Libertà Edizioni

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La dea compensatrice
Un racconto e alcune poesie
di Luca Franceschi
Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ‘l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Dante, Inferno, Canto I
Dedicato a mia figlia Marta
che mi ispira come la ninfa Egeria
e a mio fratello Roberto
che mi protegge da lassù
La dea compensatrice
LA DEA COMPENSATRICE
LA CURA
Matteo si mise in bocca l’ennesimo pezzetto di carne sui ferri,
intingolò un tocco di pane all’olio nel condimento delle sue
verdure cotte e tirò un sospiro profondo. Mai aveva masticato così
lentamente; era abituato nella vita di tutti i giorni ad ingollare i
bocconi quasi per intero. “Cattiva abitudine! Uno di questi giorni
ti strozzi!” gli ripeteva sempre una sua amica che in fatto di
mangiare lento e cultura della cucina macrobiotica, preparata di
rado, era un asso.
Senza dubbio erano l’atmosfera della clinica e quei giorni lenti,
passati a curare un brutto fegato le cause che facevano scandire i
tempi della masticata. “Mi aggiusterò un po’ di linea” pensava,
mentre si tocchicchiava la pancia e i fianchi. Un tempo era stato
magro, non esile, perché comunque aveva giocato a pallone fino a
diciassette anni. In seguito ad un brutto infortunio al ginocchio, e
al suo impegno nel subbuglio sociale, culturale e all’aspettativa
rivoluzionaria di quegli anni si era dedicato totalmente alla causa.
I lineamenti delicati del viso, i capelli neri e riccioluti cozzavano
con la determinatezza del suo carattere così incline al radicalismo
e alle scelte estreme verso le quali riusciva a portare molti uomini e
donne, anche più grandi di lui.
L’attivismo politico era intenso come la sua attività sessuale con le
donne.
Nel suo letto di cura ora pensava che in quel campo era stato
come la cicala che canta d’estate sull’albero e prende in giro la
formica che sgobba preparando le provviste per l’inverno.
Era iperattivo, quasi non più in grado di tenersi, di fermarsi, di
fare scelte razionali ma solo di pancia e di cuore. Rivedendosi
avrebbe poi ammesso di essere fuori controllo.
Dopo la fine del ciclo di lotte, con la perdita dei contatti e con
l’incedere di un grigio riflusso, si sentiva molto cicala.
Il fegato in disordine era il paradigma della confusione e del
malanno mentale in cui si trovava; un fenomeno conseguente, che
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era sfociato in una forma di bulimia a cui dovette porre fine.
Soffriva per la resa che molti suoi amici e compagni avevano
scelto; quasi un pentitismo di massa, che assumeva via via forme
diverse con scelte di vita in contraddizione con i pensieri e le
azioni degli anni precedenti, uno sbracamento fisico e mentale.
Matteo cercava di non esser risucchiato in quel gorgo. Pensava alla
sconfitta di massa subita. Lui era sconfitto e verso le sconfitte ci
sono modi diversi di porsi. Pensava ai tanti rinchiusi nelle patrie
galere, alcuni li aveva conosciuti. “I ricordi hanno una duplice
identità” - questa volta parlò sommessamente da solo - “servono
per conservare la memoria, ci sono quelli belli e quelli brutti. A
volte però diventano ossessivi e guastano la vita o ti fanno
arrampicare su per un crinale per poi tornare al punto di
partenza.”
Si trovò allora ad osservare, con gli occhi un po’ persi nel vuoto, le
due pasticche in un vasettino di vetro accanto alla saliera.
Già, le pasticche, lo sciroppo e poi la flebo e molto riposo: questa
era la terapia di fondo che seguiva. Ma c’era qualcosa di più che lo
colpì in quel momento. Si rese conto che stava scivolando dalle
riflessioni empiriche a quelle più profonde ed esistenziali vicine
alla sua condizione e a quella e del genere umano.
Si scordò della terapia e i suoi pensieri rincorsero ombre che lui
voleva squarciare, afferrare. Una rincorsa affannosa che ogni
momento trovava nuove forze per trascinarlo più avanti.
Ma chi ha stabilito per l’uomo la quantità necessaria al suo
sfamarsi? Si chiese in silenzio.
Decine di tabelle fatte da medici e specialisti, libri e pubblicazioni
più o meno periodiche, orari dei pasti inflessibili: un grande “suk”
in cui volteggiavano miliardi pensò Matteo.
“Chi le aveva stabilite tutte queste cose?” si chiese.
“L’uomo” - pensava - “ha la propria vita organizzata da tutti
questi cultori di equilibrio. In ogni campo, in ogni atto hanno
preparato per te una media. Questo mio pasto non è casuale ma il
frutto di quelle operazioni.
Del resto mi devo stupire di poco: la media è quello che occorre
per mantenere la normalità; la norma deve sopravvivere e così
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sia.”
Lui era stato considerato un esagerato e in fondo lo sapeva.
“L’importante è esagerare” principiava una canzone di quel
periodo, e Matteo non se lo faceva ripetere due volte, non cercava
mediazioni, neppure con se stesso. Questa era anche la sua forza
di convincimento; sempre in prima fila, sempre in testa, esagerato,
rischiando e pagando di persona.
Riprese a mangiare e gli vennero in mente, chissà perché, degli
uomini primitivi. I nostri primordiali antenati mangiavano fino a
quando non sentivano i morsi della fame allentare la presa allo
stomaco, poi subentrava in loro un gustoso e dolce senso di
pienezza e sazietà, meta raggiunta e soddisfazione totale di un
bisogno, soprattutto anche in conseguenza dell’enorme fatica che
dovevano aver fatto per procurarsi il cibo.
Quel fiume di pensieri lo aveva stancato ma si sentiva leggero.
Eppure era consapevole che, a dispetto delle pseudo-scienze
sull’alimentazione controllata e salutista, tante persone soffrivano
la fame e ci morivano di fame.
Quel giorno stava aspettando che lo venisse a trovare, come
sempre, sua zia per portargli il suo quotidiano preferito, un
monumento della stampa nazionale.
La zia era una donna piccola, bassa e tozza, quasi tonda, fastidiosa
ma con una salute di ferro. Aveva il viso pieno di nei cresciuti con
gli anni a dismisura e lo sguardo era poco benevolo verso il
mondo in genere, ma era una fervente cristiana e sorella di sua
nonna Emma. La sua devozione cattolica la costringeva ad essere
servizievole e apparentemente caritatevole verso il prossimo,
tuttavia era sempre pronta a rinfacciare le debolezze altrui,
ergendosi a giudice.
Nonna Emma invece era una donna sensibile, dai tratti dolci, e la
sua persona spandeva un profumo gradevole e sensuale, tutti la
dicevano così.
Matteo ricordava una sua foto dei primi del novecento, di quelle
foto che hanno il giallo del tempo e che non hanno il movimento
di certe istantanee moderne ma assomigliano ad un quadro di
Tiziano da cui si può cogliere il tratto essenziale del carattere di
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una persona. Nella foto Emma teneva gli occhi bassi rivolti
maliziosamente verso una lettera che teneva nella mano sinistra,
appoggiata alla gamba accavallata e coperta da una lunga gonna
nera con sopra una camicetta bianca col colletto di trine che
scendevano su un petto generoso; il viso era un ovale perfetto e i
capelli neri, non molto lunghi, erano divisi sul lato destro, più
corto, in modo che la parte sinistra degli stessi le girasse intorno
alla fronte a scoprire la parte inferiore dell’orecchio minuto,
mostrandola in tutta la sua giovane, esuberante età di donna
pronta ad affrontare la vita di sposa.
Quando sua zia gli consegnò il quotidiano, Matteo cominciò a
leggere con avidità.
Gli articoli da tutto il mondo erano una fonte preziosa per lui. Era
come se, conoscendo le cose tremende che succedevano anche a
migliaia di chilometri di distanza, la sua indignazione prima o poi
avesse portato qualche risultato in termini riparatori. Che
differenza c’era in fondo tra questo suo modo di rapportarsi alle
ingiustizie con i paternostri biascicati in chiesa da sua zia? Questa
considerazione lo spiazzò.
Lesse un servizio di uno storico inglese sulla figura di Churchill
durante la prima guerra mondiale.
Allora un filo sottile, che sembrava rompersi ogni momento, ma
che ogni volta lo trascinava più avanti, finì per lasciarlo davanti a
dei nitidi ricordi.
PANE E VETRO
Molte volte la sera, quando era piccolo, Matteo si era
addormentato al suono delle parole dei racconti al tavolo del
dopocena, dove un numero imprecisato di familiari, zii, cugine e
nuore restavano radunati dopo il pasto in comune e ognuno
argomentava a suo piacimento. Solo lui voleva ogni volta risentire
come si faceva a vivere sotto le bombe, coi soldati in casa, con i
parenti scomparsi in Africa o a lavorare in Germania nel periodo
di quella che tutti gli dicevano essere stata la seconda di una serie
di guerre mondiali che forse non sarebbero finite mai.
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E fu in uno di quei giorni che sua nonna Emma, toccandosi i
capelli neri raccolti dietro la nuca in una treccia arrotolata, non
riusciva ad assumere un’aria severa come avrebbe voluto.
Il bambino la guardava imbronciato, sporco e con i calzoni corti
stracciati, impettito e orgoglioso; oramai i sandali erano ridotti a
poca cosa e la polvere dell’estate si era incrostata tra le dita dei
piedi come sulle gambe e sui ginocchi sbucciati; le bretelle color
marrone percorrevano un magro torace nudo che sosteneva un
viso stranamente quasi paffuto e sul capo c’erano dei capelli
castani e lisci che facevano risaltare due occhi scuri. Era così
piccolo che parlava in modo buffo e in mano aveva un sasso.
“Dai pane sì, ‘pacco vetro no! Dai pane no, ‘pacco vetro sì” disse
tutto d’un fiato, respirando poi profondamente.
La nonna scese con calma lo scalino della porta del negozio del
pane e il movimento, come ogni giorno, provocò l’immediato
passo indietro del bambino che si irrigidì nella nuova posizione in
atto di sfida con le gambe divaricate. Dalla porta arrivava fin sulla
strada l’odore del pane fresco, appena cotto. La guerra era così
avara di quegli odori ma nessuno aveva il tempo per queste
riflessioni.
“Risparmiami il vetro per oggi, ho un po’ di pane per te, domani
non so.” Disse la nonna al piccolo porgendogliene un grosso
pezzo. Il bambino lo afferrò e corse via nella polvere. Fu così
rapido nel voltarsi e nello scattare che la cosa suscitò un istintivo
gesto collettivo di difesa di un gruppo di soldati tedeschi che stava
incamminandosi nell’opposta direzione. I soldati, ricomposta la
formazione, entrarono nel negozio di pane come ogni giorno.
La bottega era molto antica anche per quei tempi e conservava la
sua struttura classica: il banco delle vendite era a sinistra, a destra
scaffali di legno e cassettoni; sportelli a vetro ospitavano poche
cose: c’era la farina bianca, il sale, pochissime varietà di caramelle e
poi scatole di latta colorate, vasi panciuti di vetro grosso con
coperchi di metallo color oro, vuoti.
