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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno VI - N. 31 -Settembre-Ottobre 2000 ✓L’aquila d’Europa ✓Francesco Giuseppe I: sovrano esemplare di un Impero provvidenziale ✓La battaglia dei Campi Raudi ✓Il determinismo storico e la libertà La Weltanschauung veneta ✓Globalizzazione, mondialismo e identità dei popoli 31 La Libera Compagnia Padana Quaderni Padani Casella Postale 55 - Largo Costituente, 4 - 28100 Novara Direttore Responsabile: Alberto E. Cantù Direttore Editoriale: Gilberto Oneto Redazione: Alfredo Croci Corrado Galimberti Flavio Grisolia Elena Percivaldi Andrea Rognoni Gianni Sartori Carlo Stagnaro Alessandro Storti Grafica: Laura Guardinceri Collaboratori Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni, Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Lorenzo Banfi, Fabrizio Bartaletti, Alessandro Barzanti, Alina Benassi Mestriner, Claudio Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fiorangela Bianchini Dossena, Diego Binelli, Roberto Biza, Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa Bonesio, Giovanni Bonometti, Romano Bracalini, Nando Branca, Luca Busatti, Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini, Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola, Carlo Corti, Michele Corti, Mario Costa Cardol, Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Massimo de Leonardis, Alexandre Del Valle, Corrado Della Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Alberto Fossati, Eugenio Fracassetti, Sergio Franceschi, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli, Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Davide Gianetti, Giacomo Giovannini, Michela Grosso, Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Thierry Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Alberto Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio Lupo, Berardo Maggi, Andrea Mascetti, Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cristian Merlo, Ettore Micol, Alberto Mingardi, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, Giò Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela Piolini, Giulio Pizzati, Francesco Predieri, Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Laura Rangoni, Igino Rebeschini-Fikinnar, Giuliano Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi, Oscar Sanguinetti, Lamberto Sarto, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura Scotti, Marco Signori, Stefano Spagocci, Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Claudio Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla, Giorgio Veronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani, Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili. Spedizione in abbonamento postale: Art. 2, comma 34, legge 549/95 Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041 Arona NO Registrazione: Tribunale di Verbania: n. 277 Periodico Bimestrale Anno VI - N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana. Il significato di Lepanto - Brenno 1 Globalizzazione, mondialismo e identità dei popoli - Silvano Straneo 3 Il determinismo storico e la libertà La Weltanschauung veneta - Eugenio Fracassetti Se il libero mercato diventa ideologia - Davide Gianetti L’aquila d’Europa - Gilberto Oneto Franceso Giuseppe I: sovrano esemplare di un Impero provvidenziale - Massimo de Leonardis 14 18 20 Claudia Augusta - Giulio Pizzati 29 36 La battaglia dei Campi Raudi Padania 101 a.C.: i Cimbri contro le legioni romane - Lamberto Sarto 43 Adda: fiume, campo di battaglia, confine - Elena Percivaldi 49 Manifesto per l’indipendenza della Romagna - Alessandro Barzanti Biblioteca Padana 52 55 Il significato di Lepanto I l 7 ottobre del (di cui 30 cretesi), 22 1571, proprio 429 erano genovesi, 3 pieanni fa, la flotta montesi, 12 toscane cristiana sconfiggeva (dell’Ordine di Santo quella turca liberando Stefano), 9 dei Cavai mari meridionali lieri di Malta, 8 pontid’Europa da una sciaficie e 44 imperiali (di gura che da tempo li cui ben 36 napoletane infestava. e siciliane). Il significato militaC’erano ancora le rere di quella battaglia è pubbliche marinare chiaro: i Turchi invapadane (Genova e, sosori sono stati fermati prattutto, Venezia), sul fronte marittimo, c’era l’Impero (allora su quello terrestre ci ispano-tedesco degli penseranno da lì a poAsburgo e non più chi decenni i comanfranco), c’erano gli danti imperiali Monordini militari (Malta tecuccoli e Principe e Santo Stefano), c’eEugenio a contenere ra quello che restava la marea musulmana libero del mondo gree a cominciare a rico-ortodosso (Candia) cacciarla nelle sue tae c’era, naturalmente, ne anatoliche. la Chiesa Cattolica a Ma sono i significati fare da guida e collanpolitici dell’episodio te spirituale. che sono molto più La prima considerainteressanti. zione riguarda gli asL’Europa cristiana senti. C’erano i cattosi stava scontrando Stendardo personale dell’imperatore Carlo V nel lici, ma non tutti. Alcon l’Islam in una quale campeggiano le immagini di Dio Padre, cuni – ampiamente guerra che durava al- di Santiago Matamoros (San Giacomo “ucciso- giustificati – come lora – praticamente re di musulmani”), l’aquila bicipite imperiale Austriaci, Tedeschi, senza interruzione – fra le Colonne d’Ercole, San Pietro e il motto Polacchi e Ungheresi da nove secoli e che “Plus Ultra”. – erano pesantemente oggi (dopo una appaimpegnati sul fronte rente interruzione) stà riprendendo secondo lo di terra e, in ogni caso, non avevano alcuna perischema di sempre: i Musulmani che attaccano i zia o forza marinara. La Francia era clamorosaCristiani con il solito repertorio di violenze, cru- mente assente (i soli Francesi presenti si trovadeltà e inganni. vano sulle galere maltesi) per un gioco infingarLa composizione delle forze cristiane in que- do di ammiccamenti, miopi opportunismi e sta lotta millenaria non è sempre stata la stessa: strane alleanze. La Francia era sempre stata in risulta piuttosto interessante vedere come erano prima linea prima nella lotta contro l’Islam (da cambiati al tempo di Lepanto gli attori rispetto Poitiers alle Crociate) e tornerà ad esserci in – ad esempio - alle Crociate che avevano impe- Barberia solo dopo il sanguinoso dramma della gnato l’Europa alcuni secoli prima. È significati- rivoluzione, che può anche essere visto come vo esaminare la composizione della flotta cri- una sorta di punizione per il tradimento della stiana. Delle 208 navi, ben 110 erano veneziane causa cristiana. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 1 C’erano i pochi ortodossi ancora liberi nei territori veneziani: tutti gli altri soffrivano sotto l’oppressione turca le cui vittorie (quella di Costantinopoli prima di tutte) erano in gran parte avvenute proprio per le divisioni fra ortodossi, e fra ortodossi e cattolici. Non c’erano i protestanti che avevano diviso la Cristianità e che si erano chiamati fuori da questa lotta per l’Europa: e Lutero aveva addirittura sostenuto – fra le tesi degli esordi della sua “carriera” – che: “È peccato resistere ai Turchi, perché la Provvidenza si serve di questa nazione infedele per punire le iniquità del suo popolo”, intendendo, ovviamente, quello cristiano. Più tardi si pentirà di questo suo criminale disimpegno scrivendo addirittura due libri: Preghiera contro il Turco, e Della guerra contro i Turchi. Ma il guaio era ormai fatto e la divisione nel campo cristiano aveva sottratto enormi energie alla guerra in difesa dell’Europa. Questo disimpegno non risparmierà i protestanti dalla ferocia islamica che dovranno affrontare nel XVII secolo sulle coste di casa e con grandi sforzi militari delle loro flotte, soprattutto inglese e olandese. La morale che si trae da quella vicenda così lontana e così vicina è che le divisioni d’Europa sono la sola vera forza dei suoi nemici. Per i secoli successivi questo sarà drammaticamente verificato in due spaventose guerre fratricide e con la perdita di quella funzione di civiltà-guida e di supremazia economica e culturale che l’Europa aveva mantenuto per millenni. Oggi il vecchio continente stà subendo un altro attacco mortale che viene portato congiuntamente da mondialisti e da islamici e non è più in grado – proprio a causa delle sue divisioni non più solo religiose – di difendersi e di evitare il ripetersi di altre situazioni umilianti come quella del Kossovo. In particolare Lepanto ha speciale valore proprio per la Padania. Erano padane quasi tutte le navi della flotta cristiana, erano padani i comandanti più importanti, era padano Pio V, il pontefice che era riuscito a mobilitare e a tenere unite le forze europee. Non solo: erano padani anche i due più valorosi ed efficaci comandanti delle armate imperiali in lotta contro i Turchi, il Principe Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli. La Padania era in primissima fila in quella lotta mortale e non è azzardato affermare che una bella fetta del merito di avere salvato l’Europa in quel frangente vada proprio ai Padani. Cosa resta oggi dello spirito di Lepanto? Gli Europei sono divisi più di prima e soprattutto non sembrano - almeno in occidente - avere la 2 - Quaderni Padani forza e la voglia di combattere per la difesa della loro civiltà. Forse stanno un po’ meglio – almeno dal punto di vista dell’autostima e dell’istinto di sopravvivenza – solo i popoli cattolici e ortodossi che si sono da poco liberati dall’oppressione comunista. I Cavalieri di Malta che impersonavano il più indomito spirito di difesa della cristianità hanno subito un identico processo di decadenza: oggi si dedicano a canaste e tazzinette benefiche. Ma, quel che è peggio, non c’è più la Chiesa alla guida della comunità dei popoli europei: un Papa ha restituito ai Turchi lo stendardo conquistato a Lepanto, un altro bacia il Corano. Qua e là si leva qualche guizzo di vitalità ma si tratta di segnali troppo deboli che non permettono di presagire a tempi brevi una ripresa di autorevolezza e di energia. In Padania non va meglio: Roma ha devastato Venezia e Genova, le ha ridotte a ruderi turistici sporchi e assistiti, le ha riempite di quei saraceni che le due città avevano tenuto lontano per secoli da tutta l’Europa. E questa sembra essere proprio la circostanza più pericolosa: gli Islamici sono ormai in casa nostra, all’interno delle mura delle nostre città. Si sono insinuati con l’inganno nella sola porzione di Europa meridionale dove non erano mai riusciti ad arrivare in armi. Si organizzano in comunità aggressive e numerose, costruiscono strutture di devastazione culturale e religiosa, continuano a travestirsi da agnellini e da diseredati, e lo faranno finchè non saranno in grado di impadronirsi del territorio e di distruggere la nostra civiltà inebetita dal falso benessere e dal buonismo più devastante. Sono - se possibile – anche peggiori dei loro vecchi che sbarcavano roteando scimitarre. Cosa significa oggi invocare lo spirito di Lepanto? Significa che, se ha senso lottare, si deve lottare. Che, se amiamo questa terra e le nostre libertà, si deve fare di tutto per preservarle. Che, se riteniamo che questa civiltà cristiana sia – pur in questa sua fase decadente e incitrullita la migliore delle civiltà possibili, dobbiamo combattere chi la vuole distruggere, siano essi saraceni, foresti d’altro genere o autoctoni rincoglioniti. Liberiamo la Padania dai nuovi Turchi e dai loro manutengoli italioni e mardani. Se la difesa dell’Europa si basa – come ci hanno insegnato quattordici secoli di storia – in larga parte anche sulla difesa della nostra terra, ricostruiamo con solide mura il bastione padano della fortezza europea. Brenno Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Globalizzazione, mondialismo e identità dei popoli di Silvano Straneo Premessa Una svolta importante nel pensiero occidentale, avvenuta a cavallo fra l’Otto e il Novecento, è stata la fine del determinismo di matrice illuministica settecentesca, prima nell’ambito delle scienze fisico-matematiche, e poi, di riflesso, in quello socio-economico e in filosofia. Lo spirito del determinismo è sintetizzato molto bene dalle parole del matematico francese Pierre-Simon Laplace: “Datemi le condizioni dell’universo in un dato istante, insieme con sufficiente potenza di calcolo, e io vi dirò in che condizioni esso si troverà in un qualsiasi istante futuro”. Mentre Laplace credeva di possedere la chiave dell’universo fisico, altri pensatori, questa volta sociologi ed economisti, di cui Karl Marx è il più celebre ma non certo l’unico, stabilivano per le società umane leggi evolutive e modelli che immancabilmente si sarebbero realizzati risolvendo una volta per tutte i mali che da sempre hanno afflitto l’umanità. Inutile dire che la realtà, naturale e sociale, ha presto provveduto a calmare la baldanza di tutti quanti, decretando così la fine dei tentativi di inquadrare la natura e, ciò che qui più interessa, le società umane, all’interno di teorie che stabilissero definitivamente i meccanismi del loro divenire. Se con ‘ideologie’ intendiamo le varie costruzioni di pensiero, spesso peraltro di grande pregio intellettuale, che fornivano la base teorica a tali tentativi, possiamo equivalentemente parlare di fine delle ideologie. Il binomio mondialismo-identità dei popoli non sfugge all’impotenza del prevedere quale sarà la strada che le società umane imboccheranno sotto la spinta delle nuove tecnologie e degli interessi economici e politici soggiacenti. Scopo di queste note è allora quello di fornire, se possibile, dati e argomenti che servano a tenere sotto controllo l’evolversi dei fatti, fare qualche previsione a breve termine, capire quali siano i margini d’azione per incidere sugli avvenimenti e rompere la coltre dell’informazione Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 ufficiale (media, scuola, governi) che tende a far apparire ’ineluttabile’, ‘naturale’, ‘nella realtà delle cose’ una determinata linea di sviluppo piuttosto che un’altra, mentre invece la storia ha mostrato di svolgersi come un magma mobile sempre pronto a rimescolarsi e il cui punto d’arrivo non è determinabile a priori. Il fattore tecnico informatico Il rapido sviluppo dell’informatica, con gli strumenti tecnici che mette a disposizione, gioca un ruolo importante negli aspetti economici, culturali e politici che riguardano il binomio mondialismo-identità. I primi calcolatori elettronici nascono in Inghilterra e Stati Uniti negli anni ’40, durante la seconda guerra mondiale, per esigenze militari (sistemi di puntamento, cifratura). Grazie anche agli sviluppi della fisica, conoscono un’evoluzione rapidissima, passando dalle valvole in vetro ai transistor, fino agli attuali circuiti integrati. Capacità sempre maggiori di memorizzazione e potenza di calcolo li rendono presto indispensabili nell’ambito della ricerca scientifica e nelle grandi strutture pubbliche e private, mentre il successivo calo dei costi e delle dimensioni li introducono poco alla volta nelle case private. Le reti di calcolatori permettono a più macchine di comunicare tra loro scambiandosi dati e distribuendo la potenza di calcolo. L’embrione di ciò che sarebbe diventato Internet nasce ai tempi della guerra fredda (1973) da un progetto della Advanced Research Projects Agency del ministero della Difesa degli Stati Uniti. L’esigenza da soddisfare è quella di una rete in grado di funzionare ancora, anche se con prestazioni ridotte, qualora una parte di essa venga distrutta da un attacco nemico. Viene sviluppato un insieme di protocolli di comunicazione denominato TCP/IP che prevede il fraTesto della conferenza tenuta il 9 settembre 2000, all’Università d’Estate di Erba Quaderni Padani - 3 zionamento dei dati da trasmettere in pacchetti indipendenti l’uno dall’altro, ognuno dei quali trova la sua via dal mittente al destinatario per strade anche diverse all’interno della rete. Nel nodo di arrivo i pacchetti vengono ricomposti e ne viene controllata l’integrità. Il vantaggio di tale protocollo consiste nel fatto che non è necessario definire né conoscere il cammino che i dati percorreranno. Sarà il software stesso, lungo i nodi della rete, a farsi carico di instradarli, evitando le eventuali interruzioni e scegliendo il percorso più veloce. È l’inizio di Internet. Quando le esigenze militari si affievoliscono, sono dapprima le Università, i Centri di ricerca e le grandi istituzioni a collegare fra loro le proprie reti locali (da cui il nome di ‘rete delle reti’). In questa fase, l’uso di Internet è ancora limitato prevalentemente all’ambito accademico per lo scambio di informazioni scientifiche e richiede conoscenze tecniche non indifferenti. L’ultimo atto avviene nel 1989 presso il centro di ricerca del CERN di Ginevra con la nascita del World Wide Web, progettato per semplificare la condivisione di informazioni tra gruppi di ricercatori di fisica delle alte energie operanti in nazioni diverse. La facilità d’uso dell’interfaccia utente, dotata spesso di una grafica accattivante, ne decreta subito il successo anche presso il grande pubblico e conseguentemente presso operatori commerciali anche medi e piccoli nonché presso tutti coloro che hanno interesse, per svariate ragioni, a tenere sott’occhio un bacino di opinione costituito da milioni di persone. Gli sviluppi futuri sono guidati dal Consorzio WWW, con sede sempre negli Stati Uniti presso il Massachusetts Institute of Technology. Il ruolo degli USA nelle trasformazioni in corso Gli Stati Uniti hanno vinto la seconda guerra mondiale, hanno drenato le migliori intelligenze da ogni paese, detengono le tecnologie chiave, sono rimasti l’unica superpotenza militare e costituiscono il più importante mercato mondiale. I paradigmi economici e culturali che nascono in questo paese diventano presto standard nel resto del mondo, occidentale e non. Per comprendere l’evoluzione possibile del binomio identità-mondialismo è pertanto fondamentale cercare di capire quali sono le strategie che gli USA potranno adottare per meglio mantenere la loro leadership mondiale e i loro interessi. Fino al 1989 la politica estera americana 4 - Quaderni Padani era basata essenzialmente sul contenimento della potenza sovietica, il freno alla diffusione del comunismo e il predominio sul mondo occidentale. Da quella data in poi, i possibili scenari strategici americani diventano molteplici. OPZIONE CONSERVATIVA - Sostiene l’opportunità di non discostarsi sostanzialmente dalla politica estera seguita fino al 1989. I concetti base sono contenuti nel New World Order del presidente Bush (1990), col quale si stabiliscono le nuove ‘responsabilità’ degli USA e si ammette la guerra preventiva al fine di preservare l’ordine mondiale. Nel 1992, un rapporto del Pentagono dal titolo Defense Planning Guidance (del Sottosegretario alla Difesa per gli affari politici Paul Wolfowitz), preconizza un nuovo ordine mondiale funzionale al ruolo che gli USA intendono mantenere di superpotenza unica dotata di facoltà d’intervento anche unilaterale. Charles Krauthammer auspica una confederazione occidentale con gli USA al centro (in qualche modo prefigurata dal Gruppo dei Sette) come primo nucleo di un mercato comune mondiale. Ciò porrebbe al riparo la supremazia americana, per ora assoluta, dall’arrivo di nuovi contendenti. Secondo Joseph Nye, gli USA devono assumere il ruolo di grande organizzatore mondiale assicurandosi il controllo dei grandi istituti internazionali quali Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, World Trade Organization, Trattato per la non-proliferazione nucleare eccetera. Ben Wattenberg, direttore di Radio Free Europe, sostiene che il popolo americano deve riconoscere il ‘new manifest destiny’ che gli è proprio e promuovere nel mondo una democrazia di tipo americano per mezzo degli strumenti ‘culturali’ con cui primeggia: la lingua inglese, le università, i sistemi informatici, i media, il mondo dello spettacolo. Fra i seguaci di quest’ordine di idee, c’è Strobe Talbott, attuale numero due del Dipartimento di Stato di Clinton. Insomma, Microsoft Windows, Pamela Anderson e Coca Cola per un mondo unipolare a dominanza USA. OPZIONE ISOLAZIONISTA - Sostiene che una politica estera di intervento a tutto campo presenta per gli USA costi superiori ai benefici e che, essendo oggi il potere essenzialmente economico, la vera predominanza va affermata su questo terreno. È da segnalare che l’accezione americana del termine ‘isolazionismo’ non significa Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 affatto ‘di isolamento’. L’ex collaboratore di Nixon e Reagan, Patrick Buchanan, ad esempio, auspica il totale ritiro delle forze USA dall’Europa e dall’Asia, mantenendo però il primato militare e non escludendo sporadici interventi anche unilaterali. OPZIONE INTERNAZIONALISTA - Richard Gardner, attuale consigliere di Clinton, è il fondatore del Practical internationalism, il cui concetto base, che ispira buona parte dell’attuale politica estera americana, è quello di sicurezza multilaterale: sulla base del vantaggio garantito loro dall’isolamento geografico e da un’indiscussa superiorità militare, gli USA dovrebbero limitare l’uso della forza all’interno di contesti multilaterali e cercare di mantenere una situazione di equilibrio sfruttando le rivalità fra le altre potenze. Henry Kissinger sostiene che gli interventi USA dovrebbero essere selettivi, evitando di intervenire in ogni situazione di crisi: se in alcuni casi è indispensabile un intervento diretto americano, in altri è sufficiente un’azione multilaterale e in altri ancora non si interviene affatto. In questa prospettiva, l’intento di costituire un ordine globale fondato sugli interessi USA risulta meno forte ma è sempre presente. Strobe Talbott, Segretario di Stato aggiunto, parla di ‘diplomazia per una competitività globale’ (1994) intendendo con questo lo stare in guardia affinché nuovi raggruppamenti economici regionali non si pongano obiettivi contrastanti con i famosi interessi superiori degli Stati Uniti, magari chiudendosi all’influenza dei capitali americani. Richard Haas, della Brookings Institution ed ex consigliere di Bush, vede l’America come una Big Corporation che deve sfruttare la sua temporanea posizione di forza sul mercato per trasformarlo secondo i propri fini. Nel suo The Reluctant Sheriff (1997) scrive: “Obiettivo della politica estera americana deve essere l’operare con gli altri attori che condividono le stesse idee per migliorare il funzionamento del mercato e per rafforzare il rispetto delle sue regole fondamentali. Con il consenso, se possibile, con la forza, se necessario”. Dunque l’ex Gendarme del Mondo, impegnato in passato a combattere l’Impero del Male ovunque si manifestasse, si trasforma nel buon sceriffo il quale, quando costretto, raccoglie in fretta un manipolo di vigilantes e parte alla repressione. USA E INTERNET - Nel 1993, Al Gore inaugura la Global Information Infrastructure che nel DueAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 mila connetterà fra loro più di duecento milioni di computer. È il nuovo grande progetto dell’amministrazione Clinton, analogo, come espressione delle ambizioni egemoniche americane, al New Deal di Roosevelt e all’obiettivo Moon di Kennedy. Gli USA, insieme composito privo di quell’omogeneità che solo la storia può produrre, compensano il loro deficit di identità ‘comunicando’ più di ogni altro paese. E poiché, come è noto, ciò che conviene agli USA deve necessariamente valere anche per il resto del mondo, prescrivono a tutti la loro ricetta. Anzi, trovandosi in posizione di forza, esercitano una supervisione sulla sua messa in opera per pilotare opportunamente il processo di globalizzazione. Infatti, come Brzezinski aveva sostenuto fin dagli anni Settanta, “… sono stati gli Usa il paese che ha lavorato di più alla creazione di un sistema di comunicazioni mondiali avvalendosi dei satelliti e che si trova più avanti nella messa a punto di una griglia mondiale di informazioni”. L’ESSENZA DELLE VARIE OPZIONI - È appena il caso di osservare come, dalle dichiarazioni di uomini di stato, politologi, strateghi vari e soprattutto dalla politica messa in atto nella realtà dei fatti, appaia chiaramente che la volontà USA non è di sedere pari tra pari nel consesso mondiale delle nazioni ma di dirigerlo conformemente ai propri interessi. L’idea di base è quella di creare un mercato unico mondiale a misura USA sfruttando l’attuale posizione di forza militare, economica e tecnologica, impedendo che altri possano eguagliarla, mantenendo o conquistando il predominio nei grandi organismi finanziari internazionali e sui sistemi delle comunicazioni, senza trascurare ciò che a detta loro è la cultura. Le moderate differenze consistono più che altro nel privilegiare eventuali interventi multilaterali rispetto a quelli diretti, senza peraltro mai escluderli del tutto. Aspetti economici La categoria del lavoro umano si è sempre articolata in mestieri diversi, dotati tutti di una loro precisa specificità riconosciuta socialmente, ad esempio con le istituzioni delle varie ‘arti’, e rafforzata nell’immaginario da rappresentazioni e simbologie del tipo dei santi patroni. Un formidabile colpo alla specificità dei lavori è venuto, agli albori del Novecento, dalla visione industriale di Taylor, con la sua razionalizzazione estrema dei tempi e dei metodi produttivi. Quaderni Padani - 5 Qui l’artefice produce, mediante una serie di operazioni elementari rigidamente pianificate e monotonamente ripetute, uno stesso dettaglio, sempre più particolare, che prenderà significato solo quando composto con tutti gli