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Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana
Anno VI - N. 31 -Settembre-Ottobre 2000
✓L’aquila d’Europa
✓Francesco Giuseppe I:
sovrano esemplare
di un Impero
provvidenziale
✓La battaglia
dei Campi Raudi
✓Il determinismo
storico e la libertà
La Weltanschauung
veneta
✓Globalizzazione,
mondialismo
e identità dei popoli
31
La Libera
Compagnia
Padana
Quaderni Padani
Casella Postale 55 - Largo Costituente,
4 - 28100 Novara
Direttore Responsabile:
Alberto E. Cantù
Direttore Editoriale:
Gilberto Oneto
Redazione:
Alfredo Croci
Corrado Galimberti
Flavio Grisolia
Elena Percivaldi
Andrea Rognoni
Gianni Sartori
Carlo Stagnaro
Alessandro Storti
Grafica:
Laura Guardinceri
Collaboratori
Francesco Mario Agnoli, Ettore A. Albertoni, Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Lorenzo Banfi, Fabrizio Bartaletti, Alessandro
Barzanti, Alina Benassi Mestriner, Claudio
Beretta, Daniele Bertaggia, Dionisio Diego
Bertilorenzi, Vera Bertolino, Fiorangela
Bianchini Dossena, Diego Binelli, Roberto
Biza, Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, Luisa
Bonesio, Giovanni Bonometti, Romano
Bracalini, Nando Branca, Luca Busatti,
Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada,
Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio
Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini,
Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola, Carlo
Corti, Michele Corti, Mario Costa Cardol,
Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dall’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Massimo de Leonardis, Alexandre Del Valle,
Corrado Della Torre, Alessandro D’Osualdo, Marco Dotti, Leonardo Facco, Rosanna Ferrazza Marini, Davide Fiorini, Alberto
Fossati, Eugenio Fracassetti, Sergio Franceschi, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli,
Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Gerboli, Michele Ghislieri, Davide Gianetti,
Giacomo Giovannini, Michela Grosso,
Paolo Gulisano, Joseph Henriet, Thierry
Jigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, Alberto
Lembo, Pierre Lieta, Gian Luigi Lombardi
Cerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, Silvio
Lupo, Berardo Maggi, Andrea Mascetti,
Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cristian Merlo, Ettore Micol, Alberto Mingardi, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, Maurizio
Montagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivelli, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, Giò
Batta Perasso, Mariella Pintus, Daniela
Piolini, Giulio Pizzati, Francesco Predieri,
Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Laura Rangoni, Igino Rebeschini-Fikinnar, Giuliano
Ros, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi,
Oscar Sanguinetti, Lamberto Sarto, Gianluca Savoini, Massimo Scaglione, Laura
Scotti, Marco Signori, Stefano Spagocci,
Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Candida Terracciano, Mauro Tosco, Claudio
Tron, Nando Uggeri, Fredo Valla, Giorgio
Veronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani,
Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili.
Spedizione in abbonamento postale:
Art. 2, comma 34, legge 549/95
Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041
Arona NO
Registrazione: Tribunale di Verbania: n.
277
Periodico Bimestrale
Anno VI - N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi
di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.
Il significato di Lepanto - Brenno
1
Globalizzazione, mondialismo
e identità dei popoli - Silvano Straneo
3
Il determinismo storico e la libertà
La Weltanschauung veneta - Eugenio Fracassetti
Se il libero mercato
diventa ideologia - Davide Gianetti
L’aquila d’Europa - Gilberto Oneto
Franceso Giuseppe I: sovrano esemplare
di un Impero provvidenziale - Massimo de Leonardis
14
18
20
Claudia Augusta - Giulio Pizzati
29
36
La battaglia dei Campi Raudi
Padania 101 a.C.: i Cimbri
contro le legioni romane - Lamberto Sarto
43
Adda: fiume, campo di battaglia,
confine - Elena Percivaldi
49
Manifesto per l’indipendenza
della Romagna - Alessandro Barzanti
Biblioteca Padana
52
55
Il significato di Lepanto
I
l 7 ottobre del
(di cui 30 cretesi), 22
1571, proprio 429
erano genovesi, 3 pieanni fa, la flotta
montesi, 12 toscane
cristiana sconfiggeva
(dell’Ordine di Santo
quella turca liberando
Stefano), 9 dei Cavai mari meridionali
lieri di Malta, 8 pontid’Europa da una sciaficie e 44 imperiali (di
gura che da tempo li
cui ben 36 napoletane
infestava.
e siciliane).
Il significato militaC’erano ancora le rere di quella battaglia è
pubbliche marinare
chiaro: i Turchi invapadane (Genova e, sosori sono stati fermati
prattutto, Venezia),
sul fronte marittimo,
c’era l’Impero (allora
su quello terrestre ci
ispano-tedesco degli
penseranno da lì a poAsburgo e non più
chi decenni i comanfranco), c’erano gli
danti imperiali Monordini militari (Malta
tecuccoli e Principe
e Santo Stefano), c’eEugenio a contenere
ra quello che restava
la marea musulmana
libero del mondo gree a cominciare a rico-ortodosso (Candia)
cacciarla nelle sue tae c’era, naturalmente,
ne anatoliche.
la Chiesa Cattolica a
Ma sono i significati
fare da guida e collanpolitici dell’episodio
te spirituale.
che sono molto più
La prima considerainteressanti.
zione riguarda gli asL’Europa cristiana
senti. C’erano i cattosi stava scontrando Stendardo personale dell’imperatore Carlo V nel lici, ma non tutti. Alcon l’Islam in una quale campeggiano le immagini di Dio Padre, cuni – ampiamente
guerra che durava al- di Santiago Matamoros (San Giacomo “ucciso- giustificati – come
lora – praticamente re di musulmani”), l’aquila bicipite imperiale Austriaci, Tedeschi,
senza interruzione – fra le Colonne d’Ercole, San Pietro e il motto Polacchi e Ungheresi
da nove secoli e che “Plus Ultra”.
– erano pesantemente
oggi (dopo una appaimpegnati sul fronte
rente interruzione) stà riprendendo secondo lo di terra e, in ogni caso, non avevano alcuna perischema di sempre: i Musulmani che attaccano i zia o forza marinara. La Francia era clamorosaCristiani con il solito repertorio di violenze, cru- mente assente (i soli Francesi presenti si trovadeltà e inganni.
vano sulle galere maltesi) per un gioco infingarLa composizione delle forze cristiane in que- do di ammiccamenti, miopi opportunismi e
sta lotta millenaria non è sempre stata la stessa: strane alleanze. La Francia era sempre stata in
risulta piuttosto interessante vedere come erano prima linea prima nella lotta contro l’Islam (da
cambiati al tempo di Lepanto gli attori rispetto Poitiers alle Crociate) e tornerà ad esserci in
– ad esempio - alle Crociate che avevano impe- Barberia solo dopo il sanguinoso dramma della
gnato l’Europa alcuni secoli prima. È significati- rivoluzione, che può anche essere visto come
vo esaminare la composizione della flotta cri- una sorta di punizione per il tradimento della
stiana. Delle 208 navi, ben 110 erano veneziane causa cristiana.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 1
C’erano i pochi ortodossi ancora liberi nei territori veneziani: tutti gli altri soffrivano sotto
l’oppressione turca le cui vittorie (quella di Costantinopoli prima di tutte) erano in gran parte
avvenute proprio per le divisioni fra ortodossi, e
fra ortodossi e cattolici.
Non c’erano i protestanti che avevano diviso la
Cristianità e che si erano chiamati fuori da questa lotta per l’Europa: e Lutero aveva addirittura
sostenuto – fra le tesi degli esordi della sua “carriera” – che: “È peccato resistere ai Turchi, perché la Provvidenza si serve di questa nazione
infedele per punire le iniquità del suo popolo”,
intendendo, ovviamente, quello cristiano. Più
tardi si pentirà di questo suo criminale disimpegno scrivendo addirittura due libri: Preghiera
contro il Turco, e Della guerra contro i Turchi.
Ma il guaio era ormai fatto e la divisione nel
campo cristiano aveva sottratto enormi energie
alla guerra in difesa dell’Europa. Questo disimpegno non risparmierà i protestanti dalla ferocia
islamica che dovranno affrontare nel XVII secolo
sulle coste di casa e con grandi sforzi militari
delle loro flotte, soprattutto inglese e olandese.
La morale che si trae da quella vicenda così
lontana e così vicina è che le divisioni d’Europa
sono la sola vera forza dei suoi nemici. Per i secoli successivi questo sarà drammaticamente verificato in due spaventose guerre fratricide e con
la perdita di quella funzione di civiltà-guida e di
supremazia economica e culturale che l’Europa
aveva mantenuto per millenni. Oggi il vecchio
continente stà subendo un altro attacco mortale
che viene portato congiuntamente da mondialisti e da islamici e non è più in grado – proprio a
causa delle sue divisioni non più solo religiose –
di difendersi e di evitare il ripetersi di altre situazioni umilianti come quella del Kossovo.
In particolare Lepanto ha speciale valore proprio per la Padania. Erano padane quasi tutte le
navi della flotta cristiana, erano padani i comandanti più importanti, era padano Pio V, il pontefice che era riuscito a mobilitare e a tenere unite
le forze europee. Non solo: erano padani anche i
due più valorosi ed efficaci comandanti delle armate imperiali in lotta contro i Turchi, il Principe Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli.
La Padania era in primissima fila in quella lotta
mortale e non è azzardato affermare che una
bella fetta del merito di avere salvato l’Europa in
quel frangente vada proprio ai Padani.
Cosa resta oggi dello spirito di Lepanto? Gli
Europei sono divisi più di prima e soprattutto
non sembrano - almeno in occidente - avere la
2 - Quaderni Padani
forza e la voglia di combattere per la difesa della
loro civiltà. Forse stanno un po’ meglio – almeno dal punto di vista dell’autostima e dell’istinto
di sopravvivenza – solo i popoli cattolici e ortodossi che si sono da poco liberati dall’oppressione comunista. I Cavalieri di Malta che impersonavano il più indomito spirito di difesa della cristianità hanno subito un identico processo di
decadenza: oggi si dedicano a canaste e tazzinette benefiche. Ma, quel che è peggio, non c’è più
la Chiesa alla guida della comunità dei popoli
europei: un Papa ha restituito ai Turchi lo stendardo conquistato a Lepanto, un altro bacia il
Corano. Qua e là si leva qualche guizzo di vitalità ma si tratta di segnali troppo deboli che non
permettono di presagire a tempi brevi una ripresa di autorevolezza e di energia.
In Padania non va meglio: Roma ha devastato
Venezia e Genova, le ha ridotte a ruderi turistici
sporchi e assistiti, le ha riempite di quei saraceni che le due città avevano tenuto lontano per
secoli da tutta l’Europa. E questa sembra essere
proprio la circostanza più pericolosa: gli Islamici sono ormai in casa nostra, all’interno delle
mura delle nostre città. Si sono insinuati con
l’inganno nella sola porzione di Europa meridionale dove non erano mai riusciti ad arrivare
in armi. Si organizzano in comunità aggressive
e numerose, costruiscono strutture di devastazione culturale e religiosa, continuano a travestirsi da agnellini e da diseredati, e lo faranno
finchè non saranno in grado di impadronirsi del
territorio e di distruggere la nostra civiltà inebetita dal falso benessere e dal buonismo più
devastante. Sono - se possibile – anche peggiori
dei loro vecchi che sbarcavano roteando scimitarre.
Cosa significa oggi invocare lo spirito di Lepanto? Significa che, se ha senso lottare, si deve
lottare. Che, se amiamo questa terra e le nostre
libertà, si deve fare di tutto per preservarle. Che,
se riteniamo che questa civiltà cristiana sia –
pur in questa sua fase decadente e incitrullita la migliore delle civiltà possibili, dobbiamo combattere chi la vuole distruggere, siano essi saraceni, foresti d’altro genere o autoctoni rincoglioniti. Liberiamo la Padania dai nuovi Turchi e
dai loro manutengoli italioni e mardani. Se la
difesa dell’Europa si basa – come ci hanno insegnato quattordici secoli di storia – in larga parte
anche sulla difesa della nostra terra, ricostruiamo con solide mura il bastione padano della fortezza europea.
Brenno
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Globalizzazione, mondialismo
e identità dei popoli
di Silvano Straneo
Premessa
Una svolta importante nel pensiero occidentale, avvenuta a cavallo fra l’Otto e il Novecento, è
stata la fine del determinismo di matrice illuministica settecentesca, prima nell’ambito delle
scienze fisico-matematiche, e poi, di riflesso, in
quello socio-economico e in filosofia. Lo spirito
del determinismo è sintetizzato molto bene dalle parole del matematico francese Pierre-Simon
Laplace: “Datemi le condizioni dell’universo in
un dato istante, insieme con sufficiente potenza
di calcolo, e io vi dirò in che condizioni esso si
troverà in un qualsiasi istante futuro”.
Mentre Laplace credeva di possedere la chiave
dell’universo fisico, altri pensatori, questa volta
sociologi ed economisti, di cui Karl Marx è il
più celebre ma non certo l’unico, stabilivano
per le società umane leggi evolutive e modelli
che immancabilmente si sarebbero realizzati risolvendo una volta per tutte i mali che da sempre hanno afflitto l’umanità. Inutile dire che la
realtà, naturale e sociale, ha presto provveduto
a calmare la baldanza di tutti quanti, decretando così la fine dei tentativi di inquadrare la natura e, ciò che qui più interessa, le società umane, all’interno di teorie che stabilissero definitivamente i meccanismi del loro divenire. Se con
‘ideologie’ intendiamo le varie costruzioni di
pensiero, spesso peraltro di grande pregio intellettuale, che fornivano la base teorica a tali tentativi, possiamo equivalentemente parlare di fine delle ideologie.
Il binomio mondialismo-identità dei popoli
non sfugge all’impotenza del prevedere quale
sarà la strada che le società umane imboccheranno sotto la spinta delle nuove tecnologie e
degli interessi economici e politici soggiacenti.
Scopo di queste note è allora quello di fornire, se possibile, dati e argomenti che servano a
tenere sotto controllo l’evolversi dei fatti, fare
qualche previsione a breve termine, capire quali
siano i margini d’azione per incidere sugli avvenimenti e rompere la coltre dell’informazione
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
ufficiale (media, scuola, governi) che tende a far
apparire ’ineluttabile’, ‘naturale’, ‘nella realtà
delle cose’ una determinata linea di sviluppo
piuttosto che un’altra, mentre invece la storia
ha mostrato di svolgersi come un magma mobile sempre pronto a rimescolarsi e il cui punto
d’arrivo non è determinabile a priori.
Il fattore tecnico informatico
Il rapido sviluppo dell’informatica, con gli
strumenti tecnici che mette a disposizione, gioca un ruolo importante negli aspetti economici,
culturali e politici che riguardano il binomio
mondialismo-identità.
I primi calcolatori elettronici nascono in Inghilterra e Stati Uniti negli anni ’40, durante la
seconda guerra mondiale, per esigenze militari
(sistemi di puntamento, cifratura). Grazie anche agli sviluppi della fisica, conoscono un’evoluzione rapidissima, passando dalle valvole in
vetro ai transistor, fino agli attuali circuiti integrati. Capacità sempre maggiori di memorizzazione e potenza di calcolo li rendono presto indispensabili nell’ambito della ricerca scientifica
e nelle grandi strutture pubbliche e private,
mentre il successivo calo dei costi e delle dimensioni li introducono poco alla volta nelle
case private. Le reti di calcolatori permettono a
più macchine di comunicare tra loro scambiandosi dati e distribuendo la potenza di calcolo.
L’embrione di ciò che sarebbe diventato Internet nasce ai tempi della guerra fredda (1973) da
un progetto della Advanced Research Projects
Agency del ministero della Difesa degli Stati
Uniti. L’esigenza da soddisfare è quella di una
rete in grado di funzionare ancora, anche se
con prestazioni ridotte, qualora una parte di essa venga distrutta da un attacco nemico. Viene
sviluppato un insieme di protocolli di comunicazione denominato TCP/IP che prevede il fraTesto della conferenza tenuta il 9 settembre 2000, all’Università d’Estate di Erba
Quaderni Padani - 3
zionamento dei dati da trasmettere in pacchetti
indipendenti l’uno dall’altro, ognuno dei quali
trova la sua via dal mittente al destinatario per
strade anche diverse all’interno della rete. Nel
nodo di arrivo i pacchetti vengono ricomposti e
ne viene controllata l’integrità. Il vantaggio di
tale protocollo consiste nel fatto che non è necessario definire né conoscere il cammino che i
dati percorreranno. Sarà il software stesso, lungo i nodi della rete, a farsi carico di instradarli,
evitando le eventuali interruzioni e scegliendo
il percorso più veloce.
È l’inizio di Internet. Quando le esigenze militari si affievoliscono, sono dapprima le Università, i Centri di ricerca e le grandi istituzioni a
collegare fra loro le proprie reti locali (da cui il
nome di ‘rete delle reti’). In questa fase, l’uso di
Internet è ancora limitato prevalentemente all’ambito accademico per lo scambio di informazioni scientifiche e richiede conoscenze tecniche non indifferenti.
L’ultimo atto avviene nel 1989 presso il centro
di ricerca del CERN di Ginevra con la nascita del
World Wide Web, progettato per semplificare la
condivisione di informazioni tra gruppi di ricercatori di fisica delle alte energie operanti in nazioni diverse. La facilità d’uso dell’interfaccia
utente, dotata spesso di una grafica accattivante,
ne decreta subito il successo anche presso il
grande pubblico e conseguentemente presso
operatori commerciali anche medi e piccoli
nonché presso tutti coloro che hanno interesse,
per svariate ragioni, a tenere sott’occhio un bacino di opinione costituito da milioni di persone. Gli sviluppi futuri sono guidati dal Consorzio WWW, con sede sempre negli Stati Uniti
presso il Massachusetts Institute of Technology.
Il ruolo degli USA
nelle trasformazioni in corso
Gli Stati Uniti hanno vinto la seconda guerra
mondiale, hanno drenato le migliori intelligenze da ogni paese, detengono le tecnologie chiave, sono rimasti l’unica superpotenza militare e
costituiscono il più importante mercato mondiale. I paradigmi economici e culturali che nascono in questo paese diventano presto standard
nel resto del mondo, occidentale e non.
Per comprendere l’evoluzione possibile del binomio identità-mondialismo è pertanto fondamentale cercare di capire quali sono le strategie
che gli USA potranno adottare per meglio mantenere la loro leadership mondiale e i loro interessi. Fino al 1989 la politica estera americana
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era basata essenzialmente sul contenimento della potenza sovietica, il freno alla diffusione del
comunismo e il predominio sul mondo occidentale. Da quella data in poi, i possibili scenari
strategici americani diventano molteplici.
OPZIONE CONSERVATIVA - Sostiene l’opportunità di
non discostarsi sostanzialmente dalla politica
estera seguita fino al 1989. I concetti base sono
contenuti nel New World Order del presidente
Bush (1990), col quale si stabiliscono le nuove
‘responsabilità’ degli USA e si ammette la guerra preventiva al fine di preservare l’ordine mondiale. Nel 1992, un rapporto del Pentagono dal
titolo Defense Planning Guidance (del Sottosegretario alla Difesa per gli affari politici Paul
Wolfowitz), preconizza un nuovo ordine mondiale funzionale al ruolo che gli USA intendono
mantenere di superpotenza unica dotata di facoltà d’intervento anche unilaterale. Charles
Krauthammer auspica una confederazione occidentale con gli USA al centro (in qualche modo
prefigurata dal Gruppo dei Sette) come primo
nucleo di un mercato comune mondiale. Ciò
porrebbe al riparo la supremazia americana, per
ora assoluta, dall’arrivo di nuovi contendenti.
Secondo Joseph Nye, gli USA devono assumere
il ruolo di grande organizzatore mondiale assicurandosi il controllo dei grandi istituti internazionali quali Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, World Trade Organization,
Trattato per la non-proliferazione nucleare eccetera.
Ben Wattenberg, direttore di Radio Free Europe, sostiene che il popolo americano deve riconoscere il ‘new manifest destiny’ che gli è
proprio e promuovere nel mondo una democrazia di tipo americano per mezzo degli strumenti
‘culturali’ con cui primeggia: la lingua inglese,
le università, i sistemi informatici, i media, il
mondo dello spettacolo. Fra i seguaci di quest’ordine di idee, c’è Strobe Talbott, attuale numero due del Dipartimento di Stato di Clinton.
Insomma, Microsoft Windows, Pamela Anderson e Coca Cola per un mondo unipolare a dominanza USA.
OPZIONE ISOLAZIONISTA - Sostiene che una politica estera di intervento a tutto campo presenta
per gli USA costi superiori ai benefici e che, essendo oggi il potere essenzialmente economico,
la vera predominanza va affermata su questo
terreno. È da segnalare che l’accezione americana del termine ‘isolazionismo’ non significa
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affatto ‘di isolamento’. L’ex collaboratore di
Nixon e Reagan, Patrick Buchanan, ad esempio,
auspica il totale ritiro delle forze USA dall’Europa e dall’Asia, mantenendo però il primato militare e non escludendo sporadici interventi anche unilaterali.
OPZIONE INTERNAZIONALISTA - Richard Gardner, attuale consigliere di Clinton, è il fondatore del
Practical internationalism, il cui concetto base,
che ispira buona parte dell’attuale politica estera
americana, è quello di sicurezza multilaterale:
sulla base del vantaggio garantito loro dall’isolamento geografico e da un’indiscussa superiorità
militare, gli USA dovrebbero limitare l’uso della
forza all’interno di contesti multilaterali e cercare di mantenere una situazione di equilibrio
sfruttando le rivalità fra le altre potenze. Henry
Kissinger sostiene che gli interventi USA dovrebbero essere selettivi, evitando di intervenire
in ogni situazione di crisi: se in alcuni casi è indispensabile un intervento diretto americano, in
altri è sufficiente un’azione multilaterale e in altri ancora non si interviene affatto.
In questa prospettiva, l’intento di costituire
un ordine globale fondato sugli interessi USA
risulta meno forte ma è sempre presente. Strobe Talbott, Segretario di Stato aggiunto, parla
di ‘diplomazia per una competitività globale’
(1994) intendendo con questo lo stare in guardia affinché nuovi raggruppamenti economici
regionali non si pongano obiettivi contrastanti
con i famosi interessi superiori degli Stati Uniti,
magari chiudendosi all’influenza dei capitali
americani. Richard Haas, della Brookings Institution ed ex consigliere di Bush, vede l’America
come una Big Corporation che deve sfruttare la
sua temporanea posizione di forza sul mercato
per trasformarlo secondo i propri fini. Nel suo
The Reluctant Sheriff (1997) scrive: “Obiettivo
della politica estera americana deve essere l’operare con gli altri attori che condividono le
stesse idee per migliorare il funzionamento del
mercato e per rafforzare il rispetto delle sue regole fondamentali. Con il consenso, se possibile, con la forza, se necessario”. Dunque l’ex
Gendarme del Mondo, impegnato in passato a
combattere l’Impero del Male ovunque si manifestasse, si trasforma nel buon sceriffo il quale,
quando costretto, raccoglie in fretta un manipolo di vigilantes e parte alla repressione.
USA E INTERNET - Nel 1993, Al Gore inaugura la
Global Information Infrastructure che nel DueAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
mila connetterà fra loro più di duecento milioni
di computer. È il nuovo grande progetto dell’amministrazione Clinton, analogo, come
espressione delle ambizioni egemoniche americane, al New Deal di Roosevelt e all’obiettivo
Moon di Kennedy.
Gli USA, insieme composito privo di quell’omogeneità che solo la storia può produrre, compensano il loro deficit di identità ‘comunicando’
più di ogni altro paese. E poiché, come è noto,
ciò che conviene agli USA deve necessariamente
valere anche per il resto del mondo, prescrivono
a tutti la loro ricetta. Anzi, trovandosi in posizione di forza, esercitano una supervisione sulla
sua messa in opera per pilotare opportunamente
il processo di globalizzazione. Infatti, come Brzezinski aveva sostenuto fin dagli anni Settanta,
“… sono stati gli Usa il paese che ha lavorato di
più alla creazione di un sistema di comunicazioni mondiali avvalendosi dei satelliti e che si
trova più avanti nella messa a punto di una griglia mondiale di informazioni”.
L’ESSENZA DELLE VARIE OPZIONI - È appena il caso
di osservare come, dalle dichiarazioni di uomini
di stato, politologi, strateghi vari e soprattutto
dalla politica messa in atto nella realtà dei fatti,
appaia chiaramente che la volontà USA non è di
sedere pari tra pari nel consesso mondiale delle
nazioni ma di dirigerlo conformemente ai propri interessi. L’idea di base è quella di creare un
mercato unico mondiale a misura USA sfruttando l’attuale posizione di forza militare, economica e tecnologica, impedendo che altri possano
eguagliarla, mantenendo o conquistando il predominio nei grandi organismi finanziari internazionali e sui sistemi delle comunicazioni, senza trascurare ciò che a detta loro è la cultura.
Le moderate differenze consistono più che altro nel privilegiare eventuali interventi multilaterali rispetto a quelli diretti, senza peraltro
mai escluderli del tutto.
Aspetti economici
La categoria del lavoro umano si è sempre articolata in mestieri diversi, dotati tutti di una
loro precisa specificità riconosciuta socialmente, ad esempio con le istituzioni delle varie ‘arti’, e rafforzata nell’immaginario da rappresentazioni e simbologie del tipo dei santi patroni.
Un formidabile colpo alla specificità dei lavori è
venuto, agli albori del Novecento, dalla visione
industriale di Taylor, con la sua razionalizzazione estrema dei tempi e dei metodi produttivi.
Quaderni Padani - 5
Qui l’artefice produce, mediante una serie di
operazioni elementari rigidamente pianificate e
monotonamente ripetute, uno stesso dettaglio,
sempre più particolare, che prenderà significato
solo quando composto con tutti gli altri dettagli
prodotti con uguali modalità da altri a costituire l’opera finita. Alla figura dell’artefice è sottratta ogni connotazione di carattere professionale, etico e psicologico ed è privilegiato unicamente l’aspetto tecnico dell’organizzazione del
lavoro, volta alla massima efficienza e redditività economica.
