021. Uischionderòs per il maestro L`uischionderòs è la specialità
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021. Uischionderòs per il maestro L`uischionderòs è la specialità
021. Uischionderòs per il maestro L’uischionderòs è la specialità innata che istruisce tutti i bar di Brazzaga a partire dall’alba, e sono in tanti dall’epigrafe asciutta. E li distingue dal resto del mondo che ce li sgolosa brancolando d’invidia, nei gargarozzi giù in guardia, le strozze secche, le chiappe strette... Benché ciascun bellimbusto lo sappia vestire d’una taglia moderna, ed io parlo applicato, io sto parecchio sul tipico e intendo brillanza se c’è la maniera. Anche il mio cavallo s’intende. Il beveraggio l’allego dal varco della spina, che di resti al mondo ne basta uno buono. E sono in tante persino queste abitudini a morire sfatate sul marmo, la mancia commette giramondi. Solo che i bravi spillari lo liquidano d’un bozzo annegato a marroni e Chiambretti, amici miei, nel Mincio lento dell’ansa. Quel gingillare manopole raro e gentile che ogni vinaio, povero re, si porta come un mantello da barman sotto al grembiule. E povero è anche il cavallo. Un solco appena sdrucito alle volte basta per rincuorarlo, non c’impressiona la commedia delle gonne stirate, quello che sembrano smaniare di sordido. Perché siamo gente elettrica noi del mestiere, accendi e spegni con una cannuccia. Per beato lavoro, ma anche per amore, io su tutti, il discorsivo non m’adombra. Come una pronuncia balzana, una Madonna bruna sullo specchio da signora, da signorina a prescindere, col numero scritto di spigolo per cognizione. Il mio. Di spigoli intendo, che il numero è sempre Mosè. Una bandiera discesa dall’autobus dei giapponesi tutti chinati al Padre Pio dietro la porta, ispirati come cicogne, eretta ombrellino da posa. La bandiera… dico, che il santo sta riformato nel gesso. Un accento lazzaro che risorge dalla discarica a piedi palmati, miracolo della ventura in fuga. Ma i piedi sono poi tutti ugualitari, è la psicosi del gruppo a condannarli. E galoppano da molto, molto più lontano, sui barconi a motore tesi di baccani smarriti, e un Caronte da tuffi che ne spunta cornacchie. Un particolare odore lo ravvita a se stesso, talmente violento lì nel mezzo da ritrarsi bistecca in un bosco d’erbaggi, colorito perenne nella testa corsara. A guardarci fitto non gli storni nemmeno le lische. 213 Testa spazzolata nel branco, la nostra, ma così ben riservata che uno direbbe è pazzo a smanettare la sbroda in quell’argento brunito. E invece no, è solo un uomo promosso a barista, il progresso che sbranda sirene, e ci mette un ghiacciolo in grani il somaro da palle. 1 Anche se imbecille sarebbe forse più educata come testa in tinta nel vino… quando quelli più grossi non c’è nemmeno bisogno del brindisi per vederli pescare alle cave una volta al mese. Fanno la corsa. E mi ci calzo anch’io che sto pur seduto sulla sdraio in vimini e li biasimo, i birilli in palude, li striscio di largo. Ma io sono alto, io parlo supremo. Uno è biondo, un altro ha il gipielle in frigo… Io sono alto. Percentuali da farci i romanzi sotto i caschi a carbone, da infornarci i cannelloni con gli asterischi sull’elsa. Solo che a casa mia stanno bene con i funghi da branda, i cannelloni. Anche la Marika… sta bene coi funghi intendo, che poi preferisce il divano. Aringhe sedotte da malati d’amore, sapete, quei dottori smilzi che sognano infermi e poi spiccano cartoline usate ai Caraibi per curarsi il poco ritegno, un riscontro sul fegato… Zigulì da mercante! Avrebbero fatto meglio a dissodare la Bibbia invece del vispo Leopardi. Chi non ama d’amore sofferto? È come l’amaro atteso dal pasto, il rododendro di Salomone trotterellato sul filo del tango… Trentatré cortei di chierici reggiani in missione a Rimini per frequentare la mossa… e dovevano invece tatuarselo altrove quell’Elwood da nocca, a leopardi persiani. Ve lo dico poi dopo dove. Mogano, come cicogne stremate da polente di manna… e il gatto Silvano sulle ginocchia… Stronzo. Ma il barista è un deficiente, fidatevi, quello che dice va preso con le bolle. Per fortuna io sto maiuscolo nel servizio e in quanto tale sono astenuto dai gas di risalto, io m’illumino a ore. Ora tuttavia non vorrei sconvolgermi nel mangiaebevi delle sette, sette e un quarto. Io svetto le spanne comuni e mi attendo d’erudire un esercizio libero, per esporre le cose che sono soltanto, come meritano di farsi dare. E quando poi sembra che siano così ma non siamo proprio sicuri lì nel boccale, state certi che sotto sotto qualcosa di buono ce l’hanno ancora da fermentare. Un triangolo isoscele in primis, ho studiato da prete. Perché non si può ragionare solo di figa e pallone… anche i baristi hanno un’anima in voga. E se invece sembra che non si parli d’altro, figa, è la volta buona allora che c’è davvero qualcosa. Poi il fatto curioso, malgrado tutte le voci, è che nessuno di noi sa veramente cosa ci stia sotto. Nell’uischionderòs intendo, non sotto 1 Uno con le orecchie lunghe che a forza di sentire vaccate al banco tende di conseguenza a scoglionare, e poi s’infila bustine sospette nel tè perché il chinotto era finito presto, così, giusto per la mossa. E la curiosità non può che essere gonna stipata di sotto, una tramaglia grossa di straccio. Cfr. A. Huxley Il Mondo Nuovo, romanzo del 1932, Mondadori 2007. 