DALLA NEW ECONOMY ALLA NEW SOCIETY MITI E REALTÀ DI
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DALLA NEW ECONOMY ALLA NEW SOCIETY MITI E REALTÀ DI
CONFINDUSTRIA _______________________________________________ DALLA NEW ECONOMY ALLA NEW SOCIETY MITI E REALTÀ DI UNA RIVOLUZIONE IN CORSO TESI DEI GIOVANI IMPRENDITORI _______________________________________________________ Relazione del Presidente EDOARDO GARRONE _______________________________________________________ Santa Margherita Ligure, 9 - 10 giugno 2000 2 Cari amici, ringrazio tutte le Autorità e gli ospiti presenti. Questo è la trentesima edizione del nostro Convegno di Santa Margherita Ligure, che per noi Giovani Imprenditori è sempre stato un importante momento di incontro e di riflessione, sui temi della modernizzazione dell’Italia. Il tema di quest’anno è la new economy, i suoi effetti sul mondo dell’impresa, ma anche sulla società, sulle istituzioni. La new economy rappresenta una grande opportunità di sviluppo, ed è ormai molto evidente. Negli ultimi cinque anni il numero di computer collegati ad Internet è aumentato di circa 15 volte, e gli ultimi dati disponibili riportano oltre 370 milioni di utenti. Ma già per il 2003 si stima che i collegamenti saranno oltre 500 milioni. In Italia le persone collegate ad Internet sarebbero già oltre 10 milioni, con una crescita di circa il 25% ogni sei mesi. A fronte di questa rapidissima espansione di Internet, in alcuni Paesi e soprattutto negli Stati Uniti, si è verificato un intenso sviluppo di nuovi settori di attività. In questo paese, solo nei servizi basati sull’informazione, in questi cinque anni sono stati creati oltre due milioni di posti di lavoro e altrettanti sono previsti nei prossimi anni. Grazie alla nuova economia, la crescita del Pil delle maggiori economie industriali potrebbe aumentare di un quarto di punto all’anno. Noi Giovani Imprenditori condividiamo l’entusiasmo per le nuove opportunità offerte dalla diffusione delle tecnologie di comunicazione e della rete. Ma siamo convinti che il cambiamento sarà tanto più efficace e positivo quanto più verrà rispettato un sistema di coerenze con le regole e le logiche della new economy. In particolare, vogliamo dimostrare, con questo Convegno, che queste trasformazioni nei comportamenti e nelle scelte di imprese e cittadini non possono prescindere dalla risoluzione di alcuni nodi critici del Paese. Nodi e vincoli che 3 esistono da ben prima che nascesse la new economy, ma che ora ne minacciano seriamente lo sviluppo. Il rischio è che una grande opportunità di crescita diventi una caduta di competitività rispetto alle economie più avanzate. Per non perdere anche questo treno è fondamentale che si ridefinisca con chiarezza e determinazione quali sono le priorità del Paese. La diffusione di Internet e gli sviluppi delle tecnologie di comunicazione stanno dando luogo ad una vera e propria economia della connessione. Questa, però, questa non riguarda solo la web economy, ma tutti i settori dell’economia: se molte imprese continueranno a produrre con tecnologie non troppo diverse da quelle di oggi, saranno però integrate in un contesto più articolato e complesso. Il motore dello sviluppo non sarà rappresentato solo dai settori più direttamente collegati alle nuove tecnologie. Soprattutto per un Paese come il nostro, fortemente specializzato in settori tradizionali, è importante che l’entusiasmo per la new economy non porti a considerare di minor valore strategico tutto ciò che non lo è. Sarebbe un errore alimentare l’idea che sia sufficiente creare un sito web per sfruttare le potenzialità del commercio elettronico ed entrare nella nuova economia. Internet appare a molti come “un romantico paradiso per giocatori d’azzardo, pieno di promesse impossibili”, ma in realtà è ancora un mondo strano e sconosciuto. E l’e-commerce non è solo tecnologia, hardware e software, ma principalmente marketing, vendite, logistica, servizio al consumatore. Si tratta di offrire al cliente il prodotto che vuole, nel modo che preferisce. La grande sfida per noi imprenditori è quella di saper cambiare il nostro modo di fare impresa, di investire in qualità e organizzazione, prima ancora che in tecnologia. Dove esiste già una cultura della rete e della connessione, Internet produrrà molto probabilmente importanti vantaggi e un rapido ampliamento del mercato. Ma dove tale cultura è assente, Internet non produrrà affatto i vantaggi dell’integrazione. 