Il concetto di informazione incomincia ad apparire in tutta la sua importanza quando, al
Massachusetts Institute of Technology, il matematico Norbert Wiener inizia lo studio della Cibernetica. L’idea, non nuova in verità ma portata ora a compimento e formalizzata matematicamente, è la possibilità di governare il funzionamento di un dispositivo utilizzando l’informazione sugli effetti che l’azione in corso sta
producendo per agire a ritroso sulla sorgente
dell’azione stessa, regolandola (regolazione retroattiva o feedback).
Queste nuove idee scientifiche, insieme con
le teorie di Taylor, sono parte dell’atmosfera
culturale in cui si sviluppa il modello industriale di Henry Ford, secondo il quale l’impresa deve articolarsi in un primo livello al quale competono le decisioni strategiche (gli obiettivi del
meccanismo-impresa), un secondo cui compete
la gestione delle risorse (regolata da feed-back)
e un terzo incaricato della produzione (il funzionamento del meccanismo). Sui mercati nascenti e relativamente chiusi del tempo, che garantiscono una domanda sostanzialmente stabile e prevedibile, questi modelli hanno successo
per molti decenni.
Nei primi anni Ottanta emerge il modello
giapponese (Toyota), la cui caratteristica principale è la capacità di adeguarsi prontamente, con
la produzione di beni diversificati prodotti in
piccole serie, a una domanda che nel frattempo
si è fatta mutevole e internazionalizzata. L’obiettivo viene raggiunto sostituendo alla precedente rigida organizzazione industriale una
struttura flessibile in grado di ridistribuire
prontamente al proprio interno, sulla base di
un flusso informativo sempre di tipo feed-back,
energie materiali e umane, superando così la
classica distinzione fra servizi di produzione,
direzione e amministrazione. Inizia il technology push, dove l’innovazione tecnica è sempre
più spesso ricercata dalle grandi aziende non al
6 - Quaderni Padani
fine di migliorare i prodotti ma per creare nei
consumatori nuove esigenze e mode che richiedano di essere soddisfatte. Pubblicità e marketing si incaricano poi di scatenare la domanda.
Negli anni Sessanta, Galbraith scriveva: “Ormai l’iniziativa di decidere che cosa debba essere prodotto non appartiene più al consumatore
ma alle grandi organizzazioni produttive. Un
condizionamento, di cui la pubblicità è solo
uno degli strumenti, tende a imporre un’identificazione fra gli obiettivi dell’organizzazione,
quelli del corpo sociale e quelli dell’individuo.
Le grandi industrie modellano gli atteggiamenti
della collettività sui propri bisogni”. Ed infatti
Akio Morita, presidente di Sony Corporation,
dichiara: “Sony non vende nuovi prodotti. Sony
vende nuovi comportamenti”.
La parabola dei metodi di produzione industriali sopra accennata lascia intravedere quali
saranno le tendenze prossime future (e in parte
già attuali).
Le grandi multinazionali, di vecchia e nuova
costituzione, manterranno un nucleo alquanto
ristretto di dipendenti diretti le cui retribuzioni, peraltro costituite in gran parte da dividendi, saranno funzione dei risultati ottenuti, mentre filiali delocalizzate si confronteranno meglio con i mutevoli mercati tramite subappalti e
lavoro part-time. Il sistema industriale mondiale assumerà dunque l’aspetto di un reticolo distribuito sull’intero pianeta i cui nodi, autonomi ma integrati, saranno, ciascuno, un centro
di decisione, di spesa e di responsabilità operante in rete attraverso collegamenti informatici
internazionali non controllabili dagli stati nazionali, mediante i quali comunicherà decisioni
e sposterà risorse e capitali in tempo reale da
un capo all’altro del mondo.
Finalmente, mentre dall’antichità fino al secolo scorso il lavoro umano è stato concepito,
in termini generali, come trasformazione di
masse (prevalentemente materiali) mediante
forze da applicarsi con opportuno impiego di
energia (fisica o intellettuale), il lavoro verrà
sempre più a consistere in elaborazioni di codici, simboli e segni, ossia di dati. Infatti, se l’amministrazione pubblica e privata, i sistemi bancario e commerciale, la ricerca scientifica, l’insegnamento, la propaganda, il divertimento, insomma molte fra le principali strutture del
mondo umano si riducono a essere sostanzialmente elaborazioni di dati, allora produzione e
consumo divengono immateriali anch’essi e
quindi adatti alla trasmissione a distanza: teAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
leacquisto, teleinsegnamento, teleconferenza,
telesorveglianza, teleservizio, eccetera. In breve, una teleattività sistematica in cui entità a
prima vista eterogenee - quali beni materiali,
attività umane, processi tecnici, industriali,
scientifici e addirittura emozioni - sono ridotti
ad articolazioni diverse di uno stesso sistema
generale che li mette in equivalenza, il denominatore comune essendo il nuovo concetto di lavoro come attività processuale [Legrain, Guattari].
Altro aspetto da considerare in questo scenario è la finanziarizzazione dell’economia. La finanza, da corollario della produzione destinato
ad agevolare gli scambi e quindi l’espansione
industriale, stà prendendo il sopravvento nei
confronti della produzione stessa, ossia dell’economia reale. Molte aziende tralasciano la loro
vocazione produttiva basata su prospettive a
medio e lungo termine, con un riguardo più o
meno grande per il fattore occupazionale, per
adottare sempre più la prospettiva di pretta
marca americana del profitto immediato (non
più capital gain ma semplicemente profit).
Se dunque la tendenza della politica capitalista è quella di privilegiare la rapida circolazione
del capitale rispetto alla produzione di valore
reale (finanziarizzazione dell’economia), è chiaro che il potere decisionale passa dalle vecchie
borghesie produttive nazionali a una nuova
borghesia internazionalizzata degli investimenti finanziari.
Grazie a informatizzazione e collegamenti in
rete, gigantesche corporation impegnate in attività di ogni genere possono oramai essere dirette da un piccolo gruppo di manager situati in
posti chiave in cui è possibile prendere rapide
decisioni e impartire molteplici ordini. Non si
tratta di imprenditori ma di stipendiati di alto
livello (quali ad esempio un chief executive officer americano), i cui introiti sono in gran parte
costituiti da partecipazione agli utili. Naturalmente ciò comporta il declassamento dei quadri
intermedi finora preposti su vari livelli a tali
funzioni.
Aspetti culturali
L’assunto di base di ogni tecnocrazia, sia essa
industriale oppure finanziaria, è l’ammettere
come reale solo ciò che è quantificabile e direttamente manipolabile. Da ciò discende che chi
è in grado di governare un processo tecnico-industriale o finanziario sarà ipso facto in grado
di governare ogni aspetto del reale, compreso
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
quello socio-politico, e quindi anche la società
nel suo complesso. Questo cadere della distinzione fra politica (come ambito dei fini) e tecnica (come ambito dei mezzi) fa sì che a ogni
scelta politica, per sua natura legata a considerazioni di carattere morale e culturale, venga
sostituita una scelta determinata da una stima
tecnica basata su puri criteri efficientistici. Nella rozza visione della società come unità produttiva di cui occorre massimizzare l’espansione economica, trovano poco o punto posto i
giudizi di valore, che quantificabili non sono, e
la cosa pubblica è gestita mediante un apparato
di controllo tecnico-burocratico basato su di un
concetto di bene comune ridotto al puro benessere materiale.
In un sistema come questo, dove il denaro è
al primo posto assoluto, la semplificazione dei
valori in gioco comporta per i nuovi dirigenti
tecnocratici una vera e propria deflazione culturale. La capacità acquisita dalle borghesie nazionali di negoziare i loro rapporti con la società non serve più e infatti incominciano a sorgere scuole storiche che rivedono al ribasso
l’importanza delle storie nazionali. Il filosofo
inglese Michael Oakeshott, ad esempio, scrive
in un suo recente lavoro che non esiste una
‘storia della Francia’. Al che, qualcuno ha replicato che “una cosa chiamata Francia ha lasciato tracce più durevoli di una cosa chiamata Michael Oakeshott”. Tuttavia la revisione della
storia per bandire da essa la nazione è rivelatrice di un movimento di fondo da cui prende a
emergere l’ideologia ufficiale della nuova classe:
un integralismo di marca tecnica, universalista,
multiculturale e multirazziale contrapposto ai
valori degli stati-nazione, definiti sempre retrogradi e a volte razzisti.
Al centro di questa operazione ideologica vi è
ancora lo strumento Internet, sotto il cui cappello si ritrovano, in curiosa compagnia dei tecnocrati delle corporation, sia gli entusiasti che
si attendono dalle nuove tecnologie comunicative un ‘recupero di democrazia’ sia i cyberpunk, per i quali ‘la rivoluzione corre sulle reti
informatiche’, tutti uniti dalla stessa visione,
piuttosto rudimentale e deterministica, che essenzialmente subordina la risoluzione di questioni non computabili alla ‘potenza di calcolo’
disponibile e pretende di far transitare attraverso le reti di calcolatori la regolamentazione della società umana.
La visione che sta alla base di questa nuova
ideologia comunicativa consiste nel “… credere
Quaderni Padani - 7
e far credere che i problemi sociali siano innanzitutto problemi di comunicazione, che una società si sviluppi prima di tutto grazie alla capacità di trasportare i suoi messaggi e che pertanto basti moltiplicare i canali e accrescerne la capacità di trasmissione e di stoccaggio, perché
venga alla luce una società nuova più democratica, più conviviale, aperta e pacifica”. Insomma, un embrassons nous generalizzato (e regolamentato dai superiori) per porre finalmente
termine al millenario travaglio delle società
umane.
L’analisi del traffico sulla rete rivela invece
che il tema più frequentemente dibattuto nei
newsgroup riguarda il funzionamento della rete
stessa. D’altronde, prescindendo da qualche
folkloristico e superpubblicizzato cybermatrimonio, della cui sorte non è poi mai dato sapere, è difficile immaginare quali altri legami all’infuori di quelli virtuali possano unire individui che si connettono e sconnettono a caso,
anonimamente e senza responsabilità.
Di fronte a questo mondo unidimensionale
regolato da un governo planetario di transazioni finanziarie e contatti umani elettronici, le
culture ancorate al suolo e alla storia dovrebbero scomparire. Così preconizza il Gruppo di Lisbona: “Bisogna concepire un programma d’azione basato in particolare sul ricorso estensivo
alle nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione … L’intensificazione di questo
dialogo attraverso una moltitudine di strumenti è infatti la via più sicura per edificare un
nuovo mondo globale fondato sul rispetto dell’altro e per fortificare le basi di un sistema di
governo mondiale cooperativo”.
Aspetti politici
Va preliminarmente osservato che la diffusione di Internet con i suoi corollari economici e
di costume, è un fenomeno consolidato da cui,
piaccia o no, è ormai impossibile prescindere.
Il mondialismo, inteso come tendenza all’aggregazione, economica prima e politica in varie
forme poi, fino al suo stadio ultimo costituito
da un solo governo per tutto il pianeta, è cosa
distinta dalla globalizzazione, intesa come liberalizzazione degli scambi e creazione di un
mercato unico. Naturalmente vi sono profonde
correlazioni fra i due fenomeni, e al proposito si
confrontano due diverse correnti di pensiero,
una delle quali sostiene che la globalizzazione
dei mercati implica necessariamente un governo mondiale unico mentre per l’altra non solo
8 - Quaderni Padani
tale implicazione non sussiste ma al contrario
la liberalizzazione degli scambi favorisce le autonomie politiche.
TESI 1. LA
GLOBALIZZAZIONE È LO STADIO CHE PRECEDE IL MONDIALISMO - Questa tesi si basa sull’as-
sunto che la struttura economica determini
quella politica e ritiene pertanto inevitabile che
un mercato mondializzato porti con sé un governo mondiale.
Secondo questa linea di pensiero, un mercato
mondiale necessita di una regolamentazione
mondiale che può avvenire soltanto per via legislativa, da cui l’esigenza di un organismo politico che vi provveda. In questo processo i maggiori gruppi economici non mancherebbero di
premere con forza formidabile affinché ciò avvenga nel modo più conforme ai loro interessi,
liberandosi dall’impaccio costituito da ciò che
furono le nazioni con le loro diversità a intralciarne lo sviluppo.
I cittadini-consumatori abbandonerebbero i
consumi tradizionali legati alla cultura del loro
territorio per avvezzarsi, anche a mezzo del technology push cui si è accennato prima, al consumo di beni standardizzati la cui produzione,
pubblicità e distribuzione risultano convenienti
solo su scala mondiale. Un primo assaggio di
tutto questo potrebbe essere l’elettronica di
consumo, l’abbigliamento e il divertimento di
massa di stile americano. Quegli stessi cittadini-consumatori, d’altra parte, avvezzati come si
è detto e opportunamente scolarizzati dai grandi mezzi di comunicazione, riterrebbero infine
del tutto naturale e auspicabile la sanzione definitiva di questo stato di cose con la proclamazione anche formale del nuovo organismo politico.
Quanta democrazia reale possa poi sussistere
in una gigantesca struttura di questo tipo, ancorché sanzionata da regolari elezioni, lo si
comprende sufficientemente bene osservando il
funzionamento del sistema americano, dove i
candidati presidenti sono scelti primariamente
dalle lobby in grado di fornire i milioni di dollari necessari per una campagna elettorale condotta fra luci al neon e majorette, con una percentuale di votanti fra le più basse del mondo.
L’anima della strategia mondialista sarebbe
dunque a Wall Street e presso le holding, le
broker house, i grandi Fondi Comuni di Investimento, i Pension Found, le grandi banche internazionali, eccetera. Segnatamente, essa sarebbe presso la Banca Mondiale e il Fondo MoAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
netario Internazionale (FMI), organismi a scala
mondiale in grado di controllare i flussi finanziari internazionali che riguardano le più importanti decisioni economiche del pianeta.
A proposito del funzionamento di queste due
ultime istituzioni, la sociologa Susan George,
codirettrice del Transnational Institute di Amsterdam osserva: “La Banca Mondiale determina non solo le scelte macroeconomiche, essa
pone anche altre condizioni, classificate sotto il
nome di ‘buon governo’ … che sono state causa di contraddizioni ... Alcuni suoi progetti
hanno dato luogo a violazioni massicce dei diritti umani, provocando l’esodo di milioni di
persone ... La Banca stabilisce le proprie leggi
senza essere stata legittimata da cinquant’anni
e, per ragioni complesse, le sue istanze dirigenti non possono avere soddisfacenti meccanismi
di controllo”.
“Il FMI tende, tramite le condizioni che pone
per la concessione dei prestiti ai Paesi in difficoltà, a privare gli Stati del controllo della loro
economia. Questo organismo non cerca di adeguarsi alle realtà di ciascun caso concreto ma
cerca di imporre ai paesi le proprie norme economiche. L’obiettivo sarà raggiunto nella misura in cui le particolarità saranno distrutte. Con
la normalizzazione economica verrà la normalizzazione culturale e la uniformizzazione dei
modi di vita”.
E ancora: “L’analisi dimostra che il ricorso
indiscriminato al prestito smobilizza l’economia di un Paese, scoraggia il risparmio nazionale, rallenta la crescita della produttività interna, riduce la padronanza della catena tecnologica, orienta l’apparato produttivo verso i bisogni di una economia internazionale decentrata e drena a termine le risorse del Paese verso le potenze industriali. A ciò si aggiunge l’alienazione culturale prodotta dall’introduzione
non meditata di un modello culturale straniero, lo sconvolgimento della struttura sociale, in
particolare l’esodo rurale e la perdita progressiva dell’autonomia politica”.
TESI 2. LA GLOBALIZZAZIONE FAVORISCE LE AUTONOMIE - Secondo questa scuola, il mondialismo,
inteso come programma mirante all’instaurazione di un governo unico planetario, massima
concentrazione immaginabile di potere e quindi
minaccia per la libertà dei popoli, è un fenomeno addirittura opposto alla potente forza decentralizzatrice costituita dalla liberalizzazione su
scala mondiale dei mercati i quali, essendo inAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
siemi di rapporti volontari dai quali è bandito
l’uso della forza, non possono causare quello
sradicamento delle varie culture che è invece
operato dalla centralizzazione statale, strumento con cui le culture egemoni hanno sempre
schiacciato quelle minoritarie.
Proprio la novità tecnologica costituita dalla
diffusione della rete, con le sue conseguenze
economiche e culturali, ha dato inizio al declino del rigido controllo che gli stati centralizzati
hanno sempre esercitato sulle popolazioni stanziate entro i propri confini. Molti popoli ora avvertono lo stato nazionale, cui più o meno forzatamente appartengono, come un ingombro,
perché sanno di essere inseriti in una rete di
scambi globali di fronte alla quale le burocrazie
accentratrici mostrano, insieme al loro costo,
tutta la loro arroganza e inutilità.
Friedrich Von Hayek, premio Nobel per l’Economia del 1974, sostiene la necessità di globalizzare i mercati, mentre si dichiara contrario a
qualsiasi tipo di governo mondiale: “Un governo
mondiale anche molto buono - scrive - sarebbe
comunque una calamità, perchè precluderebbe
la possibilità di sperimentare strumenti alternativi”. Dunque, per Hayek, la liberalizzazione
degli scambi non porta né deve portare all’omologazione politica.
La studioso liberista Hans-Hermann Hoppe,
in un suo recente saggio scrive: “L’integrazione
politica comporta maggior potere per uno Stato di imporre tasse e regolare la proprietà mentre l’integrazione economica rappresenta un’estensione della divisione interpersonale e interregionale della partecipazione al lavoro. Come
può dunque - si domanda - la liberalizzazione
degli scambi comportare un aumento della
centralizzazione, considerando che in linea di
principio tutti i governi riducono la partecipazione al mercato e la formazione della ricchezza economica?”
Sempre secondo Hoppe, “… nel confronto tra
integrazione forzata e separazione volontaria,
ci sono ragioni a favore della seconda …”. I
piccoli paesi sono naturalmente portati a scegliere il libero mercato anziché un’economia
statalizzata e inoltre la compresenza di tanti diversi stati sul territorio di un vecchio stato-nazione li pone in naturale concorrenza poiché i
loro governi, “per evitare di perdere la parte più
produttiva della popolazione, sono spinti ad
adottare politiche interne più liberali”. Finalmente, poiché “adottando un regime di libero
scambio illimitato, persino il più piccolo dei
Quaderni Padani - 9
territori può pienamente essere integrato nel
mercato mondiale e usufruire di tutti i vantaggi della divisione del lavoro”, la liberalizzazione
degli scambi risulta inseparabile dall’autonomia. E infatti, molti piccoli paesi prosperano e
non anelano a congiungersi con altri proprio
perché si sono aperti ai mercati mondiali, mentre molti grandi stati, portati dalle loro dimensioni a tendenze protezioniste quando non autarchiche, hanno non di rado conosciuto il ristagno economico.
La nuova Europa
Entrambe le tesi sopra esposte contengono
spunti interessanti. In ogni caso, mentre la globalizzazione è un fenomeno in espansione da
tenere sotto attento controllo, un governo centrale, europeo prima e mondiale poi, è sicuramente qualcosa che si deve e si può fermare, se
si vuole evitare una pericolosa involuzione dalla
democrazia reale, intesa come effettiva possibilità di incidere sulle decisioni che vengono prese, a una democrazia soltanto più formale, vuoto meccanismo di delega e rappresentanza. Infatti, anche semplicemente per ragioni di numero e di distanze geografiche, in un parlamento continentale o mondiale la voce del singolo
cittadino elettore viene ad avere un peso praticamente nullo mentre la gestione vera del potere è in mano alle alte gerarchie politico-burocratiche e la forza di pressione ai grandi accentramenti finanziari e all’industria della comunicazione.
L’esame di come si sta sviluppando la nuova
Europa è un’interessante banco di verifica delle
argomentazioni precedenti.
La nuova Europa nasce bancocentrica. L’articolo 107 del Trattato di Maastricht recita: “Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei
compiti e dei doveri loro attribuiti dal presente
trattato e dallo statuto del SEBC (Sistema Europeo di Banche Centrali) né la BCE (Banca
Centrale Europea) né una Banca Centrale né
un membro dei rispettivi organi decisionali
possono sollecitare o accettare istruzioni dagli
organi comunitari, dai governi degli Stati
membri né da qualsiasi altro organismo...”.
All’osservazione che, con un’organizzazione
economica siffatta, la politica interna dei singoli stati viene essenzialmente governata dall’estero, la risposta è che il nuovo ‘interno’ non è
più quello dei singoli stati bensì quello dell’intero continente. È quindi ovvio che la regolamentazione economica avvenga a livello conti10 - Quaderni Padani
nentale. In più, viene spiegato che è questa la
nuova dimensione alla quale occorre adeguarsi.
Senz’altro è vero. Manca però un particolare
importante: la possibilità che resta al cittadino
elettore e contribuente di controllare con il
proprio povero voto entità talmente potenti e
lontane. Si consideri, ad esempio, che le famose
‘direttive’ dell’Unione non sono deliberate dal
Parlamento europeo, il quale ha funzioni solo
consultive, bensì dalla Commissione, che è un
organo eminentemente tecnocratico svincolato
da ogni autentica legittimazione: questa è la
‘sovranità popolare’ di cui godono i popoli europei nella nuova ‘casa comune’, in attesa di quella ancora più grande a venire.
Il discorso è naturalmente diverso per le
grandi istituzioni finanziarie, le quali da tempo
hanno intravisto la possibilità di intervenire
nella trasformazione economico-politica dell’Europa e del mondo. E infatti i supporter più
entusiasti dell’unificazione europea sono stati
banchieri e governanti, figure spesso coincidenti (come ad esempio nel caso italiano di Prodi,
Dini e Ciampi). Da subito le banche hanno dato
inizio a una girandola di fusioni e altre manovre varie.
Quanto a prestazioni economiche, la nuova
Europa non ha dato finora gran prova di sé. Dal
momento dell’introduzione dell’Euro, la produttività europea ha visto un calo continuo e
parallelamente la nuova moneta non ha fatto
che deprezzarsi sul dollaro e sullo yen. D’altra
parte, anche il lato politico della costruzione ha
mostrato vistose crepe, con il fallimento della
missione ‘umanitaria’ nella ex-Yugoslavia e con
le tensioni create dal caso Austria. Che ne sarebbe stato della traballante costruzione europea se un politico sgradito, ad esempio, alla
Francia fosse stato democraticamente eletto
nella poderosa Germania?
Immigrazione
È ovvio che popolazioni ad alto tasso di sviluppo demografico e basso livello culturale ed
economico cerchino di spostarsi in zone dove è
stata prodotta maggior ricchezza, sollecitate a
ciò anche dalle trasmissioni radiotelevisive che
ne mostrano in genere gli aspetti più allettanti.
Questi trasferimenti di enormi masse umane
non risolvono il problema della sovrappopolazione nel mondo (gli africani con i loro ritmi di
proliferazione sono già 700 milioni) né quello
della povertà, che va affrontato nei paesi d’origine, mentre creano grandi squilibri nelle zone in
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
cui si riversano, come sta accadendo in Europa,
una delle parti più popolate del pianeta.
La situazione in Italia
L’emigrazione italiana verso l’America del secolo scorso volgeva verso spazi sterminati e
pressoché inabitati. Ancor oggi la densità di popolazione negli USA è di appena 28 abitanti per
chilometro quadrato e di 12 in Argentina, mentre in Italia risultano censiti 190 abitanti per
chilometro quadrato. In queste condizioni di
densità demografica, cui si aggiungono tassi di
disoccupazione e criminalità fra i più alti d’Europa e inefficienza dei pubblici servizi, la domanda di quanti immigrati l’Italia possa accogliere non ha ancora avuto risposte serie da parte dei responsabili. I governi di centro-sinistra
hanno spalancato le porte all’immigrazione con
sanatorie e leggi tipo la Turco-Napolitano che
prevede, insieme a molto altro, la possibilità di
ricongiungimenti famigliari fino al terzo grado,
praticamente il trasferimento di interi villaggi,
data la vaghezza dei concetti di parentela e stato
di famiglia presso molte delle popolazioni interessate. Dal canto suo la Caritas, che gestisce
miliardi di assistenza pubblica e privata, continua a premere per la cosiddetta politica delle
porte aperte, salvo lanciare di tanto in tanto grida di allarme sul fatto che alla robusta criminalità italiana si è aggiunta quella immigrata,
mentre il Vaticano è giunto a chiedere per il
Giubileo un’ulteriore sanatoria per tutti i clandestini. Un mix di interessi elettorali futuri, interessi economici e fumose teorie terzomondiste
a spese dei cittadini e della convivenza civile.
Un argomento fra i più comuni dei fautori
delle porte spalancate è che serve manodopera
per i lavori che gli Italiani non vogliono più fare. Così si ha l’assurdo che mentre, ad esempio,
i giovani disoccupati siciliani e napoletani continuano a essere assistiti con il denaro pubblico,
sui pescherecci di Mazara del Vallo e nei campi
ci sono marocchini e senegalesi. Un altro è che
la popolazione italiana invecchia e occorre
quindi sopperire con un’immigrazione giovane.
Ma come il Nord Europa ha da tempo compreso, a fronte del prolungamento della vita media
è la nozione stessa di vecchiaia che va rivista,
con un adeguato rinvio dell’età di pensionamento.
Se qualcuno pensa di risolvere con l’immigrazione il problema di chi pagherà le pensioni, allora dovrà mettere nel conto incalcolabili costi
a tempo differito (la casa, la sanità, la moschea,
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
la scuola in lingua madre, eccetera) oltre alle
inevitabili tensioni e ai problemi di ordine pubblico.
Se dunque la tendenza allo spostamento è naturale, assai meno naturale è che i governi,
quello italiano in primis, abbiano svolto un’azione assai blanda di contenimento di queste
masse umane. Sia l’immigrazione un fatto incontrollato per incapacità o imprevidenza, sia
un fatto voluto e favorito, essa è diventata un
fenomeno sociale di estrema importanza che
sta producendo un graduale sfiguramento delle
popolazioni europee, diluendole e intaccandone
le originalità culturali con il forzarle a convivere in casa propria con nuove, numerose e a volte assai intolleranti presenze.
La capacità che un gruppo ha di opporsi a un
progetto che tende a farlo scomparire è direttamente proporzionale al suo grado di organicità
interna, al suo essere Gemeinschaft e ciò avviene quando i suoi membri hanno la stessa provenienza etnica e culturale. Pare allora che la
massiccia immigrazione che giunge in Europa
proprio in coincidenza con la nascita del nuovo
Superstato sia funzionale alla progressiva creazione di un utile magma umano costituito da
atomi disaggregati, privi di quelle radici (lingua, mentalità, cultura, tradizioni) che ne determinano le caratteristiche più significative,
estranei a ogni appartenenza e che mantengono
come unico attributo quello della quantità.