Una piccola porta dirimpetto l’ingresso, in fondo al locale non
molto lungo, lasciava intravedere un’enorme basculla e alcune
bilance piccole.
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Quel gruppo di soldati entrò senza salutare nessuno, spaventando
le due persone presenti davanti al banco che stavano esibendo la
tessera.
Oltrepassarono la piccola porta e si diressero in fondo verso il
forno che sprigionava ancora calore e sul bancone da lavoro
infarinato, proprio sotto un orologio a pendolo appeso alla parete,
deposero i mitra e le bombe, si levarono gli elmetti e
cominciarono a parlottare.
Uno di loro si accese una sigaretta e la nonna stava per dirgli di
non fumare ma si trattenne. Quel soldato aspirò l’ennesima
boccata e tirò fuori il fumo con aria beata; socchiudendo gli occhi
alzò la testa e fissò l’enorme finestra a circa due metri di altezza da
cui si intravedevano le cime immobili degli alberi del giardino della
famiglia Emiliani. Il suo sguardo ruotò sull’intero soffitto e si
fermò sulla lampada spenta che pendeva. Fu allora che
l’espressione ebete e beata si tramutò nei guizzi nervosi dei tratti
che denunciavano stupore e sospetto, diffidenza e curiosità o forse
tutto questo sembrò alla nonna.
Emma, come tutti, aveva sentito dei rumori venire dal soffitto,
uno forte ed altri regolari come dei passi; anche i tedeschi
sapevano che nella casa di sopra non dovevano esserci persone.
“I topi!” disse la nonna con la voce rotta e un po’ incerta e indicò
un’altra porta piccola ma robusta cui si poteva accedere, più in
alto, solo con una scala a pioli.
“Si divertono tra le legna e i trucioli che servono per cuocere il
pane” e cercò con gli occhi gli altri per essere più convincente, con
un sorrisetto di circostanza.
“Ja, ja!” disse il tedesco che fumava. Un miagolio fece sciogliere la
tensione che si era impadronita di Emma e tutti si voltarono e
seguirono con lo sguardo l’incedere lento e maestoso di un
enorme gatto bianco.
L’estate stava davvero per finire, ma se ottobre era alle porte i
partigiani erano ancora lontani e l’altro esercito, quello americano
e inglese, era bloccato più a sud.
I soldati tedeschi entravano e uscivano dal negozio di pane tutti i
giorni e tutti i giorni aumentavano le armi e le bombe; una vera
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polveriera cresceva insieme ai trucioli e alla farina. Due volte al
giorno Emma montava e scendeva le scale di legno interne che dal
retro bottega conducevano alla sua casa, al primo piano: due
rampe di scala ripide che si dovevano salire aggrappandosi ad una
delle sbarre di legno poste ai lati. Tutte le volte che bussava
all’armadio, il negozio di sotto era chiuso: quattro tocchi decisi.
Quel giorno il cuore le era quasi salito in gola; colpa del tedesco
che fumava: avrebbe potuto scoprire il suo segreto, o forse lo
aveva intuito?
Di nuovo si toccò la treccia arrotolata alla nuca e rimase in attesa
davanti al grande armadio nella stanza più grande della casa, una
stanza che serviva per tutto. La nonna sembrò quasi prepararsi al
risultato di una magia.
Lentamente il grosso mobile cominciò a scorrere verso destra per
poi essere spinto leggermente in avanti tanto da creare un vuoto
tra il muro e il legno, sufficiente per far passare una persona anche
di corporatura robusta; la nonna scomparve in quel vuoto, così
come erano scomparsi, alcune settimane prima, i suoi due figli.
Nessuno sapeva dove fossero e si dice che Emma contribuisse
con il suo atteggiamento affranto ad alimentare il mistero. Erano i
giorni della guerra nei quali sembrava che la vita non valesse più
niente ed era sempre meglio pensare a chi era improvvisamente
scomparso che non a chi era certamente morto.
Quando Emma fu completamente entrata da quell’apertura e
l’armadio fu di nuovo al suo posto, non perse tempo in
convenevoli.
Li contò rapidamente con lo sguardo. Nascosti in quella stanza
c’erano cinque giovanotti compresi i suoi due figli. Erano lì e non
in qualche campo di lavoro o di concentramento, magari in
Germania. La stanza era grande ma non sufficiente per tutti: le si
presentò, come ogni giorno, disordinata e soffocante, piena di
fumo. I calzini erano appesi dovunque, le magliette sparse sui
mobili, i vetri appannati.
La nonna corse alla finestra senza dire una parola e l’aprì con
violenza liberatoria.
“Andate a mangiare della frutta nel giardino degli Emiliani, svelti!
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Ho portato il pane e dell’affettato, ma anche una boccata d’aria è
importante.”
Forse solo in quel momento si rese conto del rischio che stavano
correndo.
Se i tedeschi li avessero scoperti, per loro sarebbe stata la
fucilazione o la deportazione.
Guardò i suoi figli e gli altri che stavano scendendo nell’orto,
protetti dal buio e li vide nascondere la scala che era servita per la
discesa.
Sorrise: un po’ perché erano lì con lei vivi; un po’ perché di nuovo
aveva ingannato la guerra, come ogni giorno.
La nonna di Matteo era morta: a lui era rimasta la zia. Riprese a
sfogliare il giornale fresco di stampa, gli piaceva quell’odore. Lesse
con attenzione quasi tutto. Quel giorno aveva la mente in
continuo fermento e non c’era articolo che non gli smuovesse
qualcosa, come se ogni notizia lo chiamasse per farsi collegare ad
un fatto che gli era capitato o ad una situazione che aveva vissuto
intensamente.
L’esercizio mentale lo stancò. Si sarebbe addormentato ma una
folla di volti, di città, di paesaggi lo assalirono prepotentemente.
In quel momento un buon whisky sarebbe stata la medicina
migliore. Il whisky lo aveva aiutato molto quando si infervorava
nei suoi voli fantastici. Era un buon carburante, anche se a volte il
sovrappiù aveva sortito l’effetto di bagnargli le candele,
lasciandolo in panne.
Matteo accese la radiolina che teneva vicino e sentì il suono di una
musica irlandese travolgente e ritmica, una cascata di strumenti
che insieme trasmettevano gioia e angoscia di vivere.
Matteo continuò a volgere la mente ai ricordi e cercò di
materializzare le idee.
Fu così che vicino al suo letto gli apparve nonna Emma. “Parlami
dell’Irlanda” disse la nonna. “Tante volte io ti ho raccontato di
ben due guerre e di tutte le sofferenze che hanno procurato, ma
quelle moderne non devono essere migliori, anche se più piccole.”
“Ti posso dire solo poche cose sulla guerra d’Irlanda” rispose
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Matteo.
“Non importa” sussurrò la nonna. “Ognuno vede il mondo dal
suo osservatorio; l’importante è ricordare, anche le piccole storie.”
“La mia è proprio piccola.”
“Non importa” lo incoraggiò la nonna. “Comincia dall’inizio, io ti
ascolterò in silenzio, senza interromperti, come facevi tu.”
DA DUNKERQUE A BELFAST
Un fiume di parole cominciò a uscirgli dalla testa…
“Quella sera, nonna, avevamo il cuore in gola e la faccia rossa.
Avevamo bevuto birra belga dei frati Trappisti.
Cercai gli occhi di Rizzo e li trovai sgranati come due chicchi
d’uva, pieni di sole e di vento.
Senza dircelo stavamo vedendo le stesse cose.
Il sole del Nord faceva ancora brillare gli elmetti dei soldati inglesi
in fuga verso il mare che la bassa marea aveva allontanato di due o
tre chilometri.
Si erano formate delle linee orizzontali ininterrotte colme di
pozzanghere che rifrangevano un bianco tramonto.
Eravamo vicini al canale della Manica a ridosso di un borgo
chiamato Dunkerque. Il mare brulicava di navi e di barche di ogni
tipo. I Tedeschi bombardavano, sparavano ed avanzavano con le
facce gonfie di birra.
Come fossimo invisibili, con passo deciso, senza correre, ognuno
seguendo una sua traiettoria, ci buttammo dentro questa gelida
battaglia.
Ricordo che avevo uno strano sorriso e persi di vista il mio amico
Rizzo.
Scansavo gli scoppi delle mine e dei mortai, irridente a qualsiasi
paura di essere ucciso, sicuro che anche il mio amico se la sarebbe
cavata.
Camminai per un chilometro, forse di più, fino a che piccole onde
mi bagnarono i calzoni a metà stinco. Mi voltai e vidi il mio amico
Rizzo lontano che rideva a bocca aperta fermo sulle gambe
divaricate per tenersi in equilibrio. Ma eravamo davvero dei soldati
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in zona di guerra? In Francia?
La nostra meta era un’altra, ancora lontana: Irlanda del Nord,
Belfast.
Allora mi ritenevo un vero pacifista ma non come quei piagnoni
che “porgono l’altra guancia” perché sono sicuri di non esporre la
prima allo schiaffo. “Si vis pacem, para bellum”. Su questo avevo
impostato gran parte del mio pensiero e della mia azione, anche se
la guerra a cui mi riferivo era combattuta non da nazioni, non da
imperi, ma da classi sociali contrapposte.
Questa visione delle cose mi legava molto a Rizzo che era una vera
e propria forza della natura.
Le decisioni, come spesso avveniva in quei tempi, le prendevamo
durante serate di vini e bisbocce, di canti, di idee, di sfide
impossibili.
Essere per la pace vuol dire anche essere capaci di amare una
guerra combattuta da gente oppressa e sfruttata, magari contro
uno degli eserciti più agguerriti del mondo.
Io e Rizzo convenimmo quella sera che era facile per molti parlare
bene della lotta del popolo irlandese, nelle comodità delle loro
esistenze. Così per sfidare i troppi benpensanti decidemmo di
partire dall’Italia, attraversare l’Europa e arrivare nel Regno Unito
di Elisabetta e più oltre, di fianco alla Scozia, nell’isola d’Irlanda
dove ancora si parla il gaelico.
Dieci anni prima in quel periodo, gli anfibi dei soldati che
sventolavano la Union Jack avevano stuprato la landa di terra
irlandese delle sei contee che era scesa in lotta per l’indipendenza e
la liberazione sociale, in nome di una falsa guerra di religione.
Guardai Belfast dai vetri della libreria “Justa Book”, tra riviste
dell’I.R.A., dei Provisionals, volantini anarchici, giornali
irredentisti o del Sinn Fein che ricordavano le confraternite dei
guerrieri mitologici, i Fianna, guidati da Fionn Mac Cumhaill.
Case diroccate, buchi di pallottole sui muri, volti fieri, vicoli
percorsi di fretta da persone che apparivano e di colpo sparivano
chissà dove e per fare che cosa.