4 L’economia della connessione genera da un maggiore grado di concorrenza su tutti i mercati, più forte di quanto molti immaginano. Sarà fondamentale saper essere in rete. Chi rimarrà isolato rischierà di essere confinato in un contesto esclusivamente locale e subirà comunque la concorrenza di un numero vastissimo aziende. Nuove, piccole, grandi, italiane e straniere. Non ci sarà spazio per i mediocri, poiché non esisteranno mercati protetti e scompariranno tutte le piccole e grandi rendite di posizione in cui hanno vissuto molte aziende e specialmente quelle pubbliche. Oggi chi non innova e non investe, inesorabilmente esce dal mercato. Ma la new economy rappresenta anche una grande opportunità per superare quei pesanti vincoli alla creazione di impresa che oggi ben conosciamo. Creare un’attività che offre servizi sulla rete è relativamente più semplice rispetto ad altri settori, perché richiede apporti di capitale finanziario e fisico relativamente limitati. Il capitale principale è infatti costituito dalla rete stessa, che, all’inverso dei prodotti tradizionali, cresce di valore con la sua diffusione. La rete quindi, è un’importante occasione per i giovani di accedere al mondo dell’impresa e dare luogo così ad una “young economy”, ad un’economia della nuova generazione, che è essenziale per il futuro di questo Paese. La new economy è anche una grande opportunità per ridurre il gap economico e di sviluppo del Mezzogiorno. Oltre alle caratteristiche già citate, le iniziative sulla rete incontrano generalmente minori costi burocratici, minori barriere all’entrata, minore penalizzazione per il controllo del territorio. Tutti fattori che ancora penalizzano il fare impresa nel Sud. Le potenzialità non mancano e i dati più recenti segnalano una rapida diffusione dei collegamenti ad Internet e del commercio elettronico anche nel Mezzogiorno, nonostante la limitata diffusione delle reti ad alta velocità e l’assenza di una rete logistica efficiente. D’altro canto, se lo sviluppo delle infrastrutture di rete può dare un contributo importante alla crescita di queste regioni, la new economy non deve diventare un alibi per non affrontare con 5 determinazione i noti ostacoli che fino ad oggi hanno reso difficile fare impresa in queste aree. Il vero problema per una sana e utile politica industriale non è allora semplicemente incentivare la corsa al commercio elettronico e favorire la diffusione della rete. Si tratta piuttosto di creare i presupposti per il rafforzamento del nostro sistema produttivo e soprattutto per le nostre piccole imprese. Occorre costruire le condizioni necessarie e favorevoli alla definizione di obiettivi di crescita più ambiziosi, adottando strategie di internazionalizzazione nel medio periodo, facendo della dell’innovazione e del controllo di qualità un’attività prioritaria dell’impresa. Ciò è possibile con misure ad hoc, di cui qualcuna già attivata, anche se la lentezza burocratica con cui tali incentivi sono gestiti fa sì che raramente essi riescano a realizzare gli obiettivi per cui sono stati creati. Per fare ciò non chiediamo incentivi. Chiediamo invece una decisa riduzione della pressione fiscale e una radicale revisione della regolamentazione del lavoro e dell’assurdo sistema di soglie che penalizzano la crescita. Di fronte a queste barriere, gli impredinitori sono costretti a sacrificare le proprie aspirazioni e a contrastare il proprio naturale istinto: che non è solo quello di realizzare profitti, ma di far crescere la propria azienda. Ridurre l’imposizione sul reddito d’impresa, sui guadagni di capitale e soprattutto sugli utili reinvestiti, non significa chiedere sussidi. Significa chiedere di essere messi in condizione di far crescere le nostre aziende, di far crescere l’occupazione e l’economia, di far crescere il Paese. Per questo sono proprio le imprese a chiedere di abbandonare la politica del dare e avviare quella del togliere. Inoltre, è fondamentale che la creazione di nuove imprese, specialmente da