DALLA NEW ECONOMY ALLA NEW SOCIETY MITI E REALTÀ DI

Transcript

DALLA NEW ECONOMY ALLA NEW SOCIETY MITI E REALTÀ DI
CONFINDUSTRIA
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DALLA NEW ECONOMY
ALLA NEW SOCIETY
MITI E REALTÀ DI UNA
RIVOLUZIONE IN CORSO
TESI DEI GIOVANI IMPRENDITORI
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Relazione del Presidente
EDOARDO GARRONE
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Santa Margherita Ligure, 9 - 10 giugno 2000
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Cari amici,
ringrazio tutte le Autorità e gli ospiti presenti. Questo è la trentesima edizione del
nostro Convegno di Santa Margherita Ligure, che per noi Giovani Imprenditori è
sempre stato un importante momento di incontro e di riflessione, sui temi della
modernizzazione dell’Italia.
Il tema di quest’anno è la new economy, i suoi effetti sul mondo dell’impresa, ma
anche sulla società, sulle istituzioni.
La new economy rappresenta una grande opportunità di sviluppo, ed
è ormai
molto evidente. Negli ultimi cinque anni il numero di computer collegati ad Internet
è aumentato di circa 15 volte, e gli ultimi dati disponibili riportano oltre 370 milioni di
utenti. Ma già per il 2003 si stima che i collegamenti saranno oltre 500 milioni. In
Italia le persone collegate ad Internet sarebbero già oltre 10 milioni, con una
crescita di circa il 25% ogni sei mesi.
A fronte di questa rapidissima espansione di Internet, in alcuni Paesi e soprattutto
negli Stati Uniti, si è verificato un intenso sviluppo di nuovi settori di attività. In
questo paese, solo nei servizi basati sull’informazione, in questi cinque anni sono
stati creati oltre due milioni di posti di lavoro e altrettanti sono previsti nei prossimi
anni. Grazie alla nuova economia, la crescita del Pil delle maggiori economie
industriali potrebbe aumentare di un quarto di punto all’anno.
Noi Giovani Imprenditori condividiamo l’entusiasmo per le nuove opportunità offerte
dalla diffusione delle tecnologie di comunicazione e della rete. Ma siamo convinti
che il cambiamento sarà tanto più efficace e positivo quanto più verrà rispettato un
sistema di coerenze con le regole e le logiche della new economy.
In
particolare,
vogliamo
dimostrare,
con
questo
Convegno,
che
queste
trasformazioni nei comportamenti e nelle scelte di imprese e cittadini non possono
prescindere dalla risoluzione di alcuni nodi critici del Paese. Nodi e vincoli che
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esistono da ben prima che nascesse la new economy, ma che ora ne minacciano
seriamente lo sviluppo. Il rischio è che una grande opportunità di crescita diventi
una caduta di competitività rispetto alle economie più avanzate. Per non perdere
anche questo treno è fondamentale che si ridefinisca con chiarezza e
determinazione quali sono le priorità del Paese.
La diffusione di Internet e gli sviluppi delle tecnologie di comunicazione stanno
dando luogo ad una vera e propria economia della connessione. Questa, però,
questa non riguarda solo la web economy, ma tutti i settori dell’economia: se molte
imprese continueranno a produrre con tecnologie non troppo diverse da quelle di
oggi, saranno però integrate in un contesto più articolato e complesso.
Il motore dello sviluppo non sarà rappresentato solo dai settori più direttamente
collegati alle nuove tecnologie. Soprattutto per un Paese come il nostro, fortemente
specializzato in settori tradizionali, è importante che l’entusiasmo per la new
economy non porti a considerare di minor valore strategico tutto ciò che non lo è.
Sarebbe un errore alimentare l’idea che sia sufficiente creare un sito web per
sfruttare le potenzialità del commercio elettronico ed entrare nella nuova economia.
Internet appare a molti come “un romantico paradiso per giocatori d’azzardo, pieno
di promesse impossibili”, ma in realtà è ancora un mondo strano e sconosciuto. E
l’e-commerce non è solo tecnologia, hardware e software, ma principalmente
marketing, vendite, logistica, servizio al consumatore. Si tratta di offrire al cliente il
prodotto che vuole, nel modo che preferisce.
La grande sfida per noi imprenditori è quella di saper cambiare il nostro modo di
fare impresa, di investire in qualità e organizzazione, prima ancora che in
tecnologia. Dove esiste già una cultura della rete e della connessione, Internet
produrrà molto probabilmente importanti vantaggi e un rapido ampliamento del
mercato. Ma dove tale cultura è assente, Internet non produrrà affatto i vantaggi
dell’integrazione.