Identità dei popoli
L’identità di un popolo riposa sul lento amalgama prodotto al suo interno da secoli di esperienze vissute in comune in pace e in guerra
entro un territorio che ne è stato teatro e che
con le sue caratteristiche ha contribuito a determinarne la specifica “cultura” intesa come
Weltanschauung, concezione del mondo.
“Un popolo è tale - scrive Renan - se ha il
sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli che
è ancora disposto a compiere insieme. Presuppone un passato ma si riassume nel presente
attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a
vivere insieme. … La sua esistenza è un quotidiano plebiscito”. La secessione, per Renan, è
dunque un diritto naturale.
La cultura di un popolo, solo in parte codificata nei documenti del sapere ufficiale, spazia
da fattori basilari quali la lingua, la concezione
del lavoro, il tipo di rapporti interpersonali, la
produttività scientifica e artistica, la religione,
Quaderni Padani - 11
le superstizioni, la struttura della famiglia, i costumi sessuali e alimentari fino a fattori minimi, quali il gusto per il baccano o il silenzio.
Essa evolve nel corso dei secoli in dipendenza
complessa da molteplici fattori e viene trasmessa di generazione in generazione ai nuovi nati
che, si potrebbe dire, la succhiano insieme al
latte materno.
A ragione Johann Gottlieb Fichte afferma che
la nazione, che è cosa distinta dallo Stato, è una
realtà fondata sulla storia: i suoi confini veri
non sono pertanto qualcosa di fisico come i
monti o i fiumi, che il nemico può sempre varcare, ma le tradizioni comuni e soprattutto i valori condivisi da tutti i suoi appartenenti. La
lingua svolge un’azione di primissimo piano nel
sintetizzare le esperienze collettive, incorporandole in un flusso che si trasmette, a volte arricchito, a volte impoverito, di generazione in generazione e che viene a guidare, per così dire, il
pensiero lungo direttrici caratteristiche, riflettendo il carattere del popolo che la parla e, a
sua volta contribuendo a formarlo e a trasmetterlo.
La Gran Bretagna, isola di navigatori e commercianti, ha sviluppato nel corso dei secoli
una visione pragmatica del mondo, ben illustrata anche dalla sua produzione filosofica, dove il
conseguimento di un certo risultato è privilegiato rispetto all’indagine sui suoi presupposti
teorici. La lingua inglese, che ha registrato nel
suo evolversi l’influenza di una tale mentalità
ed ha, di riflesso, contribuito a ritrasmetterla, è
esemplare al proposito: struttura grammaticale
e sintattica ridotta al minimo, essa procede
quasi per immagini (idioms), tesa alla rapidità e
concretezza della comunicazione più che all’approfondimento teorico dei concetti. In Germania e in particolare nel suo nucleo prussiano,
situazione geografica, risorse naturali, agenti
esterni e specificità di quell’etnia hanno prodotto quella cultura nota per profondità di pensiero, efficienza e rigidezza, nel bene come nel
male, di cui la lingua tedesca è l’emblema.
In stretta analogia con l’impulso naturale,
che spinge i singoli individui a prolungare e affermare sè stessi lanciando nella discendenza il
proprio codice genetico, anche le motivazioni
fondamentali di ogni comunità umana sono la
sopravvivenza alle durezze della natura e l’affermazione di fronte alle altre comunità. Profondamente diversi sono però i modi in cui queste
pulsioni vengono realizzate nel corso degli
eventi che costituiscono la storia. Ognuno di
12 - Quaderni Padani
questi modi è la sperimentazione di una fra le
possibili strade alla sopravvivenza e alla ricerca
della propria ragione di esistere che la natura,
in un certo luogo e tempo, consente a un gruppo umano. In questo senso la cultura di un popolo lo distingue dagli altri e lo caratterizza,
fintantoché una catastrofe, una trasformazione
profonda, lenta o improvvisa, non ne inizi una
nuova.
L’antropologo Claude Levi-Strauss scrive che
la vera ricchezza dell’umanità è costituita dai
differenti modi con i quali i diversi gruppi umani affrontano la vita nel suo duplice aspetto materiale e intellettuale, ossia delle diverse risposte che essi danno al problema del perché vivere
e del come sopravvivere. Se le chiavi interpretative del mondo e dell’esistenza sono ridotte a
una sola, l’umanità avrà difficoltà a risolvere i
propri problemi. Per questo è essenziale che
ciascun popolo conservi la propria Weltanschauung specifica, distillato di esperienze originali in secoli di vita comune.
La società capitalistica industriale, basata su
produzione e consumo sempre più frenetico di
merci, travolge ogni tipo di cultura che non sia
in grado di adeguarsi in fretta alle sue leggi, appiattisce sui suoi propri ogni altro valore, modello, visione.
Chi non si dota di un apparato produttivo industriale è destinato a scomparire come entità
sociale. Chi se ne dota ex abrupto, senza che il
processo sia stato lentamente maturato e metabolizzato, vede presto insorgere contraddizioni,
conflitti e rigurgiti sanguinosi. Esempi ne sono
paesi di recente industrializzazione in sud America e paesi riccamente dotati di risorse naturali
in Africa, dove una ricchezza improvvisa e importata ha paradossalmente significato per le
popolazioni corruzione, massacri, miseria ed
emigrazione di massa. L’identità è lo schermo
naturale alla devastazione di delicati equilibri
interni causata dall’imposizione acritica e improvvisa di modelli estranei.
Particolare interesse ha il caso dello Stato italiano, che è sorto non da una matura coscienza
unitaria, da una vera omogeneità culturale,
economica ed etnica ma dalla volontà espansionistica di una casa regnante che ha forzato insieme popoli separati da oltre un millennio di
storia.
Scriveva Stendhal nell’Ottocento: “Fra un
Italiano e un Piemontese vi è maggior differenza che fra un Francese ed un Inglese”. E di cultura italiana, nel senso più ampio sopra definiAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
to, si può parlare poco ancora oggi. L’inventare
uno stato forzando insieme i popoli dell’Italia
meridionale con la loro storia e i loro valori e
quelli settentrionali (passati attraverso la fondamentale esperienza storica dei liberi comuni, e
con il forte denominatore comune dell’etica del
lavoro e della mentalità razionale che l’accompagna e ne costituisce, per dirla con Hegel, il
Volksgeist, la ‘moralità sociale’ in cui essere e
dover essere coincidono nella famiglia, nella società civile e nello Stato), l’accentrare il nuovo
Stato per tema di spinte centrifughe, l’imporre
leggi e mercato piemontesi alla società meridionale-papalina (latifondista e spagnolesca, e impossibilitata a recepirle), la becera politica di
italianizzazione forzata del fascismo e infine la
collusione fra apparato statale romanizzato e
grande industria assistita pubblica e privata,
tutto ciò ha condotto alla situazione attuale di
uno stato che, unico in Europa, deve ricorrere
all’impiego dell’esercito regolare in alcune sue
regioni per potervi mantenere una parvenza di
ordine civile.
Mentre già nel 1700 Montesquieu affermava
che leggi e istituzioni dei vari popoli non sono
qualcosa di casuale o arbitrario ma sono strettamente legate al carattere dei popoli stessi, ai loro costumi nonché alla natura del paese in cui
essi vivono, cioè al clima, alla struttura geografica eccetera, concludendone che è un puro caso che leggi di un popolo convengano a un altro, due secoli dopo gli artefici dell’unità italiana ancora ignoravano questi fatti elementari.
Così, per quanto il Meridione italiano non brillasse nel novero delle società europee di metà
Ottocento, mai aveva toccato il livello di disfacimento sociale cui assistiamo ai giorni nostri.
Anche il Meridione italiano è stato deradicato.
Riprendendo lo spunto iniziale sulla fine delle
ideologie, si può affermare insieme l’impredicibilità del punto di arrivo di questo momento
storico estremamente complesso e gravido di
trasformazioni economiche, culturali e politi-
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
che ma contemporaneamente la possibilità di
incidere con l’azione sul suo svolgimento, per
rimanere padroni del nostro destino individuale
e di popolo. Molti popoli in Europa proprio in
questi anni hanno fatto significativi passi avanti
verso la loro autonomia
Chateaubriand si chiedeva alla fine del secolo
scorso: “Che cosa sarebbe una società universale senza alcuna nazione, che non fosse né francese, né inglese, né tedesca, né spagnola, né
portoghese, né italiana, né russa, né tartara, né
turca, né persiana, né indiana, né cinese, né
americana, o magari che fosse tutte queste società insieme? Che cosa ne risulterebbe per i
suoi costumi, le sue scienze, le sue arti, la sua
poesia?”. Che cosa sarebbe, si potrebbe aggiungere, un’orchestra composta da strumenti tutti
uguali? Per dirla ancora con Renan, “attraverso
le loro diverse vocazioni, spesso opposte, le nazioni servono alla comune opera della civiltà;
tutte apportano una nota a quel grande concerto dell’umanità che è, in definitiva, la più alta realtà ideale da noi raggiunta. La loro esistenza è garanzia della libertà che sarebbe perduta se il mondo avesse una sola legge ed un
solo padrone”.
Comportamento, linguaggio, abbigliamento,
musica, divertimento, cibo uniformi su scala
planetaria allevano un’umanità omogeneizzata
tragicamente dotata degli stessi pensieri e stimoli emotivi. Chi viene privato delle sue radici
e memoria storica, chi non è in grado di capire
attraverso quali percorsi è diventato quello che
è, è in balia di centri di potere economico e politico sempre più lontani, anonimi e potenti, gli
unici ad avere mezzi sufficientemente forti per
imporre di volta in volta quegli schemi di comportamento che più servano ai propri interessi.
Privato di un governo locale che sappia contrapporsi come uno scudo alle scelte centrali, il
cittadino vedrà il suo potere di influire sul proprio destino e sul mondo destinato ad accogliere i suoi figli diventare insignificante.
Quaderni Padani - 13
Il determinismo storico
e la libertà
La Weltanschauung veneta
di Eugenio Fracassetti
D
iceva l’indimenticabile “parón” Nereo Rocco (l’allenatore della squadra calcistica del
Milan negli anni sessanta) a proposito del
sistema - si potrebbe dire “della filosofia” - del
dirigere le partite di calcio adottato da un celebre arbitro in quegli anni (Concetto Lo Bello),
che questi fosse solito “usare” il regolamento
arbitrale non tanto e non solo affinché lo svolgimento sportivo della gara - e quindi il risultato finale - si evolvessero e si concludessero secondo la pura logica sportiva dettata dal regolamento calcistico, quanto secondo una sua, certo non predeterminata ma personalizzata e personalistica logica dirigistica che andava a premiare e a colpire le squadre in campo secondo
una propria individuale interpretazione dell’equità sportiva, interpretazione che peraltro
emergeva ed era suggerita dallo svolgimento
stesso della gara.
Il regolamento arbitrale in questo caso non
era più una legge obiettiva e uguale per tutti,
atta a permettere l’emersione in campo di un
risultato sportivo conforme al puro andamento
della gara, quanto un elemento soggettivo, uno
strumento personalizzato atto a imporre un
giudizio di valore - e quindi un responso - secondo una razionalità umana e non sportiva
che si riconosceva peraltro leale e, a proprio
modo, onesta.
L’errore di fondo - diceva giustamente Rocco è che queste due razionalità, quella sportiva e
quella umana, non sempre coincidono perché
altrimenti lo sport finirebbe d’essere “maestro
di vita”, e si arriverebbe anzi a un capovolgimento dei valori essenziali emergenti dalla
competizione, che è paradigma della vita.
Tale sistema d’analisi è valido e applicabile alla moderna problematica sociale e, più specificamente, alla questione del “determinismo storico” (la weltanschauung) dei gruppi sociali
14 - Quaderni Padani
omogenei (minoranze etniche) relativamente al
più ampio concetto di libertà.
L’immodestia di arrogarsi a giudici di “tutto”,
la pre-potenza di voler acquisire in prima persona gli strumenti di gestione della società e della
vita di tutto e di tutti, è tipico della filosofia dittatoriale secondo cui è un uomo (o un’accozzaglia di uomini) - e non l’ordinato evolversi del
rapporto di forza a tutti i livelli della vita sociale
- che elargisce, a suo giudizio, il premio o la punizione. L’uomo in questo caso non è più al
temporaneo servizio di un regolamento o di
una istituzione, ma sono il regolamento o l’istituzione al servizio dell’uomo, finalizzate alla discrezione personalistica.
L’equivoco, in questi casi, è sempre presente
in maniera subdola, quando si dà - coram populo, su suggerimento dei mass-media - un giudizio di onestà e di galantuomini a questi personaggi. È questa la pacificazione delle coscienze,
è questa la chiusura gratificante di un cerchio
socialmente totalizzante. Ma l’onestà deve essere una virtù sociale diffusa e pagante e non la
condizione - ammesso che realmente ci sia per acquisire poteri totalitari, perché altrimenti
si finirebbe per credere che l’onestà è premiante nei confronti di una massa... di disonesti, e
questo non può essere perché è fuori dalla
realtà. Vero è che non può essere la caratura
dell’uomo forte su cui si deve discutere, quanto
la filosofia che sottende alla liceità di avere poteri forti su altri uomini. In verità, nell’ambito
della vita umana e sociale, nell’ambito della
tanto richiesta “libertà”, non dev’essere un uomo - onesto o disonesto che sia! (o un gruppo
(*) Tratto, e liberamente rielaborato dallo stesso autore, dallo scritto presente nel volume Cento voci; Rebellato Ed. Venezia 1986.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
di uomini - onesti o disonesti che siano -) - che
dà giudizi di valore su altri uomini, che determina la graduatoria dei valori umani e sociali,
ma dev’essere la vita stessa (la “gara”, nell’ambito sportivo) che fa queste scelte obbligate in
misura dei valori presenti nella “piazza”, ai fini
di un arricchimento e miglioramento comune.
Alla fine di questo processo democratico, se si
ha pazienza, e soprattutto se si vuole credere in
ciò, accettandone le regole e i responsi, i veri
valori individuali e collettivi emergono, come i
funghi nel bosco dopo la pioggia.
Noi sappiamo che la sovrana legge di selezione naturale decide la scomparsa o l’evoluzione
in positivo (la vita) di ogni razza animale o vegetale. Voglia o non voglia questa legge è in applicazione anche nel mondo dell’uomo. È molto
dubbio che questo concetto si presti a giudizi di
valore: il determinismo storico dell’uomo infatti (uomo come singolo e uomo come entità sociale) - la sua weltanschauung - è dovuto per
tanta parte alla sua capacità di sopravvivere alla
sofferenza, alla volontà (individuale o di gruppo) di prestabilire e di conseguire un proprio
difficile e problematico futuro, alla originale
“forza” civile di elaborare e di tener fede a una
propria etica di gruppo. Per scendere nello specifico di un paese che adotti la legalità parlamentare in politica e la libera intrapresa in economia, lo sviluppo della dinamica libertaria nella sua pur minima interpretazione impone che
l’evoluzione storica di ogni gruppo sociale omogeneo non sia frenata o “guidata” da un potere
“superiore” che la predetermini in nome di un
concetto giustizialista di corto respiro, ma sia
libera di incanalarsi in una o in un’altra direzione verso un determinismo storico fondato su
dei reali rapporti di forza e di potere che tale
gruppo sociale è in grado di imporre, non tanto
al resto della società a cui appartiene, quanto al
più ampio contesto internazionale, affermando
e illustrando così - coi fatti - il valore assoluto
della propria cultura autoctona.
Tale possibilità alla affermazione della propria
storia, tale libera opzione verso un proprio e determinato futuro, responsabilizza e unifica il
gruppo sociale, amplia il ventaglio delle possibilità del singolo e fornisce sempre nuovi, freschi
e positivi impulsi all’insieme, in contrapposizione a una latente e regressiva involuzione in
senso “imperiale”, non tanto e non solo della
singola etnia, quanto di tutta la società. Il problema sostanziale è che questa weltanschauung
sociale possa essere contenuta all’interno di
una vera struttura di democrazia rappresentativa (l’Europa dei Popoli!) che, pur permettendo
e assecondando la modifica - non irreversibile dei rapporti di forza intesi in questo caso non
tra i ceti ma tra le etnie, garantisca vera e sicura democraticità al sistema sociale e politico in
oggetto.
Qualche tempo fa un nostro amico diceva che
“... oggi bisogna trovare la forza di vivere per
“altri” valori per non correre il rischio d’imputridire!”. Sono poche povere parole che esprimono tuttavia una condizione esistenziale,
Bandiera veneziana del XVII secolo
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 15
quella di milioni di uomini schiavi dell’infima
problematica del contingente e non più confortati da una praticabile speranza. Bisogna dire
che se qui da noi - nel Veneto - oggi l’uomo materialmente, statisticamente, edonisticamente
sta meglio di ieri, sul piano di una più complessiva problematica esistenziale questo “star meglio” pone certamente dei dubbi. Noi riteniamo
che il nostro mondo, quel mondo che ha ancora
profonde radici nella passata maestà della Serenissima Repubblica di Venezia, che per secoli fu
riferimento e guida culturale e artistica per l’intero universo civile, noi riteniamo - dicevamo che questa nostra “enclave” etnica, che tanto ha
dato nel passato e che tanto potrebbe ancora
dare oggi alla cultura occidentale, stia finalmente, dopo due secoli, mostrando i segni di
decadimento sotto il subissante, volgare e fallimentare pensiero e comportamento mediterraneo che fa dell’arraffamento, del potere toutcourt, dell’emarginazione politica del “valore” e
del raffinato convincimento occulto attraverso i
mass-media monopolistici, le sue armi di battaglia. “La cattiva moneta scaccia quella buona”
dice il proverbio, e questa massa di volgarità
politica, culturale e comportamentale che da
decenni - direi ormai da secoli - ci viene scaricata addosso spinge la nostra gente a standard
di pensiero e azione di un livello sempre più
basso e infimo. Ad omologarsi al pensiero guida
romano. Un luccicante, fatuo e problematico
benessere sta avanzando mentre noi stiamo
perdendo noi stessi, le nostre radici, la coscienza delle nostre potenzialità culturali (rigorosamente censurata) e la coscienza del nostro valore storico assoluto.
La politica e l’economia romana “ci marcia”
su di noi e sugli ormai secolari nostri sforzi
giornalieri di mettere la testa fuori “dalla merda”... ma poi sempre, con tasse, gabelle e dictat
siamo ricacciati più in giù, sempre più in giù,
fino a far conoscere le patrie galere ai più “indisciplinati” e goliardici venetisti.
L’economia romana “ci marcia” su di noi non
solo perché siamo degli ottimi e fedeli pagatori
di tasse, ma anche perché siamo - coram populo - dei grandi “evasori” in rapporto alle nostre
potenzialità economiche tassabili. La verità è
che da oltre centotrenta anni continua a insistere su di noi quella grande spoliazione che
con tanta efficacia ha inaugurato Napoleone
nelle sue “leggendarie” campagne d’Italia.
L’economia romana “ci marcia” su di noi perché trasferisce altrove la nostra linfa economica
16 - Quaderni Padani
per un “sacro” principio di solidarietà, non volendo rendersi conto che quando tale solidarietà - che non è fatta di “fregole” ma di cifre
astronomiche inconcepibili per un amministratore onesto - è protratta per anni e per secoli
senza produrre alcun volano di sviluppo altrove,
è pura “appropriazione indebita”, è puro consociativismo mafioso, ma soprattutto è un percorso assolutamente antitetico a un concetto forte
di “giustizia” a cui uno Stato non dovrebbe mai
abdicare. Non è ozioso il ricordare che la dimensione del potere economico è in similitudine con la dimensione del potere politico, e con
la potenzialità complessiva di un popolo di fare
cultura autoctona. Lo spostamento di grandi
masse economiche è quindi sinonimo di spostamento di vero potere politico a scapito di un popolo o di una etnia, in favore di un altro popolo
o di un’altra etnia, alterando così in modo artificiale i naturali e ovvi rapporti di forza e gli
equilibri di potere che naturalmente si attuano
in un paese in relazione all’etica individuale degli uomini e di quella collettiva di un popolo, e
instaurando così anche falsi e artefatti valori
nazionali. Il senso di ingiustizia, infatti, e di
prevaricazione dello Stato sul cittadino è palesemente avvertito “a pelle” dalle persone comuni, ma poi ognuno tira avanti, “digerisce” la sua
crisi e pensa ai fatti suoi perché, in fin dei conti,
“non siamo mai stati così bene!...” pur con i
conti pubblici spaventosamente in rosso che
colpiranno ingiustamente molte generazioni
future! Certo non potrà continuare così, all’infinito, questa cuccagna, i numeri - e forse l’Europa - non lo potranno permettere.
Queste lamentele e questi mugugni nel Veneto hanno certo una data d’origine che coincide
col truffaldino plebiscito del 21/22 ottobre 1866
che sancì la forzata annessione all’Italia. Certo,
ogni cultura può vivere e convivere con ogni altra cultura, ogni etnia con ogni altra etnia, purché ci sia all’origine una convinta, limpida e
trasparente scelta democratica delle popolazioni, e in secondo luogo un patto di convivenza
chiaro e rispettato; purché fin dall’origine una
dieta (un governo rappresentativo paritetico)
stabilisca e determini vere condizioni di parità
di poteri al fine di evitare successivi cannibalismi politici del tipo di ciò che fece Roma, circa
duemila anni fa, con la grande civiltà etrusca
(assoggettamento per omologazione) e di ciò
che ancor oggi Roma sta rifacendo, nel silenzio
del mondo, con la grande civiltà veneta. Certo, i
Balcani in questi anni fanno testo, e senza vere
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
garanzie istituzionali a tutela dei gruppi e delle
nazionalità minoritarie tutto può succedere in
modo subdolo o manifesto. L’entrata in guerra
nel 1915 dell’Italia a fianco della Serbia contro
gli Imperi centrali, per esempio, può configurarsi storicamente come una occulta, indiretta
ma efficace pulizia etnica nei confronti del Veneto colpevole, fin d’allora, di strane voglie indipendentiste e federaliste. Tale verità emerge
dalla storica constatazione che gli ultimi colloqui preliminari del Sonnino con i plenipotenziari austriaci nel 1915, pur dando soluzione a
ogni precedente pretesa di carattere territoriale
messa in campo da Roma (Trento e Trieste),
non fu sufficiente a evitare la guerra, che del resto, pur sanguinosa e vittoriosa, non servirà a
conquistare tutto ciò che si aveva precedentemente acquisito nel tavolo delle segrete trattative preliminari.
In realtà qui siamo tutti pacifisti, tutti aborriamo la guerra e tutti siamo a favore della politica da intendere, questa sì, come vera guerra,
ma combattuta con le parole in un posto chiamato Parlamento. Ma attenzione ai sotterfugi, a
veri e propri inganni politici guidati da sètte segrete e malavitose che tanta parte hanno avuto
nel manovrare in modo occulto gli eventi politici e nel decidere le sorti di questo paese dal Risorgimento in poi. Attenzione alle furberie truffaldine che sono presenti a ogni angolo di strada, perché già il fatto di aver unificato fin dal
1861 la penisola italica senza la guida di un
Congresso Costituente che desse voce alle giuste pretese delle storiche e diverse entità etniche e culturali, senza la presenza fin dall’inizio,
di una Dieta che fosse fulcro e arbitro dei diversi poteri, si è costituita immediatamente, fin dal
primo governo dell’Italia unificata, una maggioranza parlamentare che di fatto ha pieni poteri
che mai però compare. Questa maggioranza
parlamentare che si protrae nel tempo, occulta
dietro il grande teatro della politica italica, e
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che tira i fili di ogni commedia parlamentare, è
individuabile nel Partito Trasversale Meridionale che ha fatto, fin dal 1861, un boccone di tutte
le antiche civiltà italiche e le ha poste di fatto
sotto le grandi ali della vecchia cultura borbonica. È stata questa la carta vincente giocata fin
dall’origine dalle grandi organizzazioni segrete
e mafiose del meridione italiano, che sottende
alla grande epopea risorgimentale e che nessun
grande storico italiano, escluso forse Stefano
Jacini, ci ha mai raccontato. Questa carta è stata talmente vincente che a tutt’oggi - pur dopo i
travagli spaventosi di questi ultimi centotrent’anni, è ancora perfettamente giocabile nel
Parlamento italiano. Ma con quali principi giuridici, politici e ideali si è unificato questo paese
nel 1861? Possiamo noi continuare ad affidarci
a storici prezzolati e a politici corrotti nel pensare e nello sperare nel futuro dei nostri figli? A
quale weltanschauung, in coscienza, noi possiamo affidarci se le premesse sono queste? Come
possiamo noi oggi - come ieri, del resto - continuare a essere chini sul nostro lavoro giornaliero e trascurare le ragioni di fondo, le fondamenta del nostro essere politico, le ragioni
profonde della caduta del nostro “telos”, della
nostra speranza? Com’è possibile che derubati
sistematicamente della nostra cultura e della
nostra economia si possa continuare a lavorare
e a produrre e tirare la carretta come degli asini
presi a bastonate?
Se negli anni della fame l’emigrazione era
mossa dalla disperazione, oggi si emigra per necessità e per scelte imprenditoriali, per sfuggire
alla micidiale morsa fiscale - una colossale tangente - che impone la chiusura delle aziende.
Se la nostra terra batte tutti i record della denatalità, se i giovani più non procreano, ci dovrà
essere pure un motivo... e il motivo essenziale,
al di là dei moralismi, è che si è interrotta - forse inconsciamente ma in modo generalizzato la ragione della speranza!