parte dei giovani, diventi una delle principali priorità. Non solo nella new economy, ma in tutti i settori produttivi. Si potrebbe introdurre un’esenzione decennale da tutte le imposte societarie e applicare una tassazione ridotta sul capital gain per le nuove imprese, favorendo in modo particolare quelle create da giovani. Ciò non solo 6 renderebbe più probabile il consolidamento dopo i primi anni di vita, ma faciliterebbe il reperimento di fonti di finanziamento. E’ probabile che molte di queste nuove aziende non riuscirebbero a generare idee e qualità tali da resistere alla concorrenza, ma l’elevata mortalità aziendale è una caratteristica intrinseca di un’economia di mercato vivace e dinamica. Piuttosto, è fondamentale rivedere completamente la legislazione italiana del fallimento, magari intervenendo a livello comunitario, sul modello dei sistemi anglosassoni. Ciò eviterebbe di penalizzare in modo eccessivo chi ha sbagliato strategia o partner, dandogli la possibilità di riprovare adottando strade alternative. L’economia della connessione è l’economia della conoscenza, delle competenze tecnologiche, della cultura della comunicazione e della gestione del cambiamento. Il futuro della nuova economia, ancor più che nella vecchia, dipende quindi, in modo cruciale dalla nostra capacità di dotarci di un sistema formativo moderno, più vicino al mondo delle imprese e coerente con le trasformazioni in corso. L’Italia non solo non ha i tecnici del software per far girare la nuova economia, ma neanche gli operai specializzati da impiegare nei settori di tradizionale forza e nei distretti manifatturieri. Mancano i periti richiesti dalle nostre piccole imprese; mancano i laureati in materie tecniche e sono rare eccezioni gli atenei che hanno stabilito contatti permanenti con le imprese localizzate nel proprio territorio. Siamo invece la patria dei laureati in lettere, degli aspiranti avvocati, degli umanisti incalliti. La new economy che premia la capacità di comunicare rappresenta un’opportunità per valorizzare il grande patrimonio culturale e intellettuale del nostro Paese. Ma senza una buona familiarità con la tecnologia, e un’elevata capacità di apprendimento questo capitale umano rischia di essere sprecato. Non possiamo più pensare di competere nella new economy con una scuola che non insegni il valore dell’impresa, della tecnologia e del rischio. Che non crei istituzionalmente e regolarmente momenti di contatto con il mondo del lavoro e della produzione. Non possiamo più accettare di lasciare l’Università solo in mano 7 alla corporazione dei professori universitari. Non possiamo più permetterci di gestire la formazione degli studenti senza dover rendere conto a nessuno della loro effettiva impiegabilità. E non è etico, perché saranno i giovani a pagare gli errori di questa generazione. Accanto a quella della formazione, la rivoluzione della comunicazione e quella della globalizzazione che da essa dipende, rendono sempre più urgente la riforma del mercato e della regolamentazione del lavoro. La nuova economia, infatti, determina una nuova organizzazione del personale, che deve essere più flessibile. Si riducono i cicli di vita delle aziende, le trasformazioni sono intense e molto rapide, la competizione diventa sempre più severa. Inoltre, nei settori più dinamici, e soprattutto in quelli dei servizi, o nelle produzioni che nel servizio hanno un forte vantaggio competitivo, diventa essenziale il coinvolgimento dei lavoratori per il raggiungimento degli obiettivi aziendali e la condivisione dei risultati economici. Dunque, minori schematismi salariali, maggiore attenzione ai premi in base ai risultati e soprattutto incentivazione alla diffusione delle stock option. Sullo sfondo c’è necessariamente un sistema di relazioni industriali che si basi sulla possibilità di condividere, a vari livelli, rischi e successi dell’impresa. Ciò significa abbandonare le vecchie logiche della contrapposizione tra impresa e lavoratore e della rigidità delle formule contrattuali. L’obiettivo deve essere invece, quello di estendere al lavoratore la cultura di impresa, condividendo con lui gli obiettivi del progetto dell’azienda e le sue sorti. Per questo, oggi non ha più senso chiedere