” - in uno strano incidente in pieno giorno, nel camion col suo compagno di lavoro o di chi sa che cosa. Rimaneva solo un’assicurazione sulla vita, poche decine di milioni, che l’assicurazione non pagò mai alla famiglia per una clausola scritta in piccolo che nessuno sapeva esistere. Matteo si sentiva scontento, inadeguato. Il candore della stanza lo invogliò a prendere il lenzuolo per nasconderci sotto la testa. Si rannicchiò in posizione fetale, segno di evidenti paure ancestrali; riannodò verso di sé quel filo di idee che gli era uscito di getto e che lo aveva ficcato in un labirinto insolubile. Voleva dormire e sognare: “Nei sogni ci si può fare anche male, ma non una goccia di sangue vero ti esce dal corpo”. Infermieri discreti, di lì a poco, gli avrebbero sparecchiato e tolto tutto, senza disturbarlo. Ma non riusciva ad addormentarsi; più ci provava e più si ritrovava con gli occhi spalancati. 27 La dea compensatrice Un vortice di volti gli affollava la mente, gli pareva di ascoltare anche i suoni di quelle voci, indistinte le parole. Chi era che voleva comunicare con lui? Non certo ectoplasmi da sedute spiritiche, ma anime inquiete. Ce l’avevano con lui? Qualcosa gli disse che non era così e si tranquillizzò. Era sudato sotto le lenzuola ed era come fosse immerso nel caldo umido di quella notte di agosto, alcuni anni prima. BARATTOLI DI SANGUE Quella piazzetta si nascondeva alla strada dove ancora passavano auto e biciclette frettolose, gelosa della sua quiete, così in contrasto con le sue gambe che non riuscivano a trovare una posizione per riposarsi nei calzoni madidi dell’afa notturna. Pochi metri dividevano due mondi: una chiesa settecentesca e la casa di Patrizia. La chiesa e i palazzi che la circondavano riportavano alla memoria di Matteo i tratti architettonici di certi angoli di Roma, la Roma dei papi, scossa dai fremiti delle idee libere dei lumi; poi cubi di porfido, mura giallastre o rosse di terra, chiazze chiare, sfumate, segni di gesso, stucchi deformi ai bordi di enormi finestre, scritte di nomi, date e sopra tutto il cielo nero. “Come può uno scoglio arginare il mare, le discese ardite e le risalite” canticchiava a bassa voce, per far passare il tempo. Patrizia gli aveva promesso che alle undici, dopo cena, sarebbe scesa e gli avrebbe detto le cose che attendeva di sapere da quella telefonata così importante e così difficile da ottenere. Gli aveva chiesto di non salire, non era importante il perché. Quante ore erano passate? Oramai era cominciato il conto alla rovescia verso l’alba. Il bianco angosciante che aggrediva il buio della notte dilatava i suoni dei più piccoli rumori che di solito sono sommersi. Matteo si era addormentato su quella seggiola di plastica che un bar aveva lasciato fuori, coi tacchi sulla conca di terracotta che in fila con altre formava una sorta di barriera alla piazzetta; alle spalle la fontana col faccione di pietra, senza acqua, unica fonte 28 La dea compensatrice comunque di fresco. Si destò che il buio stava sparendo. Patrizia non era venuta. “Dove avrà passato la notte?” si chiese Matteo. In quella casa conviveva con Paolo, possibile che non ci fosse nessuno? O forse non volevano aprirgli? Che storia strana era stata quella tra loro tre. Matteo e Patrizia si erano conosciuti dopo la Maturità e si erano subito piaciuti, innamorati. C’era anche una forte attrazione fisica, anche se per tutti e due erano le prime esperienze sessuali, di quelle che hanno una dose di curiosità, di pudore. Per Patrizia fu veramente la prima esperienza completa, mentre Matteo si dava arie di esperto amatore. Era vero in parte. Prevaleva comunque in lui quell’egoismo tipico del maschio, dettato dall’inesperienza ma anche da residui inconsci del ruolo che il suo genere si trovava ad ereditare da secoli di culture che ancora dovevano prendere la via del tramonto. Passata la fase del convincimento, Patrizia si appassionò molto a fare l’amore tacendo tuttavia il raggiungimento dell’orgasmo, se non contemporaneo con quello di Matteo, almeno per sé. Matteo era così sprovveduto, egocentrico per tutti i motivi detti, che non si curava di quest’aspetto; lo avrebbe apprezzato in seguito. In fondo era un generoso. Le loro esperienze si alternavano tra militanza, azioni ribelli e rischiose, con pause di amore in case di altri, in cantine fredde, nei pochi giorni che si consumavano come un bicchier di vino in campeggi d’estate nelle isole dell’arcipelago davanti alla costa, citate da Dante e da Dumas. D’inverno i giorni liberi dagli impegni si snocciolavano ai tavoli di baretti popolari con compagni labronici o pisani, bevendo ponce al mandarino o coretti “al rumme”. Due cose di Matteo e una di Patrizia decisero per loro la fine di quel rapporto. Da una parte il sempre più intenso impegno nell’attivismo politico, unito con la sua facilità di avere ragazze disponibili ad andare a letto, lo portarono verso la routine con Patrizia, che cominciava anche a non condividere molto di quella sorta di furore giacobino di Matteo. 