altri dettagli prodotti con uguali modalità da altri a costituire l’opera finita. Alla figura dell’artefice è sottratta ogni connotazione di carattere professionale, etico e psicologico ed è privilegiato unicamente l’aspetto tecnico dell’organizzazione del lavoro, volta alla massima efficienza e redditività economica. Il concetto di informazione incomincia ad apparire in tutta la sua importanza quando, al Massachusetts Institute of Technology, il matematico Norbert Wiener inizia lo studio della Cibernetica. L’idea, non nuova in verità ma portata ora a compimento e formalizzata matematicamente, è la possibilità di governare il funzionamento di un dispositivo utilizzando l’informazione sugli effetti che l’azione in corso sta producendo per agire a ritroso sulla sorgente dell’azione stessa, regolandola (regolazione retroattiva o feedback). Queste nuove idee scientifiche, insieme con le teorie di Taylor, sono parte dell’atmosfera culturale in cui si sviluppa il modello industriale di Henry Ford, secondo il quale l’impresa deve articolarsi in un primo livello al quale competono le decisioni strategiche (gli obiettivi del meccanismo-impresa), un secondo cui compete la gestione delle risorse (regolata da feed-back) e un terzo incaricato della produzione (il funzionamento del meccanismo). Sui mercati nascenti e relativamente chiusi del tempo, che garantiscono una domanda sostanzialmente stabile e prevedibile, questi modelli hanno successo per molti decenni. Nei primi anni Ottanta emerge il modello giapponese (Toyota), la cui caratteristica principale è la capacità di adeguarsi prontamente, con la produzione di beni diversificati prodotti in piccole serie, a una domanda che nel frattempo si è fatta mutevole e internazionalizzata. L’obiettivo viene raggiunto sostituendo alla precedente rigida organizzazione industriale una struttura flessibile in grado di ridistribuire prontamente al proprio interno, sulla base di un flusso informativo sempre di tipo feed-back, energie materiali e umane, superando così la classica distinzione fra servizi di produzione, direzione e amministrazione. Inizia il technology push, dove l’innovazione tecnica è sempre più spesso ricercata dalle grandi aziende non al 6 - Quaderni Padani fine di migliorare i prodotti ma per creare nei consumatori nuove esigenze e mode che richiedano di essere soddisfatte. Pubblicità e marketing si incaricano poi di scatenare la domanda. Negli anni Sessanta, Galbraith scriveva: “Ormai l’iniziativa di decidere che cosa debba essere prodotto non appartiene più al consumatore ma alle grandi organizzazioni produttive. Un condizionamento, di cui la pubblicità è solo uno degli strumenti, tende a imporre un’identificazione fra gli obiettivi dell’organizzazione, quelli del corpo sociale e quelli dell’individuo. Le grandi industrie modellano gli atteggiamenti della collettività sui propri bisogni”. Ed infatti Akio Morita, presidente di Sony Corporation, dichiara: “Sony non vende nuovi prodotti. Sony vende nuovi comportamenti”. La parabola dei metodi di produzione industriali sopra accennata lascia intravedere quali saranno le tendenze prossime future (e in parte già attuali). Le grandi multinazionali, di vecchia e nuova costituzione, manterranno un nucleo alquanto ristretto di dipendenti diretti le cui retribuzioni, peraltro costituite in gran parte da dividendi, saranno funzione dei risultati ottenuti, mentre filiali delocalizzate si confronteranno meglio con i mutevoli mercati tramite subappalti e lavoro part-time. Il sistema industriale mondiale assumerà dunque l’aspetto di un reticolo distribuito sull’intero pianeta i cui nodi, autonomi ma integrati, saranno, ciascuno, un centro di decisione, di spesa e di responsabilità operante in rete attraverso collegamenti informatici internazionali non controllabili dagli stati nazionali, mediante i quali comunicherà decisioni e sposterà risorse e capitali in tempo reale da un capo all’altro del mondo. Finalmente, mentre dall’antichità fino al secolo scorso il lavoro umano è stato concepito, in termini generali, come trasformazione di masse (prevalentemente materiali) mediante forze da applicarsi con opportuno impiego di energia (fisica o intellettuale), il lavoro verrà sempre più a consistere in elaborazioni di codici, simboli e segni, ossia di dati. Infatti, se l’amministrazione pubblica e privata, i sistemi bancario e commerciale, la ricerca scientifica, l’insegnamento, la propaganda, il divertimento, insomma molte fra le principali strutture del mondo umano si riducono a essere sostanzialmente elaborazioni di dati, allora produzione e consumo divengono immateriali anch’essi e quindi adatti alla trasmissione a distanza: teAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 leacquisto, teleinsegnamento, teleconferenza, telesorveglianza, teleservizio, eccetera. In breve, una teleattività sistematica in cui entità a prima vista eterogenee - quali beni materiali, attività umane, processi tecnici, industriali, scientifici e addirittura emozioni - sono ridotti ad articolazioni diverse di uno stesso sistema generale che li mette in equivalenza, il denominatore comune essendo il nuovo concetto di lavoro come attività processuale [Legrain, Guattari]. Altro aspetto da considerare in questo scenario è la finanziarizzazione dell’economia. La finanza, da corollario della produzione destinato ad agevolare gli scambi e quindi l’espansione industriale, stà prendendo il sopravvento nei confronti della produzione stessa, ossia dell’economia reale. Molte aziende tralasciano la loro vocazione produttiva basata su prospettive a medio e lungo termine, con un riguardo più o meno grande per il fattore occupazionale, per adottare sempre più la prospettiva di pretta marca americana del profitto immediato (non più capital gain ma semplicemente profit). Se dunque la tendenza della politica capitalista è quella di privilegiare la rapida circolazione del capitale rispetto alla produzione di valore reale (finanziarizzazione dell’economia), è chiaro che il potere decisionale passa dalle vecchie borghesie produttive nazionali a una nuova borghesia internazionalizzata degli investimenti finanziari. Grazie a informatizzazione e collegamenti in rete, gigantesche corporation impegnate in attività di ogni genere possono oramai essere dirette da un piccolo gruppo di manager situati in posti chiave in cui è possibile prendere rapide decisioni e impartire molteplici ordini. Non si tratta di imprenditori ma di stipendiati di alto livello (quali ad esempio un chief executive officer americano), i cui introiti sono in gran parte costituiti da partecipazione agli utili. Naturalmente ciò comporta il declassamento dei quadri intermedi finora preposti su vari livelli a tali funzioni. Aspetti culturali L’assunto di base di ogni tecnocrazia, sia essa industriale oppure finanziaria, è l’ammettere come reale solo ciò che è quantificabile e direttamente manipolabile. Da ciò discende che chi è in grado di governare un processo tecnico-industriale o finanziario sarà ipso facto in grado di governare ogni aspetto del reale, compreso Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 quello socio-politico, e quindi anche la società nel suo complesso. Questo cadere della distinzione fra politica (come ambito dei fini) e tecnica (come ambito dei mezzi) fa sì che a ogni scelta politica, per sua natura legata a considerazioni di carattere morale e culturale, venga sostituita una scelta determinata da una stima tecnica basata su puri criteri efficientistici. Nella rozza visione della società come unità produttiva di cui occorre massimizzare l’espansione economica, trovano poco o punto posto i giudizi di valore, che quantificabili non sono, e la cosa pubblica è gestita mediante un apparato di controllo tecnico-burocratico basato su di un concetto di bene comune ridotto al puro benessere materiale. In un sistema come questo, dove il denaro è al primo posto assoluto, la semplificazione dei valori in gioco comporta per i nuovi dirigenti tecnocratici una vera e propria deflazione culturale. La capacità acquisita dalle borghesie nazionali di negoziare i loro rapporti con la società non serve più e infatti incominciano a sorgere scuole storiche che rivedono al ribasso l’importanza delle storie nazionali. Il filosofo inglese Michael Oakeshott, ad esempio, scrive in un suo recente lavoro che non esiste una ‘storia della Francia’. Al che, qualcuno ha replicato che “una cosa chiamata Francia ha lasciato tracce più durevoli di una cosa chiamata Michael Oakeshott”. Tuttavia la revisione della storia per bandire da essa la nazione è rivelatrice di un movimento di fondo da cui prende a emergere l’ideologia ufficiale della nuova classe: un integralismo di marca tecnica, universalista, multiculturale e multirazziale contrapposto ai valori degli stati-nazione, definiti sempre retrogradi e a volte razzisti. Al centro di questa operazione ideologica vi è ancora lo strumento Internet, sotto il cui cappello si ritrovano, in curiosa compagnia dei tecnocrati delle corporation, sia gli entusiasti che si attendono dalle nuove tecnologie comunicative un ‘recupero di democrazia’ sia i cyberpunk, per i quali ‘la rivoluzione corre sulle reti informatiche’, tutti uniti dalla stessa visione, piuttosto rudimentale e deterministica, che essenzialmente subordina la risoluzione di questioni non computabili alla ‘potenza di calcolo’ disponibile e pretende di far transitare attraverso le reti di calcolatori la regolamentazione della società umana. La visione che sta alla base di questa nuova ideologia comunicativa consiste nel “… credere Quaderni Padani - 7 e far credere che i problemi sociali siano innanzitutto problemi di comunicazione, che una società si sviluppi prima di tutto grazie alla capacità di trasportare i suoi messaggi e che pertanto basti moltiplicare i canali e accrescerne la capacità di trasmissione e di stoccaggio, perché venga alla luce una società nuova più democratica, più conviviale, aperta e pacifica”. Insomma, un embrassons nous generalizzato (e regolamentato dai superiori) per porre finalmente termine al millenario travaglio delle società umane. L’analisi del traffico sulla rete rivela invece che il tema più frequentemente dibattuto nei newsgroup riguarda il funzionamento della rete stessa. D’altronde, prescindendo da qualche folkloristico e superpubblicizzato cybermatrimonio, della cui sorte non è poi mai dato sapere, è difficile immaginare quali altri legami all’infuori di quelli virtuali possano unire individui che si connettono e sconnettono a caso, anonimamente e senza responsabilità. Di fronte a questo mondo unidimensionale regolato da un governo planetario di transazioni finanziarie e contatti umani elettronici, le culture ancorate al suolo e alla storia dovrebbero scomparire. Così preconizza il Gruppo di Lisbona: “Bisogna concepire un programma d’azione basato in particolare sul ricorso estensivo alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione … L’intensificazione di questo dialogo attraverso una moltitudine di strumenti è infatti la via più sicura per edificare un nuovo mondo globale fondato sul rispetto dell’altro e per fortificare le basi di un sistema di governo mondiale cooperativo”. Aspetti politici Va preliminarmente osservato che la diffusione di Internet con i suoi corollari economici e di costume, è un fenomeno consolidato da cui, piaccia o no, è ormai impossibile prescindere. Il mondialismo, inteso come tendenza all’aggregazione, economica prima e politica in varie forme poi, fino al suo stadio ultimo costituito da un solo governo per tutto il pianeta, è cosa distinta dalla globalizzazione, intesa come liberalizzazione degli scambi e creazione di un mercato unico. Naturalmente vi sono profonde correlazioni fra i due fenomeni, e al proposito si confrontano due diverse correnti di pensiero, una delle quali sostiene che la globalizzazione dei mercati implica necessariamente un governo mondiale unico mentre per l’altra non solo 8 - Quaderni Padani tale implicazione non sussiste ma al contrario la liberalizzazione degli scambi favorisce le autonomie politiche. TESI 1. LA GLOBALIZZAZIONE È LO STADIO CHE PRECEDE IL MONDIALISMO - Questa tesi si basa sull’as- sunto che la struttura economica determini quella politica e ritiene pertanto inevitabile che un mercato mondializzato porti con sé un governo mondiale. Secondo questa linea di pensiero, un mercato mondiale necessita di una regolamentazione mondiale che può avvenire soltanto per via legislativa, da cui l’esigenza di un organismo politico che vi provveda. In questo processo i maggiori gruppi economici non mancherebbero di premere con forza formidabile affinché ciò avvenga nel modo più conforme ai loro interessi, liberandosi dall’impaccio costituito da ciò che furono le nazioni con le loro diversità a intralciarne lo sviluppo. I cittadini-consumatori abbandonerebbero i consumi tradizionali legati alla cultura del loro territorio per avvezzarsi, anche a mezzo del technology push cui si è accennato prima, al consumo di beni standardizzati la cui produzione, pubblicità e distribuzione risultano convenienti solo su scala mondiale. Un primo assaggio di tutto questo potrebbe essere l’elettronica di consumo, l’abbigliamento e il divertimento di massa di stile americano. Quegli stessi cittadini-consumatori, d’altra parte, avvezzati come si è detto e opportunamente scolarizzati dai grandi mezzi di comunicazione, riterrebbero infine del tutto naturale e auspicabile la sanzione definitiva di questo stato di cose con la proclamazione anche formale del nuovo organismo politico. Quanta democrazia reale possa poi sussistere in una gigantesca struttura di questo tipo, ancorché sanzionata da regolari elezioni, lo si comprende sufficientemente bene osservando il funzionamento del sistema americano, dove i candidati presidenti sono scelti primariamente dalle lobby in grado di fornire i milioni di dollari necessari per una campagna elettorale condotta fra luci al neon e majorette, con una percentuale di votanti fra le più basse del mondo. L’anima della strategia mondialista sarebbe dunque a Wall Street e presso le holding, le broker house, i grandi Fondi Comuni di Investimento, i Pension Found, le grandi banche internazionali, eccetera. Segnatamente, essa sarebbe presso la Banca Mondiale e il Fondo MoAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 netario Internazionale (FMI), organismi a scala mondiale in grado di controllare i flussi finanziari internazionali che riguardano le più importanti decisioni economiche del pianeta. A proposito del funzionamento di queste due ultime istituzioni, la sociologa Susan George, codirettrice del Transnational Institute di Amsterdam osserva: “La Banca Mondiale determina non solo le scelte macroeconomiche, essa pone anche altre condizioni, classificate sotto il nome di ‘buon governo’ … che sono state causa di contraddizioni ... Alcuni suoi progetti hanno dato luogo a violazioni massicce dei diritti umani, provocando l’esodo di milioni di persone ... La Banca stabilisce le proprie leggi senza essere stata legittimata da cinquant’anni e, per ragioni complesse, le sue istanze dirigenti non possono avere soddisfacenti meccanismi di controllo”. “Il FMI tende, tramite le condizioni che pone per la concessione dei prestiti ai Paesi in difficoltà, a privare gli Stati del controllo della loro economia. Questo organismo non cerca di adeguarsi alle realtà di ciascun caso concreto ma cerca di imporre ai paesi le proprie norme economiche. L’obiettivo sarà raggiunto nella misura in cui le particolarità saranno distrutte. Con la normalizzazione economica verrà la normalizzazione culturale e la uniformizzazione dei modi di vita”. E ancora: “L’analisi dimostra che il ricorso indiscriminato al prestito smobilizza l’economia di un Paese, scoraggia il risparmio nazionale, rallenta la crescita della produttività interna, riduce la padronanza della catena tecnologica, orienta l’apparato produttivo verso i bisogni di una economia internazionale decentrata e drena a termine le risorse del Paese verso le potenze industriali. A ciò si aggiunge l’alienazione culturale prodotta dall’introduzione non meditata di un modello culturale straniero, lo sconvolgimento della struttura sociale, in particolare l’esodo rurale e la perdita progressiva dell’autonomia politica”. TESI 2. LA GLOBALIZZAZIONE FAVORISCE LE AUTONOMIE - Secondo questa scuola, il mondialismo, inteso come programma mirante all’instaurazione di un governo unico planetario, massima concentrazione immaginabile di potere e quindi minaccia per la libertà dei popoli, è un fenomeno addirittura opposto alla potente forza decentralizzatrice costituita dalla liberalizzazione su scala mondiale dei mercati i quali, essendo inAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 siemi di rapporti volontari dai quali è bandito l’uso della forza, non possono causare quello sradicamento delle varie culture che è invece operato dalla centralizzazione statale, strumento con cui le culture egemoni hanno sempre schiacciato quelle minoritarie. Proprio la novità tecnologica costituita dalla diffusione della rete, con le sue conseguenze economiche e culturali, ha dato inizio al declino del rigido controllo che gli stati centralizzati hanno sempre esercitato sulle popolazioni stanziate entro i propri confini. Molti popoli ora avvertono lo stato nazionale, cui più o meno forzatamente appartengono, come un ingombro, perché sanno di essere inseriti in una rete di scambi globali di fronte alla quale le burocrazie accentratrici mostrano, insieme al loro costo, tutta la loro arroganza e inutilità. Friedrich Von Hayek, premio Nobel per l’Economia del 1974, sostiene la necessità di globalizzare i mercati, mentre si dichiara contrario a qualsiasi tipo di governo mondiale: “Un governo mondiale anche molto buono - scrive - sarebbe comunque una calamità, perchè precluderebbe la possibilità di sperimentare strumenti alternativi”. Dunque, per Hayek, la liberalizzazione degli scambi non porta né deve portare all’omologazione politica. La studioso liberista Hans-Hermann Hoppe, in un suo recente saggio scrive: “L’integrazione politica comporta maggior potere per uno Stato di imporre tasse e regolare la proprietà mentre l’integrazione economica rappresenta un’estensione della divisione interpersonale e interregionale della partecipazione al lavoro. Come può dunque - si domanda - la liberalizzazione degli scambi comportare un aumento della centralizzazione, considerando che in linea di principio tutti i governi riducono la partecipazione al mercato e la formazione della ricchezza economica?” Sempre secondo Hoppe, “… nel confronto tra integrazione forzata e separazione volontaria, ci sono ragioni a favore della seconda …”. I piccoli paesi sono naturalmente portati a scegliere il libero mercato anziché un’economia statalizzata e inoltre la compresenza di tanti diversi stati sul territorio di un vecchio stato-nazione li pone in naturale concorrenza poiché i loro governi, “per evitare di perdere la parte più produttiva della popolazione, sono spinti ad adottare politiche interne più liberali”. Finalmente, poiché “adottando un regime di libero scambio illimitato, persino il più piccolo dei Quaderni Padani - 9 territori può pienamente essere integrato nel mercato mondiale e usufruire di tutti i vantaggi della divisione del lavoro”, la liberalizzazione degli scambi risulta inseparabile dall’autonomia. E infatti, molti piccoli paesi prosperano e non anelano a congiungersi con altri proprio perché si sono aperti ai mercati mondiali, mentre molti grandi stati, portati dalle loro dimensioni a tendenze protezioniste quando non autarchiche, hanno non di rado conosciuto il ristagno economico. La nuova Europa Entrambe le tesi sopra esposte contengono spunti interessanti. In ogni caso, mentre la globalizzazione è un fenomeno in espansione da tenere sotto attento controllo, un governo centrale, europeo prima e mondiale poi, è sicuramente qualcosa che si deve e si può fermare, se si vuole evitare una pericolosa involuzione dalla democrazia reale, intesa come effettiva possibilità di incidere sulle decisioni che vengono prese, a una democrazia soltanto più formale, vuoto meccanismo di delega e rappresentanza. Infatti, anche semplicemente per ragioni di numero e di distanze geografiche, in un parlamento continentale o mondiale la voce del singolo cittadino elettore viene ad avere un peso praticamente nullo mentre la gestione vera del potere è in mano alle alte gerarchie politico-burocratiche e la forza di pressione ai grandi accentramenti finanziari e all’industria della comunicazione. L’esame di come si sta sviluppando la nuova Europa è un’interessante banco di verifica delle argomentazioni precedenti. La nuova Europa nasce bancocentrica. L’articolo 107 del Trattato di Maastricht recita: “Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dal presente trattato e dallo statuto del SEBC (Sistema Europeo di Banche Centrali) né la BCE (Banca Centrale Europea) né una Banca Centrale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo...”. All’osservazione che, con un’organizzazione economica siffatta, la politica interna dei singoli stati viene essenzialmente governata dall’estero, la risposta è che il nuovo ‘interno’ non è più quello dei singoli stati bensì quello dell’intero continente. È quindi ovvio che la regolamentazione economica avvenga a livello conti10 - Quaderni Padani nentale. In più, viene spiegato che è questa la nuova dimensione alla quale occorre adeguarsi. Senz’altro è vero. Manca però un particolare importante: la possibilità che resta al cittadino elettore e contribuente di controllare con il proprio povero voto entità talmente potenti e lontane. Si consideri, ad esempio, che le famose ‘direttive’ dell’Unione non sono deliberate dal Parlamento europeo, il quale ha funzioni solo consultive, bensì dalla Commissione, che è un organo eminentemente tecnocratico svincolato da ogni autentica legittimazione: questa è la ‘sovranità popolare’ di cui godono i popoli europei nella nuova ‘casa comune’, in attesa di quella ancora più grande a venire. Il discorso è naturalmente diverso per le grandi istituzioni finanziarie, le quali da tempo hanno intravisto la possibilità di intervenire nella trasformazione economico-politica dell’Europa e del mondo. E infatti i supporter più entusiasti dell’unificazione europea sono stati banchieri e governanti, figure spesso coincidenti (come ad esempio nel caso italiano di Prodi, Dini e Ciampi). Da subito le banche hanno dato inizio a una girandola di fusioni e altre manovre varie. Quanto a prestazioni economiche, la nuova Europa non ha dato finora gran prova di sé. Dal momento dell’introduzione dell’Euro, la produttività europea ha visto un calo continuo e parallelamente la nuova moneta non ha fatto che deprezzarsi sul dollaro e sullo yen. D’altra parte, anche il lato politico della costruzione ha mostrato vistose crepe, con il fallimento della missione ‘umanitaria’ nella ex-Yugoslavia e con le tensioni create dal caso Austria. Che ne sarebbe stato della traballante costruzione europea se un politico sgradito, ad esempio, alla Francia fosse stato democraticamente eletto nella poderosa Germania? Immigrazione È ovvio che popolazioni ad alto tasso di sviluppo demografico e basso livello culturale ed economico cerchino di spostarsi in zone dove è stata prodotta maggior ricchezza, sollecitate a ciò anche dalle trasmissioni radiotelevisive che ne mostrano in genere gli aspetti più allettanti. Questi trasferimenti di enormi masse umane non risolvono il problema della sovrappopolazione nel mondo (gli africani con i loro ritmi di proliferazione sono già 700 milioni) né quello della povertà, che va affrontato nei paesi d’origine, mentre creano grandi squilibri nelle zone in Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 cui si riversano, come sta accadendo in Europa, una delle parti più popolate del pianeta. La situazione in Italia L’emigrazione italiana verso l’America del secolo scorso volgeva verso spazi sterminati e pressoché inabitati. Ancor oggi la densità di popolazione negli USA è di appena 28 abitanti per chilometro quadrato e di 12 in Argentina, mentre in Italia risultano censiti 190 abitanti per chilometro quadrato. In queste condizioni di densità demografica, cui si aggiungono tassi di disoccupazione e criminalità fra i più alti d’Europa e inefficienza dei pubblici servizi, la domanda di quanti immigrati l’Italia possa accogliere non ha ancora avuto risposte serie da parte dei responsabili. I governi di centro-sinistra hanno spalancato le porte all’immigrazione con sanatorie e leggi tipo la Turco-Napolitano che prevede, insieme a molto altro, la possibilità di ricongiungimenti famigliari fino al terzo grado, praticamente il trasferimento di interi villaggi, data la vaghezza dei concetti di parentela e stato di famiglia presso molte delle popolazioni interessate. Dal canto suo la Caritas, che gestisce miliardi di assistenza pubblica e privata, continua a premere per la cosiddetta politica delle porte aperte, salvo lanciare di tanto in tanto grida di allarme sul fatto che alla robusta criminalità italiana si è aggiunta quella immigrata, mentre il Vaticano è giunto a chiedere per il Giubileo un’ulteriore sanatoria per tutti i clandestini. Un mix di interessi elettorali futuri, interessi economici e fumose teorie terzomondiste a spese dei cittadini e della convivenza civile. Un argomento fra i più comuni dei fautori delle porte spalancate è che serve manodopera per i lavori che gli Italiani