214 le gonne a pallone, anche se i sospetti sono già di coppia, i Negroni s’involano… i digiuni m’ingombrano... Meglio un barista alto che un domani sui gomiti, dicerie di magazzino, un barista sotto scialle che una borsina di lumache. Meglio un barista sul cuscino che una barba da Babbo Natale per il compleanno, poi non sai mai quando metterla. Eppure ogni gestore è tenuto ad appicciarlo sul menù al tavolo come uno scotch da basetta… l’onderòs, non la barba di Natale che ha l’elastico giallo. È la regola… sulle lavagne zoccole, le cartine a rendere... Anche lì sull’attenti, contraffatto in cima alle clavicole delle cameriere divelte al gusto del mare, trappole in balia d’un molare che ne decanta il sangue oltre allo stomaco, un sangue che vale. Poi spanzano come tedesche nel sacco a pelo, ma per ora mantengono tono. E noi, così effimeri, non si vive che di ore sulla china del giorno. Perché un tempo non troppo impreciso, anche nella tarda mattinata d’oggi che è quasi una festa, qualora il cielo svoltasse salnitro, o per incolta imprudenza, il potassio in banane mendaci, banane di faccia, potrebbe anche passare il maestro dalla mia umile cruna, il nostro ma soprattutto il suo maestro. E coombrici… che poi dicono solo figa e pallone… uischionderòs è quanto egli soltanto ordinerebbe. Nessuno oltre a lui s’è mai industriato così tanto oltre i fumaioli dell’umanesimo classico, verso i caselli d’uno Spirito che per quanto in soluzione mista, che per quanto sensibile al cucchiaino, ci ripiega tutti al vento della prammatica isoscele, un vento di blues. Ed io sto di lodi silenti, assoluto, assuefatto, non m’acconcio alla rima volgare. I misteri del cosmo li scrutava invece in occhiali da rogito lui, da vicino, col naso calato nei rigatoni difficili. Maestro mica da poco. Il solo Diomede una volta ha osato montare riserve di cattedra, ma è svenuto sbattendo la rucola, Odino che squadri i pagliai con il diesis e poi ridi... Quasi come dal pergamo di Penelope, bugigattolo patrizio nei pruneti d’Arabia. Forse troppo assetato da quell’idea che stava per consumarsi sotto gli occhi di tutti, oasi dal talamo affollato, così matura e prospera… purtroppo incompresa in un taglio da cameriera sgualcita. I suoi baffi farisei non seppero resistere all’eco del Philips, troppo pastorizzati nel latte e biscotti per ritrarsi da questo convegno di fate briganti, di Sfingi gattare. Bertazzoni, vedi… se è impossibile, è impossibile. Quattro… come i carburatori dell’Alfa platonica, come gli stomaci di sua moglie vacca. Giovenca, diamola via che fa classe. Quattro. Come i guardiani a cavallo dell’ultima soglia, i begliuomini al 215 soldo d’un finale apocalittico. Quattro, come i Quattro dell’Ave Maria pieni di grazia, che li danno stasera sul diciannove. 2 Poi hanno guadato la sorte cameriera anche i suoi quattrocchi da panchina, l’hanno sorvegliata germogliare di battuta in ribattuta lungo la linea bianca, di salsiccia in porchetta, ma lui niente, e alla fine s’è dato alla pesca. Pensare ch’era un tesoro… anche se non ha mai sviolinato troppo l’odore dell’incenso. Quattro, Bertazzoni, come le colonne in stile, le stagioni dell’amore, le giornate di Napoli, i passi al parco. Figurarsi la temperanza, misura galeotta imposta dal pulpito senza sapere né dove si va, né come si fa. Ma cosa concilia sotto la tonaca il bisesto? …che uno si chiede cosa serva stare al mondo se deve fare anche a meno di vivere. Solo figa e pallone, poi dicono. Articoli refrattari se n’è visti al banco, tangheri, rappresentati d’Abruzzo… E ce li abbiamo avuti anche qui da noi i vati destrorsi, marsicani che abbaiavano à la folie Bergère. Ma dediti al suo destino come lui… a parte Garibaldi e Moana che in quanto eccedenti non fanno una vera regola, nessuno. Appunto, e lo dico io, nes-su-no. E mi chiedono allora chi sia mai questo campione che s’alza in tavola spinato dal turno, naviglio reso al pasteggio arido, pulce sull’acqua estinta, solo per mettere alla prova l’orecchio. Un po’ di ruggine grattata via dal cliente viziato come una fuga ante litteram, ante messe di scorcio. Che poi è lì solo per la figa e il pallone, il cliente morello, mica per la brezza stillata nel mio caffè. Il pallone… più che quell’altra. Per testare il gusto d’una ciuinga con la cartina gialla, di 2 Il barista ovviamente ricorda solo l’antifona delle quattro salutatio angelica più popolari, perdoniamolo insieme recitandole quattro volte. 