29 La dea compensatrice Dall’altra c’era la voglia di lei di stabilizzarsi nel rapporto con un uomo. Matteo la squilibrava, la rendeva nevrotica, le faceva fare cose controvoglia, trascurando i molti interessi che non poteva coltivare, e forse lei aveva già percepito che un ciclo decennale straordinario stava per spengersi. Patrizia poi era una bella ragazza che non passava inosservata e tanti le facevano una corte discreta perché tutti conoscevano Matteo. Aveva forme ben distribuite, proporzionate, un sorriso coinvolgente, un’ingenua e non voluta carica erotica dovuta alla bocca carnosa e alla voce profonda, alla mancanza di ritrosia unita ad un’affabilità che poteva involontariamente generare equivoci. Uno in particolare, Paolo, tra gli amici, era evidentemente attratto. Aveva i capelli chiari, folti e riccioluti, faccia pulita, un accenno di basette, gli occhi chiari, le scarpe da ginnastica, più alto di me, dal carattere mite e riservato, attento studioso, ponderato nei ragionamenti. Matteo ne aveva grande rispetto e forse un po’ lo temeva. Si era accorto che silenziosamente era attratto da Patrizia e lei non lo respingeva. Ci furono molti strappi tra Matteo e Patrizia che le toppe non riuscivano più a eliminare, dovendo sempre rappezzare le stesse. Un giorno gli raccontò, in un confronto serrato, che aveva passato una notte a letto con lui, che era stata una notte di passione, di godimento reciproco, di allegria erotica consumata completamente. A Matteo non crollò il mondo. Più che altro sentì una sorta di lesa maestà, rabbia, paura di sputtanamento, dimenticandosi delle molte volte che lui lo aveva fatto con altre e che Patrizia aveva sopportato, non sempre in silenzio. Si lasciarono e fu inevitabile il sodalizio con Paolo. Matteo continuò a vederli per gli impegni comuni. Si rapportava a loro con invidia, non con rimpianto. Passò un periodo che mentre scopava con una ragazza, per raggiungere l’orgasmo, doveva pensare a loro due. La voglia di Matteo di poter rifare l’amore con Patrizia durò molto. 30 La dea compensatrice Quando tornò, in un giorno caldo d’estate da un lungo periodo di assenza, passato in regime quasi militare, senza svaghi, si concesse una tordellata annaffiata con molto vino locale. Era mezzo ubriaco e tirò fino all’alba. Poi telefonò a Patrizia e la convinse a venire ad un appuntamento. Andarono in giro con la macchina e finirono in un campo vicino ad una vigna. Davanti ad un alba calda e umida, che odorava di menta e niepita, si presero con una passione a loro sconosciuta e godettero assieme. Parlarono pochissimo e si salutarono con un tenero bacio. Fu il vero epilogo della loro storia e l’inizio di un’altra non più ambigua, matura, adulta. L’intelligenza di Patrizia ricucì l’amicizia tra Matteo e Paolo e loro tre formarono un’unione che passava sopra convenzioni ancora radicate in tutti gli strati sociali. La ritrovò alcuni giorni dopo davanti al portone della facoltà. Gli disse che quella sera la telefonata non era arrivata e che il giorno dopo aveva saputo quello che aspettava. “Vedi le cose sono terribilmente complicate” gli confidò, senza dilungarsi troppo su Paolo. Già, Paolo, che amava Patrizia, ricambiato. Sapeva, nonostante l’amicizia, che Matteo si sarebbe fatto prendere da quella sua strana gelosia. Era ancora innamorato di lei? O c’era solamente la voglia di fare del sesso? “Senti” disse lei “dall’ambiente dei tossici è arrivata solo un’indicazione e basta: Sassoscritto, dottor Fiaccabruni. Paolo è qualche giorno che non si fa vivo; mi preoccupa.” Parlò in modo stringato che rivelava dal tono una richiesta di aiuto che Matteo non avrebbe rifiutato. Cercò un telefono e trovò una cabina immersa nel caldo; infilò la carta e sbagliò tre volte nel battere i tasti dei numeri. Allora si accorse di essere bagnato di sudore. Dopo quattro tentativi sentì la voce di Paolo. Fissarono un appuntamento per il giorno dopo, la mattina presto. Lui e Paolo avevano una verità da scoprire per la vita spezzata troppo presto del loro amico Francesco, il compagno di tanti anni di lotte. Un’ansia di ricerca spasmodica li univa, nonostante Patrizia. Bisognava dare un senso proprio alla vita e alla morte di Francesco, che stava già morendo, lentamente, per la malattia dei 31 La dea compensatrice tossici che lo aveva colpito non sapevano quando. Perché lo avevano ucciso fracassandogli la testa? Perché qualcuno aveva voluto anticipare la sua morte? Chi l’aveva organizzata e messa in atto? Alle sette e mezzo Paolo arrivò con la sua bici e montò sulla macchina di Matteo, senza dire niente. Uscirono dalla città senza intoppi. Le strade erano libere dal traffico e la mattina fresca rendeva