non vogliono più fare. Così si ha l’assurdo che mentre, ad esempio, i giovani disoccupati siciliani e napoletani continuano a essere assistiti con il denaro pubblico, sui pescherecci di Mazara del Vallo e nei campi ci sono marocchini e senegalesi. Un altro è che la popolazione italiana invecchia e occorre quindi sopperire con un’immigrazione giovane. Ma come il Nord Europa ha da tempo compreso, a fronte del prolungamento della vita media è la nozione stessa di vecchiaia che va rivista, con un adeguato rinvio dell’età di pensionamento. Se qualcuno pensa di risolvere con l’immigrazione il problema di chi pagherà le pensioni, allora dovrà mettere nel conto incalcolabili costi a tempo differito (la casa, la sanità, la moschea, Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 la scuola in lingua madre, eccetera) oltre alle inevitabili tensioni e ai problemi di ordine pubblico. Se dunque la tendenza allo spostamento è naturale, assai meno naturale è che i governi, quello italiano in primis, abbiano svolto un’azione assai blanda di contenimento di queste masse umane. Sia l’immigrazione un fatto incontrollato per incapacità o imprevidenza, sia un fatto voluto e favorito, essa è diventata un fenomeno sociale di estrema importanza che sta producendo un graduale sfiguramento delle popolazioni europee, diluendole e intaccandone le originalità culturali con il forzarle a convivere in casa propria con nuove, numerose e a volte assai intolleranti presenze. La capacità che un gruppo ha di opporsi a un progetto che tende a farlo scomparire è direttamente proporzionale al suo grado di organicità interna, al suo essere Gemeinschaft e ciò avviene quando i suoi membri hanno la stessa provenienza etnica e culturale. Pare allora che la massiccia immigrazione che giunge in Europa proprio in coincidenza con la nascita del nuovo Superstato sia funzionale alla progressiva creazione di un utile magma umano costituito da atomi disaggregati, privi di quelle radici (lingua, mentalità, cultura, tradizioni) che ne determinano le caratteristiche più significative, estranei a ogni appartenenza e che mantengono come unico attributo quello della quantità. Identità dei popoli L’identità di un popolo riposa sul lento amalgama prodotto al suo interno da secoli di esperienze vissute in comune in pace e in guerra entro un territorio che ne è stato teatro e che con le sue caratteristiche ha contribuito a determinarne la specifica “cultura” intesa come Weltanschauung, concezione del mondo. “Un popolo è tale - scrive Renan - se ha il sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che è ancora disposto a compiere insieme. Presuppone un passato ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. … La sua esistenza è un quotidiano plebiscito”. La secessione, per Renan, è dunque un diritto naturale. La cultura di un popolo, solo in parte codificata nei documenti del sapere ufficiale, spazia da fattori basilari quali la lingua, la concezione del lavoro, il tipo di rapporti interpersonali, la produttività scientifica e artistica, la religione, Quaderni Padani - 11 le superstizioni, la struttura della famiglia, i costumi sessuali e alimentari fino a fattori minimi, quali il gusto per il baccano o il silenzio. Essa evolve nel corso dei secoli in dipendenza complessa da molteplici fattori e viene trasmessa di generazione in generazione ai nuovi nati che, si potrebbe dire, la succhiano insieme al latte materno. A ragione Johann Gottlieb Fichte afferma che la nazione, che è cosa distinta dallo Stato, è una realtà fondata sulla storia: i suoi confini veri non sono pertanto qualcosa di fisico come i monti o i fiumi, che il nemico può sempre varcare, ma le tradizioni comuni e soprattutto i valori condivisi da tutti i suoi appartenenti. La lingua svolge un’azione di primissimo piano nel sintetizzare le esperienze collettive, incorporandole in un flusso che si trasmette, a volte arricchito, a volte impoverito, di generazione in generazione e che viene a guidare, per così dire, il pensiero lungo direttrici caratteristiche, riflettendo il carattere del popolo che la parla e, a sua volta contribuendo a formarlo e a trasmetterlo. La Gran Bretagna, isola di navigatori e commercianti, ha sviluppato nel corso dei secoli una visione pragmatica del mondo, ben illustrata anche dalla sua produzione filosofica, dove il conseguimento di un certo risultato è privilegiato rispetto all’indagine sui suoi presupposti teorici. La lingua inglese, che ha registrato nel suo evolversi l’influenza di una tale mentalità ed ha, di riflesso, contribuito a ritrasmetterla, è esemplare al proposito: struttura grammaticale e sintattica ridotta al minimo, essa procede quasi per immagini (idioms), tesa alla rapidità e concretezza della comunicazione più che all’approfondimento teorico dei concetti. In Germania e in particolare nel suo nucleo prussiano, situazione geografica, risorse naturali, agenti esterni e specificità di quell’etnia hanno prodotto quella cultura nota per profondità di pensiero, efficienza e rigidezza, nel bene come nel male, di cui la lingua tedesca è l’emblema. In stretta analogia con l’impulso naturale, che spinge i singoli individui a prolungare e affermare sè stessi lanciando nella discendenza il proprio codice genetico, anche le motivazioni fondamentali di ogni comunità umana sono la sopravvivenza alle durezze della natura e l’affermazione di fronte alle altre comunità. Profondamente diversi sono però i modi in cui queste pulsioni vengono realizzate nel corso degli eventi che costituiscono la storia. Ognuno di 12 - Quaderni Padani questi modi è la sperimentazione di una fra le possibili strade alla sopravvivenza e alla ricerca della propria ragione di esistere che la natura, in un certo luogo e tempo, consente a un gruppo umano. In questo senso la cultura di un popolo lo distingue dagli altri e lo caratterizza, fintantoché una catastrofe, una trasformazione profonda, lenta o improvvisa, non ne inizi una nuova. L’antropologo Claude Levi-Strauss scrive che la vera ricchezza dell’umanità è costituita dai differenti modi con i quali i diversi gruppi umani affrontano la vita nel suo duplice aspetto materiale e intellettuale, ossia delle diverse risposte che essi danno al problema del perché vivere e del come sopravvivere. Se le chiavi interpretative del mondo e dell’esistenza sono ridotte a una sola, l’umanità avrà difficoltà a risolvere i propri problemi. Per questo è essenziale che ciascun popolo conservi la propria Weltanschauung specifica, distillato di esperienze originali in secoli di vita comune. La società capitalistica industriale, basata su produzione e consumo sempre più frenetico di merci, travolge ogni tipo di cultura che non sia in grado di adeguarsi in fretta alle sue leggi, appiattisce sui suoi propri ogni altro valore, modello, visione. Chi non si dota di un apparato produttivo industriale è destinato a scomparire come entità sociale. Chi se ne dota ex abrupto, senza che il processo sia stato lentamente maturato e metabolizzato, vede presto insorgere contraddizioni, conflitti e rigurgiti sanguinosi. Esempi ne sono paesi di recente industrializzazione in sud America e paesi riccamente dotati di risorse naturali in Africa, dove una ricchezza improvvisa e importata ha paradossalmente significato per le popolazioni corruzione, massacri, miseria ed emigrazione di massa. L’identità è lo schermo naturale alla devastazione di delicati equilibri interni causata dall’imposizione acritica e improvvisa di modelli estranei. Particolare interesse ha il caso dello Stato italiano, che è sorto non da una matura coscienza unitaria, da una vera omogeneità culturale, economica ed etnica ma dalla volontà espansionistica di una casa regnante che ha forzato insieme popoli separati da oltre un millennio di storia. Scriveva Stendhal nell’Ottocento: “Fra un Italiano e un Piemontese vi è maggior differenza che fra un Francese ed un Inglese”. E di cultura italiana, nel senso più ampio sopra definiAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 to, si può parlare poco ancora oggi. L’inventare uno stato forzando insieme i popoli dell’Italia meridionale con la loro storia e i loro valori e quelli settentrionali (passati attraverso la fondamentale esperienza storica dei liberi comuni, e con il forte denominatore comune dell’etica del lavoro e della mentalità razionale che l’accompagna e ne costituisce, per dirla con Hegel, il Volksgeist, la ‘moralità sociale’ in cui essere e dover essere coincidono nella famiglia, nella società civile e nello Stato), l’accentrare il nuovo Stato per tema di spinte centrifughe, l’imporre leggi e mercato piemontesi alla società meridionale-papalina (latifondista e spagnolesca, e impossibilitata a recepirle), la becera politica di italianizzazione forzata del fascismo e infine la collusione fra apparato statale romanizzato e grande industria assistita pubblica e privata, tutto ciò ha condotto alla situazione attuale di uno stato che, unico in Europa, deve ricorrere all’impiego dell’esercito regolare in alcune sue regioni per potervi mantenere una parvenza di ordine civile. Mentre già nel 1700 Montesquieu affermava che leggi e istituzioni dei vari popoli non sono qualcosa di casuale o arbitrario ma sono strettamente legate al carattere dei popoli stessi, ai loro costumi nonché alla natura del paese in cui essi vivono, cioè al clima, alla struttura geografica eccetera, concludendone che è un puro caso che leggi di un popolo convengano a un altro, due secoli dopo gli artefici dell’unità italiana ancora ignoravano questi fatti elementari. Così, per quanto il Meridione italiano non brillasse nel novero delle società europee di metà Ottocento, mai aveva toccato il livello di disfacimento sociale cui assistiamo ai giorni nostri. Anche il Meridione italiano è stato deradicato. Riprendendo lo spunto iniziale sulla fine delle ideologie, si può affermare insieme l’impredicibilità del punto di arrivo di questo momento storico estremamente complesso e gravido di trasformazioni economiche, culturali e politi- Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 che ma contemporaneamente la possibilità di incidere con l’azione sul suo svolgimento, per rimanere padroni del nostro destino individuale e di popolo. Molti popoli in Europa proprio in questi anni hanno fatto significativi passi avanti verso la loro autonomia Chateaubriand si chiedeva alla fine del secolo scorso: “Che cosa sarebbe una società universale senza alcuna nazione, che non fosse né francese, né inglese, né tedesca, né spagnola, né portoghese, né italiana, né russa, né tartara, né turca, né persiana, né indiana, né cinese, né americana, o magari che fosse tutte queste società insieme? Che cosa ne risulterebbe per i suoi costumi, le sue scienze, le sue arti, la sua poesia?”. Che cosa sarebbe, si potrebbe aggiungere, un’orchestra composta da strumenti tutti uguali? Per dirla ancora con Renan, “attraverso le loro diverse vocazioni, spesso opposte, le nazioni servono alla comune opera della civiltà; tutte apportano una nota a quel grande concerto dell’umanità che è, in definitiva, la più alta realtà ideale da noi raggiunta. La loro esistenza è garanzia della libertà che sarebbe perduta se il mondo avesse una sola legge ed un solo padrone”. Comportamento, linguaggio, abbigliamento, musica, divertimento, cibo uniformi su scala planetaria allevano un’umanità omogeneizzata tragicamente dotata degli stessi pensieri e stimoli emotivi. Chi viene privato delle sue radici e memoria storica, chi non è in grado di capire attraverso quali percorsi è diventato quello che è, è in balia di centri di potere economico e politico sempre più lontani, anonimi e potenti, gli unici ad avere mezzi sufficientemente forti per imporre di volta in volta quegli schemi di comportamento che più servano ai propri interessi. Privato di un governo locale che sappia contrapporsi come uno scudo alle scelte centrali, il cittadino vedrà il suo potere di influire sul proprio destino e sul mondo destinato ad accogliere i suoi figli diventare insignificante. Quaderni Padani - 13 Il determinismo storico e la libertà La Weltanschauung veneta di Eugenio Fracassetti D iceva l’indimenticabile “parón” Nereo Rocco (l’allenatore della squadra calcistica del Milan negli anni sessanta) a proposito del sistema - si potrebbe dire “della filosofia” - del dirigere le partite di calcio adottato da un celebre arbitro in quegli anni (Concetto Lo Bello), che questi fosse solito “usare” il regolamento arbitrale non tanto e non solo affinché lo svolgimento sportivo della gara - e quindi il risultato finale - si evolvessero e si concludessero secondo la pura logica sportiva dettata dal regolamento calcistico, quanto secondo una sua, certo non predeterminata ma personalizzata e personalistica logica dirigistica che andava a premiare e a colpire le squadre in campo secondo una propria individuale interpretazione dell’equità sportiva, interpretazione che peraltro emergeva ed era suggerita dallo svolgimento stesso della gara. Il regolamento arbitrale in questo caso non era più una legge obiettiva e uguale per tutti, atta a permettere l’emersione in campo di un risultato sportivo conforme al puro andamento della gara, quanto un elemento soggettivo, uno strumento personalizzato atto a imporre un giudizio di valore - e quindi un responso - secondo una razionalità umana e non sportiva che si riconosceva peraltro leale e, a proprio modo, onesta. L’errore di fondo - diceva giustamente Rocco è che queste due razionalità, quella sportiva e quella umana, non sempre coincidono perché altrimenti lo sport finirebbe d’essere “maestro di vita”, e si arriverebbe anzi a un capovolgimento dei valori essenziali emergenti dalla competizione, che è paradigma della vita. Tale sistema d’analisi è valido e applicabile alla moderna problematica sociale e, più specificamente, alla questione del “determinismo storico” (la weltanschauung) dei gruppi sociali 14 - Quaderni Padani omogenei (minoranze etniche) relativamente al più ampio concetto di libertà. L’immodestia di arrogarsi a giudici di “tutto”, la pre-potenza di voler acquisire in prima persona gli strumenti di gestione della società e della vita di tutto e di tutti, è tipico della filosofia dittatoriale secondo cui è un uomo (o un’accozzaglia di uomini) - e non l’ordinato evolversi del rapporto di forza a tutti i livelli della vita sociale - che elargisce, a suo giudizio, il premio o la punizione. L’uomo in questo caso non è più al temporaneo servizio di un regolamento o di una istituzione, ma sono il regolamento o l’istituzione al servizio dell’uomo, finalizzate alla discrezione personalistica. L’equivoco, in questi casi, è sempre presente in maniera subdola, quando si dà - coram populo, su suggerimento dei mass-media - un giudizio di onestà e di galantuomini a questi personaggi. È questa la pacificazione delle coscienze, è questa la chiusura gratificante di un cerchio socialmente totalizzante. Ma l’onestà deve essere una virtù sociale diffusa e pagante e non la condizione - ammesso che realmente ci sia per acquisire poteri totalitari, perché altrimenti si finirebbe per credere che l’onestà è premiante nei confronti di una massa... di disonesti, e questo non può essere perché è fuori dalla realtà. Vero è che non può essere la caratura dell’uomo forte su cui si deve discutere, quanto la filosofia che sottende alla liceità di avere poteri forti su altri uomini. In verità, nell’ambito della vita umana e sociale, nell’ambito della tanto richiesta “libertà”, non dev’essere un uomo - onesto o disonesto che sia! (o un gruppo (*) Tratto, e liberamente rielaborato dallo stesso autore, dallo scritto presente nel volume Cento voci; Rebellato Ed. Venezia 1986. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 di uomini - onesti o disonesti che siano -) - che dà giudizi di valore su altri uomini, che determina la graduatoria dei valori umani e sociali, ma dev’essere la vita stessa (la “gara”, nell’ambito sportivo) che fa queste scelte obbligate in misura dei valori presenti nella “piazza”, ai fini di un arricchimento e miglioramento comune. Alla fine di questo processo democratico, se si ha pazienza, e soprattutto se si vuole credere in ciò, accettandone le regole e i responsi, i veri valori individuali e collettivi emergono, come i funghi nel bosco dopo la pioggia. Noi sappiamo che la sovrana legge di selezione naturale decide la scomparsa o l’evoluzione in positivo (la vita) di ogni razza animale o vegetale. Voglia o non voglia questa legge è in applicazione anche nel mondo dell’uomo. È molto dubbio che questo concetto si presti a giudizi di valore: il determinismo storico dell’uomo infatti (uomo come singolo e uomo come entità sociale) - la sua weltanschauung - è dovuto per tanta parte alla sua capacità di sopravvivere alla sofferenza, alla volontà (individuale o di gruppo) di prestabilire e di conseguire un proprio difficile e problematico futuro, alla originale “forza” civile di elaborare e di tener fede a una propria etica di gruppo. Per scendere nello specifico di un paese che adotti la legalità parlamentare in politica e la libera intrapresa in economia, lo sviluppo della dinamica libertaria nella sua pur minima interpretazione impone che l’evoluzione storica di ogni gruppo sociale omogeneo non sia frenata o “guidata” da un potere “superiore” che la predetermini in nome di un concetto giustizialista di corto respiro, ma sia libera di incanalarsi in una o in un’altra direzione verso un determinismo storico fondato su dei reali rapporti di forza e di potere che tale gruppo sociale è in grado di imporre, non tanto al resto della società a cui appartiene, quanto al più ampio contesto internazionale, affermando e illustrando così - coi fatti - il valore assoluto della propria cultura autoctona. Tale possibilità alla affermazione della propria storia, tale libera opzione verso un proprio e determinato futuro, responsabilizza e unifica il gruppo sociale, amplia il ventaglio delle possibilità del singolo e fornisce sempre nuovi, freschi e positivi impulsi all’insieme, in contrapposizione a una latente e regressiva involuzione in senso “imperiale”, non tanto e non solo della singola etnia, quanto di tutta la società. Il problema sostanziale è che questa weltanschauung sociale possa essere contenuta all’interno di una vera struttura di democrazia rappresentativa (l’Europa dei Popoli!) che, pur permettendo e assecondando la modifica - non irreversibile dei rapporti di forza intesi in questo caso non tra i ceti ma tra le etnie, garantisca vera e sicura democraticità al sistema sociale e politico in oggetto. Qualche tempo fa un nostro amico diceva che “... oggi bisogna trovare la forza di vivere per “altri” valori per non correre il rischio d’imputridire!”. Sono poche povere parole che esprimono tuttavia una condizione esistenziale, Bandiera veneziana del XVII secolo Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 15 quella di milioni di uomini schiavi dell’infima problematica del contingente e non più confortati da una praticabile speranza. Bisogna dire che se qui da noi - nel Veneto - oggi l’uomo materialmente, statisticamente, edonisticamente sta meglio di ieri, sul piano di una più complessiva problematica esistenziale questo “star meglio” pone certamente dei dubbi. Noi riteniamo che il nostro mondo, quel mondo che ha ancora profonde radici nella passata maestà della Serenissima Repubblica di Venezia, che per secoli fu riferimento e guida culturale e artistica per l’intero universo civile, noi riteniamo - dicevamo che questa nostra “enclave” etnica, che tanto ha dato nel passato e che tanto potrebbe ancora dare oggi alla cultura occidentale, stia finalmente, dopo due secoli, mostrando i segni di decadimento sotto il subissante, volgare e fallimentare pensiero e comportamento mediterraneo che fa dell’arraffamento, del potere toutcourt, dell’emarginazione politica del “valore” e del raffinato convincimento occulto attraverso i mass-media monopolistici, le sue armi di battaglia. “La cattiva moneta scaccia quella buona” dice il proverbio, e questa massa di volgarità politica, culturale e comportamentale che da decenni - direi ormai da secoli - ci viene scaricata addosso spinge la nostra gente a standard di pensiero e azione di un livello sempre più basso e infimo. Ad omologarsi al pensiero guida romano. Un luccicante, fatuo e problematico benessere sta avanzando mentre noi stiamo perdendo noi stessi, le nostre radici, la coscienza delle nostre potenzialità culturali (rigorosamente censurata) e la coscienza del nostro valore storico assoluto. La politica e l’economia romana “ci marcia” su di noi e sugli ormai secolari nostri sforzi giornalieri di mettere la testa fuori “dalla merda”... ma poi sempre, con tasse, gabelle e dictat siamo ricacciati più in giù, sempre più in giù, fino a far conoscere le patrie galere ai più “indisciplinati” e goliardici venetisti. L’economia romana “ci marcia” su di noi non solo perché siamo degli ottimi e fedeli pagatori di tasse, ma anche perché siamo - coram populo - dei grandi “evasori” in rapporto alle nostre potenzialità economiche tassabili. La verità è che da oltre centotrenta anni continua a insistere su di noi quella grande spoliazione che con tanta efficacia ha inaugurato Napoleone nelle sue “leggendarie” campagne d’Italia. L’economia romana “ci marcia” su di noi perché trasferisce altrove la nostra linfa economica 16 - Quaderni Padani per un “sacro” principio di solidarietà, non volendo rendersi conto che quando tale solidarietà - che non è fatta di “fregole” ma di cifre astronomiche inconcepibili per un amministratore onesto - è protratta per anni e per secoli senza produrre alcun volano di sviluppo altrove, è pura “appropriazione indebita”, è puro consociativismo mafioso, ma soprattutto è un percorso assolutamente antitetico a un concetto forte di “giustizia” a cui uno Stato non dovrebbe mai abdicare. Non è ozioso il ricordare che la dimensione del potere economico è in similitudine con la dimensione del potere politico, e con la potenzialità complessiva di un popolo di fare cultura autoctona. Lo spostamento di grandi masse economiche è quindi sinonimo di spostamento di vero potere politico a scapito di un popolo o di una etnia, in favore di un altro popolo o di un’altra etnia, alterando così in modo artificiale i naturali e ovvi rapporti di forza e gli equilibri di potere che naturalmente si attuano in un paese in relazione all’etica individuale degli uomini e di quella collettiva di un popolo, e instaurando così anche falsi e artefatti valori nazionali. Il senso di ingiustizia, infatti, e di prevaricazione dello Stato sul cittadino è palesemente avvertito “a pelle” dalle persone comuni, ma poi ognuno tira avanti, “digerisce” la sua crisi e pensa ai fatti suoi perché, in fin dei conti, “non siamo mai stati così bene!...” pur con i conti pubblici spaventosamente in rosso che colpiranno ingiustamente molte generazioni future! Certo non potrà continuare così, all’infinito, questa cuccagna, i numeri - e forse l’Europa - non lo potranno permettere. Queste lamentele e questi mugugni nel Veneto hanno certo una data d’origine che coincide col truffaldino plebiscito del 21/22 ottobre 1866 che sancì la forzata annessione all’Italia. Certo, ogni cultura può vivere e convivere con ogni altra cultura, ogni etnia con ogni altra etnia, purché ci sia all’origine una convinta, limpida e trasparente scelta democratica delle popolazioni, e in secondo luogo un patto di convivenza chiaro e rispettato; purché fin dall’origine una dieta (un governo rappresentativo paritetico) stabilisca e determini vere condizioni di parità di poteri al fine di evitare successivi cannibalismi politici del tipo di ciò che fece Roma, circa duemila anni fa, con la grande civiltà etrusca (assoggettamento per omologazione) e di ciò che ancor oggi Roma sta rifacendo, nel silenzio del mondo, con la grande civiltà veneta. Certo, i Balcani in questi anni fanno testo, e senza vere Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 garanzie istituzionali a tutela dei gruppi e delle nazionalità minoritarie tutto può succedere in modo subdolo o manifesto. L’entrata in guerra nel 1915 dell’Italia a fianco della Serbia contro gli Imperi centrali, per esempio, può configurarsi storicamente come una occulta, indiretta ma efficace pulizia etnica nei confronti del Veneto colpevole, fin d’allora, di strane voglie indipendentiste e federaliste. Tale verità emerge dalla storica constatazione che gli ultimi colloqui preliminari del Sonnino con i plenipotenziari austriaci nel 1915, pur dando soluzione a ogni precedente pretesa di carattere territoriale messa in campo da Roma (Trento e Trieste), non fu sufficiente a evitare la guerra, che del resto, pur sanguinosa e vittoriosa, non servirà a conquistare tutto ciò che si aveva precedentemente acquisito nel tavolo delle segrete trattative preliminari. In realtà qui siamo tutti pacifisti, tutti aborriamo la guerra e tutti siamo a favore della politica da intendere, questa sì, come vera guerra, ma combattuta con le parole in un posto chiamato Parlamento. Ma attenzione ai sotterfugi, a veri e propri inganni politici guidati da sètte segrete e malavitose che tanta parte hanno avuto nel manovrare in modo occulto gli eventi politici e nel decidere le sorti di questo paese dal Risorgimento in poi. Attenzione alle furberie truffaldine che sono presenti a ogni angolo di strada, perché già il fatto di aver unificato fin dal 1861 la penisola italica senza la guida di un Congresso Costituente che desse voce alle giuste pretese