Quaderni Padani - 17
Se il libero mercato diventa ideologia
di Davide Gianetti
D
opo il crollo del muro di Berlino e il conseguente fallimento del comunismo da un
punto di vista militare ed economico, il capitalismo e gli inerenti processi di globalizzazione
si stanno affermando, da vincitori, in quasi tutto
il pianeta. Tuttavia occorre analizzare se tale affermazione si espanda spontaneamente, in virtù
di una maggiore efficacia rispetto alla pianificazione economica di stampo marxista, oppure se
sia indotta non tanto da iniziative e provvedimenti legislativi o governativi quanto da caratteristiche intrinseche al capitalismo. Non si tratta qui
di celebrare le doti e le virtù del libero mercato
bensì di individuare e possibilmente prevenire le
degenerazioni in cui un dato tipo di sistema economico può incorrere lungo il suo cammino storico. Se il marxismo riconduceva ed esauriva ogni
dinamica storica, sociale, religiosa, culturale in
un ambito meramente economicistico di pretesa
scientificità, il capitalismo pare seguirne le orme
tramutandosi, da dottrina economica fallibile e finita, a sistema conchiuso e autoreferenziale attraverso l’assolutizzazione delle sue componenti
principali e il progressivo estendersi di queste alle
altre variabili sociali. Come vedremo di seguito,
liberismo e marxismo si incontrano spesso nella
riaffermazione di una volontà di plasmare il reale
e la società al fine di giungere a un “mondo migliore” e “nuovo” rispetto al precedente. Esemplare è in questo senso il più importante teorico
del liberismo moderno, Ludwig von Mises, punto
di riferimento essenziale per la corrente americana dei libertarians rilanciata decenni fa da Murray Rothbard, che nella sua Politica economica
afferma: “Il requisito indispensabile per il raggiungimento di una maggiore uguaglianza economica nel mondo è l’industrializzazione. Ciò è
possibile solo attraverso l’incremento dell’investimento o dell’accumulo di capitali.” Anche in
Marx l’industrializzazione era ritenuta un processo storico indispensabile affinché il proletariato
giungesse a maturazione della propria consapevolezza di classe sfruttata e imponesse la sua dittatura come approdo alla società senza classi. In
quest’ottica per il marxismo erano ineluttabili
quei processi di industrializzazione che consentivano alle contraddizioni insite nella produzione
18 - Quaderni Padani
di esplicitarsi ed esplodere per via rivoluzionaria.
Mises condivide con Marx l’idea che il processo
industriale coincida con il progresso infinito e
continuo e che debba essere esteso a tutti i popoli
ai quali, successivamente, secondo Mises si applicheranno “valide politiche economiche” onde
raggiungere prosperità e ricchezza. Questa visione misiana affonda le proprie radici nella certezza
taumaturgica di uno sviluppo economico progressivo e incessante dimenticando che esso, viceversa, risulta essere il prodotto di una storia, di
una cultura, di una tradizione specificatamente
europee.
Molti popoli oggi vivono seguendo modelli di
sviluppo cosiddetti arcaici: distruggere il loro sistema economico imponendone uno a loro incompatibile significa distruggere un patrimonio
etno-culturale specifico e inimitabile. La penetrazione di McDonald’s, in questo senso, è sintomatica. Un’altra caratteristica comune alle due ideologie politico-economiche è il carattere universalistico, transnazionale e apolide su cui convergono. Se la dottrina marxista reputa indispensabile
procedere all’“emancipazione” di “realtà” come
l’etnia, il carattere culturale specifico di un popolo, le tradizioni che lo animano, la religione che
lo caratterizza, al fine di “abolire il dominio di
tutte le classi insieme con le classi stesse”, il liberismo segue la medesima strada utopistica. Dice
Von Mises: “In assenza della libertà di migrazione i capitalisti tendono a spostarsi verso quei
Paesi in cui è disponibile molta manodopera a
costo ragionevole. Questo metodo è la migrazione del capitale (…) Tuttavia le restrizioni all’immigrazione - e su questo non esiste il minimo
dubbio - riducono la produttività del lavoro umano”. Mises teorizza e invoca così la necessità del
melting-pot e della società multirazziale poiché
essa offrirebbe ai capitalisti maggiore scelta, in
fatto di manodopera, di quanto non sia in grado
di fare una società etnicamente omogenea. Anche
in questo caso è soppresso il fattore umano e si
esalta la produzione fordista su scala planetaria
dove l’individuo si trasforma in “materiale biologico” da plasmare, utilizzare e accantonare secondo un procedimento di inesausta produttività.
È evidente allora il carattere apolide e sradicato di
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un tale modello economico laddove la complessa
rete di interazioni sociali si riduce a una sciatta
dicotomia produttori-consumatori nell’illusione,
crudele, di una interscambiabilità fra i due status,
in realtà congelati entro un circuito totalitario
perché totalizzante e “perfetto”. E a nulla valgono
le tesi di alcuni (pochi) anarco-capitalisti che postulano restrizioni all’immigrazione in base a
supposti “diritti di proprietà”. L’immigrazione va
respinta perché sul piano etno-culturale vi sono
profonde incompatibilità fra i vari popoli, tali da
ritenere difficoltosa la ricomposizione a unità (integrazione) delle naturali e inevitabili conflittualità interetniche. Il liberismo invece considera i
vincoli etnici, antropologici, culturali e religiosi
di impedimento allo sviluppo capitalistico e ne
pretende il superamento in favore di una struttura sociale atomizzata e individualistica attorno alla quale si riorganizzeranno i rapporti sociali su
basi prettamente capitalistiche. Per ottenere ciò è
necessario abbattere le frontiere nazionali e modellare il mondo secondo i criteri liberisti. Von
Mises al riguardo è chiarissimo: “Non sono assolutamente l’inferiorità né l’ignoranza a fare la
differenza: la differenza la fanno l’offerta e la
qualità dei capitali disponibili. In altre parole la
quantità di capitali è maggiore nei cosiddetti
Paesi avanzati rispetto a quelli in via di sviluppo.
Si potrebbero redigere degli statuti internazionali, che non siano solo semplici accordi, che sottraggano gli investimenti stranieri alla giurisdizione nazionale. Questo potrebbero farlo le Nazioni Unite. Per far sì che i Paesi in via di sviluppo diventino prosperi come gli Stati Uniti manca
una sola cosa: il capitale, e ovviamente la libertà
di poterlo gestire in base alle regole di mercato e
non a quelle imposte dai governi”. La drammatica implicazione che segue il ragionamento di Mises si è concretizzata in questi anni: la nascita del
mondialismo ha sancito la morte degli Stati nazionali. Tuttavia invece di procedere a una ridefinizione degli stessi su basi etno-culturali che facessero sorgere confederazioni di patrie identitarie, il mondialismo, grazie al capitalismo, ha edificato un superstato mondiale che regge le sorti
del pianeta imponendo leggi, provvedimenti e politiche economiche. Queste ultime rappresentano, in definitiva, l’ideologizzazione del capitalismo e la sua imposizione ai vari Paesi, la trasformazione dei parlamenti nazionali in consigli di
amministrazione, la morte della politica e la sua
sostituzione con manager aziendali che rispondono non agli elettori ma ai consiglieri di amministrazione del governo di quel determinato Stato.
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Ovviamente il superstato in questione non possiede un territorio e dei confini, non è riconosciuto come tale ma esiste ed è incarnato da una
sparuta e potentissima schiera di finanzieri e banchieri che ricattano, attraverso i capitali immensi
che detengono, nazioni e continenti interi decidendone le sorti. Il liberismo si è così imbattuto
in due aporie insolubili: la prima consiste nell’aver espropriato il diritto decisionale e di controllo
dei cittadini per riporlo nelle mani di anonimi
banchieri svincolati dal vaglio elettorale, dimostrando così la profonda antidemocraticità dell’ideologia capitalistica e con ciò contraddicendo
l’assioma libertario secondo cui a una sempre più
vasta libertà di mercato corrisponde automaticamente un analogo ampliamento delle libertà democratiche e civili. La seconda aporia consiste
nell’aver prodotto un superstato centralizzato e
avulso dal potere decisionale degli individui
smentendo così la teoria anarco-capitalista che
postula la soppressione dell’entità statuale attraverso la radicalizzazione delle politiche capitalistiche.
Un ultimo punto congiunge liberismo e marxismo: la certezza che il dipanarsi della Storia e dei
suoi eventi segua le medesime dinamiche materialistiche e quantistiche dei processi economici.
Dice ancora Von Mises: “L’affermazione dell’economia come un nuovo ramo della conoscenza è
stato uno degli eventi più portentosi della storia
dell’umanità. Nel preparare il terreno per l’impresa capitalistica privata, essa ha trasformato
in poche generazioni tutte le faccende umane in
maniera più radicale di quanto non sia stato fatto nei precedenti duemila anni”. Ne scaturisce
quindi una concezione messianica e perfettistica
dell’agire umano che trova il suo corrispondente
nella pretesa scientificità del pensiero marxista,
nell’infallibilità della sua dottrina perché unica
disvelatrice dei reconditi meccanismi storici. Alla
luce di tutto ciò è pertanto impossibile non individuare una tendenza culturale che si va progressivamente imponendo nel ventunesimo secolo. Il
liberismo si appresta, da efficace dottrina economica, a divenire un sistema politico-ideale che
informa la società sottoponendola ai propri meccanismi ripercorrendo, di fatto, la strada che ha
intrapreso il marxismo nel secolo precedente.
Non si tratta qui certo di rifiutare il libero mercato in sé o di rivalutare il marxismo: si tratta di
contrastare l’ideologia del libero mercato impedendo che il mondialismo divenga per il liberismo quello che il comunismo era stato per il
marxismo.
Quaderni Padani - 19
L’aquila d’Europa
di Gilberto Oneto
L
a grande forza dei simboli veri – ha spiegato Federalista Europeo (una grande E verde in
Mircea Eliade - è di continuare a funzionare campo bianco) che per molti anni aveva rappree ad assolvere la loro funzione anche quan- sentato ideali e speranze di federazione contido se ne è persa l’immediatezza della compren- nentale. Oggi il drappo azzurro è stato ufficiasione o il loro utilizzo in quanto simboli rico- lizzato e il suo uso è diventato obbligatorio nenosciuti è stato interrotto. Una prova della giu- gli stati della Comunità a fianco delle bandiere
stezza dell’osservazione è data dal successo del nazionali.
Sole delle Alpi, recentemente riproposto e subiSulla sua origine si ripete una versione che la
to entrato nel favore popolare dal cui inconscio vuole desunta dalla diffusa rappresentazione icoculturale non era evidentemente mai uscito.
nografica dell’Immacolata Concezione, nella
Questo è solo il più noto dei casi perché negli quale la Vergine ha un’aureola di stelle su un
ultimi tempi tutta una serie di simboli sono fondale azzurro cielo o veste un manto azzurro
tornati in vita a rappresentare
autonomie, identità e aspira- Aquila imperiale (Miniatura del libro IV degli Annales della
zioni di libertà: segni araldici, “Nazione Germanica” nell’Università di Bologna)
stendardi e bandiere, magari antichissimi, rispuntano dopo decenni o secoli di oblio e ritrovano quasi miracolosamente un
posto di primo piano nell’affetto
popolare. Uno di questi è la
bandiera dell’aquila imperiale,
antico segno araldico dello spirito dell’Europa profonda, popolare e cristiana.
La necessità di una bandiera
“vera” per l’Europa
Il Consiglio d’Europa ha adottato nel 1953 una bandiera azzurra con quindici stelle gialle a
cinque punte, disposte in cerchio. Nel 1955 il loro numero è
stato (senza apparente motivo)
ridotto a dodici. Nello stesso
1953 l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord
(NATO) aveva adottato la sua
bandiera, in verità piuttosto simile, costituita da un cerchio e
da una rosa dei venti bianca
sempre in campo azzurro.
Quella delle dodici stelle ha
gradualmente eliminato la vecchia bandiera del Movimento
20 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
stellato: questa origine “devozionale” sarebbe scaturita
dalla iniziativa dei patri fondatori della Comunità, i cattolici Schumann, Adenauer e
De Gasperi. In realtà, al di là
delle reali intenzioni di quei
signori, e sempre che sia vera
la versione, il simbolo adottato è però assai poco cristiano.
La stella a cinque punte è del
tutto assente dall’araldica tradizionale e da quella cristiana
in particolare: le stelle del
manto e della corona della
Vergine erano solitamente
rappresentate a otto punte. Il
pentagramma è invece un
chiaro segno massonico (di
derivazione mediorientale,
come prova anche la sua presenza nell’iconografia islamica) e la disposizione a cerchio
riproduce l’identica figura (a
tredici stelle) della prima
bandiera americana, o quella
Grand’arme di Carlo V imperatore, sul castello dell’Aquila
che campeggia attorno alla
piramide massonica riprodotta sul dollaro. Il fondo azzurro è poi lo stesso concorde contro i nemici esterni e – soprattutto
(oltre che della NATO) anche della bandiera del- – le aspirazioni a un destino comune hanno
le Nazioni Unite a ulteriore conferma della reale piuttosto sintomaticamente quasi sempre avuto
origine ideologica del simbolo.
lo stesso simbolo: quello dell’aquila imperiale.
In realtà però la bandiera stelluta rappresenta
Da Roma al Sacro Romano Impero Germaniperfettamente il tipo di Euroco, dall’Impero di Occidente a
pa degli Stati Nazionali, del Scudo dei Marchesi Malaspina di quello di Oriente, c’è sempre
banchieri e delle grandi hol- Massa
stata un’aquila a segnare tending finanziarie che si stà
tativi di aggregazione, anche
creando. Ma non rappresenta
quelli purtroppo effettuati in
affatto l’Europa dei popoli e
forma di sopraffazione come
delle libertà.
quello romano e quello napoOggi la lotta per la vera Euleonico.
ropa ha bisogno di simboli
Una distinzione morale oltre
più rassicuranti e meno amche storica sembra essere
bigui, e non può che cercarli
però data dalla specialità delle
nella sua tradizione araldica
sue varie connotazioni iconopiù nobile. La storia del congrafiche: le aquile di forma rotinente è stipata di lotte e di
mana (rappresentate tridiparticolarismi, di guerre framensionalmente, magari contricide ma anche di aspiraziotornate da una corona di alloni di unione, a completamenro) sono state portate dai “catto della sua sostanziale unità
tivi”, le aquile germanizzate e
culturale, religiosa e identitagraficizzate nel tratto (solitaria. Nel passato i momenti di
mente nere, di colore pieno)
unità temporanea, di lotta
sono quasi sempre state segno
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 21
Scudo di un’antica bandiera di Trieste
dei “buoni” (almeno in termini di rispetto per
tradizioni identitarie e religiose), e le stesse con
due teste (bicipiti) dei “buonissimi”.
Simbolismo dell’aquila
L’aquila è l’uccello che vola più in alto di tutti, è capace di innalzarsi sopra le nuvole e di fissare il sole, è universalmente considerato il
simbolo celeste e solare per eccellenza, che rappresenta la luce in conflitto con le oscure forze
ctonie, ossia legate alla terra e all’oltretomba.
(1) Proprio per questo è sovente raffigurata nell’atto di artigliare serpenti, simboli tellurici. La
sua condizione di re dell’aria e degli uccelli la fa
diventare simbolo reale. Era simbolo di Giove e
per il Cristianesimo è diventato segno di Ascensione, di contemplazione (e perciò tratto araldico di San Giovanni Evangelista) e della regalità
di Cristo. È l’uccello-tuono, simbolo del fulmine, è l’uccello di luce e di illuminazione, è immagine del sole e rappresenta il re in quanto figlio della luce.
La lettera A del sistema geroglifico egiziano è
costituita da un’aquila e significa “calore vitale,
origine e giorno”. L’aquila passa la vita in pieno
sole, è luminosa e partecipa di elementi come
aria e fuoco. Le sue caratteristiche sono il volo
intrepido, la velocità e la famigliarità con il tuono e il fuoco, la nobiltà eroica, associata al pote22 - Quaderni Padani
re e alla guerra. (2) Per tradizione,
l’aquila possiede il potere di ringiovanire, e cioè l’eternità. Si espone alla vicinanza del sole e quando le sue
piume iniziano a bruciare, si getta
nell’acqua pura e trova così una nuova giovinezza. Si può paragonarla all’iniziazione alchemica che prevede
il passaggio nell’acqua e nel fuoco.
(3) Si diceva che, all’indebolirsi della
vita, essa volasse contro il sole per
“(…) dissipare i veli dei suoi occhi,
poi tornava alla terra e per tre volte
immergeva il capo in una sorgente
di acqua pura, per recuperare la vista e la gioventù: così il cristiano deve immergersi per tre volte nella
fonte della salute”. (4) Il mito è probabilmente di origine ebraica, e avveniva ogni dieci anni con l’acqua
del mare. (5)
Come uccello solare ha una vista eccezionale, è perciò paragonata all’occhio che tutto vede e quindi a Dio. È
simbolo di vittoria.
Il suo utilizzo araldico è probabilmente di
origine orientale, è stato usato da Roma come
segno imperiale sui labari delle legioni, ma ha
trovato il suo massimo sviluppo nel mondo germanico. Assai stranamente essa è quasi del tutto assente nell’iconografia celtica che è invece
piena di orsi, draghi, corvi e – naturalmente cinghiali.
Le sole presenze si trovano in alcuni episodi
della mitologia irlandese e gallese.
Nell’araldica europea l’aquila è, insieme al leone, l’animale più frequente. Le sue qualità eroiche hanno spinto molti re a usarlo come simbolo: la si trova specialmente sull’araldica degli
imperatori romano-germanici (a partire da Carlo Magno), dei sovrani tedeschi, dei duchi di Baviera, Slesia e Austria, dei margravi del Brandeburgo e dei re polacchi. In Padania e dintorni
essa è presente sugli stendardi dei Savoia, di
Nizza, di Fiume, del Friuli, degli Estensi di Mo(1) J.C. Cooper, Dizionario degli animali mitologici e simbolici (Neri Pozza: Vicenza, 1997), pag. 37.
(2) Jean-Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli (Armenia:
Milano, 1996), pag. 89.
(3) Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionaire des Symboles (Seghers: Paris, 1973), vol.1, pagg. 20 ÷ 27.
(4) Giovanni Cairo, Dizionario ragionato dei simboli (Forni:
Bologna, 1979), pag. 23.
(5) J.C. Cooper, op. cit., pag. 39.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
dena, di Mantova, Trento e Tirolo, e sulla bandiera “ducale” dell’Insubria. La sua presenza è
diffusissima nell’araldica cittadina e delle famiglie nobiliari.
(verso cui sono rispettivamente girate) e anche
l’unione del potere politico con quello spirituale, sottolineata dal fatto che l’aquila (sia nella
sua versione occidentale che in quella orientale) tiene in una zampa lo scettro e la spada, e
Simbolismo dell’aquila bicipite
nell’altra il globo imperiale.(8) Secondo il Cairo,
Spesso si trova l’aquila raffigurata con due te- il simbolo dell’aquila bicipite sarebbe stato poi
ste. Secondo Biedermann, alla sua diffusione ripreso da Carlo Martello all’inizio dell’ottavo
potrebbe aver contribuito, oltre alle evidenti secolo, oppure – secondo altre fonti – da Carlo
motivazioni simboliche, anche la tendenza alla Magno, anche se quasi tutta l’iconografia aralsimmetria che da sempre caratterizza l’araldica dica del tempo gli attribuisce un’aquila “normaeuropea.(6) In ogni caso, la sua prima rappre- le” monocefala ghibellina, voltata cioè verso sisentazione conosciuta in occidente è quella sul- nistra. I guelfi (e anche la Lega Lombarda, per
la Colonna Traiana,
distinguersi dalle
nello scudo di un
forze imperiali) imsoldato. Qualche
piegavano invece
studioso ha ipotizzaquella voltata verso
to che sia stato Codestra: questa partistantino, per espricolarità può fornire
mere il senso delle
un’altra spiegazione
due parti del suo imdel simbolismo bicepero, il primo ad
falo, inteso anche
adottare l’aquila a
come il superamendue teste, l’una volta
to della divisione
a Oriente e l’altra a
delle due fazioni. Si
Occidente. Questa
tornerebbe in ogni
possibilità è sostenucaso al segno della
ta dal Ruscelli, citato
compresenza del podal Cairo: “È perché
tere imperiale (ghitra i romani si vede
bellino) con quello
tale insegna (l’aquila
spirituale papale
“normale”, nda) così
(guelfo).
da Cesare come da
Come segno araldico
Pompeo Magno sudegli imperatori, espremi imperatori, li
sa figura sulle banquali furono divisi
diere tedesche fin
d’animi, e combattedal 1312 e nei sigilli
ron fra loro con tandi Carlo IV (1347),
ta rovina della loro Stemma del Regno lombardo-veneto.
acquisisce impiego
patria, per questo si
“ufficiale” sotto Sigipuò forse credere che i nostri cristianissimi im- smondo come simbolo esclusivo della potestà
peratori portan per insegna l’aquila a due teste, imperiale nel 1433, o addirittura nel 1401, nel
volendo per avventura mostrare che le due periodo della sua reggenza. (9) Forse in quella
aquile erano già unite in una sola, né debbono occasione le era stato attribuito anche il signifiin quella esser mai animi, né operazioni di di- cato aggiuntivo di unione dell’Austria e della
visione nell’imperio e nella religion cristiana. Germania, che è stato più tardi ripreso dall’As(…) Più tosto è fatto per mostrare l’unione, che
pretendono e speran di fare di due imperi, ora (6) Enciclopedia dei simboli (Garzanti: Milano, 1991), pag.
divisi, cioè del Levante e del Ponente. (…) For- 42.
se con le due teste abbiam voluto mostrar la (7) Giovanni Cairo, op. cit., pagg. 23-24.
8
cura, e la protezione delle cose umane e delle ( ) Il Globo imperiale è una sfera facente sormontata da una
crocetta significante il dominio del cristianesimo sul mondivine, o qualche altro tal generoso e santo do.
pensiero”. (7) Le due teste sarebbero cioè la rap- (9) Whitney Smith, Le bandiere, storia e simboli (Mondadopresentazione dell’Oriente e dell’Occidente ri: Milano, 1975), pag. 116.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 23
La battaglia di Lepanto (Dipinto spagnolo, 1575). Vi si
distinguono con chiarezza
sulle navi cristiane l’Aquila
imperiale (su campo bianco), la Croce di San Giorgio
e il Leone di San Marco,
anch’esso su campo bianco
semblea nazionale di Francoforte nel 1848 con la creazione di uno stendardo nel
quale l’aquila bicipite veniva
sovrapposta al tricolore nero-rosso-oro.
L’adozione dell’aquila bicipite era forse anche stata effettuata in Occidente per rincorrere il “concorrente” Giovanni V Paleologo, imperatore d’Oriente, che l’aveva adottata nel 1357 nella edizione
oro su fondo rosso. Nel 1472
è anche Giovanni Vassilijevic,
primo autocrate russo, liberatore della Moscovia dall’orda d’oro mongolica e pretendente al trono d’Oriente, a
usarla, sia pur nella versione
con le ali abbassate. (10) La
sua ufficializzazione in Russia avviene però solo con Ivan
III il Grande nel 1495, che
per primo aveva lasciato il titolo di Granduca per assumere quello di Zar. Questi aveva
infatti sposato Sofia Paleologo, il cui zio Costantino XII
era stato l’ultimo imperatore bizantino, e di cui
diveniva così legittimo erede, anche degli attributi araldici. Le due teste venivano a quel punto
anche a rappresentare la sovranità dello Zar sull’Occidente e sull’Oriente, e più specificatamente
sull’Europa e sull’Asia. Anche l’aquila russa teneva fra gli artigli lo scettro e il globo: Pietro I il
Grande nel 1703 aveva sperimentato una strana
versione con quattro carte marittime tenute negli artigli e nei rostri a manifestare la volontà
della Russia di diventare potenza marittima. (11)
L’impero d’Oriente la usava oro su campo rosso
(o nera su campo rosso), quello d’Occidente nera
su campo oro-giallo. A volte in entrambi era usata su campo argento-bianco.
In una versione del 1699 l’aquila oro era posta
24 - Quaderni Padani
sul campo azzurro centrale del tricolore russo. In
Occidente è sempre raffigurata con le ali spiegate,
in Oriente con le ali spiegate o abbassate. (12)
(10) Giovanni Cairo, op. cit., pag. 24.
(11) Whitney Smith, op. cit., pag. 175.
(12) Le descrizioni secondo il linguaggio araldico sono:
Aquila bicipite dell’Impero d’Oriente: spiegata d’oro in campo di rosso (originariamente di porpora) eccezionalmente
coronata d’oro;
Aquila bicipite dell’Impero d’Occidente: spiegata di nero e
talvolta coronata di nero in campo d’oro, con la testa aureolata;
Aquila bicipite russa: spiegata di nero con ambedue i capi
coronati, oltre la corona più grande alzata fra i due capi.
Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, Insegne e Simboli (Roma: Ministero Beni Culturali e Ambientali, 1983),
pag. 1010.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Esiste anche una versione massonica dell’aquila a due teste ad ali spiegate, con la corona
sormontata dal triangolo e con l’iod ebraica nel
centro, introdotta da Elia Ashmole alla fine del
XVII secolo, per “narrare tutta la leggenda della
Creazione”. (13) Per la massoneria essa simbolizza anche il 33° grado di rito scozzese: una corona copre ambedue le teste e con gli artigli tiene orizzontalmente una spada col motto: “Deus
meumque ius”, cioè “Dio è il mio diritto”. (14) Si
tratta di un atteggiamento del tutto coerente
con la prassi massonica di scimmiottare simboli
cristiani ribaltandone il significato più profondo
e il valore morale.
Secondo Cirlot, la bicefalia simboleggia poi,
come tutti gli elementi duplici (Giano, Gemelli,
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Ascia bipenne, eccetera), il dualismo della creazione-distruzione, ascensione-discesa, andaretornare, dare la vita-uccidere. (15)
L’aquila bicipite è rimasta simbolo di entrambi
gli imperi fino alla loro fine: sventolava su Costantinopoli fino alla sua caduta in mano turca
(1453) ed è stata usata dagli Asburgo (sia di Spagna che d’Austria) fino alla formale cessazione
dell’Impero nel 1806. Essa era sullo stendardo
personale di Carlo V. Come segno dell’imperialità cristiana d’Occidente ha sventolato a Lepanto (forse in una versione marinara su fondo
(13) Giovanni Cairo, op. cit., pag. 24.
(14) Hans Biedermann, op. cit., pag. 41.
(15) Jean-Eduardo Cirlot, op. cit., pag. 91.