all’impresa di garantire un posto fisso. Il livello di concorrenza e la rapidità del cambiamento sono tali che anche le aziende più grandi, non sono più in grado di pianificare le loro strategie e il loro futuro con orizzonti di medio o lungo periodo. La sopravvivenza stessa dell’impresa sarà condizionata dalla rapidità e dalla flessibilità con cui saprà ad ottare nuove tecnologie, diversificare in nuovi settori, decentrare in un’ottica di globalizzazione e dotarsi di nuove competenze. Continuare a garantire un posto fisso non ha più 8 senso in un mondo che corre dieci volte più veloce di quando queste regole sono state introdotte. Così come appare del tutto incoerente con le esigenze della nuova economia l’attuale sistema della previdenza e dell’assistenza, che è stato appena scalfito dalle riforme degli anni passati, come ha recentemente ribadito anche l’Ocse. Questo sistema non solo divide il Paese tra privilegiati e penalizzati, ma non offre nulla a chi sarà maggiormente penalizzato dal cambiamento in atto. La nuova economia richiede allora un nuovo modello di ammortizzatori sociali che rinnovi profondamente la tradizione europea del welfare state e si preoccupi di compensare i costi sociali delle trasformazioni in corso. Un sistema come quello attuale, basato tutto sulla logica previdenziale, è stato ideato per cicli di lavoro lunghi e tendenzialmente stabili. Adesso, invece, di fronte a cicli corti, flessibili e innovativi, è necessario pensare ad un vero e proprio welfare della formazione e del reinserimento produttivo. Purtroppo, la campagna referendaria contro l’abolizione dell’istituto del reintegro, presente in questa forma assurdamente punitiva solo nel nostro Paese, ha visto l’esplosione della demagogia sindacal-populista e ha fatto fare all’Italia un passo indietro di almeno dieci anni. I sindacati e l’ala più ideologica della sinistra continuano a rendere più difficile e traumatica la transizione verso un nuovo concetto del lavoro e una nuova identità del lavoratore. E facendo ciò penalizzano non solo le imprese, ma anche e soprattutto gli stessi lavoratori. I sindacati si sono arroccati nella difesa degli interessi di una parte sempre più ristretta di lavoratori, quella che ha più da perdere dalle nuove logiche del lavoro, basate sulle competenze, sulla motivazione e sulla responsabilità. Sebbene anche nel sindacato non manchi chi stia cominciando a prendere coscienza delle profonde trasformazioni nel mondo del lavoro e dell’impresa, la cultura di fondo rimane quella della difesa dei privilegi acquisiti. Per questo, all’interno del sindacato queste timide aperture si confrontano con una strenua lotta alla riforma delle 9 pensioni, alle ristrutturazioni delle grandi aziende pubbliche e all’introduzione della flessibilità come regola e non come eccezione. Eppure, le esperienze di paesi più avanzati del nostro in questo processo di trasformazione, ci mostrano chiaramente che lo scambio, oggi, è tra privilegi per pochi o lavoro per molti. E ci insegnano che si possono creare molti posti di lavoro con la flessibilità, l’innovazione e la formazione. Negare la relazione tra flessibilità e occupazione è un’ipocrisia che dobbiamo definitivamente superare. Il fatto che la quasi totalità dei nuovi posti di lavoro è composta da contratti a tempo determinato, o da lavoro interinale è la prova più evidente della forte necessità di superare i vincoli e le barriere di una regolamentazione assurdamente rigida. I dati positivi sull’attuale andamento dell’economia non devono trarci in inganno. Tutti sappiamo bene che essi non dipendono in alcun modo dal successo di riforme strutturali e che i nostri problemi continuano a condizionare il nostro sviluppo, in Italia, come in altri paesi d’Europa. Sono proprio questi problemi che ci rendono completamente indifesi dalle forti oscillazioni dei cicli economici. Prova ne è la valutazione negativa che, nonostante i recenti dati positivi, i mercati valutari continuano a dare della moneta europea. E’ ora di dire basta, quindi, a chi sostiene che è meglio uno sviluppo modesto ma nel rispetto dei privilegi acquisiti, invece di una crescita sostenuta, secondo le regole e le logiche del mercato. Basta con la rassegnazione a crescere sempre meno dei nostri partner europei. Basta con le continue minacce di conflitti sociali e di scioperi indiscriminati. Nessuno vuole il conflitto. Ma non possiamo e non dobbiamo fermare un cambiamento, che rappresenta un’occasione di crescita per tutti: questo Paese è pieno di risorse nuove, di voglia di andare avanti, di idee e di progetti. 