delle storiche e diverse entità etniche e culturali, senza la presenza fin dall’inizio, di una Dieta che fosse fulcro e arbitro dei diversi poteri, si è costituita immediatamente, fin dal primo governo dell’Italia unificata, una maggioranza parlamentare che di fatto ha pieni poteri che mai però compare. Questa maggioranza parlamentare che si protrae nel tempo, occulta dietro il grande teatro della politica italica, e Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 che tira i fili di ogni commedia parlamentare, è individuabile nel Partito Trasversale Meridionale che ha fatto, fin dal 1861, un boccone di tutte le antiche civiltà italiche e le ha poste di fatto sotto le grandi ali della vecchia cultura borbonica. È stata questa la carta vincente giocata fin dall’origine dalle grandi organizzazioni segrete e mafiose del meridione italiano, che sottende alla grande epopea risorgimentale e che nessun grande storico italiano, escluso forse Stefano Jacini, ci ha mai raccontato. Questa carta è stata talmente vincente che a tutt’oggi - pur dopo i travagli spaventosi di questi ultimi centotrent’anni, è ancora perfettamente giocabile nel Parlamento italiano. Ma con quali principi giuridici, politici e ideali si è unificato questo paese nel 1861? Possiamo noi continuare ad affidarci a storici prezzolati e a politici corrotti nel pensare e nello sperare nel futuro dei nostri figli? A quale weltanschauung, in coscienza, noi possiamo affidarci se le premesse sono queste? Come possiamo noi oggi - come ieri, del resto - continuare a essere chini sul nostro lavoro giornaliero e trascurare le ragioni di fondo, le fondamenta del nostro essere politico, le ragioni profonde della caduta del nostro “telos”, della nostra speranza? Com’è possibile che derubati sistematicamente della nostra cultura e della nostra economia si possa continuare a lavorare e a produrre e tirare la carretta come degli asini presi a bastonate? Se negli anni della fame l’emigrazione era mossa dalla disperazione, oggi si emigra per necessità e per scelte imprenditoriali, per sfuggire alla micidiale morsa fiscale - una colossale tangente - che impone la chiusura delle aziende. Se la nostra terra batte tutti i record della denatalità, se i giovani più non procreano, ci dovrà essere pure un motivo... e il motivo essenziale, al di là dei moralismi, è che si è interrotta - forse inconsciamente ma in modo generalizzato la ragione della speranza! Quaderni Padani - 17 Se il libero mercato diventa ideologia di Davide Gianetti D opo il crollo del muro di Berlino e il conseguente fallimento del comunismo da un punto di vista militare ed economico, il capitalismo e gli inerenti processi di globalizzazione si stanno affermando, da vincitori, in quasi tutto il pianeta. Tuttavia occorre analizzare se tale affermazione si espanda spontaneamente, in virtù di una maggiore efficacia rispetto alla pianificazione economica di stampo marxista, oppure se sia indotta non tanto da iniziative e provvedimenti legislativi o governativi quanto da caratteristiche intrinseche al capitalismo. Non si tratta qui di celebrare le doti e le virtù del libero mercato bensì di individuare e possibilmente prevenire le degenerazioni in cui un dato tipo di sistema economico può incorrere lungo il suo cammino storico. Se il marxismo riconduceva ed esauriva ogni dinamica storica, sociale, religiosa, culturale in un ambito meramente economicistico di pretesa scientificità, il capitalismo pare seguirne le orme tramutandosi, da dottrina economica fallibile e finita, a sistema conchiuso e autoreferenziale attraverso l’assolutizzazione delle sue componenti principali e il progressivo estendersi di queste alle altre variabili sociali. Come vedremo di seguito, liberismo e marxismo si incontrano spesso nella riaffermazione di una volontà di plasmare il reale e la società al fine di giungere a un “mondo migliore” e “nuovo” rispetto al precedente. Esemplare è in questo senso il più importante teorico del liberismo moderno, Ludwig von Mises, punto di riferimento essenziale per la corrente americana dei libertarians rilanciata decenni fa da Murray Rothbard, che nella sua Politica economica afferma: “Il requisito indispensabile per il raggiungimento di una maggiore uguaglianza economica nel mondo è l’industrializzazione. Ciò è possibile solo attraverso l’incremento dell’investimento o dell’accumulo di capitali.” Anche in Marx l’industrializzazione era ritenuta un processo storico indispensabile affinché il proletariato giungesse a maturazione della propria consapevolezza di classe sfruttata e imponesse la sua dittatura come approdo alla società senza classi. In quest’ottica per il marxismo erano ineluttabili quei processi di industrializzazione che consentivano alle contraddizioni insite nella produzione 18 - Quaderni Padani di esplicitarsi ed esplodere per via rivoluzionaria. Mises condivide con Marx l’idea che il processo industriale coincida con il progresso infinito e continuo e che debba essere esteso a tutti i popoli ai quali, successivamente, secondo Mises si applicheranno “valide politiche economiche” onde raggiungere prosperità e ricchezza. Questa visione misiana affonda le proprie radici nella certezza taumaturgica di uno sviluppo economico progressivo e incessante dimenticando che esso, viceversa, risulta essere il prodotto di una storia, di una cultura, di una tradizione specificatamente europee. Molti popoli oggi vivono seguendo modelli di sviluppo cosiddetti arcaici: distruggere il loro sistema economico imponendone uno a loro incompatibile significa distruggere un patrimonio etno-culturale specifico e inimitabile. La penetrazione di McDonald’s, in questo senso, è sintomatica. Un’altra caratteristica comune alle due ideologie politico-economiche è il carattere universalistico, transnazionale e apolide su cui convergono. Se la dottrina marxista reputa indispensabile procedere all’“emancipazione” di “realtà” come l’etnia, il carattere culturale specifico di un popolo, le tradizioni che lo animano, la religione che lo caratterizza, al fine di “abolire il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse”, il liberismo segue la medesima strada utopistica. Dice Von Mises: “In assenza della libertà di migrazione i capitalisti tendono a spostarsi verso quei Paesi in cui è disponibile molta manodopera a costo ragionevole. Questo metodo è la migrazione del capitale (…) Tuttavia le restrizioni all’immigrazione - e su questo non esiste il minimo dubbio - riducono la produttività del lavoro umano”. Mises teorizza e invoca così la necessità del melting-pot e della società multirazziale poiché essa offrirebbe ai capitalisti maggiore scelta, in fatto di manodopera, di quanto non sia in grado di fare una società etnicamente omogenea. Anche in questo caso è soppresso il fattore umano e si esalta la produzione fordista su scala planetaria dove l’individuo si trasforma in “materiale biologico” da plasmare, utilizzare e accantonare secondo un procedimento di inesausta produttività. È evidente allora il carattere apolide e sradicato di Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 un tale modello economico laddove la complessa rete di interazioni sociali si riduce a una sciatta dicotomia produttori-consumatori nell’illusione, crudele, di una interscambiabilità fra i due status, in realtà congelati entro un circuito totalitario perché totalizzante e “perfetto”. E a nulla valgono le tesi di alcuni (pochi) anarco-capitalisti che postulano restrizioni all’immigrazione in base a supposti “diritti di proprietà”. L’immigrazione va respinta perché sul piano etno-culturale vi sono profonde incompatibilità fra i vari popoli, tali da ritenere difficoltosa la ricomposizione a unità (integrazione) delle naturali e inevitabili conflittualità interetniche. Il liberismo invece considera i vincoli etnici, antropologici, culturali e religiosi di impedimento allo sviluppo capitalistico e ne pretende il superamento in favore di una struttura sociale atomizzata e individualistica attorno alla quale si riorganizzeranno i rapporti sociali su basi prettamente capitalistiche. Per ottenere ciò è necessario abbattere le frontiere nazionali e modellare il mondo secondo i criteri liberisti. Von Mises al riguardo è chiarissimo: “Non sono assolutamente l’inferiorità né l’ignoranza a fare la differenza: la differenza la fanno l’offerta e la qualità dei capitali disponibili. In altre parole la quantità di capitali è maggiore nei cosiddetti Paesi avanzati rispetto a quelli in via di sviluppo. Si potrebbero redigere degli statuti internazionali, che non siano solo semplici accordi, che sottraggano gli investimenti stranieri alla giurisdizione nazionale. Questo potrebbero farlo le Nazioni Unite. Per far sì che i Paesi in via di sviluppo diventino prosperi come gli Stati Uniti manca una sola cosa: il capitale, e ovviamente la libertà di poterlo gestire in base alle regole di mercato e non a quelle imposte dai governi”. La drammatica implicazione che segue il ragionamento di Mises si è concretizzata in questi anni: la nascita del mondialismo ha sancito la morte degli Stati nazionali. Tuttavia invece di procedere a una ridefinizione degli stessi su basi etno-culturali che facessero sorgere confederazioni di patrie identitarie, il mondialismo, grazie al capitalismo, ha edificato un superstato mondiale che regge le sorti del pianeta imponendo leggi, provvedimenti e politiche economiche. Queste ultime rappresentano, in definitiva, l’ideologizzazione del capitalismo e la sua imposizione ai vari Paesi, la trasformazione dei parlamenti nazionali in consigli di amministrazione, la morte della politica e la sua sostituzione con manager aziendali che rispondono non agli elettori ma ai consiglieri di amministrazione del governo di quel determinato Stato. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Ovviamente il superstato in questione non possiede un territorio e dei confini, non è riconosciuto come tale ma esiste ed è incarnato da una sparuta e potentissima schiera di finanzieri e banchieri che ricattano, attraverso i capitali immensi che detengono, nazioni e continenti interi decidendone le sorti. Il liberismo si è così imbattuto in due aporie insolubili: la prima consiste nell’aver espropriato il diritto decisionale e di controllo dei cittadini per riporlo nelle mani di anonimi banchieri svincolati dal vaglio elettorale, dimostrando così la profonda antidemocraticità dell’ideologia capitalistica e con ciò contraddicendo l’assioma libertario secondo cui a una sempre più vasta libertà di mercato corrisponde automaticamente un analogo ampliamento delle libertà democratiche e civili. La seconda aporia consiste nell’aver prodotto un superstato centralizzato e avulso dal potere decisionale degli individui smentendo così la teoria anarco-capitalista che postula la soppressione dell’entità statuale attraverso la radicalizzazione delle politiche capitalistiche. Un ultimo punto congiunge liberismo e marxismo: la certezza che il dipanarsi della Storia e dei suoi eventi segua le medesime dinamiche materialistiche e quantistiche dei processi economici. Dice ancora Von Mises: “L’affermazione dell’economia come un nuovo ramo della conoscenza è stato uno degli eventi più portentosi della storia dell’umanità. Nel preparare il terreno per l’impresa capitalistica privata, essa ha trasformato in poche generazioni tutte le faccende umane in maniera più radicale di quanto non sia stato fatto nei precedenti duemila anni”. Ne scaturisce quindi una concezione messianica e perfettistica dell’agire umano che trova il suo corrispondente nella pretesa scientificità del pensiero marxista, nell’infallibilità della sua dottrina perché unica disvelatrice dei reconditi meccanismi storici. Alla luce di tutto ciò è pertanto impossibile non individuare una tendenza culturale che si va progressivamente imponendo nel ventunesimo secolo. Il liberismo si appresta, da efficace dottrina economica, a divenire un sistema politico-ideale che informa la società sottoponendola ai propri meccanismi ripercorrendo, di fatto, la strada che ha intrapreso il marxismo nel secolo precedente. Non si tratta qui certo di rifiutare il libero mercato in sé o di rivalutare il marxismo: si tratta di contrastare l’ideologia del libero mercato impedendo che il mondialismo divenga per il liberismo quello che il comunismo era stato per il marxismo. Quaderni Padani - 19 L’aquila d’Europa di Gilberto Oneto L a grande forza dei simboli veri – ha spiegato Federalista Europeo (una grande E verde in Mircea Eliade - è di continuare a funzionare campo bianco) che per molti anni aveva rappree ad assolvere la loro funzione anche quan- sentato ideali e speranze di federazione contido se ne è persa l’immediatezza della compren- nentale. Oggi il drappo azzurro è stato ufficiasione o il loro utilizzo in quanto simboli rico- lizzato e il suo uso è diventato obbligatorio nenosciuti è stato interrotto. Una prova della giu- gli stati della Comunità a fianco delle bandiere stezza dell’osservazione è data dal successo del nazionali. Sole delle Alpi, recentemente riproposto e subiSulla sua origine si ripete una versione che la to entrato nel favore popolare dal cui inconscio vuole desunta dalla diffusa rappresentazione icoculturale non era evidentemente mai uscito. nografica dell’Immacolata Concezione, nella Questo è solo il più noto dei casi perché negli quale la Vergine ha un’aureola di stelle su un ultimi tempi tutta una serie di simboli sono fondale azzurro cielo o veste un manto azzurro tornati in vita a rappresentare autonomie, identità e aspira- Aquila imperiale (Miniatura del libro IV degli Annales della zioni di libertà: segni araldici, “Nazione Germanica” nell’Università di Bologna) stendardi e bandiere, magari antichissimi, rispuntano dopo decenni o secoli di oblio e ritrovano quasi miracolosamente un posto di primo piano nell’affetto popolare. Uno di questi è la bandiera dell’aquila imperiale, antico segno araldico dello spirito dell’Europa profonda, popolare e cristiana. La necessità di una bandiera “vera” per l’Europa Il Consiglio d’Europa ha adottato nel 1953 una bandiera azzurra con quindici stelle gialle a cinque punte, disposte in cerchio. Nel 1955 il loro numero è stato (senza apparente motivo) ridotto a dodici. Nello stesso 1953 l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) aveva adottato la sua bandiera, in verità piuttosto simile, costituita da un cerchio e da una rosa dei venti bianca sempre in campo azzurro. Quella delle dodici stelle ha gradualmente eliminato la vecchia bandiera del Movimento 20 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 stellato: questa origine “devozionale” sarebbe scaturita dalla iniziativa dei patri fondatori della Comunità, i cattolici Schumann, Adenauer e De Gasperi. In realtà, al di là delle reali intenzioni di quei signori, e sempre che sia vera la versione, il simbolo adottato è però assai poco cristiano. La stella a cinque punte è del tutto assente dall’araldica tradizionale e da quella cristiana in particolare: le stelle del manto e della corona della Vergine erano solitamente rappresentate a otto punte. Il pentagramma è invece un chiaro segno massonico (di derivazione mediorientale, come prova anche la sua presenza nell’iconografia islamica) e la disposizione a cerchio riproduce l’identica figura (a tredici stelle) della prima bandiera americana, o quella Grand’arme di Carlo V imperatore, sul castello dell’Aquila che campeggia attorno alla piramide massonica riprodotta sul dollaro. Il fondo azzurro è poi lo stesso concorde contro i nemici esterni e – soprattutto (oltre che della NATO) anche della bandiera del- – le aspirazioni a un destino comune hanno le Nazioni Unite a ulteriore conferma della reale piuttosto sintomaticamente quasi sempre avuto origine ideologica del simbolo. lo stesso simbolo: quello dell’aquila imperiale. In realtà però la bandiera stelluta rappresenta Da Roma al Sacro Romano Impero Germaniperfettamente il tipo di Euroco, dall’Impero di Occidente a pa degli Stati Nazionali, del Scudo dei Marchesi Malaspina di quello di Oriente, c’è sempre banchieri e delle grandi hol- Massa stata un’aquila a segnare tending finanziarie che si stà tativi di aggregazione, anche creando. Ma non rappresenta quelli purtroppo effettuati in affatto l’Europa dei popoli e forma di sopraffazione come delle libertà. quello romano e quello napoOggi la lotta per la vera Euleonico. ropa ha bisogno di simboli Una distinzione morale oltre più rassicuranti e meno amche storica sembra essere bigui, e non può che cercarli però data dalla specialità delle nella sua tradizione araldica sue varie connotazioni iconopiù nobile. La storia del congrafiche: le aquile di forma rotinente è stipata di lotte e di mana (rappresentate tridiparticolarismi, di guerre framensionalmente, magari contricide ma anche di aspiraziotornate da una corona di alloni di unione, a completamenro) sono state portate dai “catto della sua sostanziale unità tivi”, le aquile germanizzate e culturale, religiosa e identitagraficizzate nel tratto (solitaria. Nel passato i momenti di mente nere, di colore pieno) unità temporanea, di lotta sono quasi sempre state segno Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 21 Scudo di un’antica bandiera di Trieste dei “buoni” (almeno in termini di rispetto per tradizioni identitarie e religiose), e le stesse con due teste (bicipiti) dei “buonissimi”. Simbolismo dell’aquila L’aquila è l’uccello che vola più in alto di tutti, è capace di innalzarsi sopra le nuvole e di fissare il sole, è universalmente considerato il simbolo celeste e solare per eccellenza, che rappresenta la luce in conflitto con le oscure forze ctonie, ossia legate alla terra e all’oltretomba. (1) Proprio per questo è sovente raffigurata nell’atto di artigliare serpenti, simboli tellurici. La sua condizione di re dell’aria e degli uccelli la fa diventare simbolo reale. Era simbolo di Giove e per il Cristianesimo è diventato segno di Ascensione, di contemplazione (e perciò tratto araldico di San Giovanni Evangelista) e della regalità di Cristo. È l’uccello-tuono, simbolo del fulmine, è l’uccello di luce e di illuminazione, è immagine del sole e rappresenta il re in quanto figlio della luce. La lettera A del sistema geroglifico egiziano è costituita da un’aquila e significa “calore vitale, origine e giorno”. L’aquila passa la vita in pieno sole, è luminosa e partecipa di elementi come aria e fuoco. Le sue caratteristiche sono il volo intrepido, la velocità e la famigliarità con il tuono e il fuoco, la nobiltà eroica, associata al pote22 - Quaderni Padani re e alla guerra. (2) Per tradizione, l’aquila possiede il potere di ringiovanire, e cioè l’eternità. Si espone alla vicinanza del sole e quando le sue piume iniziano a bruciare, si getta nell’acqua pura e trova così una nuova giovinezza. Si può paragonarla all’iniziazione alchemica che prevede il passaggio nell’acqua e nel fuoco. (3) Si diceva che, all’indebolirsi della vita, essa volasse contro il sole per “(…) dissipare i veli dei suoi occhi, poi tornava alla terra e per tre volte immergeva il capo in una sorgente di acqua pura, per recuperare la vista e la gioventù: così il cristiano deve immergersi per tre volte nella fonte della salute”. (4) Il mito è probabilmente di origine ebraica, e avveniva ogni dieci anni con l’acqua del mare. (5) Come uccello solare ha una vista eccezionale, è perciò paragonata all’occhio che tutto vede e quindi a Dio. È simbolo di vittoria. Il suo utilizzo araldico è probabilmente di origine orientale, è stato usato da Roma come segno imperiale sui labari delle legioni, ma ha trovato il suo massimo sviluppo nel mondo germanico. Assai stranamente essa è quasi del tutto assente nell’iconografia celtica che è invece piena di orsi, draghi, corvi e – naturalmente cinghiali. Le sole presenze si trovano in alcuni episodi della mitologia irlandese e gallese. Nell’araldica europea l’aquila è, insieme al leone, l’animale più frequente. Le sue qualità eroiche hanno spinto molti re a usarlo come simbolo: la si trova specialmente sull’araldica degli imperatori romano-germanici (a partire da Carlo Magno), dei sovrani tedeschi, dei duchi di Baviera, Slesia e Austria, dei margravi del Brandeburgo e dei re polacchi. In Padania e dintorni essa è presente sugli stendardi dei Savoia, di Nizza, di Fiume, del Friuli, degli Estensi di Mo(1) J.C. Cooper, Dizionario degli animali mitologici e simbolici (Neri Pozza: Vicenza, 1997), pag. 37. (2) Jean-Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli (Armenia: Milano, 1996), pag. 89. (3) Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionaire des Symboles (Seghers: Paris, 1973), vol.1, pagg. 20 ÷ 27. (4) Giovanni Cairo, Dizionario ragionato dei simboli (Forni: Bologna, 1979), pag. 23. (5) J.C. Cooper, op. cit., pag. 39. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 dena, di Mantova, Trento e Tirolo, e sulla bandiera “ducale” dell’Insubria. La sua presenza è diffusissima nell’araldica cittadina e delle famiglie nobiliari. (verso cui sono rispettivamente girate) e anche l’unione del potere politico con quello spirituale, sottolineata dal fatto che l’aquila (sia nella sua versione occidentale che in quella orientale) tiene in una zampa lo scettro e la spada, e Simbolismo dell’aquila bicipite nell’altra il globo imperiale.(8) Secondo il Cairo, Spesso si trova l’aquila raffigurata con due te- il simbolo dell’aquila bicipite sarebbe stato poi ste. Secondo Biedermann, alla sua diffusione ripreso da Carlo Martello all’inizio dell’ottavo potrebbe aver contribuito, oltre alle evidenti secolo, oppure – secondo altre fonti – da Carlo motivazioni simboliche, anche la tendenza alla Magno, anche se quasi tutta l’iconografia aralsimmetria che da sempre caratterizza l’araldica dica del tempo gli attribuisce un’aquila “normaeuropea.(6) In ogni caso, la sua prima rappre- le” monocefala ghibellina, voltata cioè verso sisentazione conosciuta in occidente è quella sul- nistra. I guelfi (e anche la Lega Lombarda, per la Colonna Traiana, distinguersi dalle nello scudo di un forze imperiali) imsoldato. Qualche piegavano invece studioso ha ipotizzaquella voltata verso to che sia stato Codestra: questa partistantino, per espricolarità può fornire mere il senso delle un’altra spiegazione due parti del suo imdel simbolismo bicepero, il primo ad falo, inteso anche adottare l’aquila a come il superamendue teste, l’una volta to della divisione a Oriente e l’altra a delle due fazioni. Si Occidente. Questa tornerebbe in ogni possibilità è sostenucaso al segno della ta dal Ruscelli, citato compresenza del podal Cairo: “È perché tere imperiale (ghitra i romani si vede bellino) con quello tale insegna (l’aquila spirituale papale “normale”, nda) così (guelfo). da Cesare come da Come segno araldico Pompeo Magno sudegli imperatori, espremi imperatori, li sa figura sulle banquali furono divisi diere tedesche fin d’animi, e combattedal 1312 e nei sigilli ron fra loro con tandi Carlo IV (1347), ta rovina della loro Stemma del Regno lombardo-veneto. acquisisce impiego patria, per questo si “ufficiale” sotto Sigipuò forse credere che i nostri cristianissimi im- smondo come simbolo esclusivo della potestà peratori portan per insegna l’aquila a due teste, imperiale nel 1433, o addirittura nel 1401, nel volendo per avventura mostrare che le due periodo della sua reggenza. (9) Forse in quella aquile erano già unite in una sola, né debbono occasione le era stato attribuito anche il signifiin quella esser mai animi, né operazioni di di- cato aggiuntivo di unione dell’Austria e della visione nell’imperio e nella religion cristiana. Germania, che è stato più tardi ripreso dall’As(…) Più tosto è fatto per mostrare l’unione, che pretendono e speran di fare di due imperi, ora (6) Enciclopedia dei simboli (Garzanti: Milano, 1991), pag. divisi, cioè del Levante e del Ponente. (…) For- 42. se con le due teste abbiam voluto mostrar la (7) Giovanni Cairo, op. cit., pagg. 23-24. 8 cura, e la protezione delle cose umane e delle ( ) Il Globo imperiale è una sfera facente sormontata da una crocetta significante il dominio del cristianesimo sul mondivine, o qualche altro tal generoso e santo do. pensiero”. (7) Le due teste sarebbero cioè la rap- (9) Whitney Smith, Le bandiere, storia e simboli (Mondadopresentazione dell’Oriente e dell’Occidente ri: Milano, 1975), pag. 116. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 23 La battaglia di Lepanto (Dipinto spagnolo, 1575). Vi si distinguono con chiarezza sulle navi cristiane l’Aquila imperiale (su campo bianco), la Croce di San Giorgio e il Leone di San Marco, anch’esso su campo bianco semblea nazionale di Francoforte nel 1848 con la creazione di uno stendardo nel quale l’aquila bicipite veniva sovrapposta al tricolore nero-rosso-oro. L’adozione dell’aquila bicipite era forse anche stata effettuata in Occidente per rincorrere il “concorrente” Giovanni V Paleologo, imperatore d’Oriente, che l’aveva adottata nel 1357 nella edizione oro su fondo rosso. Nel 1472 è anche Giovanni Vassilijevic, primo autocrate russo, liberatore della Moscovia dall’orda d’oro mongolica e pretendente al trono d’Oriente, a usarla, sia pur nella versione con le ali abbassate. (10) La sua ufficializzazione in Russia avviene però solo con Ivan III il Grande nel 1495, che per primo aveva lasciato il titolo di Granduca per assumere quello di Zar. Questi aveva infatti sposato Sofia Paleologo, il cui zio Costantino XII era stato l’ultimo imperatore bizantino, e di cui diveniva così legittimo erede, anche degli attributi araldici. Le due teste venivano a quel punto anche a rappresentare la sovranità dello Zar sull’Occidente e sull’Oriente, e più specificatamente sull’Europa e sull’Asia. Anche l’aquila russa teneva fra gli artigli lo scettro e il globo: Pietro I il Grande nel 1703 aveva sperimentato una strana versione con quattro carte marittime tenute negli artigli e nei rostri a manifestare la volontà della Russia di diventare potenza marittima. (11) L’impero d’Oriente la usava oro su campo rosso (o nera su campo rosso), quello d’Occidente nera su campo oro-giallo. A volte in entrambi era usata su campo argento-bianco. In una versione del 1699 l’aquila oro era posta 24 - Quaderni Padani sul campo azzurro centrale del tricolore russo. In Occidente è sempre raffigurata con le ali spiegate, in Oriente con le ali spiegate o abbassate. (12) (10) Giovanni Cairo, op. cit., pag. 24. (11) Whitney Smith, op. cit., pag. 175. (12) Le descrizioni secondo il linguaggio araldico sono: Aquila bicipite dell’Impero d’Oriente: spiegata d’oro in campo di rosso (originariamente di porpora) eccezionalmente coronata d’oro; Aquila bicipite dell’Impero d’Occidente: spiegata di nero e talvolta coronata di nero in campo d’oro, con la testa aureolata; Aquila bicipite russa: spiegata di nero con ambedue i capi coronati, oltre la corona più grande alzata fra i due capi. Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, Insegne e Simboli (Roma: Ministero Beni Culturali e Ambientali, 1983), pag. 1010. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Esiste anche una versione massonica dell’aquila a due teste ad ali spiegate, con la corona sormontata dal triangolo e con l’iod ebraica nel centro, introdotta da Elia Ashmole alla fine del XVII secolo, per “narrare tutta la leggenda della Creazione”. (13) Per la massoneria essa simbolizza anche il 33° grado di rito scozzese: una corona copre ambedue le teste e con gli artigli tiene orizzontalmente una spada col motto: “Deus meumque ius”, cioè “Dio è il mio diritto”. (14) Si tratta di un atteggiamento del tutto coerente con la prassi massonica di scimmiottare simboli cristiani ribaltandone il significato più profondo e il valore morale. Secondo Cirlot, la bicefalia simboleggia poi, come tutti gli elementi duplici (Giano, Gemelli, Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Ascia bipenne, eccetera), il dualismo della creazione-distruzione, ascensione-discesa, andaretornare, dare la vita-uccidere. (15) L’aquila bicipite è rimasta simbolo di entrambi gli imperi fino alla loro fine: sventolava su Costantinopoli fino alla sua caduta in mano turca (1453) ed è stata usata dagli Asburgo (sia di Spagna che d’Austria) fino alla formale cessazione dell’Impero nel 1806. Essa era sullo stendardo personale di Carlo V. Come segno dell’imperialità cristiana d’Occidente ha sventolato a Lepanto (forse in una versione marinara su fondo (13) Giovanni Cairo, op. cit., pag. 24. (14) Hans Biedermann, op. cit., pag. 41. (15) Jean-Eduardo Cirlot, op. cit., pag. 91. Quaderni Padani - 25 bianco) e in tutte le sul capo) nella banbattaglie contro i Turdiera albanese di chi e i giacobini. DalSkander Beg, nemico l’inizio del XIX secolo dei Turchi, e (bianca è diventata la bandiesu fondo rosso) nello ra dell’Impero auscudo di Serbia. È anstriaco (dal 1848, aucora oggi (nera, con stro-ungarico) fino al le ali ribassate, su 1919, acquisendo l’ulfondo oro-giallo) il teriore simbolismo simbolo e la bandiera dell’unione dei regni del Monte Santo, di Austria e di Unghel’antico Hagion Oròs ria rappresentati dalle degli ortodossi. Dopo due corone reali sulle la caduta del comunidue teste, con la cosmo essa è ricomparrona imperiale sovrasa sia in Serbia che in stante il tutto. In ocRussia. cidente è stata per Essa è anche molto lungo tempo anche la presente nell’araldica bandiera del regno di Sigillo dell’Impero russo (XV secolo) di moltissime città in Sicilia, del regno di ogni angolo di EuroNapoli (fino al XVII secolo), del Ducato di Carra- pa; le più note sono: Arnheim, Groningen e Nira e del regno Lombardo-Veneto. (16) mega in Olanda; Brno, Opava, Pilsen, Pre_ov e In oriente è invece rimasta a simbolizzare gli Tàbor in Cechia; Ginevra in Svizzera; Görlitz, Zar di Russia, eredi dell’Impero bizantino fino al Lubecca e Norimberga in Germania; Krems e 1917. In particolare essa è stata bandiera impe- Vienna in Austria; Krasnodar e Poltava in Rusriale fra il 1842 e il 1858 e bandiera nazionale sia, Ordjonikidze-Dzaoudzikaou nell’Ossezia fra il 1914 e il 1917. Essa è anche presente (in russa, Oswiecim in Polonia; Szeged in Ungheria; versione abbassata su fondo rosso con una stella Toledo in Spagna; Coligny in Francia e Castrogiovanni (l’attuale Enna) in Italia. Essa è anche Bandiera del Sacro Romano Impero (Mano- il simbolo di una delle contrade di Siena. A Verscritto del XVI secolo) sailles, in Francia essa è stata sostituita dalla stravagante imitazione costituita da un gallo a due teste. (17) In Padania è presente sull’antico scudo di Trieste, del Monferrato, sugli stemmi di Carrara e Sabbioneta, e di moltissime famiglie nobili. La sua presenza era sicuramente assai più compatta in Padania e in Italia, ma anche in tutta Europa, prima delle “censure araldiche” perpetrate dalle rivoluzioni giacobina e comunista, e dagli stati nazionali ottocenteschi. Dell’aquila è stata in passato elaborata anche una stranissima versione a tre teste, nella quale la terza testa sarebbe stata aggiunta a simboleggiare il regno cristiano di Terra Santa. (18) (16) Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, op.cit., pag. 137. (17) Jir̆i Louda, Blasons des Villes d’Europe (Gründ: Parigi, 1972). (18) Ottfried Neubecker, Araldica (Longanesi: Milano, 1980), pag. 225; e Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, op. cit., pag. 164. 26 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Il senso del suo attuale riutilizzo Si tratta di un simbolo antichissimo il cui rinvigorimento avrebbe prima di ogni altra cosa il significato di superamento delle sciagure ideologiche che hanno devastato l’Europa negli ultimi due secoli, e il ritorno a una idea di Comunità basata su profonde similitudini culturali e religiose, sulla continuità storica e sulle comuni origini. Sarebbe – per parafrasare De Maistre – non un voler tornare al Medio Evo ma farlo continuare, riproponendo una comunità di popoli fratelli uniti sotto una struttura imperiale dallo scarso peso politico (se non di comune visione dei rapporti verso l’esterno) ma dalla preponderante carica simbolica. Cotta d’arme dell’araldo dell’Imperatore romano-germaL’Europa che ha preceduto i grandi nico sconvolgimenti rivoluzionari, che l’hanno profondamente devastata e divisa, aveva culturali della comune tradizione cristiana. Soin sé tutte le potenzialità per generare una prattutto in un momento nel quale mondialicompatta unione dei suoi popoli, costruita sullo smo e islamismo stanno aggredendo congiunti scrupoloso rispetto per le differenze e per le au- la grande Patria comune degli Europei, tutti i tonomie locali: tutte cose che non è in grado (e valori che l’aquila ha sempre rappresentato si che non ha intenzione) di fare l’attuale sciagu- ergono come baluardo e difesa delle nostre lirata Europa dei banchieri e dei burocrati. L’a- bertà antiche. Così oggi, l’aquila nera torna a quila bicipite ha sempre rappresentato entità essere (con forza quasi addirittura superiore a politiche sovranazionali, composte dall’unione quella del passato) segno di alleanza fra il potedi popoli diversi e di re politico e quello autonomie rispettate Corona dell’Impero, usata la prima volta da Otto- spirituale, di unione e proprio per questo ne I il grande nel 962 dell’Occidente con è stata sempre odiata l’Oriente d’Europa da giacobini, nazio(anche in termini renalisti e comunisti. ligiosi), e di lotta Tutti i simbolismi di contro il mondialicui l’aquila è sempre smo massonico e stata caricata sono di l’aggressività islamistretta attualità per ca. l’Europa di oggi. Questa era la bandieLa complementara che sventolava sui rietà e la differenza bastioni di Costantifra il potere politico nopoli cristiana assee quello spirituale diata dai Turchi, che devono essere alla guidava le armate base di ogni moderna cristiane di Eugenio società liberale basadi Savoia e di Raita sulla assoluta divimondo Montecuccoli sione e indipendenza che hanno respinto dei poteri ma anche le orde islamiche fortemente ancorata fuori dal cuore della ai valori morali e Mitteleuropa; era la Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 27 bandiera che ha accompagnato – assieme agli stendardi padani di San Marco e di San Giorgio – la vittoria della flotta cristiana di Giovanni d’Austria e di Agostino Barbarigo a Lepanto. È la bandiera che ha per secoli difeso i nostri popoli da tutti i tentativi di invasione islamica, e che ha tenuto testa alle orde giacobine e napoleoniche, a tutte le trame massoniche e alle brutalità comuniste. La bandiera viene riproposta nella sua versione occidentale più recente, con l’esclusione delle due corone reali e dello scettro, e – ovviamente – di ogni segno araldico particolare o dinastico. Per maggiore forza simbolica la corona imperiale asburgica avrebbe dovuto forse essere sostituita da quella più antica, attribuita a Carlo Magno, che avrebbe però portato qualche problema alla simmetria che costituisce uno dei suoi caratteri grafici più incisivi. Il suo rinnovato uso acquista particolare significato in Padania perché ai simbolismi che condivide con tutto il resto d’Europa si sommano da noi alcuni alAquila del Sacro Romano Impero con tre teste, simbo- tri significati piuttosto pregnanti. leggiante la conquista della Terrasanta È la bandiera che ha sventolato sul colle dell’Assietta, assieme al drapò pieL’aquila europea montese, in difesa di questa terra, era il simbolo impiegato da una larga parte degli insorgenti padani ed è stato – per decenni – il segno più odiato da tutti i cospiratori risorgimentali. Riprendere oggi a sventolare la bandiera che era (sia pur nella sua versione asburgica) di Radetzky è un chiaro segno antirisorgimentalista e antiunitario. Utilizzare la stessa aquila che ha difeso con tenacia la Russia cristiana dal terrore bolscevico è un forte segno di rigetto della mortifera ideologia comunista. Come segno solare, l’aquila non può poi non proporre strettissime parentele con il Sole delle Alpi che può anche essere letto come una sorta di sua stilizzazione: il petalo verticale alto rappresenta le teste, i due superiori le ali, i due inferiori gli artigli e quello verticale basso la coda. Assieme alla Croce di San Giorgio è il più forte segno di libertà e di identità dei nostri popoli. 28 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Francesco Giuseppe I: Sovrano esemplare di un Impero provvidenziale di Massimo de Leonardis Una Dinastia cattolica Il ricordo nostalgico dell’Impero asburgico coinvolge un vasto arco politico-ideologico. Sul Corriere della Sera, Claudio Magris ricordava che «A Trieste il movimento Civiltà mitteleuropea festeggia con manifesti gialloneri e plurilingui il compleanno di Francesco Giuseppe e si schiera su posizioni radicali di sinistra; anni fa appoggiava, alle elezioni, i partiti dell’estrema sinistra ed era vicino ai Verdi e alle correnti della Nuova psichiatria di Basaglia» ( 1 ). Quasi trent’anni fa furono invece i cattolici tradizionalisti a tappezzare Milano di manifesti con la foto dell’Imperatore Francesco Giuseppe e la scritta «Europa, una, cattolica, imperiale!». Non ho difficoltà a confessare di appartenere al secondo gruppo di nostalgici. Non amo l’atmosfera decadente di certa cultura mitteleuropea, preferisco il ritmo della Marcia di Radetzky di Strauss padre e la melodia del Bel Danubio Blu di Strauss figlio ai suoni scomposti di Schönberg e la mia simpatia per le idee dell’Arciduca Ereditario Francesco Ferdinando è rafforzata leggendo che in una occasione percosse con il frustino da cavallerizzo un quadro di Kokoschka. Potrei dire come l’ultimo dei Trotta nelle pagine iniziali della Cripta dei Cappuccini: «Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico. Non che io non lo capisca, come tante volte sostengo. Questa è solo una scusa di comodo. Per indolenza, semplicemente, non voglio essere aggressivo o astioso, e perciò dico che una cosa non la capisco, quando dovrei dire che la odio o la disprezzo. Ho l’orecchio fine, ma faccio il sordo. Mi pare più elegante fingere un difetto che ammettere di aver sentito rumori volgari» (2). Se sono qui oggi (3) con estremo piacere a ricordare la venerata memoria dell’Imperatore è perché mi riconosco da sempre nei valori moAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 narchici e cattolici che la figura di Francesco Giuseppe ha simboleggiato in 68 anni di regno e nella Tradizione di una Europa cristiana che la Dinastia degli Asburgo ha incarnato in mille anni di storia. Da Madrid a Vienna, da Lisbona a Praga, da Bruxelles a Milano, da Napoli a Cracovia, sono almeno 19 gli Stati attuali (4) sui quali, o su parti dei quali, gli Asburgo dei due rami austriaco e spagnolo hanno regnato per periodi più o meno lunghi, come Sovrani ereditari o Sacri Romani Imperatori, senza contare i territori extraeuropei. Dinastia europea più di qualunque altra casa regnante, «gli Asburgo - ha scritto Hugo von Hoffmansthal - hanno rappresentato mille anni di lotta per l’Europa, mille anni di missione europea, mille anni di fede nell’Europa» (5). L’Impero d’Austria sul quale regnò Francesco Giuseppe I era erede del Sacro Romano Impero, la cui corona gli Asburgo cinsero per la prima volta nel XIII secolo e poi ininterrottamente, salvo tre anni, dalla prima metà del ’400 fino al 1806. «Il nostro Imperatore è un fratello temporale del Papa, è Sua Imperiale e Regia Maestà Apostolica ... nessun altra Maestà in Europa dipende (1) C. Magris, Mitteleuropa. Lessico dell’ambiguità, in Corriere della Sera, 11-11-98, pag. 33. (2) J. Roth, La Cripta dei Cappuccini, Milano 1995, pag. 10. (3) Il testo rispecchia la relazione svolta al convegno tenuto a Milano nel novembre 1998 per iniziativa della Fondazione Cajetanus in occasione del 150° anniversario dell’ascesa al Trono dell’Imperatore Francesco Giuseppe I e del 160° anniversario dell’incoronazione nel Duomo di Milano dell’Imperatore Ferdinando I a Re del Lombardo-Veneto. (4) Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Francia, Germania, Italia, Jugoslavia, Liechtenstein, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Spagna, Svizzera, Ungheria. (5) Sul tema, in italiano, cfr. H. von Hofmannsthal, L’Austria e l’Europa. Saggi 1914-1928, Casale Monferrato 1983, in particolare pagg. 7÷71. Quaderni Padani - 29 Savoy, simboleggiando così il carattere multinazionale ed europeo dell’Impero. Nel 1914 ritroviamo un Conte Rodolfo Montecuccoli, nato a Modena nel 1843 e discendente del grande generale, capo di Stato Maggiore della Imperiale e Regia Marina Austro-Ungarica. Nei limiti consentiti dall’evoluzione storica, nell’Impero e nella Dinastia viveva l’eredità del Sacro Romano Impero e l’Austria-Ungheria era l’unica monarchia e l’unica grande potenza cattolica ( 8); per queste ragioni chi aveva il disegno di “repubblicanizzare l’Europa” individuava in essa il nemico da abbattere, imprimendo alla prima guerra mondiale il carattere di scontro ideologico: «Come repubblicanizzare l’Europa? I radicali pensavano alla Germania, ma non dimenticavano che in Germania vi erano anche dei protestanti e dei massoni. Mentre il nemico tradizionale, l’Austria-Ungheria, incarnava insieme monarchia e cattolicesimo ... il grande disegno ... era di estirpare dall’Europa le ultime vestigia del clericalismo e del monarchismo» (9). Sovrano consacrato, primo funzionario dell’Impero, povero peccatore Nell’Imperatore Francesco Giuseppe si componevano armonicamente due concezioni della regalità: il sovrano consaFrancesco Giuseppe nel 1863. Dipinto di Eduard crato, «per Grazia di Dio», ed il sovrano Engerth primo funzionario dello Stato. La cerimonia nella quale soprattutto rifulgeva il a tal punto dalla grazia di Dio e dalla fede dei carattere cattolico dell’Impero e del suo Sovrano popoli nella grazia di Dio», esclama il polacco era la processione a Vienna del Corpus Domini, Conte Chojnicki nella Marcia di Radetzky (6). forse il maggiore evento annuale della monar«L’Impero era sacro. Non poteva tramontare», chia. L’Imperatore a capo scoperto seguiva a piesi ripete l’alfiere Menis, al quale nei giorni della di il Santissimo Sacramento, alla testa dei dignisconfitta del 1918 toccherà portare lo stendardo tari della Corte e dello Stato. Lo zelo e la precidel suo reggimento di cavalleria, tra le cui pie- sione con i quali l’Imperatore sbrigava le pratighe ristagnavano ancora «il solenne profumo d’incenso delle messe al campo e delle processioni, il dolce odore di sangue delle vittorie e (6) J. Roth, La Marcia di Radetzky, Milano 1996, pag. 209. (7) A. Lernet-Holenia, Lo stendardo, Milano 1989, pagg. 260 quello amaro dei serti di alloro» (7). In Spagna e nel Sacro Romano Impero gli e(8194. ) Con una popolazione quasi completamente cattolica la Asburgo avevano rappresentato la spada della Repubblica francese ed il Regno d’Italia si caratterizzavano Controriforma. Per secoli gli Asburgo furono però per l’anticlericalismo dei loro regimi e per il conflitto nei Balcani lo scudo del mondo cristiano di con la Chiesa ed il Papato. In Gran Bretagna e Russia i Sofronte all’Islam. Tra i comandanti dei loro eser- vrani erano allo stesso tempo i capi simbolici delle rispettive religioni di Stato, anglicana ed ortodossa; nell’Impero Tedeciti, e tra i più grandi generali di tutti i tempi, sco era forte il predominio della Prussia luterana. furono gli “italiani” Raimondo Montecuccoli ed (9) Cfr. F. Fejtó́, Requiem per un Impero defunto. La dissoluEugenio di Savoia, che si firmava Eugenio von zione del mondo austro-ungarico, Milano 1990, pag. 320. 30 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 che sottopostegli erano proverbiali e non si può leggere senza commozione la cronaca dei suoi ultimi giorni, quando, colpito dalla malattia, si sedeva comunque al suo scrittoio dalle prime ore del mattino fino a tarda sera, chiedendo addirittura di essere svegliato (alle tre e mezza!) prima del consueto orario, per compiere il lavoro accumulatosi a causa delle forze che ormai lo abbandonavano. La grandezza e l’umiltà del Sovrano cattolico, che regna “per Grazia di Dio” ma di fronte al confessore è uguale al più modesto dei suoi sudditi, come diceva un Asburgo, Filippo II di Spagna, trovavano espressione nel cerimoniale della sepoltura degli Imperatori, quando davanti alla Kaisergruft, la Cripta dei cappuccini, il Maresciallo di corte chiedeva di far entrare la bara del defunto usando prima il “grande titolo”, poi la “piccola titolatura”, vedendosi però negare l’ingresso, che otteneva solo la terza volta, quando alla domanda del frate «Chi chiede accesso?» rispondeva semplicemente: «Tuo fratello Francesco Giuseppe, un povero peccatore». All’Imperatore, secondo le sue parole, «nulla era stato risparmiato» sul piano personale: la fucilazione del fratello, il suicidio del figlio, l’assassinio della moglie (10) e del nipote erede al trono. Francesco Giuseppe avrebbe potuto dire di sé come il suo antenato Rodolfo nei versi di Grillparzer: «Ciò che era mortale l’ho estirpato/E sono soltanto l’Imperatore che non muore mai». L’Impero necessario Una riflessione sull’Impero multinazionale degli Asburgo può iniziare dal pensiero dell’Imperatore stesso, riferito dalla testimonianza dell’aiutante di campo Albert von Margutti: «Non furono avvenimenti storici quelli che hanno unito i nostri popoli, ma bensì le necessità assolute della loro presente e futura esistenza. Perciò la Monarchia è un insieme non artificioso ma organico, e, come tale, qualcosa di indubbiamente necessario. Essa rappresenta l’asilo, il rifugio di tutti i frammenti di nazioni gettati verso l’Europa centrale. Abbandonati a se stessi avrebbero un’esistenza miserabile, diverrebbero balocco di ogni loro più potente vicino. Invece, uniti, rappresentano non solo una potenza degna nel suo complesso di rispetto, ma possono Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Fotografia di Francesco Giuseppe nel 1888 col reciproco aiuto sociale ed economico raggiungere condizioni più sicure e più favorevoli alla loro esistenza e al loro sviluppo» (11). La prima edizione delle memorie di von Margutti apparve nel 1921 e non si può quindi pensare che l’Autore, morto nel 1940, avendo quindi il tempo di vedere i paesi dell’Europa centroorientale stretta nella morsa della Germania di Hitler e dell’Unione Sovietica di Stalin, addomesticasse i suoi ricordi per attribuire un giudizio profetico all’Imperatore. (10) Una moglie della quale, alla sua scomparsa, disse: «Nessuno sa quanto ci siamo amati». Ma certo Elisabetta d’Austria non fu vicina come avrebbe dovuto al consorte e, soprattutto, non aveva affatto la sua stessa concezione della regalità, coltivando anzi idee “sovversive”, che almeno non uscirono dal campo di discutibili esercizi letterari (cfr. E. d’Austria, Diario poetico, Trieste 1998), cosicché il popolo conobbe solo il fascino di “Sissi”. (11) A. di Margutti, L’Imperatore Francesco Giuseppe, Genova 1990, pag. 116. Quaderni Padani - 31 Lo storico francese Jacques Droz in un intervento nel 1963 al XLI Congresso di Storia del Risorgimento Italiano esprimeva un giudizio altrettanto positivo sulla missione storica dell’Impero asburgico: «La monarchia austro-ungarica assolveva nel 1914 un compito incontestabile e non era affatto quel “carcere dei popoli” come spesso è stata definita. Ci si può chiedere se gli Stati che si formarono dal suo smembramento si siano dimostrati più capaci di lei di risolvere i problemi nazionali. L’idea nazionale. molto rispettabile in sé, è poi troppo spesso diventata strumento di oppressione. Forse la saggezza avrebbe richiesto che le aspirazioni nazionali avessero cercato di svilupparsi nel seno di uno Stato plurinazionale» (12). Una terza autorevole opinione, tra le molte che si potrebbero citare, sull’insostituibile ruolo dell’Impero nell’Europa danubiano-balcanica è quella di uno dei più importanti diplomatici e studiosi della diplomazia, largamente noto come il teorico del containment, la strategia di resistenza all’espansionismo sovietico, l’americano George Kennan per il quale «L’Impero austro-ungarico appare tuttora come soluzione degli intricati problemi di quella parte del mondo, migliore di tutto ciò che gli è subentrato» (13). L’Impero asburgico si reggeva su alcuni pilastri la cui saldezza era intaccata da forze centrifughe, in opposizione alle quali si manifestavano però anche forze centripete, come ben sottolinea nella sua opera François Fejtó́. Lo storico britannico Alan Sked scrive che la fine della monarchia non era affatto scontata, anzi essa si andava rafforzando (14), mentre Victor-Lucien Tapié osserva che da diversi punti di vista «si poteva persino ritenere l’Austria-Ungheria una potenza del futuro» (15) ed anche C. A. Macartney parla di «molti elementi [che] inducevano all’ottimismo», all’inizio del secolo, sul domani dell’Impero (16). Il primo pilastro era evidentemen- te la monarchia, la lealtà nei confronti della quale «era ben lungi dall’essere una semplice espressione retorica» e rimase in particolare «intatta» fino alla morte del leggendario Imperatore. Un altro elemento di coesione era la religione cattolica, che riuniva intorno all’Imperatore austro-tedeschi, slovacchi, sloveni, croati, polacchi e la maggioranza dei cechi e degli ungheresi. Ma anche le altre confessioni cristiane, i cui alti dignitari sedevano anch’essi, in quanto tali, nelle assemblee parlamentari, svolgevano un analogo ruolo politico. Un altro pilastro fondamentale era costituito dall’Esercito Imperialregio, «vero e proprio crogiolo» delle popolazioni di tutte le parti dell’Impero, e dalla Marina. E ancora «l’amministrazione, efficiente e non corrotta, e la burocrazia, imponente» e «la comunanza di interessi che univa i diversi popoli nella vita politica come in quella economica» (17). Tutte le nazionalità potevano contare sulla «protezione della legge e avevano totale libertà di coscienza e di culto» e godevano «di libertà molto più grandi di quelle dei loro fratelli di razza che vivevano al di fuori delle frontiere dell’Impero»: questi i caratteri della Felix Austria (18). Un giudizio, l’ultimo ricordato, che troverà piena conferma nel dopoguerra, quando «le nazioni di cui i vincitori proclamarono la “rinascita” si dimostrarono, per molti aspetti, creazioni “letterarie” più che politiche e soprattutto piccoli imperi multinazionali, assai meno liberali e tolleranti dell’impero “distrutto” di cui avevano fatto parte» (19). All’Austria-Ungheria succedettero infatti pretesi Stati nazionali che in realtà erano altrettanto multinazionali dell’Impero scomparso, con l’aggravante che rifiutavano di riconoscerlo e l’etnia dominante opprimeva le minoranze. La composizione etnica e religiosa di tali Stati risulta dalle tabelle seguenti (20): (12) Cit. in V.