le loro menti leggere, pronte. Matteo non voleva rompere il ghiaccio e tra sé pensava: “Straordinario come somigli più ad uno studente fuori corso che ad un medico impiegato in una struttura pubblica. Apprezzo la sua scelta di rimanere a lavorare all’università. Tutti e tre siamo nati nello stesso capoluogo di provincia e più che i chilometri ci avevano diviso in quegli anni i nostri sogni ed i nostri amori.” Che strano che un amore comune li avesse riavvicinati: Patrizia. Oggi lo strano omicidio di Francesco li stava rilegando come un libro a fascicoli. Entrando nel paesino di Sassoscritto, circa 280 metri sopra il livello del mare, si erano lasciati alle spalle due ore di viaggio, muti. Dalla zona dell’università la strada da percorrere si inoltrava nell’interno tra colline dolci, dune di verde e di giallo, come fossero gobbe di cammello o dromedari, a seconda della frequenza con cui si inarcavano verso il cielo; anche l’asfalto obbediva a quei saliscendi. I pochi alberi non rendevano riparo alle greggi di pecore che si erano perciò aggiaccate immobili sui pendii meno ripidi. Pochissime auto incrociarono la loro e il suo incedere ovattato costringeva fagiani reali ed altre specie di uccelli a rapidi ripiegamenti verso il ciglio erboso, incolto o verso un gruppo di cespugli che circondavano i rari alberi di alto fusto. Di tanto in tanto la via disegnava curve a gomito o si faceva ponte per passare sopra un rivolo d’acqua sofferente che tagliava il ciottolato grigio raccolto tra due argini solitari. Lì la macchina doveva rallentare e ciò permetteva ai due di vedere decine di lucertole e ramarri muoversi rapidi e inquietanti. Questo paesaggio si interruppe quasi di colpo e prese le 32 La dea compensatrice sembianze di un altro mondo. Tubi enormi e lucidi che sprigionavano lampi di sole si inerpicavano sulle colline più basse fino alle cime di quelle più alte, attraversando piccoli boschi e avvallamenti o disegnando ellissi sopra la strada, e loro sotto. Spesso da alcuni terminali uscivano sbuffi bianchi e l’aria odorava di uova marce. Arrivati al punto più alto potevano avere la visione di insieme: le valli erano percorse da quelle vene d’acciaio, un vero e proprio sistema circolatorio a cui mancava il cuore. Uomini invisibili regolavano gli sbuffi dei soffioni boraciferi, forse anche loro, pur dominandola, avevano paura di quell’energia delle viscere terrestri e così stavano nascosti, al riparo, al sicuro. Parcheggiare a Sassoscritto non era stato difficile. Il caldo era aumentato e l’umidità era ancora fastidiosa. Matteo notò subito un numero esagerato di cipressi; alberi che di solito seguono linee geometriche crescevano lì alla rinfusa, senza quell’ordine che li caratterizza. Anche quei due si sentivano fuori posto: gli occhi di un gruppo di uomini vecchi non li lasciavano mai. Ma dovevano chiedere per forza un’informazione a qualcuno: “Sapete dove abita il dottor Fiaccabruni?” Questo medico era stato una delle ultime persone ad aver visto Francesco vivo. Il dottore avrebbe dovuto trovarsi a Sassoscritto in quel periodo dato che era in ferie e che i genitori, di origine istriana, gli avevano lasciato in eredità la piccola casa nel paese. Matteo voleva anche chiedere le origini del nome del paesello e mentre si faceva coraggio avvicinandosi ad un uomo seduto nell’ombra, inciampò in un barattolo di birra contorto che fece un rumore seguito dall’improvviso silenzio delle cicale. Tenendo i muscoli della gamba in tensione per non cadere si ritrovò vicino ad una lapide, o meglio ad un cippo con una larga base, senza targhe o scritte. Sulla cima era posto, maestoso, un sasso grigio, rotondo, levigato, perfetto. Si avvicinò a passo svelto ed ebbe la risposta: venature nere e marroni percorrevano la parte esposta, queste venature erano un pentagramma su cui, scolpite ad arte, posavano alcune note. 33 La dea compensatrice La casa del dottor Fiaccabruni si trovava nella parte estrema del paese, che si affacciava sulla valle, guardando il mare che si intuiva in lontananza per i profumi che arrivavano, sotto la macchia mediterranea. Partendo da una fontanella all’ombra di tre cipressi bisognava risalire la strada principale che poi si divideva a forbice; percorrendola, sia da destra che da sinistra, si finiva per tornare al punto di partenza. Dunque la casa del dottore era all’apogeo di quell’orbita. Le altre abitazioni nel mezzo erano come un blocco unico e si presentavano compatte; tutte le strade partivano da un punto e ritornavano a quello: cerchi concentrici. Percorso il semicerchio della strada si trovarono alla casa. Davanti all’ingresso ci si poteva sedere su di un muretto che era completamente esposto al sole. Dalla valle risaliva una brezza che portava gli odori del mare. Quel paese non era un borgo medievale: le case erano basse e le stesse pietre, i colori, la