1. L’Ave Maria di Arcadelt, (elaborazione del 1842 eseguita da Pierre-Louis Dietsch di Nous voyons que les hommes, una chanson a tre voci composta appunto da Arcadelt nel 1554, la quarta era di briscola). 2. L’Ave Maria di Schubert (prendi una canzone con una melodia leziosa, Ellens Gesang III: Hymne an die Jungfrau, magari estratta da una polenta in quartine di W. Scott, e ci metti un quarto di Battiato, ma così erano capaci anche i funghi). 3. L’Ave Maria di Gounod (dal I preludio del Clavicembalo ben temperato di Bach, e se è già temprato per quarti, noi che si fa il jazz sovversivo?). 4. L’Ave Maria del dj Luigino Celestino Di Agostino, detto Gigi D'Agostino o Gigi Dag, pioniere della Mediterranean progressive modulata sulla quarta corda. Aggiunta improvvisa del C.d.T. Ad essere morti precisi ci sono poi in fila anche alcuni compositori quaternari del panorama sacro, i vari Liszt, Verdi, Bruckner, Puccini, Rossini, Mercadante e Rachmaninov prima e dopo l’Ottobre. Anche i musicanti di Brema, quattro animalisti che si credevano i Beatles. Allora quattro come il berillio in tavola, Bertazzoni vedi, il maiale, i cardinali a punti. Gente da gazzosino al tavolo, da latte in bianco... Quello che tuttavia sorprende, almeno chi ha seguito a dottrina, è che non compare nessun arcangelo nemmeno tra gli auguri. E ho guardato bene anche i mottetti polifonici, i vari Palestrina, Victoria, Desprez… perché con certi accidenti da poenitentiam agite, appropinquabit enim regnum caelorum, non si sa mai come comportarsi… ma bene bene. Nessun arcangelo. Veramente neanche un Peter coniglio… un Salvatore sì, quello c’è sempre, ma nessun arcangelo. Cfr. La collina degli stivali, di G. Colizzi, Italia 1969, western-commedia, durata 99 min. 216 quelle ch’era una vita… come i boleri bianchi, le mazurche, la dolce Marianna… sua cugina più asprigna… Per sfregare il mento della cameriera fino al tempo che ci vuole per convolare tombola, d’ambo in quaterna ladra, fino al tempo che ci serve per sdraiarla in gondola. Ma il barista fino pulisce e basta, la rima lo sguattera. Fino al tempo che ci manca per rimetterla poi a sedere di corsa la Ricciolina, e tutti a casa depravati immondi… per lisciarle poi la coda con un poco di mancia. Che prima o dopo… Sì, sì, ma quando? Al solito… e me lo chiedono abbastanza. Del maestro intendo, il nostro ma soprattutto il suo. Anche il mio cavallo s’intende. Il poco tempo che ci manca l’ho confidato invece all’Indovino, così non diventano scemi più del solito a pensarci e quando arriva il momento è un bell’orizzonte da mettere in conto al tavolo. Ma ancora una volta purtroppo, e mi scuso diretto, senza una replica degna da segnalare a governo, senza una frollata quadrumane da rimembrarsi in fronte, una patatina singola e spuria, due tramezze dall’incastro frugale. Sempre del maestro intendo, che sulle cameriere d’equivoci ne gonfiano a valanga. E sin qui s’è fatta gastronomia con gli amaretti, signorine care, con le sue brave vongole in tinta e le mostarde a tocchetti. E al buon intenditore non gli si può servire che un tortello equilibrato, non fosse per il burro. Ma veniamo a ciò che c’interessa davvero. A me intendo, mica al cliente passito che pensa alla gonna ma liscia la palla, si scalda le palle in un palmo di mano, o villano… Perché i palloni, per quelli veri, ci vogliono i piedi buoni… e i coglioni. Ma noi solo palmeti. Le prime segnalazioni che lo ritraggono rincarano quei tempi conformati alle sorti del dopoguerra a ramino, quando si narra fosse calato sul banco dell’unico bar allora sulla piazza, pioniere dal carico leso. Il protobar, mica lui… che tra l’altro non portava offerte private e gli veniva una piccola. A lui s’intende, che il bar ne contava altre due. Esponendo furtivo, lui mica il bar, direi nientemeno andaluso, sempre lui che il bar stava di corso, l’insolita commessa. Anche se il colore sbiadito degli anni può imbestialire i sentimenti più raccolti e un po’ di livello non guasterebbe alla rispondenza del fusto. E sopiamoci tutti allora. Solo che il barista espresso, un Bertellini col manico di Parma, uno dal canovaccio immondo secondo quanto si disse allora e lo si riprova anche adesso, pare gli abbia riso in faccia. Copriti o cielo… arieti giù per la finestra... Difatti non si seppe mai più niente di lui e delle sue basette sguince, nulla. Dalla sera dopo alla tarda mattinata quando mi alzo io. Bartolini? Quello delle cucine a vapore? dicevamo noi con la testa in bombola, quello dei gatti insaccati nel diversivo? Lo sapevamo benissimo chi era, signorine belle, ma il terrore di finire vestiti con la stessa maglietta a rombi… figa, era insopportabile. 