Quaderni Padani - 25
bianco) e in tutte le
sul capo) nella banbattaglie contro i Turdiera albanese di
chi e i giacobini. DalSkander Beg, nemico
l’inizio del XIX secolo
dei Turchi, e (bianca
è diventata la bandiesu fondo rosso) nello
ra dell’Impero auscudo di Serbia. È anstriaco (dal 1848, aucora oggi (nera, con
stro-ungarico) fino al
le ali ribassate, su
1919, acquisendo l’ulfondo oro-giallo) il
teriore simbolismo
simbolo e la bandiera
dell’unione dei regni
del Monte Santo,
di Austria e di Unghel’antico Hagion Oròs
ria rappresentati dalle
degli ortodossi. Dopo
due corone reali sulle
la caduta del comunidue teste, con la cosmo essa è ricomparrona imperiale sovrasa sia in Serbia che in
stante il tutto. In ocRussia.
cidente è stata per
Essa è anche molto
lungo tempo anche la
presente nell’araldica
bandiera del regno di Sigillo dell’Impero russo (XV secolo)
di moltissime città in
Sicilia, del regno di
ogni angolo di EuroNapoli (fino al XVII secolo), del Ducato di Carra- pa; le più note sono: Arnheim, Groningen e Nira e del regno Lombardo-Veneto. (16)
mega in Olanda; Brno, Opava, Pilsen, Pre_ov e
In oriente è invece rimasta a simbolizzare gli Tàbor in Cechia; Ginevra in Svizzera; Görlitz,
Zar di Russia, eredi dell’Impero bizantino fino al Lubecca e Norimberga in Germania; Krems e
1917. In particolare essa è stata bandiera impe- Vienna in Austria; Krasnodar e Poltava in Rusriale fra il 1842 e il 1858 e bandiera nazionale sia, Ordjonikidze-Dzaoudzikaou nell’Ossezia
fra il 1914 e il 1917. Essa è anche presente (in russa, Oswiecim in Polonia; Szeged in Ungheria;
versione abbassata su fondo rosso con una stella Toledo in Spagna; Coligny in Francia e Castrogiovanni (l’attuale Enna) in Italia. Essa è anche
Bandiera del Sacro Romano Impero (Mano- il simbolo di una delle contrade di Siena. A Verscritto del XVI secolo)
sailles, in Francia essa è stata sostituita dalla
stravagante imitazione costituita da un gallo a
due teste. (17)
In Padania è presente sull’antico scudo di
Trieste, del Monferrato, sugli stemmi di Carrara
e Sabbioneta, e di moltissime famiglie nobili.
La sua presenza era sicuramente assai più
compatta in Padania e in Italia, ma anche in tutta Europa, prima delle “censure araldiche” perpetrate dalle rivoluzioni giacobina e comunista,
e dagli stati nazionali ottocenteschi.
Dell’aquila è stata in passato elaborata anche
una stranissima versione a tre teste, nella quale
la terza testa sarebbe stata aggiunta a simboleggiare il regno cristiano di Terra Santa. (18)
(16) Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, op.cit., pag.
137.
(17) Jir̆i Louda, Blasons des Villes d’Europe (Gründ: Parigi,
1972).
(18) Ottfried Neubecker, Araldica (Longanesi: Milano, 1980),
pag. 225; e Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, op.
cit., pag. 164.
26 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Il senso
del suo attuale riutilizzo
Si tratta di un simbolo antichissimo il cui rinvigorimento avrebbe prima di ogni altra cosa il significato di
superamento delle sciagure ideologiche che hanno devastato l’Europa negli ultimi due secoli, e il ritorno a
una idea di Comunità basata su
profonde similitudini culturali e religiose, sulla continuità storica e sulle
comuni origini. Sarebbe – per parafrasare De Maistre – non un voler
tornare al Medio Evo ma farlo continuare, riproponendo una comunità
di popoli fratelli uniti sotto una
struttura imperiale dallo scarso peso
politico (se non di comune visione
dei rapporti verso l’esterno) ma dalla
preponderante carica simbolica. Cotta d’arme dell’araldo dell’Imperatore romano-germaL’Europa che ha preceduto i grandi nico
sconvolgimenti rivoluzionari, che
l’hanno profondamente devastata e divisa, aveva culturali della comune tradizione cristiana. Soin sé tutte le potenzialità per generare una prattutto in un momento nel quale mondialicompatta unione dei suoi popoli, costruita sullo smo e islamismo stanno aggredendo congiunti
scrupoloso rispetto per le differenze e per le au- la grande Patria comune degli Europei, tutti i
tonomie locali: tutte cose che non è in grado (e valori che l’aquila ha sempre rappresentato si
che non ha intenzione) di fare l’attuale sciagu- ergono come baluardo e difesa delle nostre lirata Europa dei banchieri e dei burocrati. L’a- bertà antiche. Così oggi, l’aquila nera torna a
quila bicipite ha sempre rappresentato entità essere (con forza quasi addirittura superiore a
politiche sovranazionali, composte dall’unione quella del passato) segno di alleanza fra il potedi popoli diversi e di
re politico e quello
autonomie rispettate Corona dell’Impero, usata la prima volta da Otto- spirituale, di unione
e proprio per questo ne I il grande nel 962
dell’Occidente con
è stata sempre odiata
l’Oriente d’Europa
da giacobini, nazio(anche in termini renalisti e comunisti.
ligiosi), e di lotta
Tutti i simbolismi di
contro il mondialicui l’aquila è sempre
smo massonico e
stata caricata sono di
l’aggressività islamistretta attualità per
ca.
l’Europa di oggi.
Questa era la bandieLa complementara che sventolava sui
rietà e la differenza
bastioni di Costantifra il potere politico
nopoli cristiana assee quello spirituale
diata dai Turchi, che
devono essere alla
guidava le armate
base di ogni moderna
cristiane di Eugenio
società liberale basadi Savoia e di Raita sulla assoluta divimondo Montecuccoli
sione e indipendenza
che hanno respinto
dei poteri ma anche
le orde islamiche
fortemente ancorata
fuori dal cuore della
ai valori morali e
Mitteleuropa; era la
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 27
bandiera che ha accompagnato – assieme agli stendardi padani di San Marco
e di San Giorgio – la vittoria della flotta
cristiana di Giovanni d’Austria e di Agostino Barbarigo a Lepanto. È la bandiera che ha per secoli difeso i nostri popoli da tutti i tentativi di invasione islamica, e che ha tenuto testa alle orde
giacobine e napoleoniche, a tutte le trame massoniche e alle brutalità comuniste.
La bandiera viene riproposta nella sua
versione occidentale più recente, con
l’esclusione delle due corone reali e
dello scettro, e – ovviamente – di ogni
segno araldico particolare o dinastico.
Per maggiore forza simbolica la corona
imperiale asburgica avrebbe dovuto forse essere sostituita da quella più antica,
attribuita a Carlo Magno, che avrebbe
però portato qualche problema alla
simmetria che costituisce uno dei suoi
caratteri grafici più incisivi.
Il suo rinnovato uso acquista particolare significato in Padania perché ai simbolismi che condivide con tutto il resto
d’Europa si sommano da noi alcuni alAquila del Sacro Romano Impero con tre teste, simbo- tri significati piuttosto pregnanti.
leggiante la conquista della Terrasanta
È la bandiera che ha sventolato sul colle dell’Assietta, assieme al drapò pieL’aquila europea
montese, in difesa di questa terra, era il
simbolo impiegato da una larga parte
degli insorgenti padani ed è stato – per
decenni – il segno più odiato da tutti i
cospiratori risorgimentali. Riprendere
oggi a sventolare la bandiera che era
(sia pur nella sua versione asburgica) di
Radetzky è un chiaro segno antirisorgimentalista e antiunitario. Utilizzare la
stessa aquila che ha difeso con tenacia
la Russia cristiana dal terrore bolscevico è un forte segno di rigetto della
mortifera ideologia comunista.
Come segno solare, l’aquila non può
poi non proporre strettissime parentele
con il Sole delle Alpi che può anche essere letto come una sorta di sua stilizzazione: il petalo verticale alto rappresenta le teste, i due superiori le ali, i
due inferiori gli artigli e quello verticale basso la coda.
Assieme alla Croce di San Giorgio è il
più forte segno di libertà e di identità
dei nostri popoli.
28 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Francesco Giuseppe I:
Sovrano esemplare
di un Impero provvidenziale
di Massimo de Leonardis
Una Dinastia cattolica
Il ricordo nostalgico dell’Impero asburgico
coinvolge un vasto arco politico-ideologico. Sul
Corriere della Sera, Claudio Magris ricordava
che «A Trieste il movimento Civiltà mitteleuropea festeggia con manifesti gialloneri e plurilingui il compleanno di Francesco Giuseppe e si
schiera su posizioni radicali di sinistra; anni fa
appoggiava, alle elezioni, i partiti dell’estrema
sinistra ed era vicino ai Verdi e alle correnti della Nuova psichiatria di Basaglia» ( 1 ). Quasi
trent’anni fa furono invece i cattolici tradizionalisti a tappezzare Milano di manifesti con la foto
dell’Imperatore Francesco Giuseppe e la scritta
«Europa, una, cattolica, imperiale!».
Non ho difficoltà a confessare di appartenere
al secondo gruppo di nostalgici. Non amo l’atmosfera decadente di certa cultura mitteleuropea, preferisco il ritmo della Marcia di Radetzky
di Strauss padre e la melodia del Bel Danubio
Blu di Strauss figlio ai suoni scomposti di
Schönberg e la mia simpatia per le idee dell’Arciduca Ereditario Francesco Ferdinando è rafforzata leggendo che in una occasione percosse
con il frustino da cavallerizzo un quadro di
Kokoschka. Potrei dire come l’ultimo dei Trotta
nelle pagine iniziali della Cripta dei Cappuccini:
«Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi
riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico. Non che io non lo capisca, come tante volte sostengo. Questa è solo una scusa di comodo.
Per indolenza, semplicemente, non voglio essere
aggressivo o astioso, e perciò dico che una cosa
non la capisco, quando dovrei dire che la odio o
la disprezzo. Ho l’orecchio fine, ma faccio il sordo. Mi pare più elegante fingere un difetto che
ammettere di aver sentito rumori volgari» (2).
Se sono qui oggi (3) con estremo piacere a ricordare la venerata memoria dell’Imperatore è
perché mi riconosco da sempre nei valori moAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
narchici e cattolici che la figura di Francesco
Giuseppe ha simboleggiato in 68 anni di regno e
nella Tradizione di una Europa cristiana che la
Dinastia degli Asburgo ha incarnato in mille anni di storia. Da Madrid a Vienna, da Lisbona a
Praga, da Bruxelles a Milano, da Napoli a Cracovia, sono almeno 19 gli Stati attuali (4) sui quali,
o su parti dei quali, gli Asburgo dei due rami austriaco e spagnolo hanno regnato per periodi più
o meno lunghi, come Sovrani ereditari o Sacri
Romani Imperatori, senza contare i territori extraeuropei.
Dinastia europea più di qualunque altra casa
regnante, «gli Asburgo - ha scritto Hugo von
Hoffmansthal - hanno rappresentato mille anni
di lotta per l’Europa, mille anni di missione europea, mille anni di fede nell’Europa» (5). L’Impero d’Austria sul quale regnò Francesco Giuseppe I era erede del Sacro Romano Impero, la
cui corona gli Asburgo cinsero per la prima volta nel XIII secolo e poi ininterrottamente, salvo
tre anni, dalla prima metà del ’400 fino al 1806.
«Il nostro Imperatore è un fratello temporale
del Papa, è Sua Imperiale e Regia Maestà Apostolica ... nessun altra Maestà in Europa dipende
(1) C. Magris, Mitteleuropa. Lessico dell’ambiguità, in Corriere della Sera, 11-11-98, pag. 33.
(2) J. Roth, La Cripta dei Cappuccini, Milano 1995, pag. 10.
(3) Il testo rispecchia la relazione svolta al convegno tenuto
a Milano nel novembre 1998 per iniziativa della Fondazione
Cajetanus in occasione del 150° anniversario dell’ascesa al
Trono dell’Imperatore Francesco Giuseppe I e del 160° anniversario dell’incoronazione nel Duomo di Milano dell’Imperatore Ferdinando I a Re del Lombardo-Veneto.
(4) Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Francia,
Germania, Italia, Jugoslavia, Liechtenstein, Lussemburgo,
Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Spagna, Svizzera, Ungheria.
(5) Sul tema, in italiano, cfr. H. von Hofmannsthal, L’Austria
e l’Europa. Saggi 1914-1928, Casale Monferrato 1983, in
particolare pagg. 7÷71.
Quaderni Padani - 29
Savoy, simboleggiando così il carattere
multinazionale ed europeo dell’Impero.
Nel 1914 ritroviamo un Conte Rodolfo
Montecuccoli, nato a Modena nel 1843 e
discendente del grande generale, capo di
Stato Maggiore della Imperiale e Regia
Marina Austro-Ungarica.
Nei limiti consentiti dall’evoluzione storica, nell’Impero e nella Dinastia viveva
l’eredità del Sacro Romano Impero e
l’Austria-Ungheria era l’unica monarchia
e l’unica grande potenza cattolica ( 8);
per queste ragioni chi aveva il disegno di
“repubblicanizzare l’Europa” individuava
in essa il nemico da abbattere, imprimendo alla prima guerra mondiale il carattere di scontro ideologico: «Come repubblicanizzare l’Europa? I radicali pensavano alla Germania, ma non dimenticavano che in Germania vi erano anche
dei protestanti e dei massoni. Mentre il
nemico tradizionale, l’Austria-Ungheria,
incarnava insieme monarchia e cattolicesimo ... il grande disegno ... era di
estirpare dall’Europa le ultime vestigia
del clericalismo e del monarchismo» (9).
Sovrano consacrato, primo funzionario
dell’Impero, povero peccatore
Nell’Imperatore Francesco Giuseppe si
componevano armonicamente due concezioni della regalità: il sovrano consaFrancesco Giuseppe nel 1863. Dipinto di Eduard crato, «per Grazia di Dio», ed il sovrano
Engerth
primo funzionario dello Stato. La cerimonia nella quale soprattutto rifulgeva il
a tal punto dalla grazia di Dio e dalla fede dei carattere cattolico dell’Impero e del suo Sovrano
popoli nella grazia di Dio», esclama il polacco era la processione a Vienna del Corpus Domini,
Conte Chojnicki nella Marcia di Radetzky (6). forse il maggiore evento annuale della monar«L’Impero era sacro. Non poteva tramontare», chia. L’Imperatore a capo scoperto seguiva a piesi ripete l’alfiere Menis, al quale nei giorni della di il Santissimo Sacramento, alla testa dei dignisconfitta del 1918 toccherà portare lo stendardo tari della Corte e dello Stato. Lo zelo e la precidel suo reggimento di cavalleria, tra le cui pie- sione con i quali l’Imperatore sbrigava le pratighe ristagnavano ancora «il solenne profumo
d’incenso delle messe al campo e delle processioni, il dolce odore di sangue delle vittorie e (6) J. Roth, La Marcia di Radetzky, Milano 1996, pag. 209.
(7) A. Lernet-Holenia, Lo stendardo, Milano 1989, pagg. 260
quello amaro dei serti di alloro» (7).
In Spagna e nel Sacro Romano Impero gli e(8194.
) Con una popolazione quasi completamente cattolica la
Asburgo avevano rappresentato la spada della Repubblica francese ed il Regno d’Italia si caratterizzavano
Controriforma. Per secoli gli Asburgo furono però per l’anticlericalismo dei loro regimi e per il conflitto
nei Balcani lo scudo del mondo cristiano di con la Chiesa ed il Papato. In Gran Bretagna e Russia i Sofronte all’Islam. Tra i comandanti dei loro eser- vrani erano allo stesso tempo i capi simbolici delle rispettive
religioni di Stato, anglicana ed ortodossa; nell’Impero Tedeciti, e tra i più grandi generali di tutti i tempi, sco era forte il predominio della Prussia luterana.
furono gli “italiani” Raimondo Montecuccoli ed (9) Cfr. F. Fejtó́, Requiem per un Impero defunto. La dissoluEugenio di Savoia, che si firmava Eugenio von zione del mondo austro-ungarico, Milano 1990, pag. 320.
30 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
che sottopostegli erano proverbiali e non
si può leggere senza commozione la cronaca dei suoi ultimi giorni, quando, colpito dalla malattia, si sedeva comunque al
suo scrittoio dalle prime ore del mattino
fino a tarda sera, chiedendo addirittura di
essere svegliato (alle tre e mezza!) prima
del consueto orario, per compiere il lavoro
accumulatosi a causa delle forze che ormai lo abbandonavano.
La grandezza e l’umiltà del Sovrano
cattolico, che regna “per Grazia di Dio”
ma di fronte al confessore è uguale al più
modesto dei suoi sudditi, come diceva un
Asburgo, Filippo II di Spagna, trovavano
espressione nel cerimoniale della sepoltura degli Imperatori, quando davanti alla
Kaisergruft, la Cripta dei cappuccini, il
Maresciallo di corte chiedeva di far entrare la bara del defunto usando prima il
“grande titolo”, poi la “piccola titolatura”,
vedendosi però negare l’ingresso, che otteneva solo la terza volta, quando alla domanda del frate «Chi chiede accesso?» rispondeva semplicemente: «Tuo fratello
Francesco Giuseppe, un povero peccatore».
All’Imperatore, secondo le sue parole,
«nulla era stato risparmiato» sul piano
personale: la fucilazione del fratello, il suicidio del figlio, l’assassinio della moglie
(10) e del nipote erede al trono. Francesco
Giuseppe avrebbe potuto dire di sé come il
suo antenato Rodolfo nei versi di Grillparzer:
«Ciò che era mortale l’ho estirpato/E sono soltanto l’Imperatore che non muore mai».
L’Impero necessario
Una riflessione sull’Impero multinazionale degli Asburgo può iniziare dal pensiero dell’Imperatore stesso, riferito dalla testimonianza dell’aiutante di campo Albert von Margutti: «Non
furono avvenimenti storici quelli che hanno
unito i nostri popoli, ma bensì le necessità assolute della loro presente e futura esistenza. Perciò la Monarchia è un insieme non artificioso
ma organico, e, come tale, qualcosa di indubbiamente necessario. Essa rappresenta l’asilo, il rifugio di tutti i frammenti di nazioni gettati verso l’Europa centrale. Abbandonati a se stessi
avrebbero un’esistenza miserabile, diverrebbero
balocco di ogni loro più potente vicino. Invece,
uniti, rappresentano non solo una potenza degna nel suo complesso di rispetto, ma possono
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Fotografia di Francesco Giuseppe nel 1888
col reciproco aiuto sociale ed economico raggiungere condizioni più sicure e più favorevoli
alla loro esistenza e al loro sviluppo» (11). La
prima edizione delle memorie di von Margutti
apparve nel 1921 e non si può quindi pensare
che l’Autore, morto nel 1940, avendo quindi il
tempo di vedere i paesi dell’Europa centroorientale stretta nella morsa della Germania di
Hitler e dell’Unione Sovietica di Stalin, addomesticasse i suoi ricordi per attribuire un giudizio
profetico all’Imperatore.
(10) Una moglie della quale, alla sua scomparsa, disse: «Nessuno sa quanto ci siamo amati». Ma certo Elisabetta d’Austria non fu vicina come avrebbe dovuto al consorte e, soprattutto, non aveva affatto la sua stessa concezione della regalità, coltivando anzi idee “sovversive”, che almeno non
uscirono dal campo di discutibili esercizi letterari (cfr. E.
d’Austria, Diario poetico, Trieste 1998), cosicché il popolo
conobbe solo il fascino di “Sissi”.
(11) A. di Margutti, L’Imperatore Francesco Giuseppe, Genova 1990, pag. 116.
Quaderni Padani - 31
Lo storico francese Jacques Droz in un intervento nel 1963 al XLI Congresso di Storia del
Risorgimento Italiano esprimeva un giudizio altrettanto positivo sulla missione storica dell’Impero asburgico: «La monarchia austro-ungarica
assolveva nel 1914 un compito incontestabile e
non era affatto quel “carcere dei popoli” come
spesso è stata definita. Ci si può chiedere se gli
Stati che si formarono dal suo smembramento
si siano dimostrati più capaci di lei di risolvere i
problemi nazionali. L’idea nazionale. molto rispettabile in sé, è poi troppo spesso diventata
strumento di oppressione. Forse la saggezza
avrebbe richiesto che le aspirazioni nazionali
avessero cercato di svilupparsi nel seno di uno
Stato plurinazionale» (12). Una terza autorevole
opinione, tra le molte che si potrebbero citare,
sull’insostituibile ruolo dell’Impero nell’Europa
danubiano-balcanica è quella di uno dei più importanti diplomatici e studiosi della diplomazia,
largamente noto come il teorico del containment, la strategia di resistenza all’espansionismo sovietico, l’americano George Kennan per il
quale «L’Impero austro-ungarico appare tuttora
come soluzione degli intricati problemi di quella parte del mondo, migliore di tutto ciò che gli
è subentrato» (13).
L’Impero asburgico si reggeva su alcuni pilastri la cui saldezza era intaccata da forze centrifughe, in opposizione alle quali si manifestavano
però anche forze centripete, come ben sottolinea nella sua opera François Fejtó́. Lo storico
britannico Alan Sked scrive che la fine della monarchia non era affatto scontata, anzi essa si andava rafforzando (14), mentre Victor-Lucien Tapié osserva che da diversi punti di vista «si poteva persino ritenere l’Austria-Ungheria una potenza del futuro» (15) ed anche C. A. Macartney
parla di «molti elementi [che] inducevano all’ottimismo», all’inizio del secolo, sul domani dell’Impero (16). Il primo pilastro era evidentemen-
te la monarchia, la lealtà nei confronti della
quale «era ben lungi dall’essere una semplice
espressione retorica» e rimase in particolare
«intatta» fino alla morte del leggendario Imperatore. Un altro elemento di coesione era la religione cattolica, che riuniva intorno all’Imperatore austro-tedeschi, slovacchi, sloveni, croati,
polacchi e la maggioranza dei cechi e degli ungheresi. Ma anche le altre confessioni cristiane, i
cui alti dignitari sedevano anch’essi, in quanto
tali, nelle assemblee parlamentari, svolgevano
un analogo ruolo politico. Un altro pilastro fondamentale era costituito dall’Esercito Imperialregio, «vero e proprio crogiolo» delle popolazioni di tutte le parti dell’Impero, e dalla Marina. E
ancora «l’amministrazione, efficiente e non corrotta, e la burocrazia, imponente» e «la comunanza di interessi che univa i diversi popoli nella vita politica come in quella economica» (17).
Tutte le nazionalità potevano contare sulla
«protezione della legge e avevano totale libertà
di coscienza e di culto» e godevano «di libertà
molto più grandi di quelle dei loro fratelli di razza che vivevano al di fuori delle frontiere dell’Impero»: questi i caratteri della Felix Austria
(18).
Un giudizio, l’ultimo ricordato, che troverà
piena conferma nel dopoguerra, quando «le nazioni di cui i vincitori proclamarono la “rinascita” si dimostrarono, per molti aspetti, creazioni
“letterarie” più che politiche e soprattutto piccoli imperi multinazionali, assai meno liberali e
tolleranti dell’impero “distrutto” di cui avevano
fatto parte» (19).
All’Austria-Ungheria succedettero infatti pretesi Stati nazionali che in realtà erano altrettanto multinazionali dell’Impero scomparso, con
l’aggravante che rifiutavano di riconoscerlo e
l’etnia dominante opprimeva le minoranze. La
composizione etnica e religiosa di tali Stati risulta dalle tabelle seguenti (20):
(12) Cit. in V.-L. Tapié, Monarchia e popoli del Danubio, Torino 1993, pagg. 6-7.
(13) G. Kennan, The Decline of Bismarck’s European Order.
Franco-Russian Relations, 1875-1890, Princeton 1979, pag.
423.
(14) Cfr. A. Sked, Grandezza e caduta dell’Impero asburgico
1815-1918, Roma-Bari 1993, pagg. 236 ÷ 239.
(15) Op. cit., pag. 420.
(16) C. A. Macartney, L’Impero degli Asburgo 1790-1918, Milano 1981, pagg. 870 ss.
(17) Sui benefici economici che l’Impero arrecava a tutte le
sue parti cfr. D. F. Good, The economic Rise of the Habsburg Empire, 1750-1914, Berkeley-Los Angeles 1984. Sul-
la forza della monarchia, cfr. Tapié, op. cit., pagg. 385-386,
476-77.
(18) Cfr. H. Bogdan, Storia dei paesi dell’est, Torino 1994,
pp. 150-55, dal quale sono tratte le citazioni. Secondo Sked,
anche gli 800mila italiani «erano in effetti una nazionalità
favorita piuttosto che oppressa, nel senso che (specie dopo il
1907) avevano rispetto al numero più rappresentanti di ogni
altro gruppo nazionale» (op. cit., pag. 229), affermazione
che dedichiamo a qualche tardivo ammiratore di Guglielmo
Oberdan, che era poi lo sloveno Wilhelm Oberdank.
(19) Il giudizio è dell’Ambasciatore Sergio Romano, Introduzione a Fejtó́, op. cit., pag. XV.
(20) Tratte da Bogdan, op. cit., pagg. 227 ÷ 231.
32 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Cecoslovacchia
Polonia
Regno dei Serbi-Croati-Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia)
A questi dati eloquenti vanno aggiunte alcune
considerazioni relative a due Stati, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia, creati con i trattati di
pace del 1919, due costruzioni artificiali che sono durate pochissimo e si sono dissolte, la prima
volta rispettivamente nel 1939 e nel 1941, la seconda, e stavolta non si può accusare nessun HiAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
tler (21), nel 1993 e nel 1991. In entrambi gli
Stati le etnie dominanti, Cechi nel primo caso,
(21) Ma, comunque, osserva Bogdan, «sotto molti aspetti, la
nuova situazione [del 1941] corrispondeva alle aspirazioni
dei popoli molto più dell’antico regno unitario di Jugoslavia» (op. cit., pag. 306).
Quaderni Padani - 33
Romania
Francesco Giuseppe nel 1912
Serbi nel secondo, che rappresentavano meno
del 50% della popolazione, esercitarono una dura egemonia sulle minoranze nazionali, che ebbero tutti i motivi di rimpiangere la situazione
precedente. Non a caso slovacchi, come del resto croati e sloveni, erano rimasti fino all’ultimo fedeli alla monarchia. Nel 1938 in Cecoslovacchia su 140 ufficiali generali uno solo era
slovacco, su 13.000 ufficiali subalterni, gli slovacchi erano 420; 33 erano gli slovacchi a fron34 - Quaderni Padani
te di 1.246 cechi nei ranghi del ministero degli esteri; tra gli 8.000 funzionari delle amministrazioni centrali
dello Stato gli slovacchi erano solo
130. Considerando la situazione della
Slovacchia essa «rimaneva sotto ogni
profilo una colonia dello Stato cecoslovacco, sfruttata a esclusivo vantaggio dei cechi» ( 22). Ben diversa era
stata la situazione prima della guerra,
quando, ad esempio, un prelato slovacco, il Cardinale Csernoch, era stato Arcivescovo di Esztergom e Primate di Ungheria. Per non parlare naturalmente della situazione di tedeschi
ed ungheresi in uno Stato creato dai
massoni Masaryk e Benes˘ , grazie all’appoggio dei fratelli di setta negli
Stati nemici dell’Austria-Ungheria, e
fondato su due princìpi contraddittori, quello storico, la restaurazione
dell’antica Boemia-Moravia, e quello
dell’identità etnica, peraltro fittizia, di
cechi e slovacchi (23).