luce, la chiese, con una Madonna di gesso bianco su uno sfondo blu, testimoniavano altre origini. Tutto evocava un antico rifugio di pirati o un insediamento di una comunità con radici marinare. Dopo che furono ricevuti, si accomodarono nel salotto del dottore. La vecchia signora che gli aveva aperto tornò con un vassoio d’argento ed una bella bottiglia di cristallo con due piccoli bicchieri. “Anisette” disse “se gradite”, poi sparì dietro la porta di legno scuro. La credenza era brutta e ingombrante e toglieva spazio alla stanza; dai vetri del mobile pendevano delle tendine che sembravano centrini da tavola e le sedie gracili rendevano ancora più scomoda la loro attesa. Il dottor Fiaccabruni fece il suo ingresso nella sala circa mezzora dopo il loro arrivo. Non si scusò del ritardo e non sembrò incuriosito della loro presenza. 34 La dea compensatrice “Strano” pensò Matteo. Il dottore era un tipo alto, con la testa piccola, tonda; dietro gli occhiali due occhietti cattivi sovrastavano un paio di baffetti. Prima che dalla sua bocca, quasi priva di labbra, uscissero delle parole, Matteo fu preso da senso di disagio e di angoscia. Contribuiva a questo stato d’animo il fatto che la persona era vestita in modo strano: portava uno di quei maglioni aperti davanti che si possono chiudere con una fila di bottoni, ai piedi un paio di pantofole e l’insieme era comunque fuori stagione. Il contrasto con il caldo opprimente di quell’estate era ancora più accentuato dalla freddezza che emanava la figura del dottore: pallida e allungata. Ci volle un po’ di tempo per mettere giù tutte le carte. Paolo era ciarliero e accattivante e la cosa infastidiva Matteo. Nel corso delle domande e delle risposte l’uomo non manifestò alcun segno di insofferenza. Non ci fu quell’incontro incalzante come era nelle previsioni. Ma Cristo! Per quella persona non poteva trattarsi di un giorno normale: due sconosciuti piombano a casa sua e gli fanno delle domande su Francesco, uno dei suoi pazienti, chiedono delle ultime cure, domandano, a volte sono insistenti di fronte a certe reticenze, giustificate dal segreto professionale, chiedono di una persona uccisa, vogliono sapere degli ultimi giorni, cercano qualcosa e mai ricevono una risposta fuori tono, mai un cenno sgarbato; solo i gesti rapidi per togliersi il fastidio delle mosche. Non si fece coinvolgere emotivamente, mai. “Vedete, Francesco era malato, ho cercato di assisterlo per rendergli la fine meno penosa” questo era il suo ritornello. Solo ogni tanto, guardando il riflesso del sole sulla bottiglia di cristallo pronunciava delle domande: “Ma voi come avete saputo di me?” e poi: “Come sapevate che ero il medico di Francesco?” Si capiva che poco gli importava della risposta, tuttavia, dietro le lenti, Matteo coglieva dei lampi di odio dissimulati dal corpo rigido. “Francesco era una persona sola, l’ho sempre conosciuto così”. Freddo e dimesso! Che strano binomio! Il dottor Fiaccabruni era 35 La dea compensatrice fuori del tempo; per loro era una delle ultime persone che aveva visto il loro amico vivo. Capirono però che non avrebbe detto nulla di più e il tentativo di fare un po’ di luce sugli ultimi anni di vita di Francesco era andato a vuoto. Il sole stava tramontando e allungava le ombre in quella stanza priva di odori. Il dottore li congedò sulla porta, si tolse gli occhiali e cercò il cielo. Fu allora che mostrò due occhi vitrei, annacquati, di un colore indefinibile, gonfi e sporgenti: erano gli occhi di una persona malata. In un attimo capì quello che i due amici stavano osservando e con un gesto di sfida inforcò di nuovo gli occhiali. Paolo e Matteo mangiarono in un piccolo bar di Sassoscritto pieno di mosche e quest’ultimo fu contento nell’apprendere che il suo amico era sulla sua stessa lunghezza d’onda, che aveva provato le stesse sensazioni, che aveva elaborato i suoi stessi giudizi, maturato gli stessi dubbi. Matteo dimenticò quell’atteggiamento ciarliero e accattivante che aveva avuto Paolo e il cattivo umore sparì; si stavano lasciando Sassoscritto alle spalle. Mentre guidava gli venne voglia di parlare di Patrizia; forse stava aspettando Paolo per la cena. Provò gelosia e decise che non valeva la pena di sprecare parole. Questo loro “indagare” gli sembrò senza senso e si domandava se era più importante comunque la ricerca di una verità o il prendere atto di un fallimento. Si salutarono affettuosamente. Paolo inforcò la bicicletta e l’eterno studente scomparve dietro una curva e un sorriso lo accompagnò silenziosamente. Alcuni giorni dopo era prevista una manifestazione e Matteo si incontrò con Patrizia. Il corteo era lungo e partecipato, con striscioni, bandiere e slogan. Si lottava per mantenere il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi. Era passato un decennio duro, contraddittorio, di dedizione quasi totale e alla metà del nuovo pesavano come macigni i fatti privati irrisolti, precari. Patrizia era informata sulla visita a Sassoscritto. 