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L’economia della connessione genera da un maggiore grado di concorrenza su tutti
i mercati, più forte di quanto molti immaginano. Sarà fondamentale saper essere in
rete. Chi rimarrà isolato rischierà di essere confinato in un contesto esclusivamente
locale e subirà comunque la concorrenza di un numero vastissimo aziende. Nuove,
piccole, grandi, italiane e straniere.
Non ci sarà spazio per i mediocri, poiché non esisteranno mercati protetti e
scompariranno tutte le piccole e grandi rendite di posizione in cui hanno vissuto
molte aziende e specialmente quelle pubbliche. Oggi chi non innova e non investe,
inesorabilmente esce dal mercato.
Ma la new economy rappresenta anche una grande opportunità per superare quei
pesanti vincoli alla creazione di impresa che oggi ben conosciamo. Creare
un’attività che offre servizi sulla rete è relativamente più semplice rispetto ad altri
settori, perché richiede apporti di capitale finanziario e fisico relativamente limitati. Il
capitale principale è infatti costituito dalla rete stessa, che, all’inverso dei prodotti
tradizionali, cresce di valore con la sua diffusione. La rete quindi, è un’importante
occasione per i giovani di accedere al mondo dell’impresa e dare luogo così ad una
“young economy”, ad un’economia della nuova generazione, che è essenziale per il
futuro di questo Paese.
La new economy è anche una grande opportunità per ridurre il gap economico e di
sviluppo del Mezzogiorno. Oltre alle caratteristiche già citate, le iniziative sulla rete
incontrano generalmente minori costi burocratici, minori barriere all’entrata, minore
penalizzazione per il controllo del territorio. Tutti fattori che ancora penalizzano il
fare impresa nel Sud. Le potenzialità non mancano e i dati più recenti segnalano
una rapida diffusione dei collegamenti ad Internet e del commercio elettronico
anche nel Mezzogiorno, nonostante la limitata diffusione delle reti ad alta velocità e
l’assenza di una rete logistica efficiente. D’altro canto, se lo sviluppo delle
infrastrutture di rete può dare un contributo importante alla crescita di queste
regioni, la new economy non deve diventare un alibi per non affrontare con
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determinazione i noti ostacoli che fino ad oggi hanno reso difficile fare impresa in
queste aree.
Il vero problema per una sana e utile politica industriale non è allora semplicemente
incentivare la corsa al commercio elettronico e favorire la diffusione della rete. Si
tratta piuttosto di creare i presupposti per il rafforzamento del nostro sistema
produttivo e soprattutto per le nostre piccole imprese. Occorre costruire le
condizioni necessarie e favorevoli alla definizione di obiettivi di crescita più
ambiziosi, adottando strategie di internazionalizzazione nel medio periodo, facendo
della dell’innovazione e del controllo di qualità un’attività prioritaria dell’impresa. Ciò
è possibile con misure ad hoc, di cui qualcuna già attivata, anche se la lentezza
burocratica con cui tali incentivi sono gestiti fa sì che raramente essi riescano a
realizzare gli obiettivi per cui sono stati creati.
Per fare ciò non chiediamo incentivi. Chiediamo invece una decisa riduzione della
pressione fiscale e una radicale revisione della regolamentazione del lavoro e
dell’assurdo sistema di soglie che penalizzano la crescita. Di fronte a queste
barriere, gli impredinitori sono costretti a sacrificare le proprie aspirazioni e a
contrastare il proprio naturale istinto: che non è solo quello di realizzare profitti, ma
di far crescere la propria azienda.
Ridurre l’imposizione sul reddito d’impresa, sui guadagni di capitale e soprattutto
sugli utili reinvestiti, non significa chiedere sussidi. Significa chiedere di essere
messi in condizione di far crescere le nostre aziende, di far crescere l’occupazione
e l’economia, di far crescere il Paese. Per questo sono proprio le imprese a
chiedere di abbandonare la politica del dare e avviare quella del togliere.
Inoltre, è fondamentale che la creazione di nuove imprese, specialmente da parte
dei giovani, diventi una delle principali priorità. Non solo nella new economy, ma in
tutti i settori produttivi. Si potrebbe introdurre un’esenzione decennale da tutte le
imposte societarie e applicare una tassazione ridotta sul capital gain per le nuove
imprese, favorendo in modo particolare quelle create da giovani. Ciò non solo
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renderebbe più probabile il consolidamento dopo i primi anni di vita, ma
faciliterebbe il reperimento di fonti di finanziamento.