La situazione della Jugoslavia è fin troppo nota. Sloveni e croati ebbero prestissimo modo di
rimpiangere anch’essi il passato, in uno Stato
dominato dai serbi la cui costituzione centralista venne approvata nel 1921 senza che alla sua
(22) Bogdan, op. cit., pagg. 238-239.
(23) Cfr. Fejtó́, op. cit., pagg. 441-442.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
votazione partecipassero, in segno di protesta, i
deputati delle due minoranze nazionali. Il capo
del partito contadino croato Radic dichiarò: «I
croati non erano gli schiavi della monarchia
asburgica e i serbi non ne sono stati i liberatori». Verrà ucciso a colpi di pistola in pieno parlamento nel 1928; il suo successore Mac̆ek verrà
arrestato per aver protestato contro la nuova costituzione ancora più centralista introdotta nel
1931, a seguito del colpo di Stato di due anni
prima del Re Alessandro II.
La caduta dopo la prima guerra mondiale dei
tre Imperi europei ed in particolare di quello
asburgico determinò un vuoto ed una frammentazione di potenza nell’Europa centro-orientale
(la cosiddetta “balcanizzazione”). Sul piano economico i nuovi Stati potevano a fatica reggersi
autonomamente; quella «magnifica via di unificazione che è il Danubio rimase, tra le due guerre, quasi inutilizzata, perché non si riuscì mai a
sopprimere o ridurre le undici dogane che lo
spezzettavano da Ratisbona fino a Giurgiu» (24).
Ma in politica e soprattutto in politica internazionale il vuoto viene sempre colmato. Dopo
vent’anni le nazioni di quella parte dell’Europa
erano strette nella morsa della Germania nazionalsocialista e della Unione Sovietica (25). L’ordine, ma dell’oppressione e della morte, venne poi
imposto per quasi mezzo secolo dal comunismo,
caduto il quale la storia ritrovò un appuntamento simbolico in un luogo dove già era stata scritta una pagina tragica: Sarajevo.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
È paradossale che ottantadue anni fa le forze
dominanti in Europa decretassero la morte dell’Impero multinazionale degli Asburgo, mentre
oggi esse inneggiano alla società multietnica e
multireligiosa, non tra europei, ma con africani
ed asiatici, senza gli elementi unificanti del trono e dell’altare.
Ottanta anni fa si distruggevano gli Imperi, si
abbattevano i troni e si frammentava l’Europa,
oggi si vuole ricostruirla in nome del denaro.
Dobbiamo credere che ciò avvenga per caso e
che la politica internazionale sia mossa solo da
quella che è stata definita la “perpetua quadriglia” tra le Grandi Potenze (26)?
Ottantadue anni fa si chiudeva la vicenda storica dell’Impero Asburgico, ma, nonostante l’effimera esultanza dei vincitori, finiva anche l’Europa come soggetto dominante della politica
mondiale, si ponevano anzi le premesse della
dominazione del nostro continente da parte di
superpotenze ad esso totalmente o parzialmente
estranee.
(24) P. Henry, Nazionalità e nazionalismo, in AA. VV., Nuove
questioni di storia contemporanea, Milano 1969, vol. I, pag.
308.
(25) Cfr. M. de Leonardis, L’Europa e il Mediterraneo dalla prima alla seconda guerra mondiale/Europa und das Mittelmeer
vom Ersten zum Zweiten Weltkrieg, in AA. VV., L’unità d’Europa: il problema delle nazionalità/Die Einheit Europas: das
Problem der Nationalitäten, Merano 1990, pagg. 201 ÷ 217.
(26) A. J. P. Taylor, L’Europa delle Grandi Potenze. Da Metternich a Lenin, Bari 1971, pag. 13.
Quaderni Padani - 35
Claudia Augusta
Di Giulio Pizzati
La Via Claudia
La Via Claudia Augusta Altinate e la Via Claudia Augusta al Po erano le due alternative iniziali della stessa strada. Una partiva da Altino,
l’altra da Ostiglia sul Po. La biforcazione si congiungeva a Trento. Di lì direttamente alla Rezia
via Resia o al Norico via Brennero.
Altino era il porto marittimo più vicino al Danubio cui si potesse giungere per nave da Roma
o dal Mediterraneo orientale. Il porto fluviale di
Ostiglia sul fiume Po era ancor più vicino via
Verona e Trento, ma durante la siccità il fiume
poteva non essere navigabile. Normalmente il
fiume era più rapidamente percorribile verso il
mare col favore della corrente. Cioè nella via di
ritorno. Il corso del Po era diverso dall’attuale.
Bagnava il porto fluviale di Ferrara e sfociava
nella base navale di Ravenna dove stazionava la
flotta pretoria, pronta a imbarcare o sbarcare
truppe a Ostiglia o Altino.
Da Altino si giungeva a Trento passando per
Feltre. Il porto lagunare di Altino era comunque
il punto di arrivo e di partenza di tutta la logistica nord orientale (Rezia, Norico, Germania Danubiana). Serviva anche di appoggio alla logistica nord occidentale (Germania Renana, Gallia,
Britannia).
Da Altino sono tutt’oggi rilevabili tutte le direttrici orientate sui vari passi della Cisalpina
tracciate ancor prima degli assi viari veri e propri. Lo scopo principale era giungere ai passi nel
minor tempo possibile.
Una seconda tesi vuole che vi fossero due distinte vie Claudie. Anziché congiungersi a Trento, una avrebbe portato da Ostiglia al Passo Resia. L’altra da Altino al Brennero per la Val Pusteria.
Una terza tesi vuole che la Claudia, da Ostiglia, anziché dirigersi su Verona e Trento, passasse per Legnago e risalisse la Valle dell’Agno,
al Passo di Campognosso per poi congiungersi
alla valle dell’Adige.
Tutte queste tesi sembrano mal poste. Più che
una strada forse la Claudia era un sistema viario
per passare le Alpi. Molte erano le alternative
36 - Quaderni Padani
necessarie in caso di occupazione di un passo da
parte di forze avverse, inondazioni, nevicate, frane, eccetera. È credibile che siano state usate
nel tempo tutte le alternative possibili.
Indipendentemente dai percorsi ipotizzati dagli storici gli allineamenti qui a seguito rilevati
indicavano le direzioni da seguire per orientarsi
nel territorio ancor prima che le opere stradali
fossero tracciate, eseguite, migliorate o munite.
In mancanza della bussola far riferimento alle
alte cime era il solo modo di procedere.
L’autore è da tempo impegnato nel ritrovare e documentare
gli schemi degli allineamenti (leys) su cui è stato costruito il
reticolo ambientale del Veneto antico e forse di gran parte
della Padania.
In questo saggio si occupa di definire gli allineamenti imperniati su Altino che sono il risultato della romanizzazione di
schemi e di principi di sacralizzazione ambientale piuttosto
comuni nelle culture preceltiche, celtiche e quindi anche venetiche, come è già stato anche illustrato sul numero 18 dei
Quaderni Padani.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Numerose vette
del Veneto portano
ancora i nomi dati
dai topografi durante
il periodo GiulioClaudio quando furono fatti i rilievi preliminari al tracciamento delle vie di acceso alla Rezia ed al
Norico. Centro del
radiale era il porto
lagunare di Altino.
Minimi erano invece
i riscontri dal porto
fluviale di Ostiglia.
Il toponimo e l’acronimo alto si trova
ripetuto in moltissime varianti: Monte Alto, Vedetta Alta, Rialto,
Punta Alta, Pertica Alta, Altissima, Carè Alto. È
errato ritenere che il nome nasca dalla maggiore
altitudine del rilievo rispetto ad altri. L’illazione
cade constatando che le cime denominate “alte”
sono spesso circondate da cime di quota superiore.
Molti anche i toponimi: Collalto, Cerealto, Altivole, Altavilla, Villalta, Fossalta, Alte, Altissimo.
Ci sono poi toponimi variati con i secoli come:
Monte Baldo [*b-Alto], Montaldo [*mons-Altus],
Cima Auta [*Alta], Ault [*Altus].
Acronimi e toponimi che contengono la radice
Alto riferita ad Altino giacciono sempre su rette
che collegano Altino
ai passi alpini. I rilevamenti cartografici
che seguono vogliono illustrare unicamente questa constatazione.
dal Brenta a Oderzo ben si prestava da scalimetro per determinare le distanze. Punto radiale
era Altino. La retta che congiunge Altino al
Brennero passa sopra una vetta della Marmolada
oggi denominata Auta [*Alta]. Su quella retta fu
costruito il primo tratto di strada ancor oggi esistente che passa da Quarto d’Altino e si dirige al
Ponte della Priula. L’avvicinamento al Brennero
nel primo tratto di pianura fino al Piave veniva
così fatto nel modo più diretto.
Tutti i percorsi di fondovalle per attraversare
le Alpi erano in uso da millenni. Si trattava di
renderli più praticabili e diretti con opere del
genio militare.
Altino-Passo
Brennero
Il collegamento
ovest-est della Cisalpina era già stato
tracciato e in parte
eseguito con la Postumia. Nel periodo
Giulio-Claudio si doveva fare il collegamento sud-nord oltre le Alpi. Il lungo
tratto della Postumia
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 37
Altino-Passo Resia
In una qualsiasi
giornata serena da
Altino si può vedere
il bianco delle cime
alpine. Guardando
verso il Monfumo la
linea visiva che portava al passo verso la
Rezia, individua la
sommità di Col Alto
a quota 498 sull’asse:
Vedetta Alta a quota
3262 in Val dell’Ultimo, sul prolungamento Monte Alto a
quota 3262 in Val Venosta e infine il Passo Resia. Questa retta
individuava il tratto
di strada da Altino a
Montebelluna verso
la Rezia. Il primo
tratto Altino-Treviso
è oggi scomparso
forse per lo straripamento del Sile.
Altino-Passo Cisa
Fra le molte radiali rilevate, l’asse che da Altino porta in direzione del passo appenninico della Cisa è caratterizzato dalla ripetizione del nome Concordia. Dalla Cisa la retta tocca Concordia al Secchia, traversa l’Adige a Castelbaldo.
Chiave del sistema topografico è la ripetizione
del nome alto, per cui Castelbaldo sembra riconducibile: *Castel(b)alto, *Castellum Altum.
A nordest l’asse identifica Concordia Sagittaria,
le gole dell’Isonzo e
il passo di Pedicolle
senza altri riscontri
toponomastici.
Altino-Genava
(Ginevra)
La retta che congiunge Altino con
Genava è ricca di
omofonie. Alto si
trova ripetuto dieci
volte. Da Ginevra
verso la Savoia: Haute Pointe (Q. 1958) e
Hautforts (Q. 2466).
In Svizzera: Haute
Cime (Q. 3260) a
ovest di Martigny.
Anche Alphubel (Q.
4207) è forse riconducibile ad Altus. In
Piemonte c’è Pizzo
Montalto (Q. 2505)
presso Domodossola.
Aralalta (Q. 2006)
presso S. Pellegrino
è in Lombardia. Ci
sono poi il paese di Perticalta, Malga Alta di Porra (Q. 1499). Monte Alto (Q. 1723). Nella Venezia: Valdritta del Baldo [*(B)Alto] (Q. 2278), poi
Revolto [*(Rivus)Altus] (Q. 1511), e quindi Altino.
Questo radiale dopo Trebaseleghe tagliava la
Postumia al 36° miglio presso S. Pietro in Gu.
XLI-Piccolo San Bernardo
La retta che congiunge Altino con il 41° miglio porta al Colle del Piccolo San Bernardo passando per Quarena [*Qua(d)ra(gintu)na] di Gavardo (BS). Sull’asse si trovano la cima del monte Faldo [*(F)alto] (Q. 805) e Monte Alto (Q.
957) sui Lessini. Oltre Quarena la retta interseca
Monte Alto (Q. 652) a sud di Sarnico sul Lago
d’Iseo e porta al passo del Piccolo San Bernardo
passando per Monte Emilius.
Emilius-Altino può essere importante in quanto chiude il triangolo cisalpino S. Marino-Emilius-Altino.
XL-Quadraginta
Il quarantesimo miglio est si ottiene congiungendo il campanile della chiesa di Quargnenta di
Brogliano con Altino. L’intersezione con la Po-
38 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
stumia avviene a Ospedaletto
sulla retta dal Brenta a Vicenza. Circa Quargnenta va ricordato che su una cartapecora
dell’anno 976 il toponimo appare nella sua forma originaria:
“... locus et fundus qui vocatur
Quadragenta …” Il documento, ora all’archivio segreto vaticano, proviene dal fondo di San
Giorgio in Braida di Verona ed
è stato pubblicato su gli Atti e
Memorie dell’Accademia di
Scienza, Agricoltura e Lettere
di Verona, anno 1966/1967, serie 6, volume 18, pagg.
166/169, Verona 1968. (Segnalazione di Silvano Fornasa)
Sul prolungamento ovest oltre Quargnenta c’è un altro toponimo numerico: il paese di
Squaranto che dà il nome al
Vaio. Il mutamento linguistico
si può così congetturare:
[*(S)qua(d)ra(gi)nto].
I tre toponimi: Quarena,
Squaranto e Quargnenta offrono un interessante quadro
di variazione fonetica.
Numerosi sono i riscontri di
questo asse che sembra collegare Aosta, Campanili di Bolca,
Roverè, Pieve San Pietro Mussolino, Quargenta, Brogliano,
Castelgomberto, Madonna delle Grazie, Costabissara, Ospedaletto (Miglio XL), Altino.
XXX
Il 30° miglio a est si delinea
sulle carte congiungendo Altino con Trenta d’Isonzo. La dizione del toponimo non lascia
dubbi sulla sua origine e sull’esattezza delle presenti constatazioni.
Le 30 miglia a ovest si delineano con Terviso in Istria, Altino, XXX miglio presso Cittadella, Tretto, Altissimo di Nago
(Q. 2078), Ballotto Alto, Tremalzo (Q. 1975), Pizzo dei Tre
Signori (Q. 1554) e il Passo
Sempione.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 39
IX
Anche il 9° miglio ovest ha
un riscontro: da Piz Nuna
in Engadina (Q. 3176) a
Punta Alta (Q. 2798) si interseca la Postumia al IX
miglio verso Altino.
VII
Congiungendo il settimo
miglio ovest con Altino,
sul prolungamento si trova l’appezzamento Sette
Casoni al Cavallino di Jesoloe a nordovest località
Le Musette [*Mu Sette] di
Onigo.
XIII
Oltre a determinare le
trenta miglia su entrambi
i lati della Postumia dall’intersezione con la Claudia, furono fatte misurazioni del 13° miglio ovest
e del 13° miglio est. Il 13°
miglio ovest è rilevabile
congiungendo Altino con
Cima dei Tre Signori a
quota 3359 sul Cevedale.
All’intersezione con la Postumia si trova il toponimo Tredici dato a un appezzamento di terra a Sud
di Barcon. Questo toponimo è leggibile sulla Tavola
IGM scala 1:50.000. Altri
riscontri minori giacciono
sull’asse: Casara Trentin e
Valle Trentin in prossimità
di Cima Portule e Tre Forni vicino Istrana.
Il XIII miglio sulla Postumia, a est dell’intersezione
con la Claudia è ancor più
facilmente rilevabile. A sudovest di Altino c’è il Ponte di Rialto [*Rivus Altus],
a nordest ci sono Trepallade, Tre Case, Tremacque,
fino al monte Terzadia a
quota 1961 presso Treppo
Carnico sullo spartiacque
delle Alpi.
40 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Evidentemente la mutazione linguistica ha eliso nella maggior parte dei casi il suffisso -decim. Per
Cima dei Tre Signori si può pensare a questo svolgimento: *Cyma
Tres Decima, *Cima Tres Domini,
Cima Tre Signori.
I, II e III
Il centro della radiale è l’asse che
da Altino porta al Brennero sul
quale fu costruito il primo tratto di
Claudia fino al Ponte della Priula.
Il suo prolungamento sud identifica esattamente il Forte di Treporti
di Jesolo. Probabilmente il Forte,
circondato dall’acqua, era un antico torrione munito di segnalazione
e di misurazione.
Il terzo miglio est dall’intersezione dell’asse della Claudia con la Postumia, a sud di Altino identifica
con precisione, uno dopo l’altro, i
campanili di Santa Caterina e
Sant’Erasmo. Il secondo miglio est,
a sud di Altino traguarda il campanile di San Francesco del deserto.
Ad est dell’intersezione Postumia-Claudia, il
primo miglio congiunto con Altino tocca il
Campanile di Burano.
Dalla parte opposta dell’asse Brennero-Altino,
ci sono il Forte di Treporti, dal primo miglio
ovest, Altino e il Campanile di Torcello.
Il secondo miglio ovest segna Altino, Ponte
delle Due Sorelle.
Il terzo miglio ovest passa su Altino e sul
Campanile di Treporti.
Solo Due Sorelle e Treporti consevano le dizioni numeriche originali. Un’antica illustrazione di Alvise Cornaro nel sito del secondo miglio
riporta il toponimo “Do Casteli”. Gli altri toponimi sono stati tutti probabilmente cambiati.
Sul prolungamento nord delle radiali resta un
solo toponimo numerico: Tre Pietre di Cesiomaggiore e Corno Tramin.
Anche sul ghiacciaio della Marmolada esistono
due acronimi numerici: Sasso Dodici (Q. 2742) e
Sasso Undici (Q. 2792) che però non si accordano con la dizione dei piccoli numeri. Probabilmente si riferiscono ad altra misurazione. Poco
lontano a ovest della Marmolada, a sud di Vigo
di Fassa c’è l’acronimo: Sasso delle Dodici (Q.
1428). Esso forse si riferisce alla radiale di Concordia Sagittaria. Infatti prolungando l’asse Sasso delle Dodici oltre Concordia si incontra il toponimo Dodici d’Istria a sudest di Parenzo.
Padova e Vicenza
Anche la città di Padova era orientata su acronimi derivati da Altino. Il Decumano Massimo
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 41
da Monte Alto (Q. 444) prosegue sui Berici fino a Malamocco. Il Cardo Massimo da Col Alto (Q. 598) di Maser traguardando Castelfranco.
Vicenza invece ha il Cardo
Massimo da Monte Rua sui Berici al Summano. Il Decumano
Massimo da Cittadella a Soave.
Rileviamo un particolare forse
casuale: prolungando quest’asse
a sudovest oltre Soave, si incontra un altro Soave sul Mincio.
Altro particolare: il segmento di
Postumia dal Brenta a Vicenza
giace su una retta che tocca Col
Visentin (Q. 1764) a sud di Belluno.
Prima ancora di essere rivolta
contro pericoli di invasioni barbariche, la strategia romana della Cisalpina era
rivolta all’occupazione e al controllo delle Alpi e
delle Prealpi. Solo dal IV al V secolo la difesa da
invasioni assunse carattere preminente.
I campi militari divenuti poi città della Venezia erano posti a guardia delle valli prealpine in
vista di rapidi interventi contro le popolazioni
locali. Dalla pianura, un sistema di due o più vie
portava dai campi-città all’imbocco delle valli.
Verona controllava l’imbocco della valle dell’Adige e tutte le valli veronesi della Lessinia.
Prunello o Valbruna, ora Tezze di Arzignano,
era posta all’imbocco delle valli del Chiampo e
dell’Agno. Forse era rincalzata da Este.
Vicenza puntava verso val Leogra e Astico con
i rispettivi posti franchi di Schio e Thiene.
Padova rincalzava da un lato Vicenza e altre
due vie controllavano la Valbrenta via Cittadella
e la valle del Piave via Valdobbiadene.
Altino e la Via Claudia sembrano invece impostati a diversa strategia, cioè di un rapido attraversamento delle Alpi.
Miliarium Aureum
Con questa analisi considero conclusa la mia
ricerca. Un sistema usato duemila anni fa, ora è
sufficientemente chiaro. Come ho già scritto su:
Geografia Romana (1984), L’oro di Marana
(1986) e Toponimi numerici della Postumia e
della Claudia (1998), la pianificazione territoriale romana doveva soddisfare più esigenze: rilevare il territorio e controllarlo. Tutte le vie, le istallazioni e gli insediamenti erano posti su una trama prestabilita. Questo supporto geometrico latente prima ignoto, lo mostra chiaramente.
Lo stesso tipo di ricerca può essere esteso a
tutta la Cisalpina e all’impero. Resta solo da determinare il legame fra i vari sistemi che convergevano sulla pietra miliare d’oro fatta erigere
da Augusto nel foro presso il tempio di Saturno
per indicare il punto dove tutto iniziava.
42 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
La battaglia dei Campi Raudi
Padania 101 a.C.:
i Cimbri contro le Legioni romane
di Lamberto Sarto
N
on si hanno notizie certissime sulla venuta dai Celti ai corsi d’acqua (ambra = acqua). Andei Cimbri in Padania, si pensa che la mi- che i nomi dei comandanti di queste popolazioni
grazione di queste popolazioni sia iniziata sono sicuramente gallici, abbiamo Teutoboduus
partendo dal territorio che attualmente corri- per i Teutoni e Claodicus per i Cimbri, guidati
sponde alla penisola dello Jutland in Danimarca dal re Beorix (o Boiorix). I Romani ricordavano
[1]. Per quanto riguarda il nome “Cimbri”, possiamo risalire
Le donne difendono i carriaggi ad Aquae Sextiae. Incisione
del XIX secolo
a vocaboli derivati dal tedesco
che fanno corrispondere il termine con la parola “saccheggiatori”; secondo Berresford
Ellis [2], il nome deriva da vocaboli di origine celtica come:
“cimb” (tributo, riscatto) e
“cimbid” (prigionieri); una
considerazione che possiamo
sicuramente fare è notare come quel poco conosciuto sia
stato tramandato da storici latini e greci che lo hanno evidentemente fatto dal loro
esclusivo punto di vista (il nostro è ben diverso: forse li
avremmo chiamati “liberatori”).
Alla fine del II secolo aC., insieme con i Teutoni, gli Ambroni e numerose altre popolazioni
germaniche minori, i Cimbri
attraversarono l’Europa Centrale penetrando in Gallia Transalpina e in Padania, entrando
in conflitto con le numerose legioni romane a presidio dei territori di confine. È interessante
notare come i nomi dei Teutoni
e degli Ambroni siano sicuramente di origine celtica [3], infatti Teutoni corrisponde all’Irlandese “tuath” (tribù) e al Gallese “tud” (gente); il termine
Ambroni deriva dal nome dato
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 43
ancora la paura provocata dalle invasioni dei
Celti nei secoli precedenti e il loro terrore era
diventato qualcosa di “genetico”: non a caso il 6
ottobre del 105 aC., ad Arausio (Orange, Francia), 80.000 legionari (due armate consolari guidate da Caepio e Mallius) furono sbaragliati in
due distinte battaglie (una sconfitta che nella
storia di Roma ha riscontro solamente con quella subita dai legionari a Cannae).
Fu allora che venne mandato a comandare le
truppe romane il console Gaio Mario, ritornato
vittorioso dalla Libia, per affrontare i “barbari
invasori”. In due separate battaglie intorno ad
Aquae Sextie, corrispondente alla città provenzale di Aix, nel Dipartimento del Rodano, (Figura I) Mario sconfisse i Teutoni e gli Ambroni,
mettendosi in condizione di volgere la sua attenzione ai Cimbri comandati dal re Beorix che,
scendendo dal passo del Brennero, avevano dato
filo da torcere presso Tridentum (Trento) alle legioni di Lutatius Catulus inviate dal Senato di
Roma per fermarli, impresa miseramente fallita
al punto che Catulus scappò con tutte le sue
truppe fino in Emilia [4].
Mario con sei legioni formate da veterani (circa trentamila uomini) marciò, dopo aver attraversato il Po e dopo essersi riunito con le truppe
di Catulus, incontro a Beorix in Padania, vicino
ai Campi Raudi presso Vercellae. La localizzazione del campo di battaglia non è mai stata risolta
in modo definitivo: autori come Gualtiero Ciola
[5], parlano della valle dell’Adige, in realtà alcune carte topografiche possono aiutare a chiarire
la questione. Grazie alla carta della Padania
tracciata da Abramo Orfelio nel 1590, tuttora
conservata presso la Raccolta Civica Bertarelli
(figura II), i Campi Raudi sono localizzati a Est
di Vercelli nel tratto delimitato dal fiume Sesia e
dalla confluenza del Ticino nel Po a Nord di Casteggio (antica capitale dei Celti Anari e importante caposaldo a difesa del guado sul Po: anche
Annibale nell’attraversare il grande fiume era
dovuto passare da qui) .
A questo punto è doveroso esaminare alcune
questioni:
Non abbiamo nessun tipo di rilevanza archeologica su questo avvenimento, quello che ci è
pervenuto lo dobbiamo a Plutarco, che era più
interessato a esaminare lo spessore psicologico e
caratteriale dei personaggi implicati piuttosto
che renderci un resoconto dettagliato della battaglia e delle circostanze connesse.
Si pensa che una parte di quello che Plutarco
ha scritto sia frutto di sue invenzioni che poco
corrispondono con
Combattimento delle donne cimbre ai Campi Raudi
quello che si può
ricavare dalle conoscenze archeologiche sulle popolazioni germaniche
del periodo in generale. Scrive infatti Plutarco a
proposito della cavalleria dei Cimbri:
“I loro cavalieri
(...) indossavano
elmi a forma di teste di belve feroci
con le fauci spalancate (...), e queste erano coperte
con piume , facendoli sembrare più
alti di quello che
erano. Avevano
pettorali di ferro e
bianchi scudi lucenti. Ogni uomo
portava due giavellotti, da lancio,
44 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Figura I. Percorso dei Cimbri e dei Teutoni (tratto da Peter Wilcox et all., Barbarians against
Rome, p. 84)
e per il combattimento (…) usavano larghe e
pesanti spade”.