36 La dea compensatrice “Non mi pare che abbiamo concluso molto, come temo che non concluderemo molto con queste manifestazioni. Il clima è cambiato! Lo perderemo nelle urne questo scontro!” esordì Matteo. “Il solito nostalgico dei bei tempi!” “Ma ci stanno rimangiando tutte le conquiste! Ci manca che ci tolgano anche lo statuto dei lavoratori.” “L’importante è provarci, con la lotta, con la testardaggine. Io sono incazzata!” disse Patrizia. Le donne parlano meno degli uomini che si deprimono nell’imminenza delle sconfitte. Nelle fasi di sconforto sono più determinate, ragionano meglio. “Intanto dobbiamo tentare di capire cosa è successo a Francesco, per dio!” “Ma non sappiamo nulla delle indagini ufficiali?” chiese Matteo. “Le indagini ufficiali, le indagini ufficiali! Ma ancora credi alla Befana?” “Già! Lo hanno classificato come regolamento di conti nel mondo dello spaccio. Uno sgarro. Indagini chiuse, dopo un procedimento contro ignoti! Facciano come vogliono” disse Matteo mentre si stava completamente estraniando dalla rabbia del corteo. “Quando il corteo finisce andiamo a casa mia, c’è Paolo che aspetta.” “Anche me?” “Non fare lo scemo, che non sei, dobbiamo riflettere.” Percorrendo le strade del centro storico medievale, che in Matteo suscitavano sempre il buonumore vista la sua passione per la storia, arrivarono a casa. Dopo svariati minuti di silenzio, davanti ai piatti vuoti degli spaghetti aglio, olio e peperoncino, cominciarono a parlare tutti e tre quasi contemporaneamente. Allora risero di gusto. Patrizia si era alzata e, come suo solito, si mise ritta davanti alla libreria, scorrendo i titoli dei libri. E fu allora che scattò la scintilla. Tirò fuori un libro consumato, prova che era stato letto molte volte, studiato da molti. 37 La dea compensatrice Era un libro sull’esperienza rivoluzionaria del Black Panther Party for Self-Defense e lo buttò sul divano dove si erano seduti lui e Paolo. “Ho avuto un’intuizione.” Matteo lo prese tra le mani cominciando a sfogliarlo. Paolo non capiva. Patrizia e Matteo si guardarono. Si erano sempre capiti al volo. Avvicinandosi con la testa sulle pagine del libro arrivarono al capitolo cercato: pag. 189 - Come l’FBI e il sig. Hoover sconfissero le Black Panther - “Dopo aver utilizzato l’assassinio sistematico dei militanti, uccisi anche nei propri letti accanto a mogli e figli, l’infiltrazione di agenti provocatori, passarono all’introduzione massiccia di eroina nei quartieri neri, dove il consenso al Black Power era radicato.” “In questo ingranaggio potrebbe essere rimasto impantanato uno come Francesco” disse Matteo e Patrizia continuò: “È una cosa che avevamo già detto e analizzato. Che stupidi a non averci pensato prima!” “Va bene, ma questo che significa, cosa possono fare tre sfigati come noi?” esordì Paolo. “Tutto e niente!” replicò Patrizia. “Francesco era in bilico fra una scelta radicale di lotta e un rinchiudersi nel suo personale. Vi ricordate?” “Che poi abbia scelto il suo personale è fuori dubbio” disse Matteo. L’eroina come uno dei grimaldelli per entrare dentro una generazione e fiaccarla, ricattarla, sottrarla alla lotta. Qualcuno doveva pagarla. Tutti e tre si convinsero di questo. Una ragazza minuta, emaciata, vestita con un poncho sudamericano di alpaca, si accomodò a sedere nell’anticamera del dottor Fiaccabruni in una giornata fredda di gennaio. Il locale era disadorno con poca luce e pervaso da uno sgradevole odore di cose stantie. La ragazza si chiamava Rachele ed era una studentessa fuori corso che campava con vari lavori al nero. Qualcuno dal Sud le mandava 38 La dea compensatrice qualcosa per mantenersi agli studi, ogni mese sempre meno. “Si accomodi” e la introdusse nell’ambulatorio. Fu la prima di una lunga serie di visite che contribuirono, non senza un certo atteggiamento intrigante, a stabilire un rapporto tra Rachele e il Fiaccabruni. La morbosità dell’uomo era palpabile, ma Rachele sapeva il fatto suo. La ragazza si voleva disintossicare, così pregò il dottore di aiutarla. Oltre a questo Rachele cominciò a metterlo al corrente delle sue terribili condizioni economiche, dei pericoli di sfratto, dei soldi che le mancavano per tutto e della sua paura che i suoi potessero scoprire la verità della sua miserevole condizione. “Ci potrebbe essere una soluzione” sussurrò, guardando la ragazza di sottecchi coi suoi occhi vitrei, gonfi e malati. Rachele lo fissò con i suoi occhi neri, determinati. Si era decisa ad assumere quell’atteggiamento perché alcune volte l’aveva palpata, le si era avvicinato ansimante, non come un cane voglioso ma con la lascività propria di chi è incline alla dissolutezza nei rapporti con gli altri e con se stesso, fatta di atti di libidine