Passarono alcuni giorni in cui si saldò l’amicizia con un gruppo di
frequentatori di quella libreria. Erano operai, trasportatori,
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disoccupati, e chi sa cos’altro, insegnanti come la piccola Ghinny
con gli occhi celesti e suo marito Ray che faceva il camionista per
una ditta del porto. Ray era alto, sopra la media degli irlandesi, con
i capelli neri e lisci e un profilo quasi greco. Pacato nel parlare,
attento a farsi capire da noi due, gesticolava poco e si metteva
sempre a braccia conserte come a voler dare maggior peso ai suoi
discorsi. Oltre a Ghinny e Ray, ci legammo a due loro amici, Tom
e Roddy, giovani irlandesi disoccupati. Le loro vite erano trascorse
tra piccoli furti e azioni di protesta contro gli inglesi o per
difendere i quartieri cattolici dalle scorribande dei protestanti. Il
primo moro e robusto, l’altro mingherlino e coi riccioli rossastri si
assomigliavano negli occhi chiari sempre presenti con lampi di
vitalità incredibile. La loro camminata era simile, ciondolante, non
indolente. I loro padri erano stati arrestati dieci anni prima,
protagonisti entrambi della scissione che subì l’I.R.A. tra l’ala
Official e quella Provisional critica verso la leadership che
accusavano di ortodossia socialista ma soprattutto di non essere
stata in grado di difendere i quartieri cattolici di Belfast quando
furono attaccati da gruppi di estremisti di estrema destra di fede
protestante.
Il giorno era passato via svelto, come gli altri. Troppo svelto.
L’eccitazione per gli incontri con donne e uomini che ci
raccontarono i risvolti crudi, quotidiani di una lotta senza
quartiere, ripulì le nostre menti da facili idealizzazioni.
Discutemmo anche di Mazzini con questi irlandesi e delle analogie
delle forme di lotta praticate, della clandestinità, del prezzo che si
deve pagare contro re, regine e regimi di sfruttamento di classi
sociali oppresse.
Dovevamo trovare un posto per dormire, perché stare fuori a
quell’ora tarda poteva procurarci delle noie.
Vedemmo una casa abbandonata. Con un calcio sfondammo la
porta per entrare. All’interno era rimasto poco dell’arredamento
originale, ma quel poco mi fece ricordare i racconti di Joyce, le
ambientazioni descritte nelle quindici novelle dei Dubliners.
C’erano ancora due divani sopra un tappeto consumato, delle
seggiole scompaginate, alcune impagliate coi gambi sottili, altre di
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legno massello, tozze ma instabili, tende strappate alle finestre, un
giradischi, una vecchia radio con le manopole mancanti, una
lampada su un mobile. La piccola cucina aveva ancora la luce e
siccome si trovava nella parte più lontana della casa ed era senza
finestre, decidemmo di accendere solo quella.
Mangiammo qualcosa e fumammo insieme. Nella semioscurità
accennammo a delle canzoni a bassa voce e tutto contribuiva a
creare un’atmosfera di familiarità, di complicità che ci stupiva. Io e
Rizzo ci facemmo insegnare qualche parola e frase in gaelico, ma
tutte le volte che parlavano in irlandese dovevamo chiedere
“Please, speak slowly!” L’inglese parlato in conversazione dagli
irlandesi è come un mitraglia!
Tom e Roddy cominciarono a polemizzare con gli altri due.
Attaccò Roddy: “Voi continuate, come dieci anni fa, a fare
propaganda dei vostri astratti programmi, avete troppa fiducia nel
Sinn Fein, cercate un compromesso politico e ci lasciate di nuovo
soli nei nostri quartieri!” e incalzò Tom: “Mio padre era amico del
tuo, Ray, ma il tuo disse che era scellerato armarsi in massa per
respingere gli estremisti, disse che avremmo favorito la
repressione inglese. Noi ci siamo difesi e voi lo avete capito tardi,
con i parà inglesi che proteggevano gli assassini della nostra gente!
I nostri padri si sono riparlati dopo gli anni di prigione. E poi ti
scordi come trattano i prigionieri dell’Ira, di qualunque frazione?
Le torture, i pestaggi, e li considerano solo dei delinquenti comuni,
non prigionieri politici… dovremmo fare qualcosa per questo!”
Ray sembrava in difficoltà. “Occorre essere uniti! Costringere la
Thatcher a trattare.”
“Sì, e magari continuare a chiamare Derry, Londonderry! È una
storia che si ripete e non vogliamo che finisca come nel 1922,
divisi da un trattato che ci ha separato e ha portato la guerra civile
nello stato libero d’Irlanda e non in una repubblica!” rispose
Roddy. “L’Irlanda deve essere una e repubblicana!”
Tom e Roddy erano giovani, si arrangiavano nella vita, nessuno gli
dava lavoro, erano stati poco a scuola, ma avevano la capacità di
chi dalla vita, dalla lotta, dalle proprie radici esprime concetti che
travalicano il grado di cultura in sé, per come a volte viene
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concepito. Un grande poeta, morto assassinato all’idroscalo di una
metropoli, ce lo aveva già detto, ma c’era passato sopra le chiorbe,
distrattamente.
Ghinny partecipava emotivamente ma ci accorgemmo che il suo
impegno tra i ghetti cattolici, miseri, poveri la portava a vedere
l’aspetto umano, civile della questione. Interagiva con le famiglie
smembrate dalla morte, dal carcere, dall’alcool, aiutava gli orfani
della guerra, quegli stessi che, laceri e sporchi, sbucavano dai vicoli
di Belfast sulle Roads principali tirando sassi con le mani o le
fionde contro i vetri dei bus di linea cittadini, simboli della
sottomissione all’Inghilterra, gesto quasi gioioso e irriverente
come in una guerra tra ragazzi della via Pal.
Ella cercava il collante tra la guerra e i suoi drammi personali,
scriveva lettere alle mogli per i mariti prigionieri o semplicemente
portava fiori sulle tombe di chi non aveva più neanche quel
conforto. Io e Rizzo a stento ci inserivamo in quel serrato scambio
di battute. Lì c’era tutta L’Irlanda del Nord. Dopo alcune birre
decidemmo di uscire per andare ad un pub dove c’era la tombola
per i prigionieri politici.
Nei pub disadorni delle strade vicino a Falls Road la tombola per
la raccolta di soldi a favore dei prigionieri politici era un rito che si
ripeteva ogni sera.
È difficile che oggi dimentichi i volti di quelle donne anziane, di
quelle più giovani, dei vecchi o dei pochi giovani irlandesi presenti
mentre tiravano su i numeri e sistemavano i chicchi sulle loro
cartelle, bevendo piccoli bicchieri di whisky tutto d’un fiato,
raffreddandosi la gola con piccoli sorsi da grossi boccali di birra.
Quasi ogni sera io e Rizzo avevamo visto la fierezza degli irlandesi
oppressi: allineati contro una parete del pub, mostravano i
documenti, e noi i nostri, alla pattuglia inglese che
immancabilmente faceva irruzione.
Questi uomini e queste donne, apparentemente e concretamente
disarmati di tutto, trasmettevano un coraggio attraverso i loro gesti
e i loro sguardi che ci aiutava a superare i momenti davvero brutti.
I loro corpi parlavano in faccia ai soldati, militari perfetti: “Voi,
servi sciocchi, stivali e guanti neri lucenti, canna del mitra spianata,
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non ci sottometterete mai!”
Conclusa l’irruzione, senza commenti, la tombola poteva
proseguire.
Fuori le strade bagnate dalla pioggia fine e costante sembravano
andare verso il nulla; il filo spinato le bloccava in ogni direzione o
sparivano nella luce fioca dei pochi lampioni che illuminavano
case diroccate e sforacchiate dai proiettili. Erano case basse
prevalentemente di mattone rosso con molti muretti tra l’una e
l’altra.
Vidi la pattuglia inglese, come altre volte, con due soldati davanti e
due che seguivano a distanza camminando all’indietro, i fucili
puntati verso tetti e finestre. Era un quadrato perfetto che
scompariva come un unico fantasma in quella parte di buio
risparmiato dalla luce, per riapparire alla luce del pallido lampione
successivo.
Finita la tombola e salutati tutti gli amici che quella sera avevamo
incontrato ci riunimmo fuori dal pub. Un giovane ubriaco
irlandese stava picchiando la sua donna per strada. Ghinny
conosceva quei due perché il suo impegno sociale la portava ad
affrontare quelle situazioni da ghetto dettate a volte
dall’impotenza, dalla miseria, dallo sfruttamento, dalla rabbia di
una sottomissione che si incanalava per le strade tortuose della
mente.
Ghinny cercò d’intervenire per fare qualcosa e calmare la
situazione: era il suo impegno su quel fronte che la spingeva ad
intervenire, e rischiò di buscarne dall’uomo.
Fu allora che noi ci battemmo per lei. Uno alla volta cademmo a
terra colpiti duro.
La mattina ci svegliammo tutti presto.
Avevo ancora nella bocca e nelle narici il gusto e l’odore della birra
rossa, del whiskey irlandese, nei ricordi appannati le cartelle della
tombola e i volti dei giocatori.
Il primo sole d’agosto aiutava poco ad alzarmi.
Quando tutti furono svegli si fecero i conti. Quella scazzottata
aveva lasciato un segno addosso ad ognuno di noi.
Ray portava una benda nera sull’occhio sinistro, Rizzo camminava
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La dea compensatrice
appoggiandosi ad una stampella di legno improvvisata, necessaria
per il suo ginocchio rotto, mentre io mi massaggiavo la mascella e
pensai che per qualche giorno non avrei potuto masticare. Ghinny,
militante femminista, era l’unica intatta. Ghinny ci guardava ogni
tanto mentre sfogliava un libro e ci sorrideva, rivelando ancora di
più la sua giovane età: la bocca larga e rosa, gli occhi celesti, i
capelli chiari, raccolti in una lunga treccia.
In seguito lei ci disse che il nostro avversario era un pugile
dilettante, di discreto livello, alcolizzato; comunque lei ci ringraziò
con la tenerezza che solo le donne riescono a trovare verso gli
uomini in determinate situazioni.
Dopo alcuni giorni passati a rimetterci in sesto, organizzammo
una cena. Fu una festa d’addio. Ghinny e Ray ci fecero capire che
il loro impegno nella lotta non era marginale. Allora capimmo che
Ray e Ghinny erano ancora vicini all’ala degli Official.
Assieme a Tom e Roody passammo una settimana nel sud
dell’Irlanda cosiddetta libera sulle rive del mare di un
promontorio. Durante la trasferta, da Belfast alla Repubblica, Tom
ci raccontò una leggenda irlandese della mitologia irlandese.
“Sapete ci furono due fratelli che, dopo essersi divisi i comandanti
dei Fianna, cinque per ciascuno, si contesero un poeta, Cir figlio di
Cis, e l’arpista Cennfinn, entrambi venuti da oriente insieme alle
schiere. La spartizione fu affidata alla sorte, e il risultato fu che
l’arpista con la musica e l’armonia andò con Eber Finn nella Metà
Meridionale di Eriu. Il poeta andò invece con Eremon così che il
canto e la poesia lo seguirono, e rimasero per sempre nella Metà
Settentrionale” rise subito dopo e non disse più nulla.
Ed era infatti nella metà meridionale che si svolgeva un festival di
musica con gruppi da tutta l’Irlanda, e noi quattro ci andammo.
Il clima era molto caldo.
Tom disse: “Sentiremo musica reggae.”
“Ci rilasseremo” gli fece eco Rizzo.
“Sì, ma ci sarà anche musica punk! Musica ribelle!” disse il
mingherlino.