-L. Tapié, Monarchia e popoli del Danubio, Torino 1993, pagg. 6-7. (13) G. Kennan, The Decline of Bismarck’s European Order. Franco-Russian Relations, 1875-1890, Princeton 1979, pag. 423. (14) Cfr. A. Sked, Grandezza e caduta dell’Impero asburgico 1815-1918, Roma-Bari 1993, pagg. 236 ÷ 239. (15) Op. cit., pag. 420. (16) C. A. Macartney, L’Impero degli Asburgo 1790-1918, Milano 1981, pagg. 870 ss. (17) Sui benefici economici che l’Impero arrecava a tutte le sue parti cfr. D. F. Good, The economic Rise of the Habsburg Empire, 1750-1914, Berkeley-Los Angeles 1984. Sul- la forza della monarchia, cfr. Tapié, op. cit., pagg. 385-386, 476-77. (18) Cfr. H. Bogdan, Storia dei paesi dell’est, Torino 1994, pp. 150-55, dal quale sono tratte le citazioni. Secondo Sked, anche gli 800mila italiani «erano in effetti una nazionalità favorita piuttosto che oppressa, nel senso che (specie dopo il 1907) avevano rispetto al numero più rappresentanti di ogni altro gruppo nazionale» (op. cit., pag. 229), affermazione che dedichiamo a qualche tardivo ammiratore di Guglielmo Oberdan, che era poi lo sloveno Wilhelm Oberdank. (19) Il giudizio è dell’Ambasciatore Sergio Romano, Introduzione a Fejtó́, op. cit., pag. XV. (20) Tratte da Bogdan, op. cit., pagg. 227 ÷ 231. 32 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Cecoslovacchia Polonia Regno dei Serbi-Croati-Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia) A questi dati eloquenti vanno aggiunte alcune considerazioni relative a due Stati, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, creati con i trattati di pace del 1919, due costruzioni artificiali che sono durate pochissimo e si sono dissolte, la prima volta rispettivamente nel 1939 e nel 1941, la seconda, e stavolta non si può accusare nessun HiAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 tler (21), nel 1993 e nel 1991. In entrambi gli Stati le etnie dominanti, Cechi nel primo caso, (21) Ma, comunque, osserva Bogdan, «sotto molti aspetti, la nuova situazione [del 1941] corrispondeva alle aspirazioni dei popoli molto più dell’antico regno unitario di Jugoslavia» (op. cit., pag. 306). Quaderni Padani - 33 Romania Francesco Giuseppe nel 1912 Serbi nel secondo, che rappresentavano meno del 50% della popolazione, esercitarono una dura egemonia sulle minoranze nazionali, che ebbero tutti i motivi di rimpiangere la situazione precedente. Non a caso slovacchi, come del resto croati e sloveni, erano rimasti fino all’ultimo fedeli alla monarchia. Nel 1938 in Cecoslovacchia su 140 ufficiali generali uno solo era slovacco, su 13.000 ufficiali subalterni, gli slovacchi erano 420; 33 erano gli slovacchi a fron34 - Quaderni Padani te di 1.246 cechi nei ranghi del ministero degli esteri; tra gli 8.000 funzionari delle amministrazioni centrali dello Stato gli slovacchi erano solo 130. Considerando la situazione della Slovacchia essa «rimaneva sotto ogni profilo una colonia dello Stato cecoslovacco, sfruttata a esclusivo vantaggio dei cechi» ( 22). Ben diversa era stata la situazione prima della guerra, quando, ad esempio, un prelato slovacco, il Cardinale Csernoch, era stato Arcivescovo di Esztergom e Primate di Ungheria. Per non parlare naturalmente della situazione di tedeschi ed ungheresi in uno Stato creato dai massoni Masaryk e Benes˘ , grazie all’appoggio dei fratelli di setta negli Stati nemici dell’Austria-Ungheria, e fondato su due princìpi contraddittori, quello storico, la restaurazione dell’antica Boemia-Moravia, e quello dell’identità etnica, peraltro fittizia, di cechi e slovacchi (23). La situazione della Jugoslavia è fin troppo nota. Sloveni e croati ebbero prestissimo modo di rimpiangere anch’essi il passato, in uno Stato dominato dai serbi la cui costituzione centralista venne approvata nel 1921 senza che alla sua (22) Bogdan, op. cit., pagg. 238-239. (23) Cfr. Fejtó́, op. cit., pagg. 441-442. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 votazione partecipassero, in segno di protesta, i deputati delle due minoranze nazionali. Il capo del partito contadino croato Radic dichiarò: «I croati non erano gli schiavi della monarchia asburgica e i serbi non ne sono stati i liberatori». Verrà ucciso a colpi di pistola in pieno parlamento nel 1928; il suo successore Mac̆ek verrà arrestato per aver protestato contro la nuova costituzione ancora più centralista introdotta nel 1931, a seguito del colpo di Stato di due anni prima del Re Alessandro II. La caduta dopo la prima guerra mondiale dei tre Imperi europei ed in particolare di quello asburgico determinò un vuoto ed una frammentazione di potenza nell’Europa centro-orientale (la cosiddetta “balcanizzazione”). Sul piano economico i nuovi Stati potevano a fatica reggersi autonomamente; quella «magnifica via di unificazione che è il Danubio rimase, tra le due guerre, quasi inutilizzata, perché non si riuscì mai a sopprimere o ridurre le undici dogane che lo spezzettavano da Ratisbona fino a Giurgiu» (24). Ma in politica e soprattutto in politica internazionale il vuoto viene sempre colmato. Dopo vent’anni le nazioni di quella parte dell’Europa erano strette nella morsa della Germania nazionalsocialista e della Unione Sovietica (25). L’ordine, ma dell’oppressione e della morte, venne poi imposto per quasi mezzo secolo dal comunismo, caduto il quale la storia ritrovò un appuntamento simbolico in un luogo dove già era stata scritta una pagina tragica: Sarajevo. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 È paradossale che ottantadue anni fa le forze dominanti in Europa decretassero la morte dell’Impero multinazionale degli Asburgo, mentre oggi esse inneggiano alla società multietnica e multireligiosa, non tra europei, ma con africani ed asiatici, senza gli elementi unificanti del trono e dell’altare. Ottanta anni fa si distruggevano gli Imperi, si abbattevano i troni e si frammentava l’Europa, oggi si vuole ricostruirla in nome del denaro. Dobbiamo credere che ciò avvenga per caso e che la politica internazionale sia mossa solo da quella che è stata definita la “perpetua quadriglia” tra le Grandi Potenze (26)? Ottantadue anni fa si chiudeva la vicenda storica dell’Impero Asburgico, ma, nonostante l’effimera esultanza dei vincitori, finiva anche l’Europa come soggetto dominante della politica mondiale, si ponevano anzi le premesse della dominazione del nostro continente da parte di superpotenze ad esso totalmente o parzialmente estranee. (24) P. Henry, Nazionalità e nazionalismo, in AA. VV., Nuove questioni di storia contemporanea, Milano 1969, vol. I, pag. 308. (25) Cfr. M. de Leonardis, L’Europa e il Mediterraneo dalla prima alla seconda guerra mondiale/Europa und das Mittelmeer vom Ersten zum Zweiten Weltkrieg, in AA. VV., L’unità d’Europa: il problema delle nazionalità/Die Einheit Europas: das Problem der Nationalitäten, Merano 1990, pagg. 201 ÷ 217. (26) A. J. P. Taylor, L’Europa delle Grandi Potenze. Da Metternich a Lenin, Bari 1971, pag. 13. Quaderni Padani - 35 Claudia Augusta Di Giulio Pizzati La Via Claudia La Via Claudia Augusta Altinate e la Via Claudia Augusta al Po erano le due alternative iniziali della stessa strada. Una partiva da Altino, l’altra da Ostiglia sul Po. La biforcazione si congiungeva a Trento. Di lì direttamente alla Rezia via Resia o al Norico via Brennero. Altino era il porto marittimo più vicino al Danubio cui si potesse giungere per nave da Roma o dal Mediterraneo orientale. Il porto fluviale di Ostiglia sul fiume Po era ancor più vicino via Verona e Trento, ma durante la siccità il fiume poteva non essere navigabile. Normalmente il fiume era più rapidamente percorribile verso il mare col favore della corrente. Cioè nella via di ritorno. Il corso del Po era diverso dall’attuale. Bagnava il porto fluviale di Ferrara e sfociava nella base navale di Ravenna dove stazionava la flotta pretoria, pronta a imbarcare o sbarcare truppe a Ostiglia o Altino. Da Altino si giungeva a Trento passando per Feltre. Il porto lagunare di Altino era comunque il punto di arrivo e di partenza di tutta la logistica nord orientale (Rezia, Norico, Germania Danubiana). Serviva anche di appoggio alla logistica nord occidentale (Germania Renana, Gallia, Britannia). Da Altino sono tutt’oggi rilevabili tutte le direttrici orientate sui vari passi della Cisalpina tracciate ancor prima degli assi viari veri e propri. Lo scopo principale era giungere ai passi nel minor tempo possibile. Una seconda tesi vuole che vi fossero due distinte vie Claudie. Anziché congiungersi a Trento, una avrebbe portato da Ostiglia al Passo Resia. L’altra da Altino al Brennero per la Val Pusteria. Una terza tesi vuole che la Claudia, da Ostiglia, anziché dirigersi su Verona e Trento, passasse per Legnago e risalisse la Valle dell’Agno, al Passo di Campognosso per poi congiungersi alla valle dell’Adige. Tutte queste tesi sembrano mal poste. Più che una strada forse la Claudia era un sistema viario per passare le Alpi. Molte erano le alternative 36 - Quaderni Padani necessarie in caso di occupazione di un passo da parte di forze avverse, inondazioni, nevicate, frane, eccetera. È credibile che siano state usate nel tempo tutte le alternative possibili. Indipendentemente dai percorsi ipotizzati dagli storici gli allineamenti qui a seguito rilevati indicavano le direzioni da seguire per orientarsi nel territorio ancor prima che le opere stradali fossero tracciate, eseguite, migliorate o munite. In mancanza della bussola far riferimento alle alte cime era il solo modo di procedere. L’autore è da tempo impegnato nel ritrovare e documentare gli schemi degli allineamenti (leys) su cui è stato costruito il reticolo ambientale del Veneto antico e forse di gran parte della Padania. In questo saggio si occupa di definire gli allineamenti imperniati su Altino che sono il risultato della romanizzazione di schemi e di principi di sacralizzazione ambientale piuttosto comuni nelle culture preceltiche, celtiche e quindi anche venetiche, come è già stato anche illustrato sul numero 18 dei Quaderni Padani. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Numerose vette del Veneto portano ancora i nomi dati dai topografi durante il periodo GiulioClaudio quando furono fatti i rilievi preliminari al tracciamento delle vie di acceso alla Rezia ed al Norico. Centro del radiale era il porto lagunare di Altino. Minimi erano invece i riscontri dal porto fluviale di Ostiglia. Il toponimo e l’acronimo alto si trova ripetuto in moltissime varianti: Monte Alto, Vedetta Alta, Rialto, Punta Alta, Pertica Alta, Altissima, Carè Alto. È errato ritenere che il nome nasca dalla maggiore altitudine del rilievo rispetto ad altri. L’illazione cade constatando che le cime denominate “alte” sono spesso circondate da cime di quota superiore. Molti anche i toponimi: Collalto, Cerealto, Altivole, Altavilla, Villalta, Fossalta, Alte, Altissimo. Ci sono poi toponimi variati con i secoli come: Monte Baldo [*b-Alto], Montaldo [*mons-Altus], Cima Auta [*Alta], Ault [*Altus]. Acronimi e toponimi che contengono la radice Alto riferita ad Altino giacciono sempre su rette che collegano Altino ai passi alpini. I rilevamenti cartografici che seguono vogliono illustrare unicamente questa constatazione. dal Brenta a Oderzo ben si prestava da scalimetro per determinare le distanze. Punto radiale era Altino. La retta che congiunge Altino al Brennero passa sopra una vetta della Marmolada oggi denominata Auta [*Alta]. Su quella retta fu costruito il primo tratto di strada ancor oggi esistente che passa da Quarto d’Altino e si dirige al Ponte della Priula. L’avvicinamento al Brennero nel primo tratto di pianura fino al Piave veniva così fatto nel modo più diretto. Tutti i percorsi di fondovalle per attraversare le Alpi erano in uso da millenni. Si trattava di renderli più praticabili e diretti con opere del genio militare. Altino-Passo Brennero Il collegamento ovest-est della Cisalpina era già stato tracciato e in parte eseguito con la Postumia. Nel periodo Giulio-Claudio si doveva fare il collegamento sud-nord oltre le Alpi. Il lungo tratto della Postumia Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 37 Altino-Passo Resia In una qualsiasi giornata serena da Altino si può vedere il bianco delle cime alpine. Guardando verso il Monfumo la linea visiva che portava al passo verso la Rezia, individua la sommità di Col Alto a quota 498 sull’asse: Vedetta Alta a quota 3262 in Val dell’Ultimo, sul prolungamento Monte Alto a quota 3262 in Val Venosta e infine il Passo Resia. Questa retta individuava il tratto di strada da Altino a Montebelluna verso la Rezia. Il primo tratto Altino-Treviso è oggi scomparso forse per lo straripamento del Sile. Altino-Passo Cisa Fra le molte radiali rilevate, l’asse che da Altino porta in direzione del passo appenninico della Cisa è caratterizzato dalla ripetizione del nome Concordia. Dalla Cisa la retta tocca Concordia al Secchia, traversa l’Adige a Castelbaldo. Chiave del sistema topografico è la ripetizione del nome alto, per cui Castelbaldo sembra riconducibile: *Castel(b)alto, *Castellum Altum. A nordest l’asse identifica Concordia Sagittaria, le gole dell’Isonzo e il passo di Pedicolle senza altri riscontri toponomastici. Altino-Genava (Ginevra) La retta che congiunge Altino con Genava è ricca di omofonie. Alto si trova ripetuto dieci volte. Da Ginevra verso la Savoia: Haute Pointe (Q. 1958) e Hautforts (Q. 2466). In Svizzera: Haute Cime (Q. 3260) a ovest di Martigny. Anche Alphubel (Q. 4207) è forse riconducibile ad Altus. In Piemonte c’è Pizzo Montalto (Q. 2505) presso Domodossola. Aralalta (Q. 2006) presso S. Pellegrino è in Lombardia. Ci sono poi il paese di Perticalta, Malga Alta di Porra (Q. 1499). Monte Alto (Q. 1723). Nella Venezia: Valdritta del Baldo [*(B)Alto] (Q. 2278), poi Revolto [*(Rivus)Altus] (Q. 1511), e quindi Altino. Questo radiale dopo Trebaseleghe tagliava la Postumia al 36° miglio presso S. Pietro in Gu. XLI-Piccolo San Bernardo La retta che congiunge Altino con il 41° miglio porta al Colle del Piccolo San Bernardo passando per Quarena [*Qua(d)ra(gintu)na] di Gavardo (BS). Sull’asse si trovano la cima del monte Faldo [*(F)alto] (Q. 805) e Monte Alto (Q. 957) sui Lessini. Oltre Quarena la retta interseca Monte Alto (Q. 652) a sud di Sarnico sul Lago d’Iseo e porta al passo del Piccolo San Bernardo passando per Monte Emilius. Emilius-Altino può essere importante in quanto chiude il triangolo cisalpino S. Marino-Emilius-Altino. XL-Quadraginta Il quarantesimo miglio est si ottiene congiungendo il campanile della chiesa di Quargnenta di Brogliano con Altino. L’intersezione con la Po- 38 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 stumia avviene a Ospedaletto sulla retta dal Brenta a Vicenza. Circa Quargnenta va ricordato che su una cartapecora dell’anno 976 il toponimo appare nella sua forma originaria: “... locus et fundus qui vocatur Quadragenta …” Il documento, ora all’archivio segreto vaticano, proviene dal fondo di San Giorgio in Braida di Verona ed è stato pubblicato su gli Atti e Memorie dell’Accademia di Scienza, Agricoltura e Lettere di Verona, anno 1966/1967, serie 6, volume 18, pagg. 166/169, Verona 1968. (Segnalazione di Silvano Fornasa) Sul prolungamento ovest oltre Quargnenta c’è un altro toponimo numerico: il paese di Squaranto che dà il nome al Vaio. Il mutamento linguistico si può così congetturare: [*(S)qua(d)ra(gi)nto]. I tre toponimi: Quarena, Squaranto e Quargnenta offrono un interessante quadro di variazione fonetica. Numerosi sono i riscontri di questo asse che sembra collegare Aosta, Campanili di Bolca, Roverè, Pieve San Pietro Mussolino, Quargenta, Brogliano, Castelgomberto, Madonna delle Grazie, Costabissara, Ospedaletto (Miglio XL), Altino. XXX Il 30° miglio a est si delinea sulle carte congiungendo Altino con Trenta d’Isonzo. La dizione del toponimo non lascia dubbi sulla sua origine e sull’esattezza delle presenti constatazioni. Le 30 miglia a ovest si delineano con Terviso in Istria, Altino, XXX miglio presso Cittadella, Tretto, Altissimo di Nago (Q. 2078), Ballotto Alto, Tremalzo (Q. 1975), Pizzo dei Tre Signori (Q. 1554) e il Passo Sempione. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 39 IX Anche il 9° miglio ovest ha un riscontro: da Piz Nuna in Engadina (Q. 3176) a Punta Alta (Q. 2798) si interseca la Postumia al IX miglio verso Altino. VII Congiungendo il settimo miglio ovest con Altino, sul prolungamento si trova l’appezzamento Sette Casoni al Cavallino di Jesoloe a nordovest località Le Musette [*Mu Sette] di Onigo. XIII Oltre a determinare le trenta miglia su entrambi i lati della Postumia dall’intersezione con la Claudia, furono fatte misurazioni del 13° miglio ovest e del 13° miglio est. Il 13° miglio ovest è rilevabile congiungendo Altino con Cima dei Tre Signori a quota 3359 sul Cevedale. All’intersezione con la Postumia si trova il toponimo Tredici dato a un appezzamento di terra a Sud di Barcon. Questo toponimo è leggibile sulla Tavola IGM scala 1:50.000. Altri riscontri minori giacciono sull’asse: Casara Trentin e Valle Trentin in prossimità di Cima Portule e Tre Forni vicino Istrana. Il XIII miglio sulla Postumia, a est dell’intersezione con la Claudia è ancor più facilmente rilevabile. A sudovest di Altino c’è il Ponte di Rialto [*Rivus Altus], a nordest ci sono Trepallade, Tre Case, Tremacque, fino al monte Terzadia a quota 1961 presso Treppo Carnico sullo spartiacque delle Alpi. 40 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Evidentemente la mutazione linguistica ha eliso nella maggior parte dei casi il suffisso -decim. Per Cima dei Tre Signori si può pensare a questo svolgimento: *Cyma Tres Decima, *Cima Tres Domini, Cima Tre Signori. I, II e III Il centro della radiale è l’asse che da Altino porta al Brennero sul quale fu costruito il primo tratto di Claudia fino al Ponte della Priula. Il suo prolungamento sud identifica esattamente il Forte di Treporti di Jesolo. Probabilmente il Forte, circondato dall’acqua, era un antico torrione munito di segnalazione e di misurazione. Il terzo miglio est dall’intersezione dell’asse della Claudia con la Postumia, a sud di Altino identifica con precisione, uno dopo l’altro, i campanili di Santa Caterina e Sant’Erasmo. Il secondo miglio est, a sud di Altino traguarda il campanile di San Francesco del deserto. Ad est dell’intersezione Postumia-Claudia, il primo miglio congiunto con Altino tocca il Campanile di Burano. Dalla parte opposta dell’asse Brennero-Altino, ci sono il Forte di Treporti, dal primo miglio ovest, Altino e il Campanile di Torcello. Il secondo miglio ovest segna Altino, Ponte delle Due Sorelle. Il terzo miglio ovest passa su Altino e sul Campanile di Treporti. Solo Due Sorelle e Treporti consevano le dizioni numeriche originali. Un’antica illustrazione di Alvise Cornaro nel sito del secondo miglio riporta il toponimo “Do Casteli”. Gli altri toponimi sono stati tutti probabilmente cambiati. Sul prolungamento nord delle radiali resta un solo toponimo numerico: Tre Pietre di Cesiomaggiore e Corno Tramin. Anche sul ghiacciaio della Marmolada esistono due acronimi numerici: Sasso Dodici (Q. 2742) e Sasso Undici (Q. 2792) che però non si accordano con la dizione dei piccoli numeri. Probabilmente si riferiscono ad altra misurazione. Poco lontano a ovest della Marmolada, a sud di Vigo di Fassa c’è l’acronimo: Sasso delle Dodici (Q. 1428). Esso forse si riferisce alla radiale di Concordia Sagittaria. Infatti prolungando l’asse Sasso delle Dodici oltre Concordia si incontra il toponimo Dodici d’Istria a sudest di Parenzo. Padova e Vicenza Anche la città di Padova era orientata su acronimi derivati da Altino. Il Decumano Massimo Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 41 da Monte Alto (Q. 444) prosegue sui Berici fino a Malamocco. Il Cardo Massimo da Col Alto (Q. 598) di Maser traguardando Castelfranco. Vicenza invece ha il Cardo Massimo da Monte Rua sui Berici al Summano. Il Decumano Massimo da Cittadella a Soave. Rileviamo un particolare forse casuale: prolungando quest’asse a sudovest oltre Soave, si incontra un altro Soave sul Mincio. Altro particolare: il segmento di Postumia dal Brenta a Vicenza giace su una retta che tocca Col Visentin (Q. 1764) a sud di Belluno. Prima ancora di essere rivolta contro pericoli di invasioni barbariche, la strategia romana della Cisalpina era rivolta all’occupazione e al controllo delle Alpi e delle Prealpi. Solo dal IV al V secolo la difesa da invasioni assunse carattere preminente. I campi militari divenuti poi città della Venezia erano posti a guardia delle valli prealpine in vista di rapidi interventi contro le popolazioni locali. Dalla pianura, un sistema di due o più vie portava dai campi-città all’imbocco delle valli. Verona controllava l’imbocco della valle dell’Adige e tutte le valli veronesi della Lessinia. Prunello o Valbruna, ora Tezze di Arzignano, era posta all’imbocco delle valli del Chiampo e dell’Agno. Forse era rincalzata da Este. Vicenza puntava verso val Leogra e Astico con i rispettivi posti franchi di Schio e Thiene. Padova rincalzava da un lato Vicenza e altre due vie controllavano la Valbrenta via Cittadella e la valle del Piave via Valdobbiadene. Altino e la Via Claudia sembrano invece impostati a diversa strategia, cioè di un rapido attraversamento delle Alpi. Miliarium Aureum Con questa analisi considero conclusa la mia ricerca. Un sistema usato duemila anni fa, ora è sufficientemente chiaro. Come ho già scritto su: Geografia Romana (1984), L’oro di Marana (1986) e Toponimi numerici della Postumia e della Claudia (1998), la pianificazione territoriale romana doveva soddisfare più esigenze: rilevare il territorio e controllarlo. Tutte le vie, le istallazioni e gli insediamenti erano posti su una trama prestabilita. Questo supporto geometrico latente prima ignoto, lo mostra chiaramente. Lo stesso tipo di ricerca può essere esteso a tutta la Cisalpina e all’impero. Resta solo da determinare il legame fra i vari sistemi che convergevano sulla pietra miliare d’oro fatta erigere da Augusto nel foro presso il tempio di Saturno per indicare il punto dove tutto iniziava. 42 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 La battaglia dei Campi Raudi Padania 101 a.C.: i Cimbri contro le Legioni romane di Lamberto Sarto N on si hanno notizie certissime sulla venuta dai Celti ai corsi d’acqua (ambra = acqua). Andei Cimbri in Padania, si pensa che la mi- che i nomi dei comandanti di queste popolazioni grazione di queste popolazioni sia iniziata sono sicuramente gallici, abbiamo Teutoboduus partendo dal territorio che attualmente corri- per i Teutoni e Claodicus per i Cimbri, guidati sponde alla penisola dello Jutland in Danimarca dal re Beorix (o Boiorix). I Romani ricordavano [1]. Per quanto riguarda il nome “Cimbri”, possiamo risalire Le donne difendono i carriaggi ad Aquae Sextiae. Incisione del XIX secolo a vocaboli derivati dal tedesco che fanno corrispondere il termine con la parola “saccheggiatori”; secondo Berresford Ellis [2], il nome deriva da vocaboli di origine celtica come: “cimb” (tributo, riscatto) e “cimbid” (prigionieri); una considerazione che possiamo sicuramente fare è notare come quel poco conosciuto sia stato tramandato da storici latini e greci che lo hanno evidentemente fatto dal loro esclusivo punto di vista (il nostro è ben diverso: forse li avremmo chiamati “liberatori”). Alla fine del II secolo aC., insieme con i Teutoni, gli Ambroni e numerose altre popolazioni germaniche minori, i Cimbri attraversarono l’Europa Centrale penetrando in Gallia Transalpina e in Padania, entrando in conflitto con le numerose legioni romane a presidio dei territori di confine. È interessante notare come i nomi dei Teutoni e degli Ambroni siano sicuramente di origine celtica [3], infatti Teutoni corrisponde all’Irlandese “tuath” (tribù) e al Gallese “tud” (gente); il termine Ambroni deriva dal nome dato Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 43 ancora la paura provocata dalle invasioni dei Celti nei secoli precedenti e il loro terrore era diventato qualcosa di “genetico”: non a caso il 6 ottobre del 105 aC., ad Arausio (Orange, Francia), 80.000 legionari (due armate consolari guidate da Caepio e Mallius) furono sbaragliati in due distinte battaglie (una sconfitta che nella storia di Roma ha riscontro solamente con quella subita dai legionari a Cannae). Fu allora che venne mandato a comandare le truppe romane il console Gaio Mario, ritornato vittorioso dalla Libia, per affrontare i “barbari invasori”. In due separate battaglie intorno ad Aquae Sextie, corrispondente alla città provenzale di Aix, nel Dipartimento del Rodano, (Figura I) Mario sconfisse i Teutoni e gli Ambroni, mettendosi in condizione di volgere la sua attenzione ai Cimbri comandati dal re Beorix che, scendendo dal passo del Brennero, avevano dato filo da torcere presso Tridentum (Trento) alle legioni di Lutatius Catulus inviate dal Senato di Roma per fermarli, impresa miseramente fallita al punto che Catulus scappò con tutte le sue truppe fino in Emilia [4]. Mario con sei legioni formate da veterani (circa trentamila uomini) marciò, dopo aver attraversato il Po e dopo essersi riunito con le truppe di Catulus, incontro a Beorix in Padania, vicino ai Campi Raudi presso Vercellae. La localizzazione del campo di battaglia non è mai stata risolta in modo definitivo: autori come Gualtiero Ciola [5], parlano della valle dell’Adige, in realtà alcune carte topografiche possono aiutare a chiarire la questione. Grazie alla carta della Padania tracciata da Abramo Orfelio nel 1590, tuttora conservata presso la Raccolta Civica Bertarelli (figura II), i Campi Raudi sono localizzati a Est di Vercelli nel tratto delimitato dal fiume Sesia e dalla confluenza del Ticino nel Po a Nord di Casteggio (antica capitale dei Celti Anari e importante caposaldo a difesa del guado sul Po: anche Annibale nell’attraversare il grande fiume era dovuto passare da qui) . A questo punto è doveroso esaminare alcune questioni: Non abbiamo nessun tipo di rilevanza archeologica