sessuale. “Fiaccabruni, di sesso non se ne parla!” Dopo svariati tentativi il dottore tirò fuori quello che pensava fosse l’asso nella manica. “Ti mando in un posto, basta tu faccia una donazione di sangue senza tanti formalismi, in tutta discrezione. Non hai malattie gravi e sei in via di disintossicarti del tutto.” Rachele corse verso una casa che conosceva bene. Abbracciò Patrizia, Paolo e Matteo e piansero sciogliendo così la tensione che li attanagliava da mesi, succhiando loro dosi industriali di adrenalina. Quella piccola ragazza, pazza e coraggiosa aveva concluso un piano progettato assieme ai nostri tre. Aveva amato Francesco per tanti anni, fin da quando si erano conosciuti durante una lezione di architettura. “Ne è valsa la pena? Abbiamo rischiato molto!” Ma si sentivano come quando combattevano negli anni passati, forse più astrattamente, ma con gli stessi rischi e le stesse paure, 39 La dea compensatrice vinti dalla determinazione che sentivano recuperata. Nel giro di pochi giorni si mise in moto tutta una rete di legali e di associazioni, ben oliata, che consentì l’irruzione delle forze ufficiali, ora costrette, in quell’edificio indicato da Fiaccabruni a Rachele. I mandanti erano coloro che avevano da tempo pianificato la distribuzione dell’eroina con lo stesso fine che si era dato decenni prima il signor Hoover, capo dell’FBI, i manovali erano camorristi, appartenenti a cosche della criminalità organizzata. Su questa strada si era sviluppato poi un infame commercio di sangue per cliniche, ospedali, industrie farmaceutiche. Il ruolo del dottor Fiaccabruni non era stato marginale nella vicenda. Confessò e fece nomi di illustri persone, complici, vittime e carnefici. Il loro amico Francesco era finito in quella storia di miserie, di ricatti e di tanti soldi, di pentimenti e di vite vendute e comprate a barattoli di sangue; un folle commercio all’ombra della Torre pendente più famosa del mondo. Francesco voleva farla finita con quel gioco, aveva avuto uno scatto di dignità ma qualcuno arrivò prima a tappargli la bocca. Si seppe anche che nelle sue tasche fu rinvenuto un biglietto con scritti i nomi di Patrizia, Paolo e il suo con qualcosa che assomigliava ad una partitura di un pezzo musicale che le pieghe consumate del foglio rendevano incomprensibile. I quattro amici stavano guardando il fiume che scorreva sotto di loro da un ponte. La giornata era riscaldata da un bel sole e tutti insieme decisero di festeggiare quella piccola vittoria rimboccandosi le maniche in un gesto simbolico che testimoniava la loro coscienza di andare comunque incontro ad anni difficili. EPILOGO Aveva sognato? Era tutto accaduto anni prima? Matteo si rese conto che a volte la mente può filtrare le cose, ma i volti di tutte quelle persone erano e resteranno reali. 40 La dea compensatrice A quel punto credette che reale fosse anche quella che ai piedi del letto si ergeva in tutta la sua severità: era la Nemesi, la dea greca riparatrice, artefice degli avvenimenti che Matteo aveva ripescato nella sua memoria e che coinvolgevano uomini e donne semplici, suoi amici. La Nemesi si era fatta tedesca, irlandese, africana, e tanto ancora. FINE Note **Nelle tradizioni irlandesi i Túatha Dé Danann furono il quinto dei sei popoli preistorici che invasero e colonizzarono l’Irlanda prima dei Gaeli. Le molte leggende che riguardano i Túatha Dé Danann, tramandate dai manoscritti irlandesi, permettono di intravedervi alla base i residui di antiche teogonie. Provenivano da lontane isole boreali, dove si erano istruiti nella sapienza e nelle discipline druidiche. Sbarcati in Irlanda, diedero fuoco alle loro navi in modo che non avessero più la tentazione di tornare indietro. Poiché dalle navi che bruciavano si levavano alte colonne di fumo, dice il cronista, in seguito si disse che i Túatha Dé Danann fossero venuti dal cielo su quelle nubi di fumo. L’Irlanda a quel tempo era popolata dai Fir Bolg. Essi si scontrarono con i Túatha Dé Danann in quella che fu la prima battaglia di Mag Tuired (contea di Mayo). I Túatha Dé Danann vinsero ed i Fir Bolg furono costretti a cedere loro la sovranità sull’Irlanda. Fu così che i Túatha Dé Danann dovettero scontrarsi con i Fomor nella seconda battaglia di Mag Tuired (questa volta nella contea di *Sligo). I Túatha Dé Danann imposero così il loro regno sull’Irlanda e i loro sovrani furono ricordati nella successione dei Re Supremi. Mantennero il regno per molto tempo, finché non giunsero dall’Iberia i Figli di Míl, gli antenati dei celti Gaeli. Costoro riuscirono a sbarcare in Irlanda nonostante gli incantesimi messi in atto dai Túatha Dé Danann nel tentativo di tenerli lontani e 41 La dea compensatrice sconfissero questi ultimi nella battaglia di Óenach Taillten. Sconfitti, i Túatha Dé Danann accettarono di lasciare il dominio dell’Irlanda ai nuovi venuti e si ritirarono a vivere nel sottosuolo dell’isola e dentro le colline fatate, dove da allora condussero un’esistenza felice e immortale, trasformandosi nel folklore in creature soprannaturali. 