10 I giovani, quelli che cercano un lavoro, quelli che con grande impegno hanno acquisito una piccola o grande formazione non ci cascano. Tutte le indagini sociologiche sulle attitudini dei giovani al lavoro registrano una crescente disponibilità alla flessibilità e alla mobilità. Si sta superando gradualmente il mito del posto fisso e cresce invece la consapevolezza che chi sostiene un sistema rigido di garanzie e protezioni non sta dalla loro parte. I giovani non si riconoscono nel sistema di priorità imposto dal sindacato, non ci stanno ad anteporre le garanzie alle opportunità, non accettano di premiare l’anzianità a danno delle competenze e del merito. E’ ora di abbandonare la logica della concertazione fine a se stessa, basata più sull’esigenza di giustificare la propria esistenza, che di difendere diritti di lavoratori che sempre meno vogliono essere difesi secondo queste logiche. Se il sindacato vuole svolgere un ruolo nella new economy e nella new society, deve trovare il coraggio e la forza di contribuire a costruire un sistema di relazioni industriali che sia coerente con mercati più competitivi e con le nuove esigenze di flessibilità, di mobilità, di efficienza e di formazione continua. Dobbiamo aiutare i lavoratori a comprendere che abbiamo tutti da guadagnare da una diversa organizzazione del lavoro, meno rigida e centrata sul diritto di tutti alle opportunità e non alle garanzie per pochi. Ma per far questo il sindacato deve spogliarsi delle antiche armature della contrapposizione tra impresa e lavoro, dell’incompatibilità tra profitto e interesse del lavoratore. Occorre, invece, pensare seriamente a come gestire questa trasformazione, senza bloccarla. Noi Giovani Imprenditori proponiamo un nuovo patto per lo sviluppo tra tutte le forze più dinamiche del Paese, distinguendo tra chi vuole contribuire alla modernizzazione e chi persegue in modo miope solo i propri interessi immediati, o quelli dei pochi che rappresenta. Affrontando una revisione dello Statuto dei lavoratori, abbandonando la logica del tutto è vietato eccetto ciò che è concesso, e riscrivendo ex novo le regole del lavoro nell’era della new economy. 11 Se riusciremo a superare la demagogia dell’anacronistica difesa di posizioni e privilegi, e l’ipocrisia di chi ancora pretende di credere a vie di sviluppo diverse dal mercato e dalla flessibilità, allora saremo in grado di costruire un modello di società italiana ed europea che coniughi crescita e solidarietà. Non so se sarà una terza o una quarta via, ma siamo convinti che sia veramente possibile costruire un modello di sviluppo coerente con la nostra cultura e con le regole del mercato e della new economy. Se non ci riusciremo, saremo responsabili di aver incatenato il Paese e di avergli negato quello sviluppo che oggi la nuova economia rende più rapidamente raggiungibile. Oltre alla formazione e al lavoro, una terza area di riforma che oggi appare del tutto incoerente con le logiche della nuova economia è quella della Pubblica Amministrazione. In altri paesi le imprese possono contare sull’alleanza di una Pubblica Amministrazione che offre loro servizi efficienti a costi ridotti se non addirittura in modo gratuito. In Italia, invece, non solo le imprese sono costrette a comprare sul mercato gli stessi servizi, ma devono fare fronte anche agli innumerevoli ostacoli che proprio la Pubblica Amministrazione continua a porre alla loro attività. Oggi la maggior parte delle leggi e delle iniziative di politica economica riescono solo in minima parte a realizzare i meccanismi previsti dal legislatore. Il caos e il livello di inefficienza è tale che anche riforme da lungo tempo auspicate e salutate con entusiasmo dal mondo dell’impresa, come l’introduzione dello sportello unico, o la liberalizzazione del commercio, diventano ulteriori beffe in una situazione di assoluta drammaticità. Se la rete e la rivoluzione della connessione rappresentano un’opportunità di crescita per le imprese italiane e per l’intero Paese, certamente costituiscono un’enorme opportunità di cambiamento anche per la Pubblica Amministrazione. 