Io intervenni: “Ma il punk è distruttivo. È la musica del “no
future”, come può piacervi se voi avete ancora forza di lottare?”
21
La dea compensatrice
“Il punk non è solo nichilista. C’è un punk che porta nei testi la
rabbia delle periferie di Londra, c’è Londra che chiama alla rivolta
gli sfruttati di tutte le città operaie inglesi e poi si unisce alla nostra
musica folk, alle nostre ballate ribelli, aumentandone nei ritmi il
battito dei nostri tempi.” Mi replicò con enfasi convincente Roddy
“e poi ci sono anche temi di solidarietà internazionale coi popoli
sfruttati”.
Che replicare. C’era solo ammirazione in me per quelle parole.
Ascoltavamo musica di quei gruppi, imparavamo testi dei Clash,
dei Pogues e di altri meno famosi. L’ambiente eccitato dalla birra,
dagli strumenti e dalle voci dei gruppi che si susseguivano
ininterrottamente dalle dieci di mattina fino all’una di notte
aumentava la temperatura.
Rizzo si fece curare il ginocchio rotto presso la “Tenda medica”
che, con nostro stupore, era gestita da impeccabili giovanotti in
divisa grigia che facevano parte dei Cavalieri della Croce di Malta.
Solo nella magia irlandese si possono trovare le risposte a questi
fatti, come magica ci sembrò essere la stampella che gli
costruirono per il viaggio di ritorno.
Lasciammo l’isola di Eriu, mitico nome dell’Irlanda dei Túatha Dé
Danann.** Tom e Roddy sparirono nella calca dopo i saluti.
Durante il viaggio di ritorno, che durò alcuni giorni e con mezzi di
fortuna, cara nonna Emma, leggemmo dell’attentato allo yacht di
Lord Mountbatten, ultimo viceré inglese delle Indie e zio di
Filippo di Edimburgo da parte dei Provisional dell’IRA. Era
saltato in aria e non fu più ritrovato, nonostante le ricerche nel
mare davanti alla contea di Sligo,* provincia del Connacht.
Due anni dopo sapemmo dello sciopero della fame nel carcere di
Long Kesh, negli H-Blocks, iniziato da Bobby Sands e altri nove
detenuti dell’I.R.A. per il riconoscimento dello stato di prigionieri
politici e contro le disumane e brutali condizioni di detenzione.
Morirono tutti, uno dopo l’altro. “Fu allora nonna”- disse Matteo
- “che mi ricordai la frase che spesso si pronunciava in Irlanda con
i nostri amici: “Tiocfaidh àr là” - Il nostro giorno verrà. Era stata
scritta da Bobby Sands. Ho parlato troppo nonna? Non mi hai mai
interrotto!”
22
La dea compensatrice
Ma Emma, così come gli era apparsa, così era svanita anche se
sentì un profumo di cose buone che invase la stanza della clinica
portandosi via, per un momento, l’odore inconfondibile di
quell’ambiente.
Cercò di richiamarla ma la cosa non sortì l’effetto sperato. A volte
la magia funziona, a volte no.
AFRICA
La fragranza di quel profumo lo cullò nel sonno che sopraggiunse
quasi d’improvviso.
Quando si risvegliò trovò sul comodino una bella tazza di tè
tiepido. La sorseggiò con calma e riprese il giornale che gli aveva
portato sua zia.
In terza pagina gli accadde di posare gli occhi sopra un articolo
che parlava delle “Condizioni economiche e sociali del grande
paese africano: la Nigeria”. Lesse l’articolo in fretta. La Nigeria,
l’Africa, la magia, le medicine, il petrolio, i telefoni, le
infrastrutture.
In un punto il giornalista scriveva “I vecchi Yoruba nei villaggi
dell’interno della Nigeria per definire chi emigra a Lagos, la
megalopoli, in cerca di un lavoro, usano il verbo svanire”.
Questa cosa lo colpì molto e gli smosse una selva intricata di
immagini.
Soprattutto rivide il suo vecchio amico Romano. Non si ricordava
esattamente per quale destinazione era partito anni fa,
all’improvviso, per un lavoro verso l’Africa.
Romano era un suo amico conosciuto per caso. Entrambi poco
più che adolescenti, si ritrovavano quasi sempre alla stessa ora,
prima della cena, e la simpatia crebbe giorno per giorno. Se lo
ricordava nevrotico, molto magro, non alto, con tutte le parti del
corpo sempre in movimento, con una faccia pulita, scura di
carnagione. Una guancia era percorsa da una sottile cicatrice,
lunga, ma che invece di renderlo sgradevole contribuiva quasi ad
addolcirgli i tratti marcati del viso, a spezzargli quella simmetria del
volto non in modo violento. Sembrava che invece di un ferro o di
23
La dea compensatrice
una lama gli avessero passato sulla guancia un fiore e che questo,
come lascia una scia di profumo, gli avesse lasciato un segno
finissimo.
Era terribile, pensò Matteo, la serie di coincidenze che si stavano
verificando in quel letto di cura: l’articolo sulla Nigeria, le
medicine, l’amico farmacista e tanto altro.
Già perché Romano lo aveva conosciuto quando questi lavorava
come garzone in una farmacia e allora era molto povero, povero
anche di famiglia. La sua povertà lo aveva portato a partire
improvvisamente, ora se lo ricordava, per la Nigeria, con la
prospettiva di un buon lavoro per tirare su due soldi facendo il
camionista. L’amicizia fu intensa e di breve durata.
Coincidenze! “C’è chi fa delle coincidenze una scienza”- pensò
sorridendo debolmente Matteo - “come i cabalisti con i numeri o
le lettere, pensando di ricavarne verità future o presenti!”
Lui ora non voleva essere scientifico né razionale, non voleva
niente; si sentiva solo un po’ agitato, come era sempre Romano
quando gli raccontava con enfasi le sue avventure in farmacia e i
modi che escogitava per imboscarsi, o di un suo amico che finì in
ospedale per infarto perché, raccontava, “mangiava anfetamine
selvagge e beveva molto alcool”.
Matteo si ricordò di quella volta che lo rivide dopo la prima
partenza per l’Africa.
Gli raccontò che lavorava con un camion sulle rotte del deserto
assieme ad un socio, un suo amico nero, un omone sempre in
canottiera che metteva in evidenza la muscolatura perfetta dei
bicipiti e il collo taurino. Con un bestione di quella fatta non aveva
“punto paura” diceva ridendo a tutta bocca. Per spengere l’arsura
del caldo e della polvere che seccava la gola attingevano da un
rudimentale frigo attaccato al camion lattine di birra fresca, e
quando trovavano una sorta di agglomerato di case o un villaggio
polveroso fornito di bar, spaccio di sigarette e somministrazione
di cibo, abbondavano in bevute di liquori, tutti rigorosamente
occidentali, come indicavano le insegne arrugginite della
pubblicità. Dopo si sollazzavano con prostitute del posto a poco
prezzo in letti bagnati dall’afa soffocante. Romano ne parlava
24
La dea compensatrice
come esperienze estreme. Matteo capì che il ritmo di vita che il
suo amico stava conducendo lo stava stravolgendo e che il suo
fisico era impegnato in una sfida per stare al passo col fisico
bestiale del nero, che avrebbe retto senz’altro più a lungo.
Decisero di passare una serata in discoteca per rimorchiare. Si
ubriacarono e finirono incolpevoli in mezzo ad una rissa con
accoltellamento; intervenne la Polizia che portò tutti in Questura,
compresi loro due.
“Torna dall’Africa una o due volte l’anno per rivedere la famiglia e
sistemare qualche faccenda di soldi e fra un po’ l’arrestano!” pensò quella volta.
Le loro discussioni, in quelle circostanze, erano molto più animate
di quelle precedenti la partenza. In quel letto Matteo si stupì di
come si ricordasse delle dissertazioni espresse sempre con enfasi e
ilarità da parte del suo amico.
Matteo riascoltò quella voce mai così monotona che si modulava
su uno spartito immaginario di un brano di jazz, un be-bop di
Charlie Parker: fatti accaduti, incontri, contrattempi, disagi, amici,
nemici, donne, prostitute, posti e città, foreste, deserti; e tutto
prendeva forma e colore.
Come il racconto che gli fece sui pastori Masai, incontrati sulle
rotte della transumanza di questi pastori semi-nomadi. Il lavoro di
camionista che faceva lo portava a battere le rotte dalla Nigeria
fino a posti misteriosi. Come misteriosa era la leggenda dello
spirito di vendetta che anima questo popolo nomade e guerriero
che appare nelle città civilizzate, uccide chi ha travolto con una
macchina o una jeep o un camion uno di loro, una sposa, un
fratello, un capo di bestiame nell’entroterra arido e torrido.
E allora una parola cominciò a ronzare nelle orecchie di Matteo:
Africa, Africa, Africa nera, Africa colorata, Africa. Continente che
conserva nelle viscere i primordi dei primi passi dell’uomo,
continente percorso per mille anni da un esercito di mercanti
bianchi e di schiavisti arabi, portoghesi, spagnoli, inglesi, francesi,
olandesi, benedetti con bolla papale da Santa Romana Chiesa,
colonialisti di un tempo, rigenerati nei rapaci capitalisti moderni,
continente mutilato nel corpo e nell’anima, continente emigrato in
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La dea compensatrice
altri continenti.
Ora Matteo non voleva trovarsi in quel letto di cura; si sentiva
addosso una carica di energia infinita, pensò di vestirsi e uscire.
Era un trucco che giocava la sua fantasia che galoppava con
Hemingway nelle verdi colline d’Africa contro il cielo della savana.
Smise un attimo di pensare e di colpo tornò a Romano che con la
sua arte di divertirsi e di far divertire aveva trovato delle sue
motivazioni per rimanere così a lungo in quei posti.
Un giorno gli arrivò una telefonata. Era Romano che si trovava a
casa e gli chiedeva di incontrarsi.
Solita ora, soliti posti, stesse risate.
“Ho passato un anno incredibile” disse Romano “tra puttane di
ogni tipo, bevute, viaggi su piste polverose per quasi tutta l’Africa
centrale, dal Kenia al Senegal fino a nord nel Sahara, e ho anche
guadagnato parecchio.
A volte abbiamo messo di mezzo dei negri, appioppandogli
orologi fasulli, gioielli falsi, frigoriferi che si sarebbero rotti dopo
pochi mesi, e loro come se la ridevano a prenderla nel di dietro!”
Matteo ebbe un attimo di turbamento. Allibito, non riusciva a
guardare il suo amico negli occhi. Farfugliò qualcosa che Romano
non capì ma lui si rese conto che non gli importava nulla.
Continuava con suoi discorsi, rimarcando un disprezzo
insopportabile per quella gente.
Matteo evidentemente non aveva capito il suo amico negli anni
precedenti oppure era cambiato. A quel punto il pudore di Matteo
si fece da parte e fissò negli occhi Romano e disse con veemenza:
“Gli africani sono neri, non negri. Nigger è un termine
dispregiativo! E poi godi a fregarli?”