42 La dea compensatrice Ballata del porto che aspetta Un porto che aspetta e aspetterà calato in un umido posto di sera. Il pescatore ubriaco solleva la canna sorride all’amo beffato al verme ormai morto. Che importa; bastan gli odori e quest’aria salata e i gabbiani impazziti; l’inverno quest’anno durerà più di prima. Perché al fine la notizia è arrivata. Come un coro di madri dolenti le sirene han suonato. Tre volte han suonato. Bagnano la banchina le lacrime del pescatore ubriaco per i ricordi di avventure lontane e di donne perdute sul nero marino. E anch’io piango. Mancherà questa sera la bella allegria di amici in partenza nel porto che aspetta. Chissà quanto dura un secondo? E uno schianto che uccide? Quel porto? Qualcuno lo avvisi! È inutile ancora aspettare. Un’auto impazzita 43 La dea compensatrice li ha costretti a fermarsi vicino al porto che aspetta. In quel porto ombre cinesi riflessi di luci ancorate che tagliano il nero marino che si gonfia di chiglie giganti, sirene ossessive ossessivi silenzi acqua salata. Lei non arriverà. 44 La dea compensatrice Il giunco del Nilo Alta, dritta e sottile sei come il giunco del Nilo, flessibile. Simbolo di una docilità che è solo apparente le sue radici son forti e salde alla terra fangosa. Tu unisci la forza alla grazia. Sei come il giunco del Nilo che invano il caldo scirocco la schiena ti vuole piegare, la faccia nel fango sporcare: ma ad un tratto rinuncia. Con sfida il tuo fusto torna a svettare. Non più ostile, bensì piacer procurato è ora quell’aria che attorno borbotta. E sei nella vita. E sei nella terra. Dolce femmina ribelle. Accompagnata dal vento 45 La dea compensatrice cominci le note che si rincorrono nel sole nella luna nei boschi dove Botticelli ti ha dipinto come la Primavera e qualcuno ti battezzò col nome di florea serta. Il tuo strumento ideale rapito mi fermo ad ascoltare quel suono fecondo pare uscire da una bocca profumata di miele e da mani infinite. 46 La dea compensatrice Notte di San Lorenzo Quando gli uomini, le donne e i bambini guardano con occhi smarriti il cielo della notte di S. Lorenzo dove brillano le stelle a milioni e il chiarore della mezza luna calante allunga le ombre di alberi su prati secchi ancora caldi del sole d’agosto, allora figlia rinasci nel mio cuore. Quella notte scandisce il tuo tempo ed io ti sussurro: “Figlia, hai un anno di più.” 47 La dea compensatrice Là, dov’è casa mia Non abito più là, dov’è casa mia. Immagino così di ascoltare tra i mattoni delle note stanze le voci familiari che rimbalzano si rincorrono accompagnano silenzi. Sono le compagne di tanti giorni, di tanti anni. Periodi d’amore e di tenerezze, di duri scontri di cure di complicità di allegri giochi di consigli paterni di doveri coniugali di fughe di sorrisi di gelidi distacchi di arguzie intellettuali. Cosa c’è ora là, dov’è casa mia? Inutile lasciarsi andare ai rimpianti e compatirsi. Il rombo di un Tir riporta la realtà. Là, dov’è casa mia il mattino continua ad entrare filtrando tra i rami degli alberi allungando le ombre sui lunghi campi 48 La dea compensatrice con i crinali dei monti sentinelle del verde per anni ed anni ed anni ancora. Solo quelle linee resteranno assieme alla terra. Tutto il resto passerà e la malinconia si stempera sul profilo di mia figlia che abita ancora là, dov’è casa mia. 49 La dea compensatrice Madrigale Conoscete una donna battezzata Patrizia? Non porta la gonna e ha negli occhi mestizia. Inciampa la vita con affanno quotidiano frutto di una risalita, derivato ormai lontano. Sono fatti già accaduti che tormentano le mani. Son le facce dei perduti che han sgualcito i suoi divani. Sono i figli sconosciuti che l’abbracciano alla sera con strapazzo, allegri e muti, ché la sanno donna vera. Oh! Già la vedo altera e fiera guardare il mondo a primavera sventolando una bandiera. 50 La dea compensatrice Spiagge della Versilia Ti sei massacrata con le tue mani con il tuo cervello, per nascondere le notti insonni, pazze e scellerate, alcoliche o anche per conservare intatta agli occhi di tutti la tua esile figura di donna francese dinamica e a volte bella, sempre da odorare. Non hai mai voluto dare niente a nessuno o forse a poche persone e avevi ragione. Nascosta ti vedo, nelle bettole o nei gran bar, viverti addosso l’amore di tutta una gente o forse di una sola persona, una donna, che usciva e giocava solo con te. Ma il vino è maestro, è regista è poeta maledetto e sa raccontarti di un mondo fantastico di suoni, colori ora accesi ora fiochi. Ma il vino non abita mai così a lungo 51 La dea compensatrice nelle vene, dimora di sangue. Vi scorre così per andare a cercare, morboso