217 Il bar fu rilevato in settimana da una cosca di reggiolesi illibati e il menù fu completato da un bell’uischionderòs dal carattere corsivo per farlo venire fuori alla Calciolari, o per fargli spuntare i baffi da bersagliera, non si può dire. E poi col pennarello rosso che stava in amicizia, faceva più tettine d’assalto, più compagni roditori. Siam pur sempre animali dritti. Fu scritto in fretta e col cappuccio abbassato, trotskysta come mia nonna, ma andava ancora bene a quei tempi in cui bastava un fischio per evocare le bombe, i tempi della fortuna in chiacchiere domate a figa e pallone nel bar. Tempi di quando la palla però era sgonfia, ma uno se la sognava lo stesso rotolare su e giù per la schiena, per la branda... Anche quell’altra. Poi salta fuori che l’egizio vuole farsi barista… Eh… sono sempre i primi che si servono di barba e Paola. Arrivano lì, fanno i segnaposti istruiti, si lavano con la saponetta da signora, da signorina a prescindere, e si divertono pure a sguazzarci in angolo. Coglioni. Mentre agli altri, loro mica la Paola che si munge un Ferrari ma se lo merita tutto, solo gazzose ricordo, olive con la carota, un bel colpo al cesso, uno sulla stufa… Per tanto si cercasse negli anni di pedinarlo a baldanze legali, dopo averlo ispezionato mentre trangugiava il suo impasto corsivo, a volte di cedrata e pompelmo rosa in fogli del dodici… e lo fioccavo io che sporto regolare… il pompelmo rosa, mica il dodici… altre volte di Martini, gin e frutti di mare sciroppati, altre ancora di chinotto e Zabov con una spuma di noce muschiata sulle ciliege, un pelo di cannella sbrindellata nel Cynar a far da reagente emotivo… un amore d’anice di contrappunto alle acciughe… Niente, non si riusciva a capire dove potesse albergare. Lui, mica il Contrappunto che di solito angolava la Mirka. Ci s’inseminava dalle parti della chiesa nuova, sul sellino del cimitero, bevuti per osmosi oculistica sì, ma dispersi a casa nostra. Ribollirono nugoli di leggende che lo volevano ora discendere da una stirpe di vampiri rumeni in viaggio con la riserva longobarda, ora invece essere figlio illustrissimo d’un già praticante don Curato, a sua volta postero di Attila il barman. Personaggio per molti sbarbato, il don mica l’Attila, sebbene non fino al punto di vantare una bazza più lesta di lui. Come l’Attila intendo, che a cavalli però lo stracciava. Secondo una fantasia dell’amico Asmodeo invece il maestro andava in chiesa per confessarsi. Che lo facesse o meno poi non sapeva dire, in fondo ciascuno fa come si sente più logico sotto al tabarro di martora. A uno gli tira la Mirka, a un altro la Marika… Ma quel che conta alla fine sono le ragioni, gli uno più uno dal mazzo che un uomo arriva ad estrarsi in cantina. Non si vive di soli pistacchi… E poi passava al cimitero per ossequiare qualche parente degenere, per arrotare i denti ancora sporgenti, una sorpresa per la serata al 218 manipolo... Insieme alla cameriera per cui s’era innalzato d’anticipo, mica col don che sa di piede a martello, un flagello per il granturco. Per quanto la sua ristretta logica potrebbe anche pedalarsi in un mondo ideale, sul sellino del nostro Natale, tutti belli stirati con la camicia in banca… Solo chiacchiere da lavandaia... Noi si viaggia a calzini arrotati dietro una palla, signori, noi si vanga a calzoni calati sotto una gonna. E il gusto ci viene su con la rincorsa. Poi, ma che bel giorno di pioggia sottile, il maestro apparve in un bar Bocciofila stravaccato nel silenzio etilico… sferiche melodie di riva c’imbeavano la sacra cinghia. Mica come oggi che ramazzano su la tombola e uno non si può nemmeno redimere un poco. Allora si scopava ruvido nei bagni, sapete, negli angoli sporchi intendo, ma in tranquillità per non molestare la polvere. S’era fatto uomo da barba e il silenzio gli stava proprio di comodo. Si sedette al tavolo ed iniziò la scoppola. Ruminava le mani come un sultano gioie, piroscafi di modi smaniati… ma senza esagerare coi toni lustri che poi dicevano è fin troppo culattone. E sapeva parlare davvero ai nostri cuori affranti per sollevarli di gamba, per risvegliare quel poco di fiducia da perdere ancora, domani... Un cartolaio senza scimmie in giardino. Non ricordava più da quanto tempo fosse maestro, né cosa avesse fatto per diventarlo, adesso che ci pensava. Andiamo bene si dissero gl’infausti. Coglioni. Mica poteva sapere tutto lui, per quanto avesse inalato la grammatica dal calamaio. E l’inchiostro non mente mai sull’etichetta. Anche la cameriera ne avrebbe bisogno… di verità dico, mica d’etichetta che gliela smorzo poi io col latino macchiato. Sì… secondo la declinazione orizzontale estratta da un parchimetro giallo doppio malto. Tutti quanti da sempre