“Quante storie fai per un termine e per delle piccole truffe, e poi è
proprio vero: è gente arretrata, selvaggia, che ha meritato quello
che gli è capitato e merita quello che noi bianchi gli stiamo
facendo.”
“Ma non hai un amico e collega nero?”
“Sì ma lui è un bianco di testa e vorrebbe essere nato in occidente,
con la pelle bianca, perché è razza dominante.”
“Te sei fuori di testa o peggio sei un razzista!”
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La dea compensatrice
La disputa rischiava di degenerare e dopo altre frasi pesanti
Matteo girò i tacchi e se ne andò. Non si sarebbero più rivisti.
Rimase alcune ore a pensare, combattuto tra delusione e rabbia,
dando dei giudizi severi sulla sua incapacità di soppesare in tempo
quella persona. Ma sarebbe stato possibile?
“Succede che ti accontenti di un’amicizia superficiale” concluse
Matteo.
Tuttavia elaborò oltre il suo ragionamento. La povertà di Romano
aveva radici profonde anche in famiglia. In quella casa dove era
stato, aveva visto la miseria che si faceva odore di cose stantie, di
sudiciume, di arte dell’arrangiarsi, con il padre che detestava il
lavoro e la madre dolente rassegnata a quel destino di
sottoproletariato.
Nel caldo africano Romano era diventato un misero, pronto a
trovare deboli da sottomettere, incapace di sviluppare una sorta di
emancipazione condivisa con altri, visti solo come compari o
vittime da spolpare, in una tremenda lotta tra poveri.
D’un tratto si ricordò della morte di Romano e inciampò in una
profonda malinconia, nonostante il loro ultimo e definitivo
incontro. Era deceduto nel deserto libico - “Ma cosa ci faceva in
Libia?” - in uno strano incidente in pieno giorno, nel camion col
suo compagno di lavoro o di chi sa che cosa. Rimaneva solo
un’assicurazione sulla vita, poche decine di milioni, che
l’assicurazione non pagò mai alla famiglia per una clausola scritta
in piccolo che nessuno sapeva esistere.
Matteo si sentiva scontento, inadeguato.
Il candore della stanza lo invogliò a prendere il lenzuolo per
nasconderci sotto la testa. Si rannicchiò in posizione fetale, segno
di evidenti paure ancestrali; riannodò verso di sé quel filo di idee
che gli era uscito di getto e che lo aveva ficcato in un labirinto
insolubile. Voleva dormire e sognare: “Nei sogni ci si può fare
anche male, ma non una goccia di sangue vero ti esce dal corpo”.
Infermieri discreti, di lì a poco, gli avrebbero sparecchiato e tolto
tutto, senza disturbarlo.
Ma non riusciva ad addormentarsi; più ci provava e più si ritrovava
con gli occhi spalancati.
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La dea compensatrice
Un vortice di volti gli affollava la mente, gli pareva di ascoltare
anche i suoni di quelle voci, indistinte le parole. Chi era che voleva
comunicare con lui? Non certo ectoplasmi da sedute spiritiche, ma
anime inquiete. Ce l’avevano con lui? Qualcosa gli disse che non
era così e si tranquillizzò.
Era sudato sotto le lenzuola ed era come fosse immerso nel caldo
umido di quella notte di agosto, alcuni anni prima.
BARATTOLI DI SANGUE
Quella piazzetta si nascondeva alla strada dove ancora passavano
auto e biciclette frettolose, gelosa della sua quiete, così in
contrasto con le sue gambe che non riuscivano a trovare una
posizione per riposarsi nei calzoni madidi dell’afa notturna.
Pochi metri dividevano due mondi: una chiesa settecentesca e la
casa di Patrizia.
La chiesa e i palazzi che la circondavano riportavano alla memoria
di Matteo i tratti architettonici di certi angoli di Roma, la Roma dei
papi, scossa dai fremiti delle idee libere dei lumi; poi cubi di
porfido, mura giallastre o rosse di terra, chiazze chiare, sfumate,
segni di gesso, stucchi deformi ai bordi di enormi finestre, scritte
di nomi, date e sopra tutto il cielo nero.
“Come può uno scoglio arginare il mare, le discese ardite e le
risalite” canticchiava a bassa voce, per far passare il tempo.
Patrizia gli aveva promesso che alle undici, dopo cena, sarebbe
scesa e gli avrebbe detto le cose che attendeva di sapere da quella
telefonata così importante e così difficile da ottenere. Gli aveva
chiesto di non salire, non era importante il perché.
Quante ore erano passate? Oramai era cominciato il conto alla
rovescia verso l’alba. Il bianco angosciante che aggrediva il buio
della notte dilatava i suoni dei più piccoli rumori che di solito sono
sommersi.
Matteo si era addormentato su quella seggiola di plastica che un
bar aveva lasciato fuori, coi tacchi sulla conca di terracotta che in
fila con altre formava una sorta di barriera alla piazzetta; alle spalle
la fontana col faccione di pietra, senza acqua, unica fonte
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La dea compensatrice
comunque di fresco. Si destò che il buio stava sparendo.
Patrizia non era venuta. “Dove avrà passato la notte?” si chiese
Matteo. In quella casa conviveva con Paolo, possibile che non ci
fosse nessuno? O forse non volevano aprirgli?
Che storia strana era stata quella tra loro tre.
Matteo e Patrizia si erano conosciuti dopo la Maturità e si erano
subito piaciuti, innamorati. C’era anche una forte attrazione fisica,
anche se per tutti e due erano le prime esperienze sessuali, di
quelle che hanno una dose di curiosità, di pudore. Per Patrizia fu
veramente la prima esperienza completa, mentre Matteo si dava
arie di esperto amatore. Era vero in parte.
Prevaleva comunque in lui quell’egoismo tipico del maschio,
dettato dall’inesperienza ma anche da residui inconsci del ruolo
che il suo genere si trovava ad ereditare da secoli di culture che
ancora dovevano prendere la via del tramonto.
Passata la fase del convincimento, Patrizia si appassionò molto a
fare l’amore tacendo tuttavia il raggiungimento dell’orgasmo, se
non contemporaneo con quello di Matteo, almeno per sé. Matteo
era così sprovveduto, egocentrico per tutti i motivi detti, che non
si curava di quest’aspetto; lo avrebbe apprezzato in seguito. In
fondo era un generoso.
Le loro esperienze si alternavano tra militanza, azioni ribelli e
rischiose, con pause di amore in case di altri, in cantine fredde, nei
pochi giorni che si consumavano come un bicchier di vino in
campeggi d’estate nelle isole dell’arcipelago davanti alla costa,
citate da Dante e da Dumas.
D’inverno i giorni liberi dagli impegni si snocciolavano ai tavoli di
baretti popolari con compagni labronici o pisani, bevendo ponce
al mandarino o coretti “al rumme”.
Due cose di Matteo e una di Patrizia decisero per loro la fine di
quel rapporto.
Da una parte il sempre più intenso impegno nell’attivismo
politico, unito con la sua facilità di avere ragazze disponibili ad
andare a letto, lo portarono verso la routine con Patrizia, che
cominciava anche a non condividere molto di quella sorta di
furore giacobino di Matteo.
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La dea compensatrice
Dall’altra c’era la voglia di lei di stabilizzarsi nel rapporto con un
uomo. Matteo la squilibrava, la rendeva nevrotica, le faceva fare
cose controvoglia, trascurando i molti interessi che non poteva
coltivare, e forse lei aveva già percepito che un ciclo decennale
straordinario stava per spengersi. Patrizia poi era una bella ragazza
che non passava inosservata e tanti le facevano una corte discreta
perché tutti conoscevano Matteo. Aveva forme ben distribuite,
proporzionate, un sorriso coinvolgente, un’ingenua e non voluta
carica erotica dovuta alla bocca carnosa e alla voce profonda, alla
mancanza di ritrosia unita ad un’affabilità che poteva
involontariamente generare equivoci.
Uno in particolare, Paolo, tra gli amici, era evidentemente attratto.
Aveva i capelli chiari, folti e riccioluti, faccia pulita, un accenno di
basette, gli occhi chiari, le scarpe da ginnastica, più alto di me, dal
carattere mite e riservato, attento studioso, ponderato nei
ragionamenti. Matteo ne aveva grande rispetto e forse un po’ lo
temeva.
Si era accorto che silenziosamente era attratto da Patrizia e lei non
lo respingeva.
Ci furono molti strappi tra Matteo e Patrizia che le toppe non
riuscivano più a eliminare, dovendo sempre rappezzare le stesse.
Un giorno gli raccontò, in un confronto serrato, che aveva passato
una notte a letto con lui, che era stata una notte di passione, di
godimento reciproco, di allegria erotica consumata
completamente.
A Matteo non crollò il mondo. Più che altro sentì una sorta di lesa
maestà, rabbia, paura di sputtanamento, dimenticandosi delle
molte volte che lui lo aveva fatto con altre e che Patrizia aveva
sopportato, non sempre in silenzio. Si lasciarono e fu inevitabile il
sodalizio con Paolo.
Matteo continuò a vederli per gli impegni comuni. Si rapportava a
loro con invidia, non con rimpianto. Passò un periodo che mentre
scopava con una ragazza, per raggiungere l’orgasmo, doveva
pensare a loro due.
La voglia di Matteo di poter rifare l’amore con Patrizia durò
molto.
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La dea compensatrice
Quando tornò, in un giorno caldo d’estate da un lungo periodo di
assenza, passato in regime quasi militare, senza svaghi, si concesse
una tordellata annaffiata con molto vino locale. Era mezzo
ubriaco e tirò fino all’alba. Poi telefonò a Patrizia e la convinse a
venire ad un appuntamento. Andarono in giro con la macchina e
finirono in un campo vicino ad una vigna. Davanti ad un alba
calda e umida, che odorava di menta e niepita, si presero con una
passione a loro sconosciuta e godettero assieme.
Parlarono pochissimo e si salutarono con un tenero bacio. Fu il
vero epilogo della loro storia e l’inizio di un’altra non più ambigua,
matura, adulta. L’intelligenza di Patrizia ricucì l’amicizia tra Matteo
e Paolo e loro tre formarono un’unione che passava sopra
convenzioni ancora radicate in tutti gli strati sociali.
La ritrovò alcuni giorni dopo davanti al portone della facoltà.
Gli disse che quella sera la telefonata non era arrivata e che il
giorno dopo aveva saputo quello che aspettava.
“Vedi le cose sono terribilmente complicate” gli confidò, senza
dilungarsi troppo su Paolo. Già, Paolo, che amava Patrizia,
ricambiato. Sapeva, nonostante l’amicizia, che Matteo si sarebbe
fatto prendere da quella sua strana gelosia. Era ancora innamorato
di lei? O c’era solamente la voglia di fare del sesso?
“Senti” disse lei “dall’ambiente dei tossici è arrivata solo
un’indicazione e basta: Sassoscritto, dottor Fiaccabruni. Paolo è
qualche giorno che non si fa vivo; mi preoccupa.” Parlò in modo
stringato che rivelava dal tono una richiesta di aiuto che Matteo
non avrebbe rifiutato.
Cercò un telefono e trovò una cabina immersa nel caldo; infilò la
carta e sbagliò tre volte nel battere i tasti dei numeri. Allora si
accorse di essere bagnato di sudore. Dopo quattro tentativi sentì la
voce di Paolo.