su questo avvenimento, quello che ci è pervenuto lo dobbiamo a Plutarco, che era più interessato a esaminare lo spessore psicologico e caratteriale dei personaggi implicati piuttosto che renderci un resoconto dettagliato della battaglia e delle circostanze connesse. Si pensa che una parte di quello che Plutarco ha scritto sia frutto di sue invenzioni che poco corrispondono con Combattimento delle donne cimbre ai Campi Raudi quello che si può ricavare dalle conoscenze archeologiche sulle popolazioni germaniche del periodo in generale. Scrive infatti Plutarco a proposito della cavalleria dei Cimbri: “I loro cavalieri (...) indossavano elmi a forma di teste di belve feroci con le fauci spalancate (...), e queste erano coperte con piume , facendoli sembrare più alti di quello che erano. Avevano pettorali di ferro e bianchi scudi lucenti. Ogni uomo portava due giavellotti, da lancio, 44 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Figura I. Percorso dei Cimbri e dei Teutoni (tratto da Peter Wilcox et all., Barbarians against Rome, p. 84) e per il combattimento (…) usavano larghe e pesanti spade”. Dall’evidenza archeologica sulle popolazioni germaniche di quel periodo non risulta infatti che esse indossassero armature: solo raramente portavano elmi e avevano pochissime spade. Descrivendo il tipo di armi delle popolazioni germaniche del primo secolo dC., Delbruck H. nella sua “Storia dell’arte della guerra” ci fornisce un quadro molto dettagliato: “Solamente pochi guerrieri avevano armature o elmi, la loro principale protezione era un grande scudo di legno ricoperto talvolta di pelli e la protezione della nuca era fornita da copricapi fatti sempre di pelli e pellicce…. le prime file dei combattenti avevano lance lunghe la maggioranza utilizzava bastoni e piccoli giavellotti” [6]. Questa testimonianza riguarda il massacro delle tre legioni romane di Varo ai tempi dell’imperatore AuguAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 sto circa 110 anni dopo gli avvenimenti citati in questo articolo ed è perciò presumibile che potesse riguardare anche popolazioni più antiche. L’unica cosa storicamente accertabile scritta da Plutarco è la descrizione dei cavalli che erano sicuramente più possenti dei “pony” delle popolazioni latino-mediterranee. Va comunque ricordato che lo storico di origine greca aveva descritto gli eventi ben 200 anni dopo l’accaduto ed è perciò ipotizzabile che avesse in mente le popolazioni germaniche del suo tempo. Tornando ad esaminare la battaglia, sappiamo che Beorix stava aspettando fiducioso l’arrivo degli alleati Teutoni e Ambroni per stabilirsi definitivamente in Padania, quando Mario sopraggiunse stabilendosi ad Ovest rispetto ai Cimbri, dentro un campo fortificato vicino a Vercellae, al sicuro da improvvisi assalti. Quaderni Padani - 45 Figura II. Localizzazione dei Campi Raudi. Disegno di Abramo Orfelio, 1590 d.C. Fu allora che Beorix, dopo aver sfidato Mario a duello (ancora una volta dobbiamo registrare una tipica usanza che giustifica l’ipotesi avanzata da molti studiosi di uno stretto legame culturale dei Cimbri col mondo celta) [7] e avere ottenuto un rifiuto, affrontò le legioni in campo aperto e - come scrive Plutarco – Mario, contrariamente a ogni dottrina tattica militare romana, accettò lo scontro affermando che la pianura era un ottimo posto per combattere e per consentire alla sua cavalleria di muoversi agevolmente. Anche questa descrizione iniziale lascia alquanto perplessi, Mario disponeva solamente di 300 cavalleggeri per ogni legione. Le legioni presenti erano una decina ma ridotte di numero 46 - Quaderni Padani in effettivi: anche qualora fosse stata presente a ranghi interi, la cavalleria romana avrebbe avuto al massimo 3.000 uomini e cioè, stando alla testimonianza storica, in rapporto di 1 a 5 rispetto ai Cimbri. La battaglia iniziò con la cavalleria dei Cimbri all’assalto del fianco sinistro dei Romani. Contemporaneamente la gran massa della fanteria “barbarica” attaccò al centro le legioni comandate da Catulus, inferiori in qualità rispetto alle legioni di Mario. Quello che è stato tramandato da Plutarco a questo punto è semplicemente la presenza sul campo di battaglia “di un gran polverone” col risultato finale della sconfitta dei Cimbri. Come i Romani abbiano fermato la carica di Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 15.000 cavalieri sul fianco e l’assalto della fanteria al centro rimane un mistero; viene ricordato che i Cimbri attaccarono con il sole di fronte e tutto quello che è stato scritto è una frase molto lapidaria: “I Cimbri attaccarono, i Cimbri morirono”. Anche la descrizione dell’epilogo della giornata lascia molto perplessi: sempre Plutarco testimonia infatti come le donne cimbre uccidessero i superstiti che ritornavano al campo e come, pur di non farsi catturare dall’odiato nemico, si togliessero esse stesse la vita, rinnovando un’usanza che trova riscontro fra le più tipiche tradizioni celtiche [8]. Basterà pensare alla vicenda di Boudicca, regina degli Iceni, che sconfitta si tolse la vita dopo aver ucciso i suoi cari. Di questo valoroso popolo, Plutarco afferma che ben 60.000 furono i prigionieri e che i morti ammontarono a 120.000. Note sulle forze in campo Esercito romano Consoli - Gaius Marius e Q. Lutatius Catulus Legioni - 6 legioni di veterani sotto il comando di Mario per un totale di circa 32.000 uomini, e 4 legioni sotto il comando di Catulus per un totale di 20.300 uomini. Le cosiddette legioni “mariane” erano il risultato della esperienza di guerra di Gaio Mario, che aveva abolito l’antica suddivisione secondo le classi in velites, hastati, principes e triari. Ogni legione era organizzata su tre linee di coorti formate da manipoli di 400, 500 o 600 legionari a seconda della necessità: ogni legionario aveva a disposizione un metro e mezzo di spazio in ogni fila del manipolo. Cimbri Comandante in capo Beorix Cavalleria di 15.000 uomini e fanteria di 120.000 uomini La disposizione, secondo Putarco, di questa enorme massa di uomini è ancora una volta molto opinabile (più corretto sarebbe dire totalmente sbagliata), infatti egli afferma che la fanteria occupava uno spazio di circa 14 miglia quadrate (un miglio corrispondeva, nella misurazione romana, a circa 1480 metri), se consideriamo che ogni singolo uomo occupava uno spazio, ad essere generosi di 2,5 metri quadri (come scritto in precedenza, i legionari occupavano uno spazio di un metro e mezzo ciascuno), utilizzando una semplice calcolatrice otteniamo che sul campo di battaglia avrebbero dovuto esAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 serci un esercito spropositato di 15 milioni di Cimbri. Considerazioni finali Osservando i numeri complessivi delle forze in campo (135.000 Cimbri contro 52.300 Romani), sembra impossibile pensare a una sconfitta così totale dei “Germanici”. Considerando anche la descrizione fatta da Plutarco dell’armamento (elmo, pettorale metallico, lancia e spada), due sono le ipotesi finali: A. I numeri sono reali. Come visto in precedenza, è difficile credere che i Cimbri fossero armati come guerrieri celti. Più probabilmente, come confermato dai reperti archeologici delle popolazioni germaniche del periodo, erano dotati di pochissime armi di metallo di buona fattura, scudi di legno e nessuna corazza o elmo in grado di resistere ai colpi inferti dai legionari romani. Inoltre dobbiamo tenere conto del mistero che riguarda i superstiti del massacro, stando alle fonti vi furono 60.000 prigionieri e ben 120.000 morti. Un esercito di 135.000 uomini che si muoveva con le famiglie comporterebbe tranquillamente la presenza di oltre 300350.000 persone con relativi carriaggi e sostentamenti per uomini, donne e bambini: è quindi difficile pensare che i circa 100150.000 superstiti siano spariti senza lasciare traccia ma purtroppo nulla è rimasto, né di storico, né di archeologico, che risolva il mistero. Le considerazioni possibili basandosi sui “numeri” di Plutarco sono: 1. i superstiti si allontanarono ritornando nella loro terra (a sostegno possiamo fare riferimento a quanto avvenne agli Helvetii, che, dopo la sconfitta subita da parte di Cesare, rientrarono nei loro confini); 2. i superstiti si ritirarono dalla pianura fermandosi sui monti e nelle vallate alpine formando nuove comunità. C’è una leggenda che li vuole stanziati nelle valli biellesi. Sicuramente non hanno però nessun rapporto con i Cimbri che tutt’oggi abitano alcune zone delle province di Verona, Vicenza e Trento, che sono giunti in Padania nel tredicesimo secolo, come attestato da un documento datato 5 febbraio 1287 con la concessione da parte del vescovo di Verona Bartolomeo della Scala, del permesso di insediarsi.[9] B. I numeri sono falsi. Abbiamo già visto come sia difficilmente credibile l’informazione di Plutarco sulla disposiQuaderni Padani - 47 zione sul campo di battaglia. Altri dubbi sorgono se si confronta la narrazione effettuata da Cesare che aveva descritto una migrazione di questo tipo, riguardante gli Helvetii sconfitti a Bibractae, nel suo De Bello Gallico. Stando agli storici, ben 368.000 persone furono sconfitte dalle legioni cesariane. E’ stato anche dimostrato che i numeri inerenti la forza dei Galli siano sempre stati falsati da Cesare: ad esempio, il convoglio degli Helvetii, che doveva avere circa 8.500 vagoni trainati da 4 buoi ciascuno, avrebbe raggiunto la lunghezza di circa 125 chilometri che appare del tutto inverosimile [10]. Neppure l’obiezione che il convoglio poteva muoversi su file parallele non è proponibile: le strade del tempo non sono certo le autostrade di oggi. E inoltre il percorso dei Cimbri attraversava valichi alpini, corsi d’acqua e difficoltà notevoli ed è facile immaginare cosa sarebbe successo davanti a ostacoli semplici come ponti o guadi: si sarebbero formati ingorghi indescrivibili rallentando la marcia inesorabilmente. Anche senza considerare i carri di trasporto, se una legione romana di 6.000 uomini formava una colonna di 1,5 km [11], i 120.000 fanti di Beorix (sicuramente meno disciplinati dei Romani) avrebbero formato una linea lunga, a essere ottimisti, almeno 30 km. Considerando da 20 a 30 i chilometri di marcia percorsi giornalmente, significherebbe che quando la testa della colonna arrivava alla destinazione giornaliera prevista, la coda doveva ancora mettersi in marcia! Se non diamo credito a Plutarco ma ci affidiamo a storici come Delbruck e Connolly, il numero dei Cimbri è riferibile a circa 10.000 guerrieri più donne e bambini, e si arriva a cifre intorno a 30-40.000 persone (a sostegno di questa tesi, ricordiamo che durante le “invasioni barbariche” di Goti, Vandali e Burgundi i loro numeri andavano da 10.000 a 20.000 guerrieri per popolazione), una loro sconfitta avrebbe portato molto probabilmente alla estinzione o riduzione in schiavitù di tutto il popolo spiegando così il mistero sulla fine dei superstiti. Comunque si leggano i numeri della migrazione dei Cimbri, furono indubbiamente degli eroi quelli che affrontarono le legioni di sanguinari professionisti armati di tutto punto, e soprattutto sapendo di avere la responsabilità di tutta la loro popolazione di anziani, donne e 48 - Quaderni Padani bambini al seguito. Il vero grande rammarico che resta è constatare, leggendo libri di storia “italiana”, come vi sia un assoluto oblio su gesta compiute da condottieri ed eroi (come questi ma anche come tanti altri) che hanno dato la loro vita in Padania e per la Padania: vie, strade e piazze delle nostre città dovrebbero portare nomi come, Beorix, Bellovesus, Ducario, Annibale e tanti, tanti altri ancora. Bibliografia [1] Theodore Ayrault Dodge, Caesar (New York: Da Capo Press, 1997), p.17 [2] Peter Berresford Ellis, Celt and Roman (London: Constable and Company, 1998), p.233 [3] Peter Berresford Ellis, op.cit., p.233 [ 4] Peter Wilcox, Rafael Trevino, Barbarians against Rome (Oxford: Osprey edition, 2000), p.86 [5] Gualtiero Ciola, Noi Celti e Longobardi (Venezia: Helvetia edizioni, 1997), p.117 [ 6] Hans Delbruck, The Barbarian Invasions (University of Nebraska: Bison Book, 1996), p.47 [7] Peter Wilcox, Rafael Trevino, o. cit., p.86 [8] Ibidem, p.86 “Le donne germaniche li colpirono con scuri e con bastoni, strapparono loro gli scudi con le nude mani, non riparmiarono nemmeno i loro uomini, perché ai loro occhi colui che fuggiva meritava la morte”. S Fischer-Fabian, I Germani (Garzanti, Milano: 1997), p.46 “(…) allora presero le spade che avevano impugnato contro i nemici, e le rivolsero contro se stesse e i propri congiunti. Alcune si trafissero scambievolmente, altre afferrandosi per la gola si strozzarono a vicenda, altre legarono una corda alle zampe dei cavalli e, dopo averla avvolta attorno al proprio collo, frustarono i cavalli e furono da essi trascinate e dilaniate. Altre ancora si appesero con una corda al timone del proprio carro che avevano drizzato in alto. Fu rinvenuta persino una donna che aveva legato, con una corda al collo, i due figlioletti ai propri piedi, e, dopo essersi lasciata cadere nel vuoto per impiccarsi, aveva parimenti trascinato nella morte i suoi bambini”. (Orosio, Historiae) [9] Paolo Righetti, “Spazio architettonico e culturale: i villaggi Cimbri”, su Etnie, n.5, 1983, pp.28-31 [10] Hans Delbruck, Warfare in Antiquity (University of Nebrasca: Bison Book, 1996), p.461 [11] Peter Connolly, Greece and Rome at War (London: Greenhill Book, 1998), p.238 Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Adda: fiume, campo di battaglia, confine di Elena Percivaldi C i sono luoghi che nel corso dei secoli sono to esercitava i pieni poteri in Occidente. Teodostati teatro di molti eventi storici e che an- rico aveva già sconfitto Odoacre l’anno prima cora oggi, dopo tanto tempo, mantengono il sul fiume Isonzo; avrebbe potuto dirigersi verso loro fascino intatto, se non addirittura accre- Ravenna, dove Odoacre aveva stabilito la capitale sciuto proprio dal peso di quelle memorie di cui del suo regno, ma preferì lanciarsi verso l’Adda: sono stati testimoni. Uno di questi siti è il fiume aveva infatti intuito che gli Eruli stavano tenAdda, per secoli barriera di confine tra territori tando di ricostruire il loro esercito grazie all’apoccupati da popolazioni diverse: separava gli In- porto di rinforzi germanici. L’improvviso attacco subri dai Cenomani ai tempi dei Celti, l’Austria di Teodorico - alleatosi coi Visigoti - sbaragliò dalla Neustria ai tempi dei Longobardi, i posse- Odoacre che, sconfitto con gravi perdite, si trindimenti di Milano da quelli della Serenissima dopo il 1427 e fino al 1797. Una miniatura che rappresenta l’imperatore Federico È logico dunque che l’Adda fosse sce- Barbarossa, protagonista di una battaglia nei pressi di na di numerosissimi scontri militari Cassano d’Adda e teatro di sanguinose battaglie sin quasi dalla Preistoria dei popoli padani fino a vicende più attuali. Se scorriamo gli annali della storia, troviamo il primo scontro importante lungo le sponde del fiume nel 222 a.C., episodio della lunga guerra che vide opposti i Celti padani ai Romani invasori e che terminò con la conquista e la sottomissione della Gallia Cisalpina da parte di Roma all’inizio del secolo seguente. Nel 222 le legioni comandate da C. Flaminio e P. Furio riuscirono a sconfiggere i Galli Insubri, facendo circa 16.000 prigionieri e 8000 morti in battaglia. Proprio in questi giorni (per la precisione l’11 agosto) cade la ricorrenza di un altro episodio bellico importante sul fiume, che nel 490 vide opposti gli Ostrogoti di Teodorico agli Eruli comandati da Odoacre. Gli Ostrogoti erano stati mandati in Italia dall’imperatore d’Oriente Zenone nella speranza di contrastare Odoacre, che nel 476 aveva deposto l’ultimo imperatore romano - il giovanetto Romolo Augustolo - e, pur avendo inviato allo stesso Zenone le insegne dell’Impero riconoscendone la superiorità, di fatAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 49 cerò a Ravenna, dove capitolò dopo tre anni di duro assedio. Meno di duecento anni dopo, nel 688, un cruento combattimento ebbe luogo a Cornate d’Adda tra i Longobardi tradizionalisti ariani guidati dal duca di Trento e Brescia Alachis e le truppe comandate dal re Cuniperto, esponente della parte cattolica. I guerrieri di Alachis avevano posto i loro accampamenti nei pressi di Cornate, dove c’era una piccola radura. Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, racconta che poco prima della battaglia un tal Senone, chierico della chiesa di S. Giovanni Battista di Pavia, poiché temeva per la vita di Cuniperto, si offrì di sostituirlo indossando la sua armatura e fu ucciso per mano del duca ribelle. Cuniperto sfidò al- Crocetta d’oro che i Longobardi cucivano sui vestiti. Alcune sono tornate alla luce nei pressi di Cornate lora Alachis in singolar tenzone, ma il duca rifiutò perché sulle lance del re era incisa l’immagine di S. Michele, protettore del popolo longobardo e sul quale egli stesso aveva giurato. Ma ormai era troppo tardi per evitare lo scontro, che si consumò con una grossa strage da ambo le parti. L’esercito cattolico ebbe la meglio, e i guerrieri ariani che scamparono al massacro sul campo perirono annegati nel fiume. Alachis fu vinto dal re in persona; la sua testa fu mozzata e le ginocchia spezzate; il suo cadavere mutilato e informe fu esposto dai vincitori come trofeo di guerra. Nel Medioevo, in piena lotta tra Comuni e Im50 - Quaderni Padani pero, il fiume fu teatro di parecchie scaramucce tra le truppe imperiali di Federico Barbarossa e quelle guidate dai Milanesi. Il castello di Trezzo sull’Adda, caposaldo conteso tra le due parti proprio per le sue qualità di avamposto militare di primaria importanza strategica, fu occupato varie volte dall’imperatore e altrettante riconquistato dai lombardi, che si impadronirono anche del tesoro che il Barbarossa vi aveva nascosto. Ma fu a Cassano d’Adda, nel 1158, che Federico ricevette una sonora batosta. Dopo aver sconfitto i milanesi al di là del fiume, pensò bene di inseguirli sul ponte mentre ripiegavano a rotta di collo verso la loro città. La struttura di legno però non resse l’urto della cavalleria pesante imperiale e si frantumò sotto di essa, trascinando tra i flutti un gran numero di uomini e permettendo ai superstiti milanesi di tornare salvi a casa. Sempre Cassano fu al centro di un altro evento importante, avvenuto il 27 settembre 1259. Ezzelino da Romano, il terribile signore di Verona, dopo aver occupato Brescia ritenne giunto il momento di dirigersi verso Milano per prenderne possesso, ma non vi riuscì. Ripiegò dunque verso l’Adda - non senza prima aver razziato strada facendo qualche centro come Vimercate - e tentò l’assedio della fortezza di Cassano. Ma fallì nel suo progetto: sconfitto dai Milanesi e dai loro alleati della Lega guelfa comandati da Martino della Torre e Azzo d’Este, Ezzelino fu ferito ad un piede da un colpo di mazza sferrato da un tal Antelmo da Cova. Nel tentativo di salvarsi, si gettò nell’Adda ma fu catturato e portato al castello di Soncino, dove morì una decina di giorni più tardi. Successivamente, il 25 febbraio 1323, a scontrarsi sul fiume furono i seimila fanti e mille cavalieri di Galeazzo Visconti e le forze della Lega antiviscontea. Sul campo i comandanti Marco e Luchino Visconti uccisero senza pietà, dopo averli fatti prigionieri, Simone Crivelli e Francesco di Garbagnate, i due capitani avversari. Dopo le lotte tra Comuni e Barbarossa e quelle tra Visconti e Torriani per il predominio su Milano, troviamo di nuovo il castello di Trezzo protagonista. Essendo caduto in rovina a causa dell’incuria e dei numerosi eventi bellici, fu restaurato nel 1370 da Bernabò Visconti, che ne fece una sua residenza adibita alle cacce e ai divertimenti, oltre che una solida fortezza. Ma tale azione fu al Visconti fatale: nel 1385 fu infatti rinchiuso nelle sue segrete dal nipote, e vi trovò la morte - forse per avvelenamento - poco tempo dopo. Il Quattrocento fu il secolo delle lotte per il Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 predominio tra Milano me per riparare a e Venezia. L’Adda diBrembate; e il giorno ventò confine tra i due dopo i Francesi inconStati nel 1427, dopo la trarono le truppe auvittoria di Venezia a stro-piemontesi a CasMaclodio, ma la situasano e le sconfissero zione non si stabilizzò duramente. Il principe di certo. Nel 1437 sulEugenio, che era interl’Adda fu sconfitto l’evenuto in aiuto del dusercito guidato dal caca di Savoia contro gli pitano di ventura NicSpagnoli che nel fratcolò Piccinino, che tempo avevano occucombatteva al soldo dei pato il Piemonte, fu Visconti sempre contro costretto alla fuga in Venezia e si era già diTirolo, lasciando sul stinto, pur nella disfatcampo oltre 10.000 ta, proprio a Maclodio morti. contro il Conte di Car- Statua equestre di Bernabò Visconti, che morì L’ultimo episodio immagnola. E il 14 mag- in prigione nel castello di Trezzo portante di cui fu teagio 1509, nel quadro tro il fiume avvenne il delle guerre d’Italia, a Vailate - poco distante dal 10 maggio 1796, nel quadro della campagna d’Ifiume, in località nota anche col nome di Agna- talia condotta da Napoleone Bonaparte. Dopo dello o di Ghiara d’Adda - l’esercito della Lega di aver sconfitto i Piemontesi a Mondovì, BonaparCambrai (circa 37mila uomini messi a disposi- te rivolse le sue attenzioni contro gli Austriaci zione da papa Giulio II, da Ferdinando il Cattoli- guidati dal generale Beaulieu, riuscendo a imco, dal re di Francia Luigi XII, dall’imperatore porgli la ritirata sul fiume Adda attraverso il Massimiliano, dal duca di Savoia e dal duca di ponte di Lodi. Dall’altra riva gli Austriaci cannoFerrara) sconfisse duramente Venezia, costrin- neggiarono i Francesi che cercavano di passare gendola a rinunciare definitivamente ad espan- il fiume; per aggirare il bersagliamento, Napodersi oltre l’Adda. leone condusse una parte dei suoi a guadare I veneziani, comandati da Bartolomeo d’Alvia- l’Adda sulla sinistra, in modo da accerchiare il no e Nicola Orsini, varcarono il fiume per con- nemico. La manovra riuscì perfettamente e gli quistare gli avamposti di Pandino e Vailate; ma Austriaci furono costretti a ritirarsi in disordine appena giunti all’altra riva, vennero colti di sor- in direzione del Mincio, lasciando ai Francesi il presa dai Francesi capitanati da Giangiacomo ponte e gran parte dei cannoni e dell’artiglieria Trivulzio; i reparti guidati dal d’Alviano si batte- e aprendo loro la via per Milano. rono, mentre quelli comandati dall’Orsini prefeTanti avvenimenti bellici, tanti personaggi rirono ritirarsi lasciando gli alleati in balia del- storici e tanti morti hanno dunque contribuito a l’avversario. Le perdite furono circa seimila e caratterizzare nel corso dei secoli la fisionomia e Bartolomeo fu ferito e fatto prigioniero. l’importanza del fiume Adda, uno dei più noteDopo un periodo di relativa tranquillità, le ri- voli luoghi storici della Lombardia e di tutta la ve dell’Adda tornarono al centro delle vicende Padania. In questa sede abbiamo trattato solo belliche nel Settecento durante la guerra di suc- dei fatti militari, ma l’Adda fa parte del nostro cessione spagnola. A Cassano nel 1703 ben 4500 patrimonio culturale anche perché le sue acque soldati piemontesi furono imprigionati dai Fran- furono sfruttate per scopi industriali e sono stacesi e lasciati morire di fame nelle segrete della te uno dei fattori che hanno portato l’economia fortezza dopo che Vittorio Amedeo II di Savoia della Lombardia a distinguersi come una delle ebbe deciso di rompere l’alleanza stipulata con il più avanzate e produttive d’Europa. E sull’Adda re Luigi XIV. E due anni dopo, nel 1705, sempre lavorò Leonardo e operarono altri ingegneri, che Cassano fu il sito di una battaglia tra gli impe- diedero il loro contributo per domarne il corso. riali austriaci comandati dal principe Eugenio di L’Adda è dunque una parte integrante della noSavoia e i Francesi del Duca di Vendome. Il 15 stra storia e della nostra cultura, che sicuraagosto, dopo vari scontri improduttivi, gli Au- mente bisognerebbe valorizzare e far conoscere striaci furono costretti a passare al di là del fiu- meglio. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 51 Manifesto per l’indipendenza della Romagna di Alessandro Barzanti “L a Romagna non è l’Emilia”. Se c’è una co- ta a nord dal fiume Reno, dalle valli comacchiesi, sa che i Romagnoli potrebbero ricordarvi dalla bassa argentana e su fino a Sesto Imolese riall’infinito è proprio la loro specificità ri- salendo il corso del Sillaro. Sempre il Sillaro si spetto ai cugini Emiliani. Una differenza frutto di pone come confine fino al Passo della Futa sul secoli di storia raramente condivisa che si denota crinale appenninico. Da questo punto seguendo il anche negli idiomi locali. Essi hanno avuto en- crinale appenninico principale fino all’Alpe della trambi chiaramente origine dalla sovrapposizione Luna si delinea invece il confine a sud. Rimane del latino al sostrato celtico, ma hanno subito solo un po’ più incerto il confine che dall’Alpe un’evoluzione differente. La diversità della lingua della Luna va verso Gabicce: quella è una zona di romagnola è infatti frutto - come ha affermato transizione che negli anni passati ha subito più Friedrich Schürr, glottologo austriaco che ha de- l’occupazione e l’organizzazione del ducato mondicato gran parte dei suoi studi alle evoluzioni fo- tefeltresco di Urbino che la presenza delle autonetiche del romagnolo - al rità pontificie. Si tratta della “periodo di sostanziale isoRomagna della quale parla, lamento entro i confini delfra l’altro, Dante nel XXVII l’Esarcato di Ravenna e canto dell’Inferno in termiquelli sovrappostivi dello ni estremamente puntuali Stato Pontificio”. anche in ordine alle princiLa conquista longobarda pali città e alle relative sidi vasti territori della penignorie. sola attualmente italiana (VI Il territorio romagnolo, amsecolo d.C.) avvenne in maministrativamente, ha reginiera graduale. A nord si strato nei secoli diverse prefermò per un certo numero senze estranee e svariate indi anni ai margini del fiume gressioni: fiorentine, ferraPanaro, allora compreso nel resi e urbinate, tanto che territorio esarcale di Ravennel 1371, quando ai fini fina, e ciò che restò sotto il Antica bandiera imperiale dell’esarca- scali e per la conoscenza del dominio dell’Esarca venne to di Ravenna territorio venne redatta la denominato Romania, vale prima carta della Romana dire: terra di Roma, legata all’antica capitale diola, per la frantumazione sopra citata non fu dell’impero dalle leggi, dalla lingua, dall’alimen- possibile tracciare il confine a ridosso del crinale tazione, eccetera. poiché i Bizantini, che qui re- e neanche a nord con Ferrara che, fino all’estingnavano, si credevano diretti eredi dell’Impero zione della casa dinastica d’Este, mantenne il romano. Successivamente i Longobardi si spinse- controllo della cosiddetta Romagna estense. Solo ro fino a Bologna, s’integrarono facilmente con con l’unità d’Italia la Romagna vide finalmente quel territorio e le sue istituzioni culturali e il designare a sé quest’ultima porzione: (Massalomterritorio dell’Esarca, così ristretto, venne deno- barda, Conselice, Lugo, Fusignano, Bagnacavallo, minato Romandiola. Vale a dire “piccola terra di Solarolo e parte della pianura faentina) e di di CaRoma”. Tale situazione si protrasse all’incirca per stel Bolognese, ma vide invece “partire” tutto l’Itre secoli e si trattò dell’atto di nascita della Ro- molese che tutt’ora permane amministrativamagna, con una delimitazione territoriale, da al- mente nell’orbita provinciale di Bologna. lora, fortemente determinata. Precedentemente, nel 1850, il segretario di staGeograficamente la Romagna è infatti delimita- to pontificio Giacomo Antonelli, operò, per ragio52 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Confini storici ed etnolinguistici di “Romagna e Montefeltro” ni amministrative e di culto, una sorta di riforma regionalistica del territorio della Chiesa. Chiamò Marche e Umbria pressappoco gli attuali corrispondenti territori regionali e Marittima-Campagna la parte dell’attuale Lazio allora pontificia. Rimasero scoperte a nord le Legazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì e, con un’indubbia forzatura che però premiava il riferimento storico più consolidato, venne loro imposto il nome di Romagna. Nel 1858, poi, la Legazione di Romagna fu trasformata in Legazione delle Romagne con una durata di pochi mesi, in quanto i plebisciti del 1859 portarono i territori in questione in seno al successivo Regno d’Italia. Nel 1923 infine, per volere di Benito Mussolini, alla Romagna si aggiunsero i territori della Romagna toscana, che a lungo erano stati sotto il controllo politico e amministrativo toscano. Tali circostanze non hanno però mai attenuato il senso d’appartenenza, il comune sentimento, della popolazione romagnola. Questo rimane, in assoluto, il segno più caratterizzante di ogni coAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 munità saldamente omogenea. Resta, tuttavia, fuori di dubbio che il termine Romagne, impiegato anche per fare riferimento a quelle porzioni che per secoli sono state assoggettate dai confinanti, ha generato in seguito qualche confusione, e ha fornito pretesto, a diversi disinformati, di riferirsi impropriamente al territorio romagnolo, anche negandolo. E’, in ogni caso, innegabile che Bologna e Ferrara sono sempre state realtà del tutto diverse e distinte dalla Romagna, e che Bologna, anche all’epoca delle Legazioni, non ha mai esercitato delle funzioni egemoni e sostitutive, rispetto al potere centrale, nei confronti delle romagnole. Sul piano dell’organizzazione ecclesiastica, in aggiunta, la Chiesa ravennate e romagnola ha sempre goduto di una certa autonomia, con la denominazione di Flaminia, certamente come conseguenza dell’antico Esarcato. Nonostante questa palese e profonda identità oggi la Romagna si trova a dover condividere la regione con l’Emilia. Quaderni Padani - 53 L’articolazione del territorio dello stato previ- qualcuno impugnasse il caso a pretesto, alla fine sta dalla Costituzione italiana è discutibile sotto il voto non venne ripetuto; fu invece incaricato vari aspetti, ma il caso più eclatante è senza il Comitato di redazione di determinare il nome dubbio l’individuazione della regione Emilia-Ro- definitivo. magna. Questo effettuò un secondo colpo di mano inLa definizione di questa regione è stata un’in- serendo la denominazione “Emilia-Romagna”, giustizia, perché figlia di procedure non confor- dicitura diversa per l’ennesima volta, che venne mi e di equivoci. infine approvata da un’assemblea coinvolta più Il primo colpo contro l’autonomia della regio- da altre tematiche e da ravvicinate scadenze che ne storica romagnola venne inferto dal Comita- non dall’autonomia della Romagna. to di redazione della carta Con la Costituzione del costituzionale durante i 1948 assieme all’Emilialavori dell’Assemblea coRomagna, nacquero diverstituente, nel secondo dose altre regioni composite, poguerra. Senza averne come l’Abuzzo e Molise e esplicito potere questo coil Friuli-Venezia Giulia. mitato soppresse alcune Per alcune si è passati poi regioni che erano state ina soluzioni più radicali, cluse dall’apposta sottocome nel caso dell’Abruzcommissione dopo ampie zo e del Molise, divenute consultazioni, anche poentrambe regioni nel polari, e votazioni all’in1963, ma ciò non è avveterno dell’Assemblea. Le nuto per la Romagna. regioni erano infatti rimaIn questi anni la Romagna ste solo diciannove: risulè stata trattata alla stregua tavano depennate il Molidi cenerentola e oggi più se, il Salento e l’Emiliache mai sono evidenti i riLunense. Il Friuli era stasultati della disparità di to accorpato alla Venezia Il Gallo araldico di Romagna trattamento all’interno Giulia e compariva la dicidella regione Emilia-Rotura “Emilia e Romagna” a rappresentare non magna riguardanti in particolare l’università stasolo l’Emilia-Lunense, ma tutto questo più la tale, il tribunale amministrativo regionale, la corRomagna. Da quell’atto d’imperio scaturirono te d’appello, la sede Rai, gli ospedali specializzati, nei giorni successivi numerose proposte di cor- i circuiti creditizi, il comparto turistico, le azienrezione sia in direzione più radicale che anti-re- de termali, la caccia e la tutela dell’ambiente. gionalista. Vinse l’ordine del giorno, che recava come primo firmatario Ferdinando Targetti, che Prospettive prevedeva l’introduzione nella Costituzione di Sia a livello regionale che italiano la situazioun apposito articolo che stabilisse le modalità ne pare però non avere vie di uscita. La battaglia per la nascita e la modifica delle entità regionali. per questo riconoscimento non è facile, perché La vittoria di questo contribuì però a far cadere la legge referendaria che regola la nascita o la automaticamente gli emendamenti a favore del- fusione di regioni (art. 132), non prevede che a l’introduzione della regione Romagna. esprimersi sul quesito sia solo la popolazione reUn emendamento del deputato liberale Epi- sidente direttamente interessata al cambiamencarmo Corbino tentò, prima di procedere alla to della Regione stessa, cioè nel nostro caso i sovotazione finale sull’elenco delle regioni, di to- li romagnoli ma, sempre rimanendo nel nostro gliere dalla denominazione regionale il termine ambito, anche gli emiliani. Anche questa ipotesi “Romagna”. Esso venne subito approvato, ma ne però è alquanto remota, perché a monte occornacque una generalizzata ribellione che coinvol- rerebbe il voto favorevole dei consigli comunali se l’intera aula di Montecitorio. Vista la situazio- e provinciali dei comuni intenzionati a costituine, il presidente Terracini si rimise alle decisioni re la nuova regione, nonché quello di tanti condell’assemblea che si dichiarò favorevole alla ri- sigli provinciali o comunali che rappresentino petizione del voto. Quest’ultima decisione sol- almeno un terzo della restante popolazione della levò un vespaio al punto che, per timore che regione dalla quale è proposto il distacco. 54 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Biblioteca Padana Trasgressioni. Quadrimestrale di cultura politica, numero 25 (1998) e numero 26 (1998). Il nome di Marco Tarchi è ben noto a chi si occupi di studi politici e istituzionali. Pur riconoscendo la sua serietà metodologica e storiografica, gran parte dell’apparato culturale liberal gli attribuisce posizioni politiche personali a dir poco oscure. Al contrario, attento e metodico studioso della crisi politica dei regimi democratici (e il fenomeno del “leghismo” non poteva non passare attraverso la sua lente meticolosa ed esigente), Tarchi è animatore di un orizzonte culturale che si definisce, con orgoglio, “non conformista”. In questa prospettiva, dirige e coordina due importanti riviste: il quadrimestrale di cultura politica Trasgressioni e il mensile di attualità culturali Diorama letterario. Negli ultimi numeri di Trasgressioni si leggono due articoli di Tarchi che senz’altro interesseranno il lettore: “Il ‘crimine’ etnopluralista”, sul numero 25 (l’articolo è apparso anche, con lo stesso titolo, nel numero 20/1998 di Tellus, rivista di geofilosofia), e “Le radici della crisi italiana e le scorciatoie dell’ingegneria istituzionale”, sul numero 26. Quest’ultimo riporta anche una ben curata analisi di Pietro Montanari sul “Documento per un nuovo federalismo” di Cacciari. Già da una prima lettura ci si può rendere conto della serietà del “prodotto” e della sua indubbia utilità documentaria. L’articolo sul “‘crimine’ etnopluralista” è una risposta critica di Tarchi alle posizioni di Bruno Luverà (di cui i lettori ricorderanno gli interventi non sempre benevoli nei confronti dei Quaderni, pubblicati su Limes. In particolare, il riferimento è a: “La politica estera della Lega”, Limes. 2/1997, pp. 87-96) e ai detrattori dell’idea federalista. La risposta è analitica e rigorosa, non mancando però gli spunti polemici. Accanto a una certa confusione metodologica, Tarchi rimarca, respingendola, la volontà di inutile criminalizzazione che accompagnerebbe le posizioni di Luverà. Certo, se il federalismo della Nuova destra (si veda, a tal proposito, l’ottima antologia curata da Alessandro Campi, La rivoluzione federalista. Roma: Edizioni del Settimo Sigillo, 1997), di cui Tarchi, assieme ad Alain de Benoist, è animatore, non sempre è compatibile con il federalismo libertario tout court da noi in gran parte proposto, è comunque da rilevare che punti di contatto e di serio confronto non mancano. Ma anche questo, giustamente, non è un “crimine”, è libertà di discussione e di posizione. L’articolo sul numero 26 di Trasgressioni, parte da una questione fondamentale nella ricostruzione della dinamica della crisi del sistema italiano. la latenza della crisi stessa nel piano dei governi di centro sinistra. La “crisi italiana” viene così analizzata da Tarchi secondo i suoi sviluppi, seguendo i suoi tempi lunghi, e abbandonando gran parte dei luoghi comuni tra Prima Repubblica e Seconda Repubblica, e mostrando infine continuità e divergenze nel segno di quella la- Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 tenza, diventata, col tempo, “patenza”. Le riviste, dal prezzo contenuto, sono facilmente reperibili in libreria, ma per informazioni ci si può rivolgere alla Cooperativa culturale “La Roccia di Erec” di Firenze (che coordina anche un bel servizio di offerte librarie), telefonando allo 0552340714. Marco Dotti La Vallassina. Identità e memoria nella storia di una Valle Lariana Nell’area più interna del Triangolo Lariano, penisola compresa fra i due rami del Lago di Como, un’antica vallata che prende il nome dal borgo di Asso si configura come un’area socioculturale e ambientale vitale, luogo dalle grandi potenzialità attrattivo-turistiche e tecnico-imprenditoriali. La Vallassina è il cuore del Triangolo Lariano e la sua identità più antica ci è stata tracciata da un Vallassinese che, più di due secoli fa, testimoniò con la sua documentata trattazione storica, l’attaccamento alla sua terra, rendendo possibile la ricostruzione della storia della Vallassina, sua «Patria», dall’epoca romana fino alla fine del XVIII secolo circa. Il sacerdote Carlo Mazza (versatissimo nella storia sacra e civile, dottore in Teologia e «lettore delle lingue orientali e diritto canonico», prevosto di Asso dal 1774 al 1808) è l’autore del manoscritto Memorie storiche sopra la religione, stato civile e politico e varie epoche, della Vallassina con una disertazione sopra i più antichi di lei monumenti (1796) che ci rimanda un quadro dello «stato Religioso, Civile e Politico (dei Quaderni Padani - 55 Biblioteca Padana Vallassini), dove in un colpo d’occhio potranno instruirsi delle loro vicende dalla prima origine fino ai nostri tempi» e ci introduce alla Valle in modo semplice e immediato sin dal Proemio del suo testo. Infatti recita l’autore -, «La vasta pianura del Milanese che dalla parte del Nord sollevasi insensibilmente in amene colline che portano il nome generale di Monte di Brianza, s’alza finalmente in alte montagne le quali formano un triangolo, e penisola intracchiusa fra i due rami del Lario che terminano uno a Como, l’altro a Lecco. Frammezzo a questa lingua di terra, nel cui apice sta Bellaggio ed Asso nella base, corre dal Sud al Nord una popolosa Valle chiamata Assina dal Borgo di Asso che n’è il principal paese e capo di dieci terre, oltre ai molti Cassinaggi ed Alpi 56 - Quaderni Padani in essa dispersi». Asso, «reso ameno da vari e grandiosi edifici di seta e tintorie, e da una cascata di un fiume che si rovescia da un’alta rupe a piombo nella sottoposta vasca», con «le tre Torri che s’ergono nel sito più eminente del Borgo, il letto del fiume, il ponte, le case civili frammezzo alle rustiche, le due terre di Pagnano e Fraino a lui sovrastanti, l’elevate e visibili pianure di Gemù e di Caglio e le terre che si scorgono in lontananza, avvivano il fondo e fanno il chiaroscuro d’un ben intenso quadro di prospettiva»; la Valbrona e Visino a levante; Lasnigo, Barni e Magreglio confinante a settentrione con Civenna, allora Feudo Imperiale dei PP. Cistercensi; Sormano, Rezzago e Caglio a Ponente sono le terre che compongono quest’operosa Valle, «uno dei più doviziosi Distretti di Lombardia». Il manoscritto del prevosto Mazza - che è composto da due volumi - riassume, quindi, le memorie storiche, religiose e politiche della Vallassina dalle “origini” fino al XVIII° secolo. Opera che pur con i suoi limiti, è una fonte di notizie imprescindibile accanto agli archivi parrocchiali - per la conoscenza della storia, della cultura e delle tradizioni della Valle e che ci rimanda il sapore di un mondo che la profonda trasformazione sociale e culturale seguita agli eventi della Rivoluzione Francese ha, poi, irrimediabilmente cancellato. Benché l’opera non fosse mai stata data alle stampe prima del 1984 fu, inoltre, fonte di riferimento per gli studi di numerosi storici lom- bardi e comaschi. Basti ricordare Ignazio e Cesare Cantù. Quest’ultimo in particolare ha utilizzato - forse per primo - il manoscritto, come egli stesso racconta, nella Storia di Como e sua Provincia. Le Memorie storiche della Vallassina sono articolate in un Proemio, che tratta di notizie topografiche e interessanti considerazioni sopra i primi abitanti e le più antiche vicende della Vallassina; una Parte prima, intitolata Sulla religione, nella quale l’autore tratta delle origini della religione cattolica in Vallassina, delle pievi e dei vicariati. Di particolare rilievo è, inoltre, una descrizione delle chiese della Vallassina (le più antiche, alcune preesistenti alle attuali) con i disegni e le relative misure. Vi è pure una rassegna degli antichi monasteri e delle confraternite. Il primo volume del manoscritto si conclude con l’accenno a una serie di personaggi venerabili, nati o vissuti nella Valle. Il secondo volume - la Parte seconda - tratta, invece, Delle cose memorabili di Vallassina dal punto di vista storico, politico ed economico. Dopo aver tracciato un quadro della storia generale della Valle dai suoi tempi più antichi fino al presente (1766), il manoscritto prosegue con un capitolo sulla Signoria e Feudo di Vallassina e sui numerosi castelli o torri della Valle per poi passare a trattare dello Statuto Municipale e di altre leggi con cui la Valle si resse per circa sei secoli. L’autore descrive a lungo i privilegi e le esenzioni godute dalla Vallassina fino al 1765. Segue, poi, un interessante capitolo sulla popolazione antica e moderna della Valle e sul talento dei Vallassinesi e loro industria. Ed Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 infine, dopo un capitolo sul particolare dialetto della Valle, chiamato «Spasello», il secondo manoscritto termina con notizie inerenti il clima e gli aspetti meteorologici. Dice lo stesso autore nel Proemio del manoscritto: «Ho dato all’opera il titolo di memorie, e l’ho divisa per materie, poiché ognun vede che i fasti di un picciol distretto non possono fornire né molti fatti né sempre connessi per tesserne una storia seguita con ordine cronologico. Mi è stato anzi d’uopo di riempire i vuoti di più secoli colle generali notizie, per altro a noi comuni, dei popoli confinanti e del resto della nostra Provincia». Inoltre, rivolgendosi al lettore, il prevosto Mazza lascia trasparire il suo amore per i Vallassini, come egli affettuosamente li chiama, «pel cui vantaggio e piacere principalmente ho inteso di scrivere. Se tanto avrò potuto ottenere, mi stimerò ben soddisfatto di tutto questo penoso mio travaglio». Pagina dopo pagina, l’identità di una terra viene ricostruita e ci viene tramandato tutto lo spessore di secoli di storia che hanno tessuto il destino di un territorio, la sua identità, la sua memoria. Come lo stesso autore afferma nel Proemio del manoscritto, ciascun popolo non rimane indifferente a ciò che gli dà identità e lo costituisce come popolo. Infatti: «Non vi ha alcun Popolo, né forse Uomo alcuno, che non ascolti col più vivo interesse le notizie spettanti al proprio Paese e che non abbia desiderato sovente di sapere quali siano stati i primi suoi cominciamenti, i progressi, le vicende nel corso di tanti secoli». E prosegue, poi, «Io ben m’avvidi di ciò all’occasione che feci un’omelia nel giorno della dedicazione della mia Chiesa, spiegando queste parole dell’Apostolo: “Rememoramini pristinos dies” in cui mi fu d’uopo accennare alcune delle antiche memorie patrie, il che fu sentito con istraordinaria soddisfazione e divenne per più giorni il soggetto dei comuni discorsi e di mille curiose dimande fattemi in appresso». E scorrere oggi le memorie tramandateci dal prevosto Mazza, può voler dire ancora molto. Ma, soprattutto, vuol dire cercare di ricostruire e “ri-velare” l’identità di tante piccole patrie a cui ci si sente di appartenere nonostante il continuo tentativo - messo in atto nell’attuale società dai centralismi burocratici - di cancellare i popoli, vestali delle autonomie e delle tradizioni. E’ una piccola storia, la storia di una terra «longa 5 miglia italiane e 200 trabucchi» che come la storia di tante altre terre, magari non scritta, ci parla di sentimenti e di valori di piccoli o di grandi uomini, ci racconta di spazi intimamente legati alle vicende degli uomini e ci aiuta a riscoprire e a tessere la trama di una tessera di quell’identità negata che, comunque, ci appartiene. Dalle Memorie storiche esce vivida la forza del sentimento di appartenenza a una terra e alla sua gente. Una terra, con le sue caratteristiche fisiche e il suo clima, influisce sicuramente sul carattere del popolo che la abita, ma il rapporto è vicendevole. E’ la gente che la abita e la lavora a plasmare la propria terra rendendola unica, diversa da ogni altra, imprimendole il proprio “marchio”. In questo Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Biblioteca Padana senso, un omaggio alle terre della Vallassina è un omaggio alla sua gente, un atto d’amore. Ma si può amare veramente solo ciò che si conosce. Soltanto chi conosce le proprie radici sa da dove viene, ha coscienza delle proprie tradizioni, è in grado di dialogare con le altre culture. Solo chi possiede la storia e la cultura della propria terra ne sa anche riconoscere i pregi e i limiti e sa migliorarla là dove è migliorabile. E che i Popoli di Vallassina, in terra di Padania, possano trarre rafforzata - attraverso l’antica testimonianza del prevosto Mazza - la conoscenza, il recupero, l’interpretazione e la reinvenzione di una terra e l’impalcatura storica fra passato e presente della Valle, al fine di riscoprirne gli elementi che nel tempo hanno dato identità e autonomia a un territorio che non sempre le istituzioni locali, dimentichi della forte tradizione cui i loro padri hanno dato vita, hanno saputo riconoscere, salvaguardare e far evolvere. Giulia Caminada Lattuada Simon James I Celti, popolo atlantico Newton Compton, pagg. 180, Lire 9.900 Vasta eco ha prodotto in Inghilterra ed America il saggio di Simon James “I Celti atlantici. Antica civiltà o moderna invenzione?”. Ora è stato tradotto in lingua italiana grazie ai tipi della Newton Compton, col titolo un po’ ambiguo di “I Quaderni Padani - 57 Biblioteca Padana Celti, popolo atlantico” (pagg. 180, Lire 9.900). La tesi del noto archeologo è presto detta: nelle isole britanniche, contrariamente a quanto asserito dalla storiografia tradizionale, i Celti non sono mai vissuti. C’erano, prima dell’invasione degli Angli e dei Sassoni, delle popolazioni aborigene che nulla avevano a che fare con l’etnia celtica se non per alcuni scambi culturali, comunque marginali, coi Celti veri, quelli che abitavano sul continente. Il falso mito della Britannia celtica sarebbe nato solo nel Settecento, a fini di rivendicazione nazionalistica e autonomistica da parte dell’Irlanda e della Scozia: prova ne sia il fatto che nessuno, prima del Settecento, nelle isole si definiva celta o discendente di Celti. I vari popoli detti dagli antichi “atlantici” presentavano oltretutto delle notevoli differenze tra di loro, che dimostrano la mancanza di un ceppo comune. I famosi druidi sarebbero una peculiarità solo insulare, che non corrisponde alla vera cultura celtica, meno “sanguinaria” ed “esoterica” di quanto si sia finora creduto. Altri caratteri e comportamenti che la letteratura britannica ed europea ha attribuito ai Celti d’oltremanica andrebbero rivisti e ridimensionati. Chi sarebbero allora i veri eredi degli antichi Celti? Sir James lascia intendere che solo francesi e svizzeri (ex galli transalpini) e padani (ex galli cisalpini) possono rivendicare appie58 - Quaderni Padani no questa eredità. In particolare nell’Italia settentrionale sono stati ritrovati abitati, reperti e manufatti che testimoniano inequivocabilmente la medesima identità celtica riscontrata a nord delle Alpi. Dalle zone del Reno e del bacino altodanubiano i Celti si sarebbero diffusi per l’Europa continentale e occidentale, senza mai superare la Manica. Il testo di Simon James si divide in una prima parte di fase destruens ed una seconda di fase construens. Riporta dapprima i presupposti e i limiti della storia ufficiale, che viene criticata per l’eccessivo piglio antropologico destinato a generare delle false classificazioni: gli antropologi infatti vorrebbero incasellare subito qualsiasi cultura in una grande famiglia etnica, mentre la realtà, quale risulta dalle ricerche degli archeologi, risulta sempre molto più complessa, specifica e frammentata. Inoltre la manualistica storica risulta il frutto della mentalità dell’epoca in cui viene scritta e delle ideologie che la contraddistinguono, al di là delle stesse buone intenzioni dello studioso. Ad esempio gli storici inglesi dell’Ottocento e del Novecento hanno visto inconsciamente nell’esistenza di un puro popolo celtico nelle isole britanniche, caratterizzato da riti ancora arcaici, la dimostrazione della superiorità dell’etnia anglosassone, venuta oltremanica a portare la “vera civiltà”. Del resto - fa intendere l’autore - la stessa linguistica e una scienza naturale come la genetica non sono mai riuscite a dimostrare l’esistenza di un’unica grande lingua diffusasi sulle isole e legata strettamente a quella gallica da una parte e una vera omogeneità biologica tra irlandesi, gallesi e scozzesi dall’altra. Va scritta allora una nuova storia etnica delle regioni atlantiche, le cui linee principali vengono appunto proposte negli ultimi capitoli del libro, attraverso paragrafi dal titolo illuminante: “Dall’età del bronzo all’età del ferro”, “I regni indigeni dopo i Romani”, “I Vichinghi, elemento catalizzatore o etnogenesi?”. Nel complesso il libro del James si propone come il tassello di un nuovo mosaico storiografico ed etnologico che potrebbe presto portare anche al definitivo riconoscimento della reale identità etnica della Padania rispetto all’Italia e alle nazioni periferiche dell’Europa, facendo sempre più riconoscere la cultura celtica come “madre della Mitteluropa”. Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000