se lo filavano maestro e gli chiedevano consigli utili sulla seminagione, per restare a cavallo donato, sul campeggio festivo e sul mercato del Mantova. Coglioni. Qualcuno anche sulle donne da corsa, bravi, i nastri variopinti da infilarsi al posto delle stringhe, perché non a tutti piacciono nere. Le scorciatoie dell’universo, dico, mica le donne che vanno bene anche a zebre di mare, vanno bene anche tostate nel blu di Comodo, in tenda, schiumate nei tanga, rigate nel biondo Leopardi... Va bene anche la Giorgia, guarda, perché la donna è comoda di suadenza. Sua madre lo aveva iscritto alle magistrali per fargli avere un senso detraibile sulle dita, dita amatoriali, dita medie. Visto però che era già maestro da tempo, lui preferiva andare al fiume a contemplare le ragazze, e chiamalo Asdrubale... Un po’ anche le zebre. Poi vennero l’inquinamento della Bonifica, l’ambo e i pescisiluro, ma lui ne illustrò i rimedi ai sindaci se non si voleva rimanere in mutande bucate per niente. E infatti di ragazze nude non se ne videro più per i campi, ma 219 neanche le zebre. Coglioni. I sindaci intendo, mica i campi che han già fin troppo da perdere tra le gambe. Quando poi ti fanno passare la voglia del doposcuola, puoi spostare le lavagne, ma non c’entra più niente nei loro mondi. Angoli con la coda comandata a manetta, anche quella che resta a stirarsi sotto le gonne. Quella che va allo stadio di venerdì perché non ha mai gradito le folle promiscue, le ascelle pesanti, solo guardoni. I guardalinee, i guardaspalle, qualche guarda qua da portare a caccia nel sacchetto di carta. Poi però si guarda solo l’erba crescere e si va al bar a dinoccolare medie. Proseguì la propria carriera didattica istruendo il granturco ad accogliere le povere immigrate indiane, tra parenti ce la possono fare diceva, e a proteggerle quando c’erano i rastrellamenti di carattere. Ricordo gli spagnoli di Cortéz, o digestione appoggiami, i nordisti di Custer… una scorza di limone d’Olanda… i Carabinieri più pallidi che si fossero mai visti a cavallo d’un piloro. Proprio come i tedeschi che abbronzati lo sono davvero di rado e ci rimangono quasi sempre qua. Erano i Settanta, allorché molti esercenti innamorati del giardinaggio estremo ricevettero dal maestro informazioni vitali sulla coltivazione al coperto. Centinaia di serre d’ogni porzione e taglia crebbero allora come i funghi nei boschi, i licheni non so dove… mai saputo. Il luppolo di contorno lo facevamo liofilizzare dalle ragazze. Qualcuna fu effettivamente impostata a fungaia da riproduzione, le serre mica le fate, a barbiere da Babbi Natale, che non sanno mai dove andare dopo Capodanno. Nessuno pensa più ai Babbi Natale quando arriva la cameriera e ci si fuma la testa, non importa se è befana. Poca roba, le serre intendo, che la cameriera ha una quinta elementare e un gatto Silvano sulle ginocchia... Stronzo. Venivano su anche gli asparagi bianchi… «Solo granate per uso personale» si diceva, delle indiane mica dei germogli d’asparago… sapete, la linguetta… e ciò malgrado tutto fu la nostra unica fortuna. Come coi tedeschi. In seguito divenne l’istruttore occulto del generale Martinelli. E qui si deve introdurre una lezione di tattica, che non esiste solo la figa e il pallone, amici miei, e bisogna ribadirlo. Sì, uno annota… c’è anche l’Alfetta. Ma quello è il già dato sulle ruote, non conta come merito. Più apprezzabile è invece l’idea della conquista, la donna che le manca il di sotto e va attanagliata dal pensiero che c’è sempre un piedistallo vigile, un Napoleone d’angolo con l’indice in tempera, uno che vorrebbe provare a far l’assessore almeno una volta della sua stretta vita… l’assassino a Cluedo… ma si rende conto che da solo il gioco non risulterebbe poi così bello. Gli occorre qualcuno disposto ad allagare le brande, ad aizzare le gonne, che non provi fastidio della sanguinella e si commuova per i calzini accomodati nel vino. 220 Qualcuno che lanci i dadi per lui e urli come un toast americano in carica quando lo spremi a rapporto, qualcuno che poi ripulisca anche le briciole. Gli occorre una muta di canguri pronti a farsi affettare per la gloria del panettiere al banco, a farsi arrembare per la barba del canottiere al largo, la faccia del pasticcere al pero… un esercito in bottiglia. Ci si può diventare campioni del porto a zangolare svelti. Afflitto dal delirio manicheo, il milite ormai noto si raccomanda allora alla statistica del bianco e nero ed elegge una prescelta su misura, un merlo dalla retina larga che sappia pure tirare un discreto fischio. O catechizzi questa minestra con tutto il suo bel formaggino sciolto, o stai dietro la ginestra. Va bene anche la lavagna come castigo, ma poi succede che ci si vizia a guardare troppo la signorina dal di dietro e si viene su astemi… gran