Dall’evidenza archeologica sulle popolazioni
germaniche di quel periodo non risulta infatti
che esse indossassero armature: solo raramente
portavano elmi e avevano pochissime spade. Descrivendo il tipo di armi delle popolazioni germaniche del primo secolo dC., Delbruck H. nella
sua “Storia dell’arte della guerra” ci fornisce un
quadro molto dettagliato: “Solamente pochi
guerrieri avevano armature o elmi, la loro principale protezione era un grande scudo di legno
ricoperto talvolta di pelli e la protezione della
nuca era fornita da copricapi fatti sempre di
pelli e pellicce…. le prime file dei combattenti
avevano lance lunghe la maggioranza utilizzava bastoni e piccoli giavellotti” [6]. Questa testimonianza riguarda il massacro delle tre legioni
romane di Varo ai tempi dell’imperatore AuguAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
sto circa 110 anni dopo gli avvenimenti citati in
questo articolo ed è perciò presumibile che potesse riguardare anche popolazioni più antiche.
L’unica cosa storicamente accertabile scritta da
Plutarco è la descrizione dei cavalli che erano sicuramente più possenti dei “pony” delle popolazioni latino-mediterranee.
Va comunque ricordato che lo storico di origine greca aveva descritto gli eventi ben 200 anni
dopo l’accaduto ed è perciò ipotizzabile che
avesse in mente le popolazioni germaniche del
suo tempo.
Tornando ad esaminare la battaglia, sappiamo
che Beorix stava aspettando fiducioso l’arrivo
degli alleati Teutoni e Ambroni per stabilirsi definitivamente in Padania, quando Mario sopraggiunse stabilendosi ad Ovest rispetto ai Cimbri,
dentro un campo fortificato vicino a Vercellae, al
sicuro da improvvisi assalti.
Quaderni Padani - 45
Figura II. Localizzazione dei Campi Raudi. Disegno di Abramo Orfelio, 1590 d.C.
Fu allora che Beorix, dopo aver sfidato Mario a
duello (ancora una volta dobbiamo registrare
una tipica usanza che giustifica l’ipotesi avanzata da molti studiosi di uno stretto legame culturale dei Cimbri col mondo celta) [7] e avere ottenuto un rifiuto, affrontò le legioni in campo
aperto e - come scrive Plutarco – Mario, contrariamente a ogni dottrina tattica militare romana, accettò lo scontro affermando che la pianura
era un ottimo posto per combattere e per consentire alla sua cavalleria di muoversi agevolmente.
Anche questa descrizione iniziale lascia alquanto perplessi, Mario disponeva solamente di
300 cavalleggeri per ogni legione. Le legioni
presenti erano una decina ma ridotte di numero
46 - Quaderni Padani
in effettivi: anche qualora fosse stata presente a
ranghi interi, la cavalleria romana avrebbe avuto
al massimo 3.000 uomini e cioè, stando alla testimonianza storica, in rapporto di 1 a 5 rispetto
ai Cimbri.
La battaglia iniziò con la cavalleria dei Cimbri
all’assalto del fianco sinistro dei Romani. Contemporaneamente la gran massa della fanteria
“barbarica” attaccò al centro le legioni comandate da Catulus, inferiori in qualità rispetto alle
legioni di Mario. Quello che è stato tramandato
da Plutarco a questo punto è semplicemente la
presenza sul campo di battaglia “di un gran polverone” col risultato finale della sconfitta dei
Cimbri.
Come i Romani abbiano fermato la carica di
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
15.000 cavalieri sul fianco e l’assalto della fanteria al centro rimane un mistero; viene ricordato
che i Cimbri attaccarono con il sole di fronte e
tutto quello che è stato scritto è una frase molto
lapidaria: “I Cimbri attaccarono, i Cimbri morirono”. Anche la descrizione dell’epilogo della
giornata lascia molto perplessi: sempre Plutarco
testimonia infatti come le donne cimbre uccidessero i superstiti che ritornavano al campo e
come, pur di non farsi catturare dall’odiato nemico, si togliessero esse stesse la vita, rinnovando un’usanza che trova riscontro fra le più tipiche tradizioni celtiche [8]. Basterà pensare alla
vicenda di Boudicca, regina degli Iceni, che
sconfitta si tolse la vita dopo aver ucciso i suoi
cari.
Di questo valoroso popolo, Plutarco afferma
che ben 60.000 furono i prigionieri e che i morti
ammontarono a 120.000.
Note sulle forze in campo
Esercito romano
Consoli - Gaius Marius e Q. Lutatius Catulus
Legioni - 6 legioni di veterani sotto il comando
di Mario per un totale di circa 32.000 uomini, e
4 legioni sotto il comando di Catulus per un totale di 20.300 uomini.
Le cosiddette legioni “mariane” erano il risultato della esperienza di guerra di Gaio Mario, che
aveva abolito l’antica suddivisione secondo le
classi in velites, hastati, principes e triari. Ogni
legione era organizzata su tre linee di coorti formate da manipoli di 400, 500 o 600 legionari a
seconda della necessità: ogni legionario aveva a
disposizione un metro e mezzo di spazio in ogni
fila del manipolo.
Cimbri
Comandante in capo Beorix
Cavalleria di 15.000 uomini e fanteria di 120.000
uomini
La disposizione, secondo Putarco, di questa
enorme massa di uomini è ancora una volta
molto opinabile (più corretto sarebbe dire totalmente sbagliata), infatti egli afferma che la fanteria occupava uno spazio di circa 14 miglia
quadrate (un miglio corrispondeva, nella misurazione romana, a circa 1480 metri), se consideriamo che ogni singolo uomo occupava uno spazio, ad essere generosi di 2,5 metri quadri (come
scritto in precedenza, i legionari occupavano
uno spazio di un metro e mezzo ciascuno), utilizzando una semplice calcolatrice otteniamo
che sul campo di battaglia avrebbero dovuto esAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
serci un esercito spropositato di 15 milioni di
Cimbri.
Considerazioni finali
Osservando i numeri complessivi delle forze
in campo (135.000 Cimbri contro 52.300 Romani), sembra impossibile pensare a una sconfitta
così totale dei “Germanici”. Considerando anche
la descrizione fatta da Plutarco dell’armamento
(elmo, pettorale metallico, lancia e spada), due
sono le ipotesi finali:
A. I numeri sono reali.
Come visto in precedenza, è difficile credere
che i Cimbri fossero armati come guerrieri
celti. Più probabilmente, come confermato dai
reperti archeologici delle popolazioni germaniche del periodo, erano dotati di pochissime
armi di metallo di buona fattura, scudi di legno e nessuna corazza o elmo in grado di resistere ai colpi inferti dai legionari romani.
Inoltre dobbiamo tenere conto del mistero
che riguarda i superstiti del massacro, stando
alle fonti vi furono 60.000 prigionieri e ben
120.000 morti. Un esercito di 135.000 uomini
che si muoveva con le famiglie comporterebbe
tranquillamente la presenza di oltre 300350.000 persone con relativi carriaggi e sostentamenti per uomini, donne e bambini: è
quindi difficile pensare che i circa 100150.000 superstiti siano spariti senza lasciare
traccia ma purtroppo nulla è rimasto, né di
storico, né di archeologico, che risolva il mistero. Le considerazioni possibili basandosi
sui “numeri” di Plutarco sono:
1. i superstiti si allontanarono ritornando nella loro terra (a sostegno possiamo fare riferimento a quanto avvenne agli Helvetii, che,
dopo la sconfitta subita da parte di Cesare,
rientrarono nei loro confini);
2. i superstiti si ritirarono dalla pianura fermandosi sui monti e nelle vallate alpine formando nuove comunità. C’è una leggenda
che li vuole stanziati nelle valli biellesi. Sicuramente non hanno però nessun rapporto
con i Cimbri che tutt’oggi abitano alcune zone delle province di Verona, Vicenza e Trento, che sono giunti in Padania nel tredicesimo secolo, come attestato da un documento
datato 5 febbraio 1287 con la concessione da
parte del vescovo di Verona Bartolomeo della
Scala, del permesso di insediarsi.[9]
B. I numeri sono falsi.
Abbiamo già visto come sia difficilmente credibile l’informazione di Plutarco sulla disposiQuaderni Padani - 47
zione sul campo di battaglia. Altri dubbi sorgono se si confronta la narrazione effettuata
da Cesare che aveva descritto una migrazione
di questo tipo, riguardante gli Helvetii sconfitti a Bibractae, nel suo De Bello Gallico. Stando agli storici, ben 368.000 persone furono
sconfitte dalle legioni cesariane. E’ stato anche dimostrato che i numeri inerenti la forza
dei Galli siano sempre stati falsati da Cesare:
ad esempio, il convoglio degli Helvetii, che doveva avere circa 8.500 vagoni trainati da 4
buoi ciascuno, avrebbe raggiunto la lunghezza
di circa 125 chilometri che appare del tutto
inverosimile [10]. Neppure l’obiezione che il
convoglio poteva muoversi su file parallele
non è proponibile: le strade del tempo non sono certo le autostrade di oggi. E inoltre il percorso dei Cimbri attraversava valichi alpini,
corsi d’acqua e difficoltà notevoli ed è facile
immaginare cosa sarebbe successo davanti a
ostacoli semplici come ponti o guadi: si sarebbero formati ingorghi indescrivibili rallentando la marcia inesorabilmente.
Anche senza considerare i carri di trasporto,
se una legione romana di 6.000 uomini formava una colonna di 1,5 km [11], i 120.000 fanti
di Beorix (sicuramente meno disciplinati dei
Romani) avrebbero formato una linea lunga, a
essere ottimisti, almeno 30 km. Considerando
da 20 a 30 i chilometri di marcia percorsi
giornalmente, significherebbe che quando la
testa della colonna arrivava alla destinazione
giornaliera prevista, la coda doveva ancora
mettersi in marcia!
Se non diamo credito a Plutarco ma ci affidiamo a storici come Delbruck e Connolly, il numero dei Cimbri è riferibile a circa 10.000
guerrieri più donne e bambini, e si arriva a cifre intorno a 30-40.000 persone (a sostegno di
questa tesi, ricordiamo che durante le “invasioni barbariche” di Goti, Vandali e Burgundi i
loro numeri andavano da 10.000 a 20.000
guerrieri per popolazione), una loro sconfitta
avrebbe portato molto probabilmente alla
estinzione o riduzione in schiavitù di tutto il
popolo spiegando così il mistero sulla fine dei
superstiti.
Comunque si leggano i numeri della migrazione dei Cimbri, furono indubbiamente degli
eroi quelli che affrontarono le legioni di sanguinari professionisti armati di tutto punto, e soprattutto sapendo di avere la responsabilità di
tutta la loro popolazione di anziani, donne e
48 - Quaderni Padani
bambini al seguito. Il vero grande rammarico
che resta è constatare, leggendo libri di storia
“italiana”, come vi sia un assoluto oblio su gesta
compiute da condottieri ed eroi (come questi
ma anche come tanti altri) che hanno dato la loro vita in Padania e per la Padania: vie, strade e
piazze delle nostre città dovrebbero portare nomi come, Beorix, Bellovesus, Ducario, Annibale
e tanti, tanti altri ancora.
Bibliografia
[1] Theodore Ayrault Dodge, Caesar (New York:
Da Capo Press, 1997), p.17
[2] Peter Berresford Ellis, Celt and Roman (London: Constable and Company, 1998), p.233
[3] Peter Berresford Ellis, op.cit., p.233
[ 4] Peter Wilcox, Rafael Trevino, Barbarians
against Rome (Oxford: Osprey edition, 2000),
p.86
[5] Gualtiero Ciola, Noi Celti e Longobardi (Venezia: Helvetia edizioni, 1997), p.117
[ 6] Hans Delbruck, The Barbarian Invasions
(University of Nebraska: Bison Book, 1996), p.47
[7] Peter Wilcox, Rafael Trevino, o. cit., p.86
[8] Ibidem, p.86
“Le donne germaniche li colpirono con scuri e
con bastoni, strapparono loro gli scudi con le
nude mani, non riparmiarono nemmeno i loro
uomini, perché ai loro occhi colui che fuggiva
meritava la morte”. S Fischer-Fabian, I Germani (Garzanti, Milano: 1997), p.46
“(…) allora presero le spade che avevano impugnato contro i nemici, e le rivolsero contro se
stesse e i propri congiunti. Alcune si trafissero
scambievolmente, altre afferrandosi per la gola
si strozzarono a vicenda, altre legarono una
corda alle zampe dei cavalli e, dopo averla avvolta attorno al proprio collo, frustarono i cavalli e furono da essi trascinate e dilaniate. Altre ancora si appesero con una corda al timone
del proprio carro che avevano drizzato in alto.
Fu rinvenuta persino una donna che aveva legato, con una corda al collo, i due figlioletti ai
propri piedi, e, dopo essersi lasciata cadere nel
vuoto per impiccarsi, aveva parimenti trascinato nella morte i suoi bambini”. (Orosio, Historiae)
[9] Paolo Righetti, “Spazio architettonico e culturale: i villaggi Cimbri”, su Etnie, n.5, 1983,
pp.28-31
[10] Hans Delbruck, Warfare in Antiquity (University of Nebrasca: Bison Book, 1996), p.461
[11] Peter Connolly, Greece and Rome at War
(London: Greenhill Book, 1998), p.238
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Adda: fiume,
campo di battaglia, confine
di Elena Percivaldi
C
i sono luoghi che nel corso dei secoli sono to esercitava i pieni poteri in Occidente. Teodostati teatro di molti eventi storici e che an- rico aveva già sconfitto Odoacre l’anno prima
cora oggi, dopo tanto tempo, mantengono il sul fiume Isonzo; avrebbe potuto dirigersi verso
loro fascino intatto, se non addirittura accre- Ravenna, dove Odoacre aveva stabilito la capitale
sciuto proprio dal peso di quelle memorie di cui del suo regno, ma preferì lanciarsi verso l’Adda:
sono stati testimoni. Uno di questi siti è il fiume aveva infatti intuito che gli Eruli stavano tenAdda, per secoli barriera di confine tra territori tando di ricostruire il loro esercito grazie all’apoccupati da popolazioni diverse: separava gli In- porto di rinforzi germanici. L’improvviso attacco
subri dai Cenomani ai tempi dei Celti, l’Austria di Teodorico - alleatosi coi Visigoti - sbaragliò
dalla Neustria ai tempi dei Longobardi, i posse- Odoacre che, sconfitto con gravi perdite, si trindimenti di Milano da quelli della Serenissima dopo il 1427 e fino al 1797. Una miniatura che rappresenta l’imperatore Federico
È logico dunque che l’Adda fosse sce- Barbarossa, protagonista di una battaglia nei pressi di
na di numerosissimi scontri militari Cassano d’Adda
e teatro di sanguinose battaglie sin
quasi dalla Preistoria dei popoli padani fino a vicende più attuali.
Se scorriamo gli annali della storia,
troviamo il primo scontro importante
lungo le sponde del fiume nel 222
a.C., episodio della lunga guerra che
vide opposti i Celti padani ai Romani
invasori e che terminò con la conquista e la sottomissione della Gallia Cisalpina da parte di Roma all’inizio del
secolo seguente. Nel 222 le legioni
comandate da C. Flaminio e P. Furio
riuscirono a sconfiggere i Galli Insubri, facendo circa 16.000 prigionieri e
8000 morti in battaglia.
Proprio in questi giorni (per la precisione l’11 agosto) cade la ricorrenza
di un altro episodio bellico importante sul fiume, che nel 490 vide opposti
gli Ostrogoti di Teodorico agli Eruli
comandati da Odoacre. Gli Ostrogoti
erano stati mandati in Italia dall’imperatore d’Oriente Zenone nella speranza di contrastare Odoacre, che nel
476 aveva deposto l’ultimo imperatore romano - il giovanetto Romolo Augustolo - e, pur avendo inviato allo
stesso Zenone le insegne dell’Impero
riconoscendone la superiorità, di fatAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 49
cerò a Ravenna, dove capitolò dopo tre anni di
duro assedio.
Meno di duecento anni dopo, nel 688, un
cruento combattimento ebbe luogo a Cornate
d’Adda tra i Longobardi tradizionalisti ariani
guidati dal duca di Trento e Brescia Alachis e le
truppe comandate dal re Cuniperto, esponente
della parte cattolica. I guerrieri di Alachis avevano posto i loro accampamenti nei pressi di Cornate, dove c’era una piccola radura. Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, racconta che poco
prima della battaglia un tal Senone, chierico
della chiesa di S. Giovanni Battista di Pavia, poiché temeva per la vita di Cuniperto, si offrì di
sostituirlo indossando la sua armatura e fu ucciso per mano del duca ribelle. Cuniperto sfidò al-
Crocetta d’oro che i Longobardi cucivano sui
vestiti. Alcune sono tornate alla luce nei pressi di Cornate
lora Alachis in singolar tenzone, ma il duca rifiutò perché sulle lance del re era incisa l’immagine di S. Michele, protettore del popolo longobardo e sul quale egli stesso aveva giurato. Ma
ormai era troppo tardi per evitare lo scontro,
che si consumò con una grossa strage da ambo
le parti. L’esercito cattolico ebbe la meglio, e i
guerrieri ariani che scamparono al massacro sul
campo perirono annegati nel fiume. Alachis fu
vinto dal re in persona; la sua testa fu mozzata e
le ginocchia spezzate; il suo cadavere mutilato e
informe fu esposto dai vincitori come trofeo di
guerra.
Nel Medioevo, in piena lotta tra Comuni e Im50 - Quaderni Padani
pero, il fiume fu teatro di parecchie scaramucce
tra le truppe imperiali di Federico Barbarossa e
quelle guidate dai Milanesi. Il castello di Trezzo
sull’Adda, caposaldo conteso tra le due parti proprio per le sue qualità di avamposto militare di
primaria importanza strategica, fu occupato varie
volte dall’imperatore e altrettante riconquistato
dai lombardi, che si impadronirono anche del tesoro che il Barbarossa vi aveva nascosto. Ma fu a
Cassano d’Adda, nel 1158, che Federico ricevette
una sonora batosta. Dopo aver sconfitto i milanesi al di là del fiume, pensò bene di inseguirli sul
ponte mentre ripiegavano a rotta di collo verso la
loro città. La struttura di legno però non resse
l’urto della cavalleria pesante imperiale e si frantumò sotto di essa, trascinando tra i flutti un
gran numero di uomini e permettendo ai superstiti milanesi di tornare salvi a casa.
Sempre Cassano fu al centro di un altro evento
importante, avvenuto il 27 settembre 1259. Ezzelino da Romano, il terribile signore di Verona, dopo aver occupato Brescia ritenne giunto il momento di dirigersi verso Milano per prenderne
possesso, ma non vi riuscì. Ripiegò dunque verso
l’Adda - non senza prima aver razziato strada facendo qualche centro come Vimercate - e tentò
l’assedio della fortezza di Cassano. Ma fallì nel
suo progetto: sconfitto dai Milanesi e dai loro alleati della Lega guelfa comandati da Martino della
Torre e Azzo d’Este, Ezzelino fu ferito ad un piede
da un colpo di mazza sferrato da un tal Antelmo
da Cova. Nel tentativo di salvarsi, si gettò nell’Adda ma fu catturato e portato al castello di Soncino, dove morì una decina di giorni più tardi.
Successivamente, il 25 febbraio 1323, a scontrarsi sul fiume furono i seimila fanti e mille cavalieri di Galeazzo Visconti e le forze della Lega
antiviscontea. Sul campo i comandanti Marco e
Luchino Visconti uccisero senza pietà, dopo
averli fatti prigionieri, Simone Crivelli e Francesco di Garbagnate, i due capitani avversari.
Dopo le lotte tra Comuni e Barbarossa e quelle tra Visconti e Torriani per il predominio su
Milano, troviamo di nuovo il castello di Trezzo
protagonista. Essendo caduto in rovina a causa
dell’incuria e dei numerosi eventi bellici, fu restaurato nel 1370 da Bernabò Visconti, che ne
fece una sua residenza adibita alle cacce e ai divertimenti, oltre che una solida fortezza. Ma tale
azione fu al Visconti fatale: nel 1385 fu infatti
rinchiuso nelle sue segrete dal nipote, e vi trovò
la morte - forse per avvelenamento - poco tempo
dopo.
Il Quattrocento fu il secolo delle lotte per il
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
predominio tra Milano
me per riparare a
e Venezia. L’Adda diBrembate; e il giorno
ventò confine tra i due
dopo i Francesi inconStati nel 1427, dopo la
trarono le truppe auvittoria di Venezia a
stro-piemontesi a CasMaclodio, ma la situasano e le sconfissero
zione non si stabilizzò
duramente. Il principe
di certo. Nel 1437 sulEugenio, che era interl’Adda fu sconfitto l’evenuto in aiuto del dusercito guidato dal caca di Savoia contro gli
pitano di ventura NicSpagnoli che nel fratcolò Piccinino, che
tempo avevano occucombatteva al soldo dei
pato il Piemonte, fu
Visconti sempre contro
costretto alla fuga in
Venezia e si era già diTirolo, lasciando sul
stinto, pur nella disfatcampo oltre 10.000
ta, proprio a Maclodio
morti.
contro il Conte di Car- Statua equestre di Bernabò Visconti, che morì L’ultimo episodio immagnola. E il 14 mag- in prigione nel castello di Trezzo
portante di cui fu teagio 1509, nel quadro
tro il fiume avvenne il
delle guerre d’Italia, a Vailate - poco distante dal 10 maggio 1796, nel quadro della campagna d’Ifiume, in località nota anche col nome di Agna- talia condotta da Napoleone Bonaparte. Dopo
dello o di Ghiara d’Adda - l’esercito della Lega di aver sconfitto i Piemontesi a Mondovì, BonaparCambrai (circa 37mila uomini messi a disposi- te rivolse le sue attenzioni contro gli Austriaci
zione da papa Giulio II, da Ferdinando il Cattoli- guidati dal generale Beaulieu, riuscendo a imco, dal re di Francia Luigi XII, dall’imperatore porgli la ritirata sul fiume Adda attraverso il
Massimiliano, dal duca di Savoia e dal duca di ponte di Lodi. Dall’altra riva gli Austriaci cannoFerrara) sconfisse duramente Venezia, costrin- neggiarono i Francesi che cercavano di passare
gendola a rinunciare definitivamente ad espan- il fiume; per aggirare il bersagliamento, Napodersi oltre l’Adda.
leone condusse una parte dei suoi a guadare
I veneziani, comandati da Bartolomeo d’Alvia- l’Adda sulla sinistra, in modo da accerchiare il
no e Nicola Orsini, varcarono il fiume per con- nemico. La manovra riuscì perfettamente e gli
quistare gli avamposti di Pandino e Vailate; ma Austriaci furono costretti a ritirarsi in disordine
appena giunti all’altra riva, vennero colti di sor- in direzione del Mincio, lasciando ai Francesi il
presa dai Francesi capitanati da Giangiacomo ponte e gran parte dei cannoni e dell’artiglieria
Trivulzio; i reparti guidati dal d’Alviano si batte- e aprendo loro la via per Milano.
rono, mentre quelli comandati dall’Orsini prefeTanti avvenimenti bellici, tanti personaggi
rirono ritirarsi lasciando gli alleati in balia del- storici e tanti morti hanno dunque contribuito a
l’avversario. Le perdite furono circa seimila e caratterizzare nel corso dei secoli la fisionomia e
Bartolomeo fu ferito e fatto prigioniero.
l’importanza del fiume Adda, uno dei più noteDopo un periodo di relativa tranquillità, le ri- voli luoghi storici della Lombardia e di tutta la
ve dell’Adda tornarono al centro delle vicende Padania. In questa sede abbiamo trattato solo
belliche nel Settecento durante la guerra di suc- dei fatti militari, ma l’Adda fa parte del nostro
cessione spagnola. A Cassano nel 1703 ben 4500 patrimonio culturale anche perché le sue acque
soldati piemontesi furono imprigionati dai Fran- furono sfruttate per scopi industriali e sono stacesi e lasciati morire di fame nelle segrete della te uno dei fattori che hanno portato l’economia
fortezza dopo che Vittorio Amedeo II di Savoia della Lombardia a distinguersi come una delle
ebbe deciso di rompere l’alleanza stipulata con il più avanzate e produttive d’Europa. E sull’Adda
re Luigi XIV. E due anni dopo, nel 1705, sempre lavorò Leonardo e operarono altri ingegneri, che
Cassano fu il sito di una battaglia tra gli impe- diedero il loro contributo per domarne il corso.
riali austriaci comandati dal principe Eugenio di L’Adda è dunque una parte integrante della noSavoia e i Francesi del Duca di Vendome. Il 15 stra storia e della nostra cultura, che sicuraagosto, dopo vari scontri improduttivi, gli Au- mente bisognerebbe valorizzare e far conoscere
striaci furono costretti a passare al di là del fiu- meglio.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Quaderni Padani - 51
Manifesto per l’indipendenza
della Romagna
di Alessandro Barzanti
“L
a Romagna non è l’Emilia”. Se c’è una co- ta a nord dal fiume Reno, dalle valli comacchiesi,
sa che i Romagnoli potrebbero ricordarvi dalla bassa argentana e su fino a Sesto Imolese riall’infinito è proprio la loro specificità ri- salendo il corso del Sillaro. Sempre il Sillaro si
spetto ai cugini Emiliani. Una differenza frutto di pone come confine fino al Passo della Futa sul
secoli di storia raramente condivisa che si denota crinale appenninico. Da questo punto seguendo il
anche negli idiomi locali. Essi hanno avuto en- crinale appenninico principale fino all’Alpe della
trambi chiaramente origine dalla sovrapposizione Luna si delinea invece il confine a sud. Rimane
del latino al sostrato celtico, ma hanno subito solo un po’ più incerto il confine che dall’Alpe
un’evoluzione differente. La diversità della lingua della Luna va verso Gabicce: quella è una zona di
romagnola è infatti frutto - come ha affermato transizione che negli anni passati ha subito più
Friedrich Schürr, glottologo austriaco che ha de- l’occupazione e l’organizzazione del ducato mondicato gran parte dei suoi studi alle evoluzioni fo- tefeltresco di Urbino che la presenza delle autonetiche del romagnolo - al
rità pontificie. Si tratta della
“periodo di sostanziale isoRomagna della quale parla,
lamento entro i confini delfra l’altro, Dante nel XXVII
l’Esarcato di Ravenna e
canto dell’Inferno in termiquelli sovrappostivi dello
ni estremamente puntuali
Stato Pontificio”.
anche in ordine alle princiLa conquista longobarda
pali città e alle relative sidi vasti territori della penignorie.
sola attualmente italiana (VI
Il territorio romagnolo, amsecolo d.C.) avvenne in maministrativamente, ha reginiera graduale. A nord si
strato nei secoli diverse prefermò per un certo numero
senze estranee e svariate indi anni ai margini del fiume
gressioni: fiorentine, ferraPanaro, allora compreso nel
resi e urbinate, tanto che
territorio esarcale di Ravennel 1371, quando ai fini fina, e ciò che restò sotto il Antica bandiera imperiale dell’esarca- scali e per la conoscenza del
dominio dell’Esarca venne to di Ravenna
territorio venne redatta la
denominato Romania, vale
prima carta della Romana dire: terra di Roma, legata all’antica capitale diola, per la frantumazione sopra citata non fu
dell’impero dalle leggi, dalla lingua, dall’alimen- possibile tracciare il confine a ridosso del crinale
tazione, eccetera. poiché i Bizantini, che qui re- e neanche a nord con Ferrara che, fino all’estingnavano, si credevano diretti eredi dell’Impero zione della casa dinastica d’Este, mantenne il
romano. Successivamente i Longobardi si spinse- controllo della cosiddetta Romagna estense. Solo
ro fino a Bologna, s’integrarono facilmente con con l’unità d’Italia la Romagna vide finalmente
quel territorio e le sue istituzioni culturali e il designare a sé quest’ultima porzione: (Massalomterritorio dell’Esarca, così ristretto, venne deno- barda, Conselice, Lugo, Fusignano, Bagnacavallo,
minato Romandiola. Vale a dire “piccola terra di Solarolo e parte della pianura faentina) e di di CaRoma”. Tale situazione si protrasse all’incirca per stel Bolognese, ma vide invece “partire” tutto l’Itre secoli e si trattò dell’atto di nascita della Ro- molese che tutt’ora permane amministrativamagna, con una delimitazione territoriale, da al- mente nell’orbita provinciale di Bologna.
lora, fortemente determinata.