E’ probabile che molte di queste nuove aziende non riuscirebbero a generare idee
e qualità tali da resistere alla concorrenza, ma l’elevata mortalità aziendale è una
caratteristica intrinseca di un’economia di mercato vivace e dinamica. Piuttosto, è
fondamentale rivedere completamente la legislazione italiana del fallimento, magari
intervenendo a livello comunitario, sul modello dei sistemi anglosassoni. Ciò
eviterebbe di penalizzare in modo eccessivo chi ha sbagliato strategia o partner,
dandogli la possibilità di riprovare adottando strade alternative.
L’economia della connessione è l’economia della conoscenza, delle competenze
tecnologiche, della cultura della comunicazione e della gestione del cambiamento.
Il futuro della nuova economia, ancor più che nella vecchia, dipende quindi, in
modo cruciale dalla nostra capacità di dotarci di un sistema formativo moderno, più
vicino al mondo delle imprese e coerente con le trasformazioni in corso.
L’Italia non solo non ha i tecnici del software per far girare la nuova economia, ma
neanche gli operai specializzati da impiegare nei settori di tradizionale forza e nei
distretti manifatturieri. Mancano i periti richiesti dalle nostre piccole imprese;
mancano i laureati in materie tecniche e sono rare eccezioni gli atenei che hanno
stabilito contatti permanenti con le imprese localizzate nel proprio territorio. Siamo
invece la patria dei laureati in lettere, degli aspiranti avvocati, degli umanisti incalliti.
La new economy che premia la capacità di comunicare rappresenta un’opportunità
per valorizzare il grande patrimonio culturale e intellettuale del nostro Paese. Ma
senza una buona familiarità con la tecnologia, e un’elevata capacità di
apprendimento questo capitale umano rischia di essere sprecato.
Non possiamo più pensare di competere nella new economy con una scuola che
non insegni il valore dell’impresa, della tecnologia e del rischio. Che non crei
istituzionalmente e regolarmente momenti di contatto con il mondo del lavoro e
della produzione. Non possiamo più accettare di lasciare l’Università solo in mano
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alla corporazione dei professori universitari. Non possiamo più permetterci di
gestire la formazione degli studenti senza dover rendere conto a nessuno della loro
effettiva impiegabilità. E non è etico, perché saranno i giovani a pagare gli errori di
questa generazione.
Accanto a quella della formazione, la rivoluzione della comunicazione e quella della
globalizzazione che da essa dipende, rendono sempre più urgente la riforma del
mercato e della regolamentazione del lavoro. La nuova economia, infatti, determina
una nuova organizzazione del personale, che deve essere più flessibile. Si
riducono i cicli di vita delle aziende, le trasformazioni sono intense e molto rapide,
la competizione diventa sempre più severa. Inoltre, nei settori più dinamici, e
soprattutto in quelli dei servizi, o nelle produzioni che nel servizio hanno un forte
vantaggio competitivo, diventa essenziale il coinvolgimento dei lavoratori per il
raggiungimento degli obiettivi aziendali e la condivisione dei risultati economici.
Dunque, minori schematismi salariali, maggiore attenzione ai premi in base ai
risultati e soprattutto incentivazione alla diffusione delle stock option. Sullo sfondo
c’è necessariamente un sistema di relazioni industriali che si basi sulla possibilità di
condividere, a vari livelli, rischi e successi dell’impresa. Ciò significa abbandonare
le vecchie logiche della contrapposizione tra impresa e lavoratore e della rigidità
delle formule contrattuali. L’obiettivo deve essere invece, quello di estendere al
lavoratore la cultura di impresa, condividendo con lui gli obiettivi del progetto
dell’azienda e le sue sorti.
Per questo, oggi non ha più senso chiedere all’impresa di garantire un posto fisso.
Il livello di concorrenza e la rapidità del cambiamento sono tali che anche le
aziende più grandi, non sono più in grado di pianificare le loro strategie e il loro
futuro con orizzonti di medio o lungo periodo. La sopravvivenza stessa dell’impresa
sarà condizionata dalla rapidità e dalla flessibilità con cui saprà ad
ottare nuove
tecnologie, diversificare in nuovi settori, decentrare in un’ottica di globalizzazione e
dotarsi di nuove competenze. Continuare a garantire un posto fisso non ha più
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senso in un mondo che corre dieci volte più veloce di quando queste regole sono
state introdotte.