brutta gente. Sempre che non la s’infesti col basilico, la ginestra in fioretto, mica la signorina di strada che è meglio riaccompagnarla fino a casa per scoraggiare un poco l’aglio… che comunque tiene a bada i vermi. E quelli possono sempre dare fastidio alle corna se uno ci pensa troppo a sufficienza. Possono mandarti a puttane un esercito in fila, imbottigliato tutto in una volta. Per dirla sul breve, i compagni concepirono un piano per non rimanere mai a corto di sementi da calare sulla fascia, che trovò eco sui muri dei bar, gli specchi dei bar, nei cessi dei bar, sulle pagine di chissà quante aspettative verniciate nei bar… di sopra, di sotto, nelle cabine gialle davanti ai bar, fino ad incidersi sui tronchi degli alberi in grosse cifre uniformi e ben stirate nei giardini allestiti poco lontano dai bar, così uno esce se ha da vomitare e li legge con comodo. Sortilegi per far sbocciare capitani da fiocina e cartoline sagomate, targhette con la freccia stupita, tanghi d’alta medaglia, tutto materiale da rivoltarsi i Sargassi. Il resto del mondo da allora gira lo stesso. Esportatori di mancia sempiterna che ci fanno sentire più sollevati, il generale e il maestro, il nostro ma soprattutto il suo, come i tedeschi su Londra, gli americani a Bear River, gli spagnoli a Potonchan. I Carabinieri invece, non so, mettono un po’ più di soggezione… e mi prende piuttosto la smania d’arruolarmi ai tavoli una poliziotta, che le majorettes non le fanno già più con gli stivali. Si tratterebbe di fare il bene di tutti, e si porta pure in sacca un discreto manganese… sempre meglio del borsello. E la femmina vichinga a quelle cose lì ci bada. Questo è il segreto che ogni amministrazione vorrebbe fare proprio per garantirsi uno stuolo di guardalinee al passo, altroché autoscuole. E invece devono pagarle dalla prima all’ultima, in fila. Altrimenti noi che siamo tutti sindaci in questi casi di mangime, ci mettiamo a fare propaganda presso le mogli con le foto segnaletiche, le etichette anonime dalla schiuma laccata e li mettiamo in ginocchio. 221 I clienti ingrati, mica le mogli che in ginocchio ci stanno di casa fin da piccole… e il gatto Silvano sopra… Sì, sì… da quando l’orizzonte ne ha indovinato l’ora esatta sul calendario declinato al muro. Stronzi. Il generale Martinelli è scoppiato in Vietnam qualche estate fa. La passione per i bravi fanciulli non l’ha mai abbandonato nonostante le innumerevoli accademie navali fondate, le picchiate nei camini. Lui direbbe affondate, ma l’affetto a sostegno virile non è un ordigno accertabile sulle nostre sponde maltagliate, e qua noi siamo curiosi, figa, noi abbiamo i tetti adunchi. Il suo cuore bombarolo non ha retto all’impostura birraia e… BUM! …come una Pepsi! Ma era piccola, figuriamoci nella media… I brazzaghesi non devono aversi a male però. Un nuovo generale Martinelli era già pronto a sostituirlo per non avere sorprese durante i fine settimana più macchinosi. Che poi resta il Montenegro in bocca e non solo le regine, quando a uno s’è detto che gli tira la Marika e l’altro c’ha il gipielle in frigo. Bastava solo infilarsi la barba di Natale con l’elastico giallo. Partite pure di notte per il fresco presunto, mettendo in mostra l’intelligenza più scaltra a dispaccio chiamato. Così vi trovate intronati tra amici da casello a casello, e gli amici sono come i tesori, ci si fa il barbecue a Ferragosto, ci si sbrandano le mogli con i funghi in trifola, nei motti a trottola… mentre il maestro, il nostro ma soprattutto il suo, rimbalza a Cortina da un pezzo furioso. Sì, sì… questa l’ho rubata all’Indovino, ma mi si scusi. L’aria era viziata di serie, il fuso sbiellava in cappotta, la gatta ribolliva a sedile, e la tipetta in gondola, quella… era proprio d’ora perfetta. Mogano, figa, come le cicogne usate. Il maestro parlava intarsiato senza eccedere d’una sola virgola sull’asfalto, né sudare per il caldo torrido d’un deserto di Venere che se ne stava a bituminare tutto cesellato lassù, amici attenti, sul verde ramarro. Mentre a noi non ci fregava proprio un bel niente, visto che scontavamo la giornata di riposo stappati nei nostri agili braghini. Di venerdì cassintegrato, dico, mica del maestro che stava in canotta. Ma nemmeno per gli sguardi languidi di Lucia Sganzerla faceva una messa in piega, la sola ed unica Lucia Sganzerla d’allora… madre di quella Lucia Sganzerla che è venuta ora a spumeggiarci la cena… e infatti adesso ce ne sono due da schermire in gita. Questa invece era una prova di grande forza da esibire in un bar di fanatici della buona minestra. Perché lei se ne intendeva d’angoli bellici e metodi punici, d’ossi sacri e di sciroppi scaldati a pavimento. Avrebbe fatto bollire la Kamchatka sul Risiko, una piscina olimpionica coi pinguini sul bordo. Anche il mio