Fissarono un appuntamento per il giorno dopo, la mattina presto.
Lui e Paolo avevano una verità da scoprire per la vita spezzata
troppo presto del loro amico Francesco, il compagno di tanti anni
di lotte. Un’ansia di ricerca spasmodica li univa, nonostante
Patrizia. Bisognava dare un senso proprio alla vita e alla morte di
Francesco, che stava già morendo, lentamente, per la malattia dei
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La dea compensatrice
tossici che lo aveva colpito non sapevano quando.
Perché lo avevano ucciso fracassandogli la testa? Perché qualcuno
aveva voluto anticipare la sua morte? Chi l’aveva organizzata e
messa in atto?
Alle sette e mezzo Paolo arrivò con la sua bici e montò sulla
macchina di Matteo, senza dire niente.
Uscirono dalla città senza intoppi. Le strade erano libere dal
traffico e la mattina fresca rendeva le loro menti leggere, pronte.
Matteo non voleva rompere il ghiaccio e tra sé pensava:
“Straordinario come somigli più ad uno studente fuori corso che
ad un medico impiegato in una struttura pubblica. Apprezzo la
sua scelta di rimanere a lavorare all’università. Tutti e tre siamo
nati nello stesso capoluogo di provincia e più che i chilometri ci
avevano diviso in quegli anni i nostri sogni ed i nostri amori.”
Che strano che un amore comune li avesse riavvicinati: Patrizia.
Oggi lo strano omicidio di Francesco li stava rilegando come un
libro a fascicoli.
Entrando nel paesino di Sassoscritto, circa 280 metri sopra il
livello del mare, si erano lasciati alle spalle due ore di viaggio, muti.
Dalla zona dell’università la strada da percorrere si inoltrava
nell’interno tra colline dolci, dune di verde e di giallo, come
fossero gobbe di cammello o dromedari, a seconda della
frequenza con cui si inarcavano verso il cielo; anche l’asfalto
obbediva a quei saliscendi.
I pochi alberi non rendevano riparo alle greggi di pecore che si
erano perciò aggiaccate immobili sui pendii meno ripidi.
Pochissime auto incrociarono la loro e il suo incedere ovattato
costringeva fagiani reali ed altre specie di uccelli a rapidi
ripiegamenti verso il ciglio erboso, incolto o verso un gruppo di
cespugli che circondavano i rari alberi di alto fusto. Di tanto in
tanto la via disegnava curve a gomito o si faceva ponte per passare
sopra un rivolo d’acqua sofferente che tagliava il ciottolato grigio
raccolto tra due argini solitari.
Lì la macchina doveva rallentare e ciò permetteva ai due di vedere
decine di lucertole e ramarri muoversi rapidi e inquietanti.
Questo paesaggio si interruppe quasi di colpo e prese le
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La dea compensatrice
sembianze di un altro mondo. Tubi enormi e lucidi che
sprigionavano lampi di sole si inerpicavano sulle colline più basse
fino alle cime di quelle più alte, attraversando piccoli boschi e
avvallamenti o disegnando ellissi sopra la strada, e loro sotto.
Spesso da alcuni terminali uscivano sbuffi bianchi e l’aria odorava
di uova marce.
Arrivati al punto più alto potevano avere la visione di insieme: le
valli erano percorse da quelle vene d’acciaio, un vero e proprio
sistema circolatorio a cui mancava il cuore.
Uomini invisibili regolavano gli sbuffi dei soffioni boraciferi, forse
anche loro, pur dominandola, avevano paura di quell’energia delle
viscere terrestri e così stavano nascosti, al riparo, al sicuro.
Parcheggiare a Sassoscritto non era stato difficile.
Il caldo era aumentato e l’umidità era ancora fastidiosa.
Matteo notò subito un numero esagerato di cipressi; alberi che di
solito seguono linee geometriche crescevano lì alla rinfusa, senza
quell’ordine che li caratterizza. Anche quei due si sentivano fuori
posto: gli occhi di un gruppo di uomini vecchi non li lasciavano
mai. Ma dovevano chiedere per forza un’informazione a qualcuno:
“Sapete dove abita il dottor Fiaccabruni?”
Questo medico era stato una delle ultime persone ad aver visto
Francesco vivo.
Il dottore avrebbe dovuto trovarsi a Sassoscritto in quel periodo
dato che era in ferie e che i genitori, di origine istriana, gli avevano
lasciato in eredità la piccola casa nel paese.
Matteo voleva anche chiedere le origini del nome del paesello e
mentre si faceva coraggio avvicinandosi ad un uomo seduto
nell’ombra, inciampò in un barattolo di birra contorto che fece un
rumore seguito dall’improvviso silenzio delle cicale.
Tenendo i muscoli della gamba in tensione per non cadere si
ritrovò vicino ad una lapide, o meglio ad un cippo con una larga
base, senza targhe o scritte. Sulla cima era posto, maestoso, un
sasso grigio, rotondo, levigato, perfetto. Si avvicinò a passo svelto
ed ebbe la risposta: venature nere e marroni percorrevano la parte
esposta, queste venature erano un pentagramma su cui, scolpite ad
arte, posavano alcune note.
33
La dea compensatrice
La casa del dottor Fiaccabruni si trovava nella parte estrema del
paese, che si affacciava sulla valle, guardando il mare che si intuiva
in lontananza per i profumi che arrivavano, sotto la macchia
mediterranea.
Partendo da una fontanella all’ombra di tre cipressi bisognava
risalire la strada principale che poi si divideva a forbice;
percorrendola, sia da destra che da sinistra, si finiva per tornare al
punto di partenza. Dunque la casa del dottore era all’apogeo di
quell’orbita.
Le altre abitazioni nel mezzo erano come un blocco unico e si
presentavano compatte; tutte le strade partivano da un punto e
ritornavano a quello: cerchi concentrici. Percorso il semicerchio
della strada si trovarono alla casa.
Davanti all’ingresso ci si poteva sedere su di un muretto che era
completamente esposto al sole.
Dalla valle risaliva una brezza che portava gli odori del mare.
Quel paese non era un borgo medievale: le case erano basse e le
stesse pietre, i colori, la luce, la chiese, con una Madonna di gesso
bianco su uno sfondo blu, testimoniavano altre origini.
Tutto evocava un antico rifugio di pirati o un insediamento di una
comunità con radici marinare.
Dopo che furono ricevuti, si accomodarono nel salotto del
dottore.
La vecchia signora che gli aveva aperto tornò con un vassoio
d’argento ed una bella bottiglia di cristallo con due piccoli
bicchieri.
“Anisette” disse “se gradite”, poi sparì dietro la porta di legno
scuro.
La credenza era brutta e ingombrante e toglieva spazio alla stanza;
dai vetri del mobile pendevano delle tendine che sembravano
centrini da tavola e le sedie gracili rendevano ancora più scomoda
la loro attesa.
Il dottor Fiaccabruni fece il suo ingresso nella sala circa mezzora
dopo il loro arrivo. Non si scusò del ritardo e non sembrò
incuriosito della loro presenza.
34
La dea compensatrice
“Strano” pensò Matteo.
Il dottore era un tipo alto, con la testa piccola, tonda; dietro gli
occhiali due occhietti cattivi sovrastavano un paio di baffetti.
Prima che dalla sua bocca, quasi priva di labbra, uscissero delle
parole, Matteo fu preso da senso di disagio e di angoscia.
Contribuiva a questo stato d’animo il fatto che la persona era
vestita in modo strano: portava uno di quei maglioni aperti davanti
che si possono chiudere con una fila di bottoni, ai piedi un paio di
pantofole e l’insieme era comunque fuori stagione.
Il contrasto con il caldo opprimente di quell’estate era ancora più
accentuato dalla freddezza che emanava la figura del dottore:
pallida e allungata.
Ci volle un po’ di tempo per mettere giù tutte le carte. Paolo era
ciarliero e accattivante e la cosa infastidiva Matteo.
Nel corso delle domande e delle risposte l’uomo non manifestò
alcun segno di insofferenza.
Non ci fu quell’incontro incalzante come era nelle previsioni.
Ma Cristo! Per quella persona non poteva trattarsi di un giorno
normale: due sconosciuti piombano a casa sua e gli fanno delle
domande su Francesco, uno dei suoi pazienti, chiedono delle
ultime cure, domandano, a volte sono insistenti di fronte a certe
reticenze, giustificate dal segreto professionale, chiedono di una
persona uccisa, vogliono sapere degli ultimi giorni, cercano
qualcosa e mai ricevono una risposta fuori tono, mai un cenno
sgarbato; solo i gesti rapidi per togliersi il fastidio delle mosche.
Non si fece coinvolgere emotivamente, mai.
“Vedete, Francesco era malato, ho cercato di assisterlo per
rendergli la fine meno penosa” questo era il suo ritornello. Solo
ogni tanto, guardando il riflesso del sole sulla bottiglia di cristallo
pronunciava delle domande: “Ma voi come avete saputo di me?” e
poi: “Come sapevate che ero il medico di Francesco?” Si capiva
che poco gli importava della risposta, tuttavia, dietro le lenti,
Matteo coglieva dei lampi di odio dissimulati dal corpo rigido.
“Francesco era una persona sola, l’ho sempre conosciuto così”.
Freddo e dimesso! Che strano binomio! Il dottor Fiaccabruni era
35
La dea compensatrice
fuori del tempo; per loro era una delle ultime persone che aveva
visto il loro amico vivo.
Capirono però che non avrebbe detto nulla di più e il tentativo di
fare un po’ di luce sugli ultimi anni di vita di Francesco era andato
a vuoto.
Il sole stava tramontando e allungava le ombre in quella stanza
priva di odori.
Il dottore li congedò sulla porta, si tolse gli occhiali e cercò il cielo.
Fu allora che mostrò due occhi vitrei, annacquati, di un colore
indefinibile, gonfi e sporgenti: erano gli occhi di una persona
malata.
In un attimo capì quello che i due amici stavano osservando e con
un gesto di sfida inforcò di nuovo gli occhiali.
Paolo e Matteo mangiarono in un piccolo bar di Sassoscritto pieno
di mosche e quest’ultimo fu contento nell’apprendere che il suo
amico era sulla sua stessa lunghezza d’onda, che aveva provato le
stesse sensazioni, che aveva elaborato i suoi stessi giudizi,
maturato gli stessi dubbi.
Matteo dimenticò quell’atteggiamento ciarliero e accattivante che
aveva avuto Paolo e il cattivo umore sparì; si stavano lasciando
Sassoscritto alle spalle.
Mentre guidava gli venne voglia di parlare di Patrizia; forse stava
aspettando Paolo per la cena.
Provò gelosia e decise che non valeva la pena di sprecare parole.
Questo loro “indagare” gli sembrò senza senso e si domandava se
era più importante comunque la ricerca di una verità o il prendere
atto di un fallimento. Si salutarono affettuosamente. Paolo inforcò
la bicicletta e l’eterno studente scomparve dietro una curva e un
sorriso lo accompagnò silenziosamente.