e invadente il cervello che è ansioso di forte veleno. E come un uomo che picchia una donna mettendola a nudo e al disprezzo col ghigno bestiale di un bruto davanti alla gente scacciandola a calci svestita da un posto che prima era caldo, così il vino ti lascia col sonno da sola con altre persone con cui devi tacere. Ogni tanto una clinica buona e i denti se cascano si possono sempre rifare nuovi perfetti. Il profumo francese l’erre francese tua madre francese il senso degli affari e un marito affermato son cose che ancora ti legano. Mi ha sempre stupito Il tuo rifiuto del mare. Ti vedo 52 La dea compensatrice angosciata con gli occhi smarriti pieni di terrore spaventata che gli altri possano anche un solo attimo capire chi sei. 53 La dea compensatrice Si può Si può fraintendere tutto scambiare un bacio di una donna per un invito a fare l’amore. L’amore per una donna no, lo puoi solo perdere. 54 La dea compensatrice Insonnia Qualche cosa oltre me sembra occupare il mio udito. Di notte è il fischio del treno? Del vento? O il rintocco di una campana? 55 La dea compensatrice Haiku occidentali Risottino ai funghi che richiede troppo vino rigettato. Ho sognato un serpente a sonagli. Provvidenziale mi sveglia il merlo parlante in cucina. Il tubare di un piccione al mattino. Respiro profondo cerco di dormire e non ci riesco. Calcio a portone per tenerlo aperto torna indietro e si chiude di nuovo. Tutto ok amore a mille disperazione che sale. Strada fangosa di campagna in salita in un giorno di pioggia affondo e vado indietro. Piazza di città con pozzanghere ghiacciate giovane cane ha freddo e scivola. Birra e vodka dormendo male mi scoprono un ginocchio rotto. Lancio una sfida impossibile 56 La dea compensatrice mi ritrovo solo e diffidato. Gli haiku, che ho conosciuto leggendo Kerouac, anche quelli giapponesi - che sono rigidi nella loro composizione (numero di sillabe, sequenza delle tre righe) parlano in modo semplice delle piccole cose, delle situazioni più o meno animate e sono composizioni con inizio, corpo e conclusione. Nello Zen le cose sono tutte animate (non l’animismo africano) e anche un sasso o una montagna vivono e si integrano con l’uomo e con il divino. Nello scrivere haiku sono stato ispirato dal periodo buddista della beat generation. 57 La dea compensatrice La fine della buona novella Gesù scoppiò. Dalla croce Disse: “Mi avete rotto i santissimi.” Maria gran santa cercò di riportarlo alla ragione. Continuò: “Non avete mai letto i salmi e tutte le profezie. È nel Vecchio il luogo dove il Nuovo attinge il sapere. Il vostro cervello si è sempre di tutto dimenticato. Assomiglia allo sguazzare lento e inebetito 58 La dea compensatrice di un cigno in un lago. 59 La dea compensatrice Loro Ciuffenna Tra luglio e agosto c’è un tempo dedicato a Loro Ciuffenna. Fronte alta simbolo di antico splendore. Ora ci basta attizzare una dotta disputa. Siam liguri o etruschi? E penso ai miei avi ai miei morti. Ho il cuore leggero se loro sono con me. 60 La dea compensatrice Luna piena Stasera luna piena, enorme, gigantesca, rossastra, pacifica che tutti sovrasta, vivi e morti, infelici e contenti; sorda ai frastuoni delle genti, dei rombi potenti, dei gridi di dolore, delle urla di gioia, delle bombe, dei bambini che piano piangono su petti scarnificati, impotenti… Ma la Luna è creatura di Dio? 61 La dea compensatrice Origini Ancora è tempo di scrivere fissare con segni indelebili immagini interne. La retina all’occhio fornisce il fissante lo scorrere spocchio è solo una serie viandante di armonici quadri ognuno a se stante già preda di profetici ladri. Scolpire la pietra pochi colpi dipingersi il volto pochi tratti interrogare il volo di aquile pochi gesti. Tuffarsi nell’acqua a cercare l’origine immergersi nel vento nel soffio di un’anima errante. 62 La dea compensatrice In memoria di R. F. Papaveri rossi, orgogliosi e irriverenti, fioriscono estivi sulla carreggiata dove povere erbe campano di stenti e il treno di fianco sovrasta la massicciata sfrecciando in direzione opposta alla mia che piango guidando verso nuvole gonfie verso visi sorridenti dall’alto, odorosi di famiglia rassicuranti nelle loro tranquille follie assopite nel tempo senza limiti degli spazi infiniti di colloqui finalmente possibili e acquisiti tra padre e figlio incomprensibili qui. Eterni, immortali, proficui lassù con me che aspetto la meta dopo aver superato il tabù dell’anima dura e priva di pieta. Fratello sei a casa in forma di cenere. La mia rabbia è finita. 63 SOMMARIO 7 43 45 47 48 50 51 54 55 56 58 60 61 62 63 La dea compensatrice Ballata del porto che aspetta Il giunco del Nilo Notte di San Lorenzo Là, dov’è casa mia Madrigale Spiagge della Versilia Si può Insonnia Haiku occidentali La fine della buona novella Loro Ciuffenna Luna piena Origini In memoria di R.F. Prima Edizione Luglio 2012