12 La new economy rende ancora più urgenti le riforme che da anni i Giovani Imprenditori e Confindustria propongono al Governo e alle forze politiche. New economy significa infatti: velocità, interattività, rete. Tre caratteristiche che la Pubblica Amministrazione deve acquisire se vuole effettivamente contribuire allo sviluppo. Innanzitutto: la velocità, come costante riduzione dei tempi tra domanda e risposta, tra analisi e decisione, tra pianificazione e implementazione. Poi l’interattività, cioè la capacità di essere in relazione continua con i propri interlocutori, per potere adattare la propria azione alle nuove esigenze che si manifestano. Uno Stato interattivo è quello che stimola il dialogo con imprese e cittadini e li ascolta attentamente per poterli soddisfare al massimo. Infine, la rete, cioè la scomparsa di soggetti monopolisti e di qualsiasi rendita di posizione a favore, invece, di una struttura decentralizzata e di una pluralità di molti attori. Già nel ‘97, il Vice Presidente degli Stati Uniti, Al Gore, presentò un importante rapporto in cui si proponeva di ristrutturare la Pubblica Amministrazione proprio grazie alle nuove tecnologie dell’informazione. Con una bellissima frase diceva che i cittadini americani avrebbero dovuto essere in un contatto immediato con la loro Pubblica Amministrazione e con i servizi da essa erogati. E in questi ultimi anni sono stati realizzati moltissimi servizi usufruibili direttamente dalla rete. In Italia, invece, non si riesce ad andare oltre le promesse e le dichiarazioni di intenti. Lo stesso Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, nel suo programma di governo, ha sottolineato il rischio che lo sportello unico, il fiore all’occhiello del progetto di semplificazione, si risolva in una mera riforma di facciata. Ad oggi, meno del 40% degli sportelli è stato attivato, ma di questo solo il 15% si è dotato di un archivio informatico. 13 Ma non sono sufficienti le misteriose “strutture di coordinamento tecnico-operativo” di cui egli parla. Occorre invece, una nuova organizzazione del lavoro e, soprattutto, un nuovo status del lavoratore pubblico che deve effettivamente equipararsi il più possibile a quello privato. Pur nel rispetto delle eccezioni, il problema nella maggior parte dei casi sta nel bassissimo livello di motivazione - e di conseguenza di efficienza - del personale impiegato nello Stato e negli enti locali. In un sistema in cui il posto di lavoro, il livello di retribuzione e perfino le carriere sono del tutto indipendenti dall’impegno e dai risultati, è inevitable trovarsi in situazioni di alienazione e di scarsa motivazione. Come è inevitabile che si consolidi una cultura del rifiuto del lavoro, sia come impegno personale, sia come possibilità di realizzare se stessi. Quindi, i problemi della Pubblica Amministrazione sono radicati nella sua cultura e nella sua storia. Per risolverli, il punto di partenza non può che essere, anche nel pubblico impiego, una nuova logica del lavoro, eliminando anche in questo caso l’assoluta garanzia del posto fisso e inserendo invece intensi programmi di riqualificazione e di formazione, premiando con stipendi adeguati i meritevoli, ma riducendo con determinazione il numero di quelli che non accettano le nuove regole del gioco. Inoltre, è necessario utilizzare appieno le potenzialità e la dinamicità della nuova economia per dare in gestione al settore privato molti dei servizi oggi svolti inefficientemente dalla Pubblica Amministrazione. Ciò non vuol dire trasformare monopoli pubblici in monopoli privati. Ma invece, nelle molte funzioni compatibili con una gestione privata, occorre favorire la formazione di una pluralità di soggetti operanti secondo logiche concorrenziali. La verità è che i governi del passato hanno utilizzato la Pubblica Amministrazione come un serbatoio di voti e un ammortizzatore per contenere il costo sociale dello sviluppo di un’economia di mercato. Alimentando così, una segregazione del pubblico impiego dal resto della società. 