cavallo, s’intende. L’uischionderòs era invece intatto nel bicchiere di cristallo e il maestro ne investigava il fondo. Era tutto rotondo nel suo far di fondo. Lui, dico, mica il fondo. Come se stesse 222 aspettando, sempre lui, il momento per dischiudere chissà cosa sul tavolo, il suo bel cuore gagliardo forse. Una verità che gli sfuggiva da una vita cruda d’enigmi, e parlo tabascato... Il coraggio di svelare qualcosa che avrebbe potuto sbottonarci dalla giornata inutile o farci capire un po’ come cazzo ci pareva. A ciascuno il suo, dico. Un lampione da sera può aprire orizzonti con la maniglia giusta. E proseguì il racconto. Un giorno aveva scorto per la strada un ragazzo dal moto villano, uno da quattro canotti come le uova spirate nei cellophane, come le ruote d’una Wolkswagen a panettoni, senza un futuro di schiena, di plancia, in procinto di partire per quel ramo del Mar Rosso che volgeva alla ricerca di se stesso, o un po’ come cazzo gli pareva anche a lui... Ma quel che rattristava, noi quanto lui, era il controfagotto indefinibile issato sulle spalle, figa, e il talento in tasca. Coglione. Avrebbe trovato solo sultane e muraglie d’acqua, gli disse, che non sembra ma fanno male al benessere della pelle. Meglio un tamburello, dai… più leggiadro. Si chiamava Mosè, ma da quel giorno fu noto a tutti come il cembalo maschio di Brazzaga, colui che non t’aspetteresti mai al campanello di casa, ma neanche dal camino con la slitta, perchè non ci passa. Il leopardo rianimato dalla pelliccia ricca di voglie e dalla pellaccia ricca di zelo, in particolar modo al lunedì, si dedicò dunque alla cura del ritmo. Ogni casalinga graziata dalle sue successioni dovrebbe oggi celebrare il maestro di tutti noi, ma soprattutto il suo. 3 E intanto che è di strada, portargli anche un po’ di luganega per le tagliatelle. Per diverso tempo ha poi addestrato i soprabiti del campionato di calcio su come applicare la zona morta di mano, come appendersi al chiodo, sul controspionaggio di rimessa nei paraggi della trequarti, affinché nel caso non avessero scovato una panchina da riscaldare in campo, non finissero drogati su quelle del parco. Da chi credete abbiano appreso le basi del getto a distanza? Dai carrelli istigatori che infestano le nostre campagne come Ufo Robot col guinzaglio? Dai tedeschi del Lidle che fanno i cerchi nel grano per mimetizzarsi? O dal pisciatoio pubblico imboscato in piazza dove, ben che vada, si vede un tedesco a stagione… ma tedesche mai? Ci andavano bene anche nel sacco a pelo, figa. Naturalmente dal solo ed unico maestro degno di prodursi sigillo senza conti strombazzati dal disco, e senza doverne poi bocciare l’onore su qualche iniziativa scolastica, più che vinilica, appesa al muro per sopraggiunta disgrazia. Bertazzoni… quattro. Il resto lo si può intuire. I moduli cambiano come minigonne sugli alberi, i campioni in erba crescono se qualcuno li concima dagli 3 Cfr. accidente 013. Diomede. 223 spalti, e questo santo benefattore non può che essere il maestro, conforto indiscusso della nostra consumazione dietro la porta. Uno che ha studiato i campi per i campi, e non è solerzia da tutti. E le ragazze nude nei campi nemmeno. Noi invece solo in televisione, e c’è tutta una differenza di cultura, come dare un colpo al cesso ed uno di matto, infiocchettare il forno ed ubriacare il gatto. Tutti questi fatti avvenivano a dispetto delle bravate compiute alla cieca nei secoli da parte nostra. Vostra. C’è chi vaneggia di fato o di destino… di participi contro natura, di gerundi dall’aroma divino... Barbareschi illusi peggio d’architetti pubblici. L’unica realtà stabile è quella della regia poliedrica del maestro, il nostro ma soprattutto il suo, il solo indicato a lasciarvi senza un perché, in quanto risposte ne già ha per tutti. S’è portato il catalogo… lì di fianco al calice. Ucraine, irochesi, bianche ed ambrate… variegate scozzesi… qualche cinese incattivita dal tessile… a non finire. E poi piccole, grandi, figa, ma soprattutto medie che fanno la schiuma... Si discute di birre, amici miei, mica autoscuole… Mezz’ora che snocciolo birre… Coglioni. «O volontà che pieghi ogni necessità, tu, mia necessità! Risparmiami per una sola grande vittoria!» 