Alcuni giorni dopo era prevista una manifestazione e Matteo si
incontrò con Patrizia. Il corteo era lungo e partecipato, con
striscioni, bandiere e slogan. Si lottava per mantenere il potere
d’acquisto dei salari e degli stipendi. Era passato un decennio
duro, contraddittorio, di dedizione quasi totale e alla metà del
nuovo pesavano come macigni i fatti privati irrisolti, precari.
Patrizia era informata sulla visita a Sassoscritto.
36
La dea compensatrice
“Non mi pare che abbiamo concluso molto, come temo che non
concluderemo molto con queste manifestazioni. Il clima è
cambiato! Lo perderemo nelle urne questo scontro!” esordì
Matteo.
“Il solito nostalgico dei bei tempi!”
“Ma ci stanno rimangiando tutte le conquiste! Ci manca che ci
tolgano anche lo statuto dei lavoratori.”
“L’importante è provarci, con la lotta, con la testardaggine. Io
sono incazzata!” disse Patrizia.
Le donne parlano meno degli uomini che si deprimono
nell’imminenza delle sconfitte. Nelle fasi di sconforto sono più
determinate, ragionano meglio.
“Intanto dobbiamo tentare di capire cosa è successo a Francesco,
per dio!”
“Ma non sappiamo nulla delle indagini ufficiali?” chiese Matteo.
“Le indagini ufficiali, le indagini ufficiali! Ma ancora credi alla
Befana?”
“Già! Lo hanno classificato come regolamento di conti nel mondo
dello spaccio. Uno sgarro. Indagini chiuse, dopo un procedimento
contro ignoti! Facciano come vogliono” disse Matteo mentre si
stava completamente estraniando dalla rabbia del corteo.
“Quando il corteo finisce andiamo a casa mia, c’è Paolo che
aspetta.”
“Anche me?”
“Non fare lo scemo, che non sei, dobbiamo riflettere.”
Percorrendo le strade del centro storico medievale, che in Matteo
suscitavano sempre il buonumore vista la sua passione per la
storia, arrivarono a casa.
Dopo svariati minuti di silenzio, davanti ai piatti vuoti degli
spaghetti aglio, olio e peperoncino, cominciarono a parlare tutti e
tre quasi contemporaneamente. Allora risero di gusto.
Patrizia si era alzata e, come suo solito, si mise ritta davanti alla
libreria, scorrendo i titoli dei libri.
E fu allora che scattò la scintilla.
Tirò fuori un libro consumato, prova che era stato letto molte
volte, studiato da molti.
37
La dea compensatrice
Era un libro sull’esperienza rivoluzionaria del Black Panther Party
for Self-Defense e lo buttò sul divano dove si erano seduti lui e
Paolo.
“Ho avuto un’intuizione.”
Matteo lo prese tra le mani cominciando a sfogliarlo. Paolo non
capiva.
Patrizia e Matteo si guardarono. Si erano sempre capiti al volo.
Avvicinandosi con la testa sulle pagine del libro arrivarono al
capitolo cercato: pag. 189 - Come l’FBI e il sig. Hoover
sconfissero le Black Panther - “Dopo aver utilizzato l’assassinio
sistematico dei militanti, uccisi anche nei propri letti accanto a
mogli e figli, l’infiltrazione di agenti provocatori, passarono
all’introduzione massiccia di eroina nei quartieri neri, dove il
consenso al Black Power era radicato.”
“In questo ingranaggio potrebbe essere rimasto impantanato uno
come Francesco” disse Matteo e Patrizia continuò: “È una cosa
che avevamo già detto e analizzato. Che stupidi a non averci
pensato prima!”
“Va bene, ma questo che significa, cosa possono fare tre sfigati
come noi?” esordì Paolo.
“Tutto e niente!” replicò Patrizia. “Francesco era in bilico fra una
scelta radicale di lotta e un rinchiudersi nel suo personale. Vi
ricordate?”
“Che poi abbia scelto il suo personale è fuori dubbio” disse
Matteo.
L’eroina come uno dei grimaldelli per entrare dentro una
generazione e fiaccarla, ricattarla, sottrarla alla lotta.
Qualcuno doveva pagarla. Tutti e tre si convinsero di questo.
Una ragazza minuta, emaciata, vestita con un poncho
sudamericano di alpaca, si accomodò a sedere nell’anticamera del
dottor Fiaccabruni in una giornata fredda di gennaio. Il locale era
disadorno con poca luce e pervaso da uno sgradevole odore di
cose stantie.
La ragazza si chiamava Rachele ed era una studentessa fuori corso
che campava con vari lavori al nero. Qualcuno dal Sud le mandava
38
La dea compensatrice
qualcosa per mantenersi agli studi, ogni mese sempre meno.
“Si accomodi” e la introdusse nell’ambulatorio.
Fu la prima di una lunga serie di visite che contribuirono, non
senza un certo atteggiamento intrigante, a stabilire un rapporto tra
Rachele e il Fiaccabruni. La morbosità dell’uomo era palpabile, ma
Rachele sapeva il fatto suo.
La ragazza si voleva disintossicare, così pregò il dottore di aiutarla.
Oltre a questo Rachele cominciò a metterlo al corrente delle sue
terribili condizioni economiche, dei pericoli di sfratto, dei soldi
che le mancavano per tutto e della sua paura che i suoi potessero
scoprire la verità della sua miserevole condizione.
“Ci potrebbe essere una soluzione” sussurrò, guardando la
ragazza di sottecchi coi suoi occhi vitrei, gonfi e malati. Rachele lo
fissò con i suoi occhi neri, determinati. Si era decisa ad assumere
quell’atteggiamento perché alcune volte l’aveva palpata, le si era
avvicinato ansimante, non come un cane voglioso ma con la
lascività propria di chi è incline alla dissolutezza nei rapporti con
gli altri e con se stesso, fatta di atti di libidine sessuale.
“Fiaccabruni, di sesso non se ne parla!”
Dopo svariati tentativi il dottore tirò fuori quello che pensava
fosse l’asso nella manica.
“Ti mando in un posto, basta tu faccia una donazione di sangue
senza tanti formalismi, in tutta discrezione. Non hai malattie gravi
e sei in via di disintossicarti del tutto.”
Rachele corse verso una casa che conosceva bene.
Abbracciò Patrizia, Paolo e Matteo e piansero sciogliendo così la
tensione che li attanagliava da mesi, succhiando loro dosi
industriali di adrenalina.
Quella piccola ragazza, pazza e coraggiosa aveva concluso un
piano progettato assieme ai nostri tre.
Aveva amato Francesco per tanti anni, fin da quando si erano
conosciuti durante una lezione di architettura.
“Ne è valsa la pena? Abbiamo rischiato molto!”
Ma si sentivano come quando combattevano negli anni passati,
forse più astrattamente, ma con gli stessi rischi e le stesse paure,
39
La dea compensatrice
vinti dalla determinazione che sentivano recuperata.
Nel giro di pochi giorni si mise in moto tutta una rete di legali e di
associazioni, ben oliata, che consentì l’irruzione delle forze
ufficiali, ora costrette, in quell’edificio indicato da Fiaccabruni a
Rachele.
I mandanti erano coloro che avevano da tempo pianificato la
distribuzione dell’eroina con lo stesso fine che si era dato decenni
prima il signor Hoover, capo dell’FBI, i manovali erano camorristi,
appartenenti a cosche della criminalità organizzata.
Su questa strada si era sviluppato poi un infame commercio di
sangue per cliniche, ospedali, industrie farmaceutiche.
Il ruolo del dottor Fiaccabruni non era stato marginale nella
vicenda. Confessò e fece nomi di illustri persone, complici, vittime
e carnefici.
Il loro amico Francesco era finito in quella storia di miserie, di
ricatti e di tanti soldi, di pentimenti e di vite vendute e comprate a
barattoli di sangue; un folle commercio all’ombra della Torre
pendente più famosa del mondo.
Francesco voleva farla finita con quel gioco, aveva avuto uno
scatto di dignità ma qualcuno arrivò prima a tappargli la bocca.
Si seppe anche che nelle sue tasche fu rinvenuto un biglietto con
scritti i nomi di Patrizia, Paolo e il suo con qualcosa che
assomigliava ad una partitura di un pezzo musicale che le pieghe
consumate del foglio rendevano incomprensibile.
I quattro amici stavano guardando il fiume che scorreva sotto di
loro da un ponte.
La giornata era riscaldata da un bel sole e tutti insieme decisero di
festeggiare quella piccola vittoria rimboccandosi le maniche in un
gesto simbolico che testimoniava la loro coscienza di andare
comunque incontro ad anni difficili.
EPILOGO
Aveva sognato? Era tutto accaduto anni prima? Matteo si rese
conto che a volte la mente può filtrare le cose, ma i volti di tutte
quelle persone erano e resteranno reali.
40
La dea compensatrice
A quel punto credette che reale fosse anche quella che ai piedi del
letto si ergeva in tutta la sua severità: era la Nemesi, la dea greca
riparatrice, artefice degli avvenimenti che Matteo aveva ripescato
nella sua memoria e che coinvolgevano uomini e donne semplici,
suoi amici.
La Nemesi si era fatta tedesca, irlandese, africana, e tanto ancora.
FINE
Note
**Nelle tradizioni irlandesi i Túatha Dé Danann furono il quinto dei
sei popoli preistorici che invasero e colonizzarono l’Irlanda prima dei Gaeli.
Le molte leggende che riguardano i Túatha Dé Danann, tramandate dai
manoscritti irlandesi, permettono di intravedervi alla base i residui di
antiche teogonie.
Provenivano da lontane isole boreali, dove si erano istruiti nella sapienza e
nelle discipline druidiche.
Sbarcati in Irlanda, diedero fuoco alle loro navi in modo che non avessero più
la tentazione di tornare indietro. Poiché dalle navi che bruciavano si levavano
alte colonne di fumo, dice il cronista, in seguito si disse che i Túatha Dé
Danann fossero venuti dal cielo su quelle nubi di fumo.
L’Irlanda a quel tempo era popolata dai Fir Bolg. Essi si scontrarono con i
Túatha Dé Danann in quella che fu la prima battaglia di Mag Tuired
(contea di Mayo). I Túatha Dé Danann vinsero ed i Fir Bolg furono costretti
a cedere loro la sovranità sull’Irlanda. Fu così che i Túatha Dé Danann
dovettero scontrarsi con i Fomor nella seconda battaglia di Mag Tuired
(questa volta nella contea di *Sligo).
I Túatha Dé Danann imposero così il loro regno sull’Irlanda e i loro sovrani
furono ricordati nella successione dei Re Supremi. Mantennero il regno per
molto tempo, finché non giunsero dall’Iberia i Figli di Míl, gli antenati dei
celti Gaeli. Costoro riuscirono a sbarcare in Irlanda nonostante gli incantesimi
messi in atto dai Túatha Dé Danann nel tentativo di tenerli lontani e
41
La dea compensatrice
sconfissero questi ultimi nella battaglia di Óenach Taillten. Sconfitti, i
Túatha Dé Danann accettarono di lasciare il dominio dell’Irlanda ai nuovi
venuti e si ritirarono a vivere nel sottosuolo dell’isola e dentro le colline fatate,
dove da allora condussero un’esistenza felice e immortale, trasformandosi nel
folklore in creature soprannaturali.