14 Oggi ciò non è più sopportabile, non solo dalle imprese della new economy, ma dagli stessi cittadini della new society. Non possiamo immaginare un mondo in cui ognuno di noi, semplicemente premendo un tasto, può comprare beni e servizi in ogni parte del mondo in tempo reale, ma deve poi aspettare mesi, se non anni, per ottenere una risposta da un ufficio pubblico. Nel ’93, il Ministro della Funzione Pubblica, Sabino Cassese, pubblicò il “Rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni”. In quel rapporto, che denunciava lo stato drammatico della Pubblica Amministrazione, si diceva che gli uffici pubblici devono essere in grado di misurare il proprio rendimento, che i costi dei servizi devono essere correlati alla loro qualità, che gli utenti devono avere la possibilità di far sentire la propria voce. Cosa è stato fatto da allora? Attraverso la rete, oggi i cittadini, le imprese, i consumatori, tutti i gruppi sociali, hanno una possibilità in più per comunicare le proprie idee, le proprie valutazioni e il proprio scontento. La Pubblica Amministrazione non può pensare di continuare a vivere su un’isola sempre più distante dal resto del Paese. La rete restituisce al cittadino la libertà di parola, modificando profondamente la filosofia e il mercato dell’informazione e della comunicazione. Fino ad oggi i media tradizionali sotto la pressione di un’agguerrita concorrenza e della necessità di sfruttare le evidenti economie di scala che caratterizzano anche questo settore, hanno teso ad appiattirsi sulle preferenze dell’italiano medio, adattandosi alla cultura di massa della nostra società. E purtroppo, facendo ciò, ne hanno assecondato anche i difetti, come il personalismo e una certa diffidenza verso l’impresa, il profitto e il mercato. 15 Oggi la rete permette, invece, di superare l’intermediazione dei media, dando luogo a innumerevoli centri di informazione e facilitando la comunicazione diretta tra soggetti. Chiunque può comunicare la sua verità e il suo pensiero e chiunque può ricevere l’informazione che vuole e scegliere cosa lo interessa di più. L’accesso alla comunicazione di massa cambia profondamente la funzione dei media, che sono oggi costretti a rinunciare al proprio ruolo di depositari della verità e di interpreti della realtà, e ad evolvere verso quello di fornitori di informazioni e di servizi. La sfida per il mondo della comunicazione è di costruire e di gestire una convergenza tra Internet e media tradizionali. Una sfida che spinge questo settore verso logiche di maggiore libertà di espressione e verso il superamento di interessi corporativi. Al pari delle imprese e del mondo del lavoro, anche i media tradizionali devono affrontare un nuovo modo di pensare e di fare informazione. La new economy necessita dunque di una new society, cioè di un sistema di coerenze nelle istituzioni, nelle regole dell’economia e del lavoro, nelle infrastrutture materiali e immateriali, nelle logiche della comunicazione, nei comportamenti. Senza questo sistema di coerenze corriamo il rischio che queste trasformazioni non solo non si traducano in uno slancio verso lo sviluppo, l’occupazione e la democrazia, ma che producano squilibri nel nostro sistema economico e sociale, dividendo il Paese tra chi lotta ogni giorno per vivere nel futuro, e chi è condannato a vivere nel passato. Questo sistema di coerenze non può non interessare anche il nostro sistema politico. La rete rappresenta infatti un formidabile strumento di gestione democratica della politica. Non solo perché permette un facile accesso a documenti e materiali un tempo riservati a pochi, ma anche perché si traduce nella possibilità di intervento diretto nei luoghi dove si decide. Forse per la prima volta nella storia contemporanea, vi è la possibilità di realizzare una reale partecipazione alla vita pubblica, che non sia limitata alla scelta dei rappresentanti attraverso il voto. 16 Di fronte a tali potenzialità è inconcepibile che la società politica sia così lontana dalla società civile. Oggi è stato raggiunto e superato il livello di guardia della sfiducia dei cittadini verso la politica. Lo registrano molte indagini e sondaggi, e soprattutto lo testimonia il crescente livello dell’astensionismo, evidente