Così come appare del tutto incoerente con le esigenze della nuova economia
l’attuale sistema della previdenza e dell’assistenza, che è stato appena scalfito
dalle riforme degli anni passati, come ha recentemente ribadito anche l’Ocse.
Questo sistema non solo divide il Paese tra privilegiati e penalizzati, ma non offre
nulla a chi sarà maggiormente penalizzato dal cambiamento in atto.
La nuova economia richiede allora un nuovo modello di ammortizzatori sociali che
rinnovi profondamente la tradizione europea del welfare state e si preoccupi di
compensare i costi sociali delle trasformazioni in corso. Un sistema come quello
attuale, basato tutto sulla logica previdenziale, è stato ideato per cicli di lavoro
lunghi e tendenzialmente stabili. Adesso, invece, di fronte a cicli corti, flessibili e
innovativi, è necessario pensare ad un vero e proprio welfare della formazione e
del reinserimento produttivo.
Purtroppo, la campagna referendaria contro l’abolizione dell’istituto del reintegro,
presente in questa forma assurdamente punitiva solo nel nostro Paese, ha visto
l’esplosione della demagogia sindacal-populista e ha fatto fare all’Italia un passo
indietro di almeno dieci anni. I sindacati e l’ala più ideologica della sinistra
continuano a rendere più difficile e traumatica la transizione verso un nuovo
concetto del lavoro e una nuova identità del lavoratore. E facendo ciò penalizzano
non solo le imprese, ma anche e soprattutto gli stessi lavoratori.
I sindacati si sono arroccati nella difesa degli interessi di una parte sempre più
ristretta di lavoratori, quella che ha più da perdere dalle nuove logiche del lavoro,
basate sulle competenze, sulla motivazione e sulla responsabilità. Sebbene anche
nel sindacato non manchi chi stia cominciando a prendere coscienza delle
profonde trasformazioni nel mondo del lavoro e dell’impresa, la cultura di fondo
rimane quella della difesa dei privilegi acquisiti. Per questo, all’interno del sindacato
queste timide aperture si confrontano con una strenua lotta alla riforma delle
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pensioni, alle ristrutturazioni delle grandi aziende pubbliche e all’introduzione della
flessibilità come regola e non come eccezione.
Eppure, le esperienze di paesi più avanzati del nostro in questo processo di
trasformazione, ci mostrano chiaramente che lo scambio, oggi, è tra privilegi per
pochi o lavoro per molti. E ci insegnano che si possono creare molti posti di lavoro
con la flessibilità, l’innovazione e la formazione. Negare la relazione tra flessibilità e
occupazione è un’ipocrisia che dobbiamo definitivamente superare. Il fatto che la
quasi totalità dei nuovi posti di lavoro è composta da contratti a tempo determinato,
o da lavoro interinale è la prova più evidente della forte necessità di superare i
vincoli e le barriere di una regolamentazione assurdamente rigida.
I dati positivi sull’attuale andamento dell’economia non devono trarci in inganno.
Tutti sappiamo bene che essi non dipendono in alcun modo dal successo di riforme
strutturali e che i nostri problemi continuano a condizionare il nostro sviluppo, in
Italia, come in altri paesi d’Europa.
Sono proprio questi problemi che ci rendono completamente indifesi dalle forti
oscillazioni dei cicli economici. Prova ne è la valutazione negativa che, nonostante i
recenti dati positivi, i mercati valutari continuano a dare della moneta europea.
E’ ora di dire basta, quindi, a chi sostiene che è meglio uno sviluppo modesto ma
nel rispetto dei privilegi acquisiti, invece di una crescita sostenuta, secondo le
regole e le logiche del mercato. Basta con la rassegnazione a crescere sempre
meno dei nostri partner europei. Basta con le continue minacce di conflitti sociali e
di scioperi indiscriminati.
Nessuno vuole il conflitto. Ma non possiamo e non dobbiamo fermare un
cambiamento, che rappresenta un’occasione di crescita per tutti: questo Paese è
pieno di risorse nuove, di voglia di andare avanti, di idee e di progetti.