Precedentemente, nel 1850, il segretario di staGeograficamente la Romagna è infatti delimita- to pontificio Giacomo Antonelli, operò, per ragio52 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Confini storici ed etnolinguistici di “Romagna e Montefeltro”
ni amministrative e di culto, una sorta di riforma
regionalistica del territorio della Chiesa. Chiamò
Marche e Umbria pressappoco gli attuali corrispondenti territori regionali e Marittima-Campagna la parte dell’attuale Lazio allora pontificia.
Rimasero scoperte a nord le Legazioni di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì e, con un’indubbia
forzatura che però premiava il riferimento storico
più consolidato, venne loro imposto il nome di
Romagna. Nel 1858, poi, la Legazione di Romagna fu trasformata in Legazione delle Romagne
con una durata di pochi mesi, in quanto i plebisciti del 1859 portarono i territori in questione in
seno al successivo Regno d’Italia.
Nel 1923 infine, per volere di Benito Mussolini, alla Romagna si aggiunsero i territori della
Romagna toscana, che a lungo erano stati sotto
il controllo politico e amministrativo toscano.
Tali circostanze non hanno però mai attenuato
il senso d’appartenenza, il comune sentimento,
della popolazione romagnola. Questo rimane, in
assoluto, il segno più caratterizzante di ogni coAnno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
munità saldamente omogenea. Resta, tuttavia,
fuori di dubbio che il termine Romagne, impiegato anche per fare riferimento a quelle porzioni
che per secoli sono state assoggettate dai confinanti, ha generato in seguito qualche confusione, e ha fornito pretesto, a diversi disinformati,
di riferirsi impropriamente al territorio romagnolo, anche negandolo. E’, in ogni caso, innegabile che Bologna e Ferrara sono sempre state
realtà del tutto diverse e distinte dalla Romagna,
e che Bologna, anche all’epoca delle Legazioni,
non ha mai esercitato delle funzioni egemoni e
sostitutive, rispetto al potere centrale, nei confronti delle romagnole. Sul piano dell’organizzazione ecclesiastica, in aggiunta, la Chiesa ravennate e romagnola ha sempre goduto di una certa
autonomia, con la denominazione di Flaminia,
certamente come conseguenza dell’antico Esarcato.
Nonostante questa palese e profonda identità
oggi la Romagna si trova a dover condividere la
regione con l’Emilia.
Quaderni Padani - 53
L’articolazione del territorio dello stato previ- qualcuno impugnasse il caso a pretesto, alla fine
sta dalla Costituzione italiana è discutibile sotto il voto non venne ripetuto; fu invece incaricato
vari aspetti, ma il caso più eclatante è senza il Comitato di redazione di determinare il nome
dubbio l’individuazione della regione Emilia-Ro- definitivo.
magna.
Questo effettuò un secondo colpo di mano inLa definizione di questa regione è stata un’in- serendo la denominazione “Emilia-Romagna”,
giustizia, perché figlia di procedure non confor- dicitura diversa per l’ennesima volta, che venne
mi e di equivoci.
infine approvata da un’assemblea coinvolta più
Il primo colpo contro l’autonomia della regio- da altre tematiche e da ravvicinate scadenze che
ne storica romagnola venne inferto dal Comita- non dall’autonomia della Romagna.
to di redazione della carta
Con la Costituzione del
costituzionale durante i
1948 assieme all’Emilialavori dell’Assemblea coRomagna, nacquero diverstituente, nel secondo dose altre regioni composite,
poguerra. Senza averne
come l’Abuzzo e Molise e
esplicito potere questo coil Friuli-Venezia Giulia.
mitato soppresse alcune
Per alcune si è passati poi
regioni che erano state ina soluzioni più radicali,
cluse dall’apposta sottocome nel caso dell’Abruzcommissione dopo ampie
zo e del Molise, divenute
consultazioni, anche poentrambe regioni nel
polari, e votazioni all’in1963, ma ciò non è avveterno dell’Assemblea. Le
nuto per la Romagna.
regioni erano infatti rimaIn questi anni la Romagna
ste solo diciannove: risulè stata trattata alla stregua
tavano depennate il Molidi cenerentola e oggi più
se, il Salento e l’Emiliache mai sono evidenti i riLunense. Il Friuli era stasultati della disparità di
to accorpato alla Venezia Il Gallo araldico di Romagna
trattamento all’interno
Giulia e compariva la dicidella regione Emilia-Rotura “Emilia e Romagna” a rappresentare non magna riguardanti in particolare l’università stasolo l’Emilia-Lunense, ma tutto questo più la tale, il tribunale amministrativo regionale, la corRomagna. Da quell’atto d’imperio scaturirono te d’appello, la sede Rai, gli ospedali specializzati,
nei giorni successivi numerose proposte di cor- i circuiti creditizi, il comparto turistico, le azienrezione sia in direzione più radicale che anti-re- de termali, la caccia e la tutela dell’ambiente.
gionalista. Vinse l’ordine del giorno, che recava
come primo firmatario Ferdinando Targetti, che Prospettive
prevedeva l’introduzione nella Costituzione di
Sia a livello regionale che italiano la situazioun apposito articolo che stabilisse le modalità ne pare però non avere vie di uscita. La battaglia
per la nascita e la modifica delle entità regionali. per questo riconoscimento non è facile, perché
La vittoria di questo contribuì però a far cadere la legge referendaria che regola la nascita o la
automaticamente gli emendamenti a favore del- fusione di regioni (art. 132), non prevede che a
l’introduzione della regione Romagna.
esprimersi sul quesito sia solo la popolazione reUn emendamento del deputato liberale Epi- sidente direttamente interessata al cambiamencarmo Corbino tentò, prima di procedere alla to della Regione stessa, cioè nel nostro caso i sovotazione finale sull’elenco delle regioni, di to- li romagnoli ma, sempre rimanendo nel nostro
gliere dalla denominazione regionale il termine ambito, anche gli emiliani. Anche questa ipotesi
“Romagna”. Esso venne subito approvato, ma ne però è alquanto remota, perché a monte occornacque una generalizzata ribellione che coinvol- rerebbe il voto favorevole dei consigli comunali
se l’intera aula di Montecitorio. Vista la situazio- e provinciali dei comuni intenzionati a costituine, il presidente Terracini si rimise alle decisioni re la nuova regione, nonché quello di tanti condell’assemblea che si dichiarò favorevole alla ri- sigli provinciali o comunali che rappresentino
petizione del voto. Quest’ultima decisione sol- almeno un terzo della restante popolazione della
levò un vespaio al punto che, per timore che regione dalla quale è proposto il distacco.
54 - Quaderni Padani
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Biblioteca
Padana
Trasgressioni. Quadrimestrale
di cultura politica, numero 25
(1998) e numero 26 (1998).
Il nome di Marco Tarchi è ben
noto a chi si occupi di studi politici e istituzionali. Pur riconoscendo la sua serietà metodologica e storiografica, gran
parte dell’apparato culturale liberal gli attribuisce posizioni
politiche personali a dir poco
oscure. Al contrario, attento e
metodico studioso della crisi
politica dei regimi democratici
(e il fenomeno del “leghismo”
non poteva non passare attraverso la sua lente meticolosa
ed esigente), Tarchi è animatore di un orizzonte culturale
che si definisce, con orgoglio,
“non conformista”. In questa
prospettiva, dirige e coordina
due importanti riviste: il quadrimestrale di cultura politica
Trasgressioni e il mensile di attualità culturali Diorama letterario. Negli ultimi numeri di
Trasgressioni si leggono due
articoli di Tarchi che senz’altro
interesseranno il lettore: “Il
‘crimine’ etnopluralista”, sul
numero 25 (l’articolo è apparso
anche, con lo stesso titolo, nel
numero 20/1998 di Tellus, rivista di geofilosofia), e “Le radici
della crisi italiana e le scorciatoie dell’ingegneria istituzionale”, sul numero 26. Quest’ultimo riporta anche una ben curata analisi di Pietro Montanari
sul “Documento per un nuovo
federalismo” di Cacciari. Già da
una prima lettura ci si può rendere conto della serietà del
“prodotto” e della sua indubbia
utilità documentaria.
L’articolo sul “‘crimine’ etnopluralista” è una risposta critica di Tarchi alle posizioni di
Bruno Luverà (di cui i lettori
ricorderanno gli interventi non
sempre benevoli nei confronti
dei Quaderni, pubblicati su Limes. In particolare, il riferimento è a: “La politica estera
della Lega”, Limes. 2/1997, pp.
87-96) e ai detrattori dell’idea
federalista. La risposta è analitica e rigorosa, non mancando
però gli spunti polemici. Accanto a una certa confusione
metodologica, Tarchi rimarca,
respingendola, la volontà di
inutile criminalizzazione che
accompagnerebbe le posizioni
di Luverà. Certo, se il federalismo della Nuova destra (si veda, a tal proposito, l’ottima antologia curata da Alessandro
Campi, La rivoluzione federalista. Roma: Edizioni del Settimo Sigillo, 1997), di cui Tarchi, assieme ad Alain de Benoist, è animatore, non sempre è
compatibile con il federalismo
libertario tout court da noi in
gran parte proposto, è comunque da rilevare che punti di
contatto e di serio confronto
non mancano. Ma anche questo, giustamente, non è un
“crimine”, è libertà di discussione e di posizione.
L’articolo sul numero 26 di
Trasgressioni, parte da una
questione fondamentale nella
ricostruzione della dinamica
della crisi del sistema italiano.
la latenza della crisi stessa nel
piano dei governi di centro sinistra. La “crisi italiana” viene
così analizzata da Tarchi secondo i suoi sviluppi, seguendo i
suoi tempi lunghi, e abbandonando gran parte dei luoghi
comuni tra Prima Repubblica e
Seconda Repubblica, e mostrando infine continuità e divergenze nel segno di quella la-
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
tenza, diventata, col tempo,
“patenza”.
Le riviste, dal prezzo contenuto, sono facilmente reperibili
in libreria, ma per informazioni ci si può rivolgere alla Cooperativa culturale “La Roccia di
Erec” di Firenze (che coordina
anche un bel servizio di offerte
librarie), telefonando allo 0552340714.
Marco Dotti
La Vallassina. Identità
e memoria nella storia
di una Valle Lariana
Nell’area più interna del Triangolo Lariano, penisola compresa fra i due rami del Lago di
Como, un’antica vallata che
prende il nome dal borgo di Asso si configura come un’area
socioculturale e ambientale vitale, luogo dalle grandi potenzialità attrattivo-turistiche e
tecnico-imprenditoriali. La Vallassina è il cuore del Triangolo
Lariano e la sua identità più
antica ci è stata tracciata da un
Vallassinese che, più di due secoli fa, testimoniò con la sua
documentata trattazione storica, l’attaccamento alla sua terra, rendendo possibile la ricostruzione della storia della Vallassina, sua «Patria», dall’epoca
romana fino alla fine del XVIII
secolo circa.
Il sacerdote Carlo Mazza (versatissimo nella storia sacra e
civile, dottore in Teologia e
«lettore delle lingue orientali e
diritto canonico», prevosto di
Asso dal 1774 al 1808) è l’autore del manoscritto Memorie
storiche sopra la religione, stato civile e politico e varie epoche, della Vallassina con una
disertazione sopra i più antichi
di lei monumenti (1796) che ci
rimanda un quadro dello «stato
Religioso, Civile e Politico (dei
Quaderni Padani - 55
Biblioteca
Padana
Vallassini), dove in un colpo
d’occhio potranno instruirsi
delle loro vicende dalla prima
origine fino ai nostri tempi» e
ci introduce alla Valle in modo
semplice e immediato sin dal
Proemio del suo testo. Infatti recita l’autore -, «La vasta pianura del Milanese che dalla
parte del Nord sollevasi insensibilmente in amene colline
che portano il nome generale
di Monte di Brianza, s’alza finalmente in alte montagne le
quali formano un triangolo, e
penisola intracchiusa fra i due
rami del Lario che terminano
uno a Como, l’altro a Lecco.
Frammezzo a questa lingua di
terra, nel cui apice sta Bellaggio ed Asso nella base, corre
dal Sud al Nord una popolosa
Valle chiamata Assina dal Borgo di Asso che n’è il principal
paese e capo di dieci terre, oltre ai molti Cassinaggi ed Alpi
56 - Quaderni Padani
in essa dispersi». Asso, «reso
ameno da vari e grandiosi edifici di seta e tintorie, e da una
cascata di un fiume che si rovescia da un’alta rupe a piombo
nella sottoposta vasca», con «le
tre Torri che s’ergono nel sito
più eminente del Borgo, il letto
del fiume, il ponte, le case civili
frammezzo alle rustiche, le due
terre di Pagnano e Fraino a lui
sovrastanti, l’elevate e visibili
pianure di Gemù e di Caglio e
le terre che si scorgono in lontananza, avvivano il fondo e
fanno il chiaroscuro d’un ben
intenso quadro di prospettiva»;
la Valbrona e Visino a levante;
Lasnigo, Barni e Magreglio
confinante a settentrione con
Civenna, allora Feudo Imperiale dei PP. Cistercensi; Sormano, Rezzago e Caglio a Ponente
sono le terre che compongono
quest’operosa Valle, «uno dei
più doviziosi Distretti di Lombardia».
Il manoscritto del prevosto
Mazza - che è composto da due
volumi - riassume, quindi, le
memorie storiche, religiose e
politiche della Vallassina dalle
“origini” fino al XVIII° secolo. Opera che pur con i
suoi limiti, è una fonte di
notizie imprescindibile accanto agli archivi parrocchiali - per la conoscenza della storia, della
cultura e delle tradizioni
della Valle e che ci rimanda il sapore di un mondo
che la profonda trasformazione sociale e culturale seguita agli eventi della
Rivoluzione Francese ha,
poi, irrimediabilmente
cancellato. Benché l’opera
non fosse mai stata data
alle stampe prima del
1984 fu, inoltre, fonte di
riferimento per gli studi
di numerosi storici lom-
bardi e comaschi. Basti ricordare Ignazio e Cesare Cantù.
Quest’ultimo in particolare ha
utilizzato - forse per primo - il
manoscritto, come egli stesso
racconta, nella Storia di Como
e sua Provincia.
Le Memorie storiche della Vallassina sono articolate in un
Proemio, che tratta di notizie
topografiche e interessanti
considerazioni sopra i primi
abitanti e le più antiche vicende della Vallassina; una Parte
prima, intitolata Sulla religione, nella quale l’autore tratta
delle origini della religione cattolica in Vallassina, delle pievi
e dei vicariati. Di particolare rilievo è, inoltre, una descrizione
delle chiese della Vallassina (le
più antiche, alcune preesistenti
alle attuali) con i disegni e le
relative misure. Vi è pure una
rassegna degli antichi monasteri e delle confraternite.
Il primo volume del manoscritto si conclude con l’accenno a
una serie di personaggi venerabili, nati o vissuti nella Valle.
Il secondo volume - la Parte seconda - tratta, invece, Delle cose memorabili di Vallassina dal
punto di vista storico, politico
ed economico. Dopo aver tracciato un quadro della storia generale della Valle dai suoi tempi più antichi fino al presente
(1766), il manoscritto prosegue
con un capitolo sulla Signoria
e Feudo di Vallassina e sui numerosi castelli o torri della Valle per poi passare a trattare dello Statuto Municipale e di altre
leggi con cui la Valle si resse
per circa sei secoli. L’autore descrive a lungo i privilegi e le
esenzioni godute dalla Vallassina fino al 1765. Segue, poi, un
interessante capitolo sulla popolazione antica e moderna
della Valle e sul talento dei Vallassinesi e loro industria. Ed
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
infine, dopo un capitolo sul
particolare dialetto della Valle,
chiamato «Spasello», il secondo manoscritto termina con
notizie inerenti il clima e gli
aspetti meteorologici.
Dice lo stesso autore nel Proemio del manoscritto: «Ho dato
all’opera il titolo di memorie, e
l’ho divisa per materie, poiché
ognun vede che i fasti di un
picciol distretto non possono
fornire né molti fatti né sempre connessi per tesserne una
storia seguita con ordine cronologico. Mi è stato anzi d’uopo di riempire i vuoti di più secoli colle generali notizie, per
altro a noi comuni, dei popoli
confinanti e del resto della nostra Provincia». Inoltre, rivolgendosi al lettore, il prevosto
Mazza lascia trasparire il suo
amore per i Vallassini, come
egli affettuosamente li chiama,
«pel cui vantaggio e piacere
principalmente ho inteso di
scrivere. Se tanto avrò potuto
ottenere, mi stimerò ben soddisfatto di tutto questo penoso
mio travaglio».
Pagina dopo pagina, l’identità
di una terra viene ricostruita e
ci viene tramandato tutto lo
spessore di secoli di storia che
hanno tessuto il destino di un
territorio, la sua identità, la
sua memoria.
Come lo stesso autore afferma
nel Proemio del manoscritto,
ciascun popolo non rimane indifferente a ciò che gli dà identità e lo costituisce come popolo. Infatti: «Non vi ha alcun Popolo, né forse Uomo alcuno,
che non ascolti col più vivo interesse le notizie spettanti al
proprio Paese e che non abbia
desiderato sovente di sapere
quali siano stati i primi suoi
cominciamenti, i progressi, le
vicende nel corso di tanti secoli». E prosegue, poi, «Io ben
m’avvidi di ciò all’occasione
che feci un’omelia nel giorno
della dedicazione della mia
Chiesa, spiegando queste parole dell’Apostolo: “Rememoramini pristinos dies” in cui mi
fu d’uopo accennare alcune
delle antiche memorie patrie, il
che fu sentito con istraordinaria soddisfazione e divenne per
più giorni il soggetto dei comuni discorsi e di mille curiose dimande fattemi in appresso».
E scorrere oggi le memorie
tramandateci dal prevosto Mazza, può voler dire ancora molto. Ma, soprattutto, vuol dire
cercare di ricostruire e “ri-velare” l’identità di tante piccole
patrie a cui ci si sente di appartenere nonostante il continuo
tentativo - messo in atto nell’attuale società dai centralismi
burocratici - di cancellare i popoli, vestali delle autonomie e
delle tradizioni. E’ una piccola
storia, la storia di una terra
«longa 5 miglia italiane e 200
trabucchi» che come la storia
di tante altre terre, magari non
scritta, ci parla di sentimenti e
di valori di piccoli o di grandi
uomini, ci racconta di spazi intimamente legati alle vicende
degli uomini e ci aiuta a riscoprire e a tessere la trama di
una tessera di quell’identità negata che, comunque, ci appartiene.
Dalle Memorie storiche esce vivida la forza del sentimento di
appartenenza a una terra e alla
sua gente. Una terra, con le sue
caratteristiche fisiche e il suo
clima, influisce sicuramente
sul carattere del popolo che la
abita, ma il rapporto è vicendevole. E’ la gente che la abita e
la lavora a plasmare la propria
terra rendendola unica, diversa
da ogni altra, imprimendole il
proprio “marchio”. In questo
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000
Biblioteca
Padana
senso, un omaggio alle terre
della Vallassina è un omaggio
alla sua gente, un atto d’amore.
Ma si può amare veramente solo ciò che si conosce. Soltanto
chi conosce le proprie radici sa
da dove viene, ha coscienza
delle proprie tradizioni, è in
grado di dialogare con le altre
culture. Solo chi possiede la
storia e la cultura della propria
terra ne sa anche riconoscere i
pregi e i limiti e sa migliorarla
là dove è migliorabile.
E che i Popoli di Vallassina, in
terra di Padania, possano trarre
rafforzata - attraverso l’antica
testimonianza del prevosto
Mazza - la conoscenza, il recupero, l’interpretazione e la
reinvenzione di una terra e
l’impalcatura storica fra passato e presente della Valle, al fine
di riscoprirne gli elementi che
nel tempo hanno dato identità
e autonomia a un territorio
che non sempre le istituzioni
locali, dimentichi della forte
tradizione cui i loro padri hanno dato vita, hanno saputo riconoscere, salvaguardare e far
evolvere.
Giulia Caminada Lattuada
Simon James
I Celti, popolo atlantico
Newton Compton, pagg. 180,
Lire 9.900
Vasta eco ha prodotto in Inghilterra ed America il saggio
di Simon James “I Celti atlantici. Antica civiltà o moderna
invenzione?”. Ora è stato tradotto in lingua italiana grazie
ai tipi della Newton Compton,
col titolo un po’ ambiguo di “I
Quaderni Padani - 57
Biblioteca
Padana
Celti, popolo atlantico” (pagg.
180, Lire 9.900).
La tesi del noto archeologo è
presto detta: nelle isole britanniche, contrariamente a quanto asserito dalla storiografia
tradizionale, i Celti non sono
mai vissuti. C’erano, prima dell’invasione degli Angli e dei
Sassoni, delle popolazioni aborigene che nulla avevano a che
fare con l’etnia celtica se non
per alcuni scambi culturali, comunque marginali, coi Celti
veri, quelli che abitavano sul
continente.
Il falso mito della Britannia
celtica sarebbe nato solo nel
Settecento, a fini di rivendicazione nazionalistica e autonomistica da parte dell’Irlanda e
della Scozia: prova ne sia il fatto che nessuno, prima del Settecento, nelle isole si definiva
celta o discendente di Celti.
I vari popoli detti dagli antichi
“atlantici” presentavano oltretutto delle notevoli differenze
tra di loro, che dimostrano la
mancanza di un ceppo comune. I famosi druidi sarebbero
una peculiarità solo insulare,
che non corrisponde alla vera
cultura celtica, meno “sanguinaria” ed “esoterica” di quanto
si sia finora creduto. Altri caratteri e comportamenti che la
letteratura britannica ed europea ha attribuito ai Celti d’oltremanica andrebbero rivisti e
ridimensionati.
Chi sarebbero allora i veri eredi
degli antichi Celti? Sir James
lascia intendere che solo francesi e svizzeri (ex galli transalpini) e padani (ex galli cisalpini) possono rivendicare appie58 - Quaderni Padani
no questa eredità. In
particolare nell’Italia
settentrionale sono stati
ritrovati abitati, reperti
e manufatti che testimoniano inequivocabilmente la medesima
identità celtica riscontrata a nord delle Alpi.
Dalle zone del Reno e
del bacino altodanubiano i Celti si sarebbero
diffusi per l’Europa continentale e occidentale,
senza mai superare la
Manica.
Il testo di Simon James
si divide in una prima
parte di fase destruens
ed una seconda di fase
construens.
Riporta dapprima i presupposti e i limiti della storia
ufficiale, che viene criticata per
l’eccessivo piglio antropologico
destinato a generare delle false
classificazioni: gli antropologi
infatti vorrebbero incasellare
subito qualsiasi cultura in una
grande famiglia etnica, mentre
la realtà, quale risulta dalle ricerche degli archeologi, risulta
sempre molto più complessa,
specifica e frammentata. Inoltre la manualistica storica risulta il frutto della mentalità
dell’epoca in cui viene scritta e
delle ideologie che la contraddistinguono, al di là delle stesse buone intenzioni dello studioso. Ad esempio gli storici inglesi dell’Ottocento e del Novecento hanno visto inconsciamente nell’esistenza di un puro popolo celtico nelle isole
britanniche, caratterizzato da
riti ancora arcaici, la dimostrazione della superiorità dell’etnia anglosassone, venuta oltremanica a portare la “vera civiltà”.
Del resto - fa intendere l’autore
- la stessa linguistica e una
scienza naturale come la genetica non sono mai riuscite a dimostrare l’esistenza di un’unica grande lingua diffusasi sulle
isole e legata strettamente a
quella gallica da una parte e
una vera omogeneità biologica
tra irlandesi, gallesi e scozzesi
dall’altra. Va scritta allora una
nuova storia etnica delle regioni atlantiche, le cui linee principali vengono appunto proposte negli ultimi capitoli del libro, attraverso paragrafi dal titolo illuminante: “Dall’età del
bronzo all’età del ferro”, “I regni indigeni dopo i Romani”, “I
Vichinghi, elemento catalizzatore o etnogenesi?”.
Nel complesso il libro del James si propone come il tassello
di un nuovo mosaico storiografico ed etnologico che potrebbe
presto portare anche al definitivo riconoscimento della reale
identità etnica della Padania rispetto all’Italia e alle nazioni
periferiche dell’Europa, facendo sempre più riconoscere la
cultura celtica come “madre
della Mitteluropa”.
Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000