sintomo di un crescente distacco da una politica fatta di tante polemiche e personalismi, ma di poche riforme. Un Paese in cui alcune forze politiche e sindacali esultano per la bassa partecipazione al voto è destinato inevitabilmente a ridurre la quantità e la qualità della sua democrazia. I cittadini italiani non dimenticheranno facilmente che ancora una volta i politici, quelli che dovrebbero garantire la democrazia e i diritti costituzionali, li hanno invitati ad andare al mare, invece di votare. Sarà sempre più difficile in futuro convincerli a rimanere in città. Nella situazione attuale sarebbe pura utopia pensare ad utilizzare la rete per forme di democrazia diretta. La rete però, potrebbe certamente favorire un riavvicinamento tra rappresentanti e rappresentati, a patto che i nostri politici non utilizzino Internet solo come un ulteriore strumento di propaganda, ma siano disposti a accettare la logica del confronto e della verifica continua con i cittadini. E’ in questa direzione che occorre muoversi, a cominciare dalla riforma elettorale e dal trasferimento del maggior numero possibile di competenze alle Regioni. Il modello a cui tendere è senza dubbio quello federale, concependo il federalismo non come un’ideologia, ma uno strumento essenziale per una maggiore democrazia e una maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione. Un federalismo, che possa procedere eventualmente a velocità e geometria variabili, cominciando da quelle regioni che ne sentono maggiormente l’esigenza, essendo pronte a goderne i benefici e ad assumersene la responsabilità. In conclusione la rivoluzione della connessione è un altro aspetto del cambiamento che bussa alla nostra porta e che richiede come risposta la modernizzazione di 17 questo Paese. Una modernizzazione che i Giovani Imprenditori chiedono da anni e che continueranno ad esigere come diritto delle nuove generazioni, come responsabilità della classe dirigente. La nuova economia rende ancora più urgente questa modernizzazione, ma nello stesso tempo dà precise indicazioni sulle direzioni da prendere. In primo luogo verso la cultura della comunicazione. Infatti tutta l’economia digitale è tesa a rendere possibile, più rapido e più economico il nostro modo di comunicare. E poiché la comunicazione è il fondamento della società, della nostra cultura, della nostra identità individuale e di tutto il sistema economico, la comunicazione ne diventa il cuore. In secondo luogo verso una nuova concezione del lavoro e dell’impresa. La new economy, richiede sempre più una forte motivazione e un forte coinvolgimento del lavoratore nell’azienda, mentre è il capitale umano e non più il capitale finanziario o quello fisico, a costituire la colonna portante dell’impresa stessa. La distinzione tra le due identità di lavoratore e di imprenditore, e soprattutto la loro contrapposizione, appare superata dalla coscienza delle grandi opportunità che vengono offerte. In terzo luogo verso nuove regole, nuovi obiettivi e nuovi valori. La competitività e il successo di un individuo, di un’impresa, dello Stato, si misurano sul piano della interattività, della competenza e della flessibilità. Si afferma l’uguaglianza delle opportunità e non più l’uguaglianza dei risultati. Si interpreta la solidarietà come aiuto ad entrare e crescere nella società, non come sistema di protezioni e privilegi che condannerebbe inevitabilmente all’emarginazione. Si recupera la cultura d’impresa e si accettano le regole del mercato. Infine la new economy indica chiaramente le priorità del Paese: la riforma del sistema di istruzione, la revisione della regolamentazione del lavoro e dello stato sociale, la riforma della Pubblica Amministrazione, il riavvicinamento tra società politica e società civile. 18 Nella società della connessione, nella new society, la differenza non sarà più tra impresa e lavoro, tra riformatori e conservatori, tra vecchia e nuova generazione. La differenza sarà tra chi si è accorto che il mondo sta cambiando e chi non vuole accorgersene. Tra connessi e sconnessi. Voltaire scriveva: ”Chi non vive lo spirito del suo tempo, del suo tempo si prende solo i mali”. Noi Giovani Imprenditori vogliamo vivere lo spirito del nostro tempo.