42
La dea compensatrice
Ballata del porto che aspetta
Un porto che aspetta
e aspetterà
calato in un umido posto
di sera.
Il pescatore ubriaco solleva la canna
sorride all’amo beffato
al verme ormai morto.
Che importa;
bastan gli odori
e quest’aria salata
e i gabbiani impazziti;
l’inverno quest’anno durerà più di prima.
Perché al fine la notizia è arrivata.
Come un coro di madri dolenti
le sirene han suonato.
Tre volte han suonato.
Bagnano la banchina
le lacrime del pescatore ubriaco
per i ricordi di avventure lontane
e di donne perdute sul nero marino.
E anch’io piango.
Mancherà questa sera
la bella allegria di amici in partenza
nel porto che aspetta.
Chissà quanto dura un secondo?
E uno schianto che uccide?
Quel porto?
Qualcuno lo avvisi!
È inutile ancora aspettare.
Un’auto impazzita
43
La dea compensatrice
li ha costretti a fermarsi
vicino al porto che aspetta.
In quel porto
ombre cinesi
riflessi di luci ancorate
che tagliano il nero marino
che si gonfia di chiglie giganti,
sirene ossessive
ossessivi silenzi
acqua salata.
Lei non arriverà.
44
La dea compensatrice
Il giunco del Nilo
Alta, dritta e sottile
sei come
il giunco del Nilo,
flessibile.
Simbolo di una docilità
che è solo apparente
le sue radici son forti
e salde alla terra fangosa.
Tu unisci la forza alla grazia.
Sei come il giunco del Nilo
che invano
il caldo scirocco
la schiena ti vuole piegare,
la faccia nel fango sporcare:
ma ad un tratto rinuncia.
Con sfida
il tuo fusto
torna a svettare.
Non più ostile,
bensì piacer procurato
è ora
quell’aria che attorno borbotta.
E sei nella vita.
E sei nella terra.
Dolce femmina ribelle.
Accompagnata dal vento
45
La dea compensatrice
cominci le note che si rincorrono
nel sole
nella luna
nei boschi
dove Botticelli ti ha dipinto
come la Primavera
e qualcuno ti battezzò
col nome di florea serta.
Il tuo strumento ideale
rapito mi fermo ad ascoltare
quel suono fecondo
pare uscire da una bocca
profumata di miele
e da mani infinite.
46
La dea compensatrice
Notte di San Lorenzo
Quando gli uomini, le donne e i bambini
guardano con occhi smarriti
il cielo della notte di S. Lorenzo
dove brillano le stelle a milioni
e il chiarore della mezza luna calante
allunga le ombre di alberi
su prati secchi
ancora caldi del sole d’agosto,
allora figlia
rinasci nel mio cuore.
Quella notte
scandisce il tuo tempo
ed io ti sussurro:
“Figlia, hai un anno di più.”
47
La dea compensatrice
Là, dov’è casa mia
Non abito più là, dov’è casa mia.
Immagino così di ascoltare
tra i mattoni delle note stanze
le voci familiari
che rimbalzano
si rincorrono
accompagnano silenzi.
Sono le compagne di tanti giorni,
di tanti anni.
Periodi d’amore e di tenerezze,
di duri scontri
di cure
di complicità
di allegri giochi
di consigli paterni
di doveri coniugali
di fughe
di sorrisi
di gelidi distacchi
di arguzie intellettuali.
Cosa c’è ora
là, dov’è casa mia?
Inutile lasciarsi andare ai rimpianti
e compatirsi.
Il rombo di un Tir
riporta la realtà.
Là, dov’è casa mia
il mattino continua ad entrare
filtrando tra i rami degli alberi
allungando le ombre sui lunghi campi
48
La dea compensatrice
con i crinali dei monti
sentinelle del verde
per anni ed anni
ed anni ancora.
Solo quelle linee resteranno
assieme alla terra.
Tutto il resto passerà
e la malinconia si stempera
sul profilo di mia figlia
che abita ancora
là, dov’è casa mia.
49
La dea compensatrice
Madrigale
Conoscete una donna
battezzata Patrizia?
Non porta la gonna
e ha negli occhi mestizia.
Inciampa la vita
con affanno quotidiano
frutto di una risalita,
derivato ormai lontano.
Sono fatti già accaduti
che tormentano le mani.
Son le facce dei perduti
che han sgualcito i suoi divani.
Sono i figli sconosciuti
che l’abbracciano alla sera
con strapazzo, allegri e muti,
ché la sanno donna vera.
Oh! Già la vedo
altera e fiera
guardare il mondo a primavera
sventolando una bandiera.
50
La dea compensatrice
Spiagge della Versilia
Ti sei massacrata
con le tue mani
con il tuo cervello,
per nascondere le notti insonni,
pazze e scellerate,
alcoliche
o anche per conservare intatta
agli occhi di tutti
la tua esile figura
di donna francese
dinamica
e a volte bella,
sempre da odorare.
Non hai mai voluto dare niente a nessuno
o forse a poche persone
e avevi ragione.
Nascosta ti vedo,
nelle bettole o nei gran bar,
viverti addosso l’amore
di tutta una gente
o forse di una sola persona, una donna,
che usciva e giocava solo con te.
Ma il vino è maestro,
è regista
è poeta maledetto
e sa raccontarti
di un mondo fantastico
di suoni,
colori ora accesi
ora fiochi.
Ma il vino non abita mai
così a lungo
51
La dea compensatrice
nelle vene, dimora di sangue.
Vi scorre così
per andare a cercare,
morboso e invadente
il cervello
che è ansioso di forte veleno.
E come un uomo
che picchia una donna
mettendola a nudo
e al disprezzo
col ghigno bestiale
di un bruto
davanti alla gente
scacciandola a calci
svestita
da un posto che prima era caldo,
così il vino ti lascia
col sonno
da sola
con altre persone con cui devi tacere.
Ogni tanto una clinica buona
e i denti se cascano
si possono sempre rifare
nuovi
perfetti.
Il profumo francese
l’erre francese
tua madre francese
il senso degli affari e un marito affermato
son cose che ancora ti legano.
Mi ha sempre stupito
Il tuo rifiuto del mare.
Ti vedo
52
La dea compensatrice
angosciata
con gli occhi smarriti
pieni di terrore
spaventata che gli altri possano
anche un solo attimo
capire chi sei.
53
La dea compensatrice
Si può
Si può fraintendere tutto
scambiare un bacio di una donna
per un invito a fare l’amore.
L’amore per una donna no,
lo puoi solo perdere.
54
La dea compensatrice
Insonnia
Qualche cosa
oltre me
sembra occupare
il mio udito.
Di notte
è il fischio del treno?
Del vento?
O il rintocco di una campana?
55
La dea compensatrice
Haiku occidentali
Risottino ai funghi
che richiede troppo vino
rigettato.
Ho sognato un serpente a sonagli.
Provvidenziale mi sveglia
il merlo parlante in cucina.
Il tubare di un piccione al mattino.
Respiro profondo
cerco di dormire e non ci riesco.
Calcio a portone per tenerlo aperto
torna indietro
e si chiude di nuovo.
Tutto ok
amore a mille
disperazione che sale.
Strada fangosa di campagna in salita
in un giorno di pioggia
affondo e vado indietro.
Piazza di città
con pozzanghere ghiacciate
giovane cane ha freddo e scivola.
Birra e vodka
dormendo male
mi scoprono un ginocchio rotto.
Lancio una sfida impossibile
56
La dea compensatrice
mi ritrovo
solo e diffidato.
Gli haiku, che ho conosciuto leggendo Kerouac, anche quelli giapponesi - che
sono rigidi nella loro composizione (numero di sillabe, sequenza delle tre righe)
parlano in modo semplice delle piccole cose, delle situazioni più o meno
animate e sono composizioni con inizio, corpo e conclusione. Nello Zen le cose
sono tutte animate (non l’animismo africano) e anche un sasso o una
montagna vivono e si integrano con l’uomo e con il divino. Nello scrivere
haiku sono stato ispirato dal periodo buddista della beat generation.
57
La dea compensatrice
La fine della buona novella
Gesù scoppiò.
Dalla croce
Disse:
“Mi avete rotto
i santissimi.”
Maria
gran santa
cercò
di riportarlo
alla ragione.
Continuò:
“Non avete mai
letto i salmi
e tutte
le profezie.
È nel Vecchio
il luogo
dove il Nuovo
attinge
il sapere.
Il vostro
cervello
si è sempre
di tutto
dimenticato.
Assomiglia
allo sguazzare
lento e inebetito
58
La dea compensatrice
di un cigno
in un lago.
59
La dea compensatrice
Loro Ciuffenna
Tra luglio e agosto
c’è un tempo dedicato
a Loro Ciuffenna.
Fronte alta
simbolo di antico splendore.
Ora ci basta
attizzare
una dotta disputa.
Siam liguri
o etruschi?
E penso ai miei avi
ai miei morti.
Ho il cuore leggero
se loro
sono con me.
60
La dea compensatrice
Luna piena
Stasera luna piena,
enorme,
gigantesca,
rossastra,
pacifica
che tutti sovrasta, vivi e morti,
infelici e contenti; sorda
ai frastuoni delle genti,
dei rombi potenti,
dei gridi di dolore, delle urla di gioia, delle bombe,
dei bambini
che piano piangono
su petti scarnificati, impotenti…
Ma la Luna
è creatura di Dio?
61
La dea compensatrice
Origini
Ancora è tempo di scrivere
fissare con segni indelebili
immagini interne.
La retina all’occhio
fornisce il fissante
lo scorrere spocchio
è solo una serie viandante
di armonici quadri
ognuno a se stante
già preda di profetici ladri.
Scolpire la pietra
pochi colpi
dipingersi il volto
pochi tratti
interrogare il volo di aquile
pochi gesti.
Tuffarsi nell’acqua a cercare l’origine
immergersi nel vento
nel soffio di un’anima errante.
62
La dea compensatrice
In memoria di R. F.
Papaveri rossi, orgogliosi e irriverenti,
fioriscono estivi sulla carreggiata
dove povere erbe campano di stenti
e il treno di fianco sovrasta la massicciata
sfrecciando in direzione opposta alla mia
che piango guidando verso nuvole gonfie
verso visi sorridenti dall’alto, odorosi di famiglia
rassicuranti nelle loro tranquille follie
assopite nel tempo senza limiti
degli spazi infiniti di colloqui
finalmente possibili e acquisiti
tra padre e figlio incomprensibili qui.
Eterni, immortali, proficui lassù
con me che aspetto la meta
dopo aver superato il tabù
dell’anima dura e priva di pieta.
Fratello sei a casa in forma di cenere.
La mia rabbia è finita.
63
SOMMARIO
7
43
45
47
48
50
51
54
55
56
58
60
61
62
63
La dea compensatrice
Ballata del porto che aspetta
Il giunco del Nilo
Notte di San Lorenzo
Là, dov’è casa mia
Madrigale
Spiagge della Versilia
Si può
Insonnia
Haiku occidentali
La fine della buona novella
Loro Ciuffenna
Luna piena
Origini
In memoria di R.F.
Prima Edizione
Luglio 2012