4 E fu così che parlò Zanna-bian-ca… Giovani non cambiate colore, tenetevi ben stretto il vostro. Perché si viene e si va seminando. L’importante è che se c’è un ultimo da qualche parte, un generale stretto col falcetto di mano, il soprabito al braccio… quest’ultimo sappia cosa fare della barba. «Perché dovete sapere,» raccontò infine alla ciurma, «che al mondo esistono quattro categorie in cui perdersi d’animo: padroni, servi, maestri e coglioni. È come la briscola, perché al giorno d’oggi non si può vivere di soli figa e pallone. Sì è vero c’è anche l’Alfetta… Ma se uno vuole mutare una sorte già scritta, questi sono gli unici semi messi a disposizione. Pochissimi sono i padroni, si contano sui rami degli alberi motore, i timoni mancini… Moltissimi sono i servi che svicolano ponti, arrotano scotte… Poi del mucchio uno solo è il maestro, io che ci sputo lontano al trinchetto… Mentre tutti gli altri… tutti voi altri minchioni di stiva… tutti gli agnelli d’altare che vengono fuori dal mare, dal fiume, dal monte deserto, dal nulla a quadretti… o un po’ da dove cazzo vi pare… tutti gli altri sono solo coglioni.» E se qualcosa di strano dovesse distrarvi sulla strada verso il comasco, o verso casa vostra se siete più di fuori e dopo una svelta raminga tornate dalla moglie in ginocchio… una luce stranita che vi abbaglia improvvisa… una voce possente che vi chiama per nome… 4 Cfr. F.W. Nietzsche, così parlò Zarathustra, I ed. originale 1883/1885. Uno che ha viaggiato e studiato da prete per i preti, e non è da tutti. Noi solo cartoline usate e Le Ore. 224 perché ha identificato la targa… sono solo i Carabinieri, fidatevi, io m’intendo… Anche il mio cavallo s’intende. Ma niente vaccate che poi smussano i copertoni. Indossate piuttosto i praticissimi occhiali da sole compresi nel prezzo di La campanella suona sempre sette volte dietro le siepi…, 5 l’ultimo strepitoso successo di Manuel Pinotti. Si capisce dal corsivo aggiunto che è uno struzzo di marca, un gatto dal trotto silvano, anche dietro le tende della Paola, lo stronzo, le ronde in fila per sei quando il resto è di mancia… suo fedele discepolo ed iniziato d’arte. E alzate pure il volume dello stereo… lì… vicino al telecomando del sedile, al disco dei Nomadi. Il maestro magnanimo veglia su di voi con il suo impenetrabile uischionderòs in mano… il nostro ma soprattutto il suo. Maestro mica da poco. Nulla di male potrà mai capitarvi. 6 5 Cfr. M. Pinotti, La campanella suona sempre sette volte dietro le siepi, dietro le tamerici asperse, i guard-rail, fidatevi che lo so bene io. Salvo, che so, c’è l’assemblea di classe, sto al bar dei poveri, sono andato a figa… Duedicoppe, Brazzaga Po Vecchio 1978; XXXIII ed. aggiornata 2012, con nuova nota non censurata e auguri di Natale a nome dell’autore. 6 N.d.C. A seguito di un richiamo inoltrato dall’Ufficio Pastorale, «…non si capisce un emeritus…» dopo essermi consultato col maestro di tutti noi ma soprattutto il suo, il quale non va affatto confuso col personaggio di cui s’è appena detto sopra, per quanto anche lui «maestro» uguale… e può anche essere, no? uno si chiama William, un altro si chiama William pure lui… e non è detto che siano la stessa persona anche se si somigliano… vado dunque ad esplicare le questioni che ci sono parse più ingarbugliate. 1. A pag. 215 l’espressione «coombrici» è un tipico intercalare medio da bar democristiano, poiché un comunista persiano avrebbe detto «vàca ad na galìna sòpa»… no aspetta, avrebbe aggiunto «diuscapàinüganda», intendendo con questo una divinità storica pagana in uno stato storico pagano, che d’utopie se ne intende, altrimenti ci avrebbe messo di certo la maiuscola. E la maiuscola è importante. 2. A pag. 216 l’espressione «folie Bergère» sembra gravata da una svista arbitrale, dato che il famoso locale di Parigi si chiama Les Folies Bergères. Il barista tuttavia afferma «…marsicani che abbaiavano à la folie» (mon amour je t'aime à la folie), minuscolo, e la minuscola è più importante della maiuscola, essendo oltretutto il Vate di statura ridotta… Ma aggiunge di seguito «Bergère» per ammiccare all’elettorato segaiolo che non poteva comprendere tanta poesia francofona, operando uno slittamento concettuale verso l’area semantica della figa e del pallone, più o meno all’altezza del dischetto. 3. Per dirimere infine domande esistenzialiste del tipo… ma Dio li porterà i calzoni corti? no perché se è onnipotente, onnisciente, onnipresente, ecc… ce li avrà pure un paio di braghini nell’armadio… il maestro ci tiene a far sapere che in questo brano ha notevolmente aumentato la gradazione onderòs. Il linguaggio si ramifica e scioglie in un dire indefinito, e non può che convergere ad intervalli liberi su figa e pallone, in un bar. Ma il barista narrante sarà poi così come appare, o sta mettendo in scena un teatro dell'intrattenimento pubico? Sarà scemo, o sta piantando semi di quello buono? Toccherà poi agli intellettuali al banco scegliere da che parte stare. E che nessuno si offenda, per carità. Alcuni sono scemi al bar, altri sono scemi al bar, e non è detto che perché solo si somigliano siano proprio le stesse persone uguali. Il problema torna invece insormontabile se i tizi, di nuovo, si chiamano tutti William… Allora dovremmo decurtarli come sempre a semplici william da sgabello, eleggendoli intercalari democratici. E quando c’è la salute, willy… 225