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I giovani, quelli che cercano un lavoro, quelli che con grande impegno hanno
acquisito una piccola o grande formazione non ci cascano. Tutte le indagini
sociologiche sulle attitudini dei giovani al lavoro registrano una crescente
disponibilità alla flessibilità e alla mobilità. Si sta superando gradualmente il mito del
posto fisso e cresce invece la consapevolezza che chi sostiene un sistema rigido di
garanzie e protezioni non sta dalla loro parte. I giovani non si riconoscono nel
sistema di priorità imposto dal sindacato, non ci stanno ad anteporre le garanzie
alle opportunità, non accettano di premiare l’anzianità a danno delle competenze e
del merito.
E’ ora di abbandonare la logica della concertazione fine a se stessa, basata più
sull’esigenza di giustificare la propria esistenza, che di difendere diritti di lavoratori
che sempre meno vogliono essere difesi secondo queste logiche.
Se il sindacato vuole svolgere un ruolo nella new economy e nella new society,
deve trovare il coraggio e la forza di contribuire a costruire un sistema di relazioni
industriali che sia coerente con mercati più competitivi e con le nuove esigenze di
flessibilità, di mobilità, di efficienza e di formazione continua. Dobbiamo aiutare i
lavoratori a comprendere che abbiamo tutti da guadagnare da una diversa
organizzazione del lavoro, meno rigida e centrata sul diritto di tutti alle opportunità e
non alle garanzie per pochi. Ma per far questo il sindacato deve spogliarsi delle
antiche armature della contrapposizione tra impresa e lavoro, dell’incompatibilità tra
profitto e interesse del lavoratore. Occorre, invece, pensare seriamente a come
gestire questa trasformazione, senza bloccarla.
Noi Giovani Imprenditori proponiamo un nuovo patto per lo sviluppo tra tutte le
forze più dinamiche del Paese, distinguendo tra chi vuole contribuire alla
modernizzazione e chi persegue in modo miope solo i propri interessi immediati, o
quelli dei pochi che rappresenta. Affrontando una revisione dello Statuto dei
lavoratori, abbandonando la logica del tutto è vietato eccetto ciò che è concesso, e
riscrivendo ex novo le regole del lavoro nell’era della new economy.
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Se riusciremo a superare la demagogia dell’anacronistica difesa di posizioni e
privilegi, e l’ipocrisia di chi ancora pretende di credere a vie di sviluppo diverse dal
mercato e dalla flessibilità, allora saremo in grado di costruire un modello di società
italiana ed europea che coniughi crescita e solidarietà. Non so se sarà una terza o
una quarta via, ma siamo convinti che sia veramente possibile costruire un modello
di sviluppo coerente con la nostra cultura e con le regole del mercato e della new
economy.
Se non ci riusciremo, saremo responsabili di aver incatenato il Paese e di avergli
negato quello sviluppo che oggi la nuova economia rende più rapidamente
raggiungibile.
Oltre alla formazione e al lavoro, una terza area di riforma che oggi appare del tutto
incoerente con le logiche della nuova economia è quella della Pubblica
Amministrazione. In altri paesi le imprese possono contare sull’alleanza di una
Pubblica Amministrazione che offre loro servizi efficienti a costi ridotti se non
addirittura in modo gratuito. In Italia, invece, non solo le imprese sono costrette a
comprare sul mercato gli stessi servizi, ma devono fare fronte anche agli
innumerevoli ostacoli che proprio la Pubblica Amministrazione continua a porre alla
loro attività.
Oggi la maggior parte delle leggi e delle iniziative di politica economica riescono
solo in minima parte a realizzare i meccanismi previsti dal legislatore. Il caos e il
livello di inefficienza è tale che anche riforme da lungo tempo auspicate e salutate
con entusiasmo dal mondo dell’impresa, come l’introduzione dello sportello unico, o
la liberalizzazione del commercio, diventano ulteriori beffe in una situazione di
assoluta drammaticità.
Se la rete e la rivoluzione della connessione rappresentano un’opportunità di
crescita per le imprese italiane e per l’intero Paese, certamente costituiscono
un’enorme opportunità di cambiamento anche per la Pubblica Amministrazione.
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La new economy rende ancora più urgenti le riforme che da anni i Giovani
Imprenditori e Confindustria propongono al Governo e alle forze politiche. New
economy significa infatti: velocità, interattività, rete. Tre caratteristiche che la
Pubblica Amministrazione deve acquisire se vuole effettivamente contribuire allo
sviluppo.
Innanzitutto: la velocità, come costante riduzione dei tempi tra domanda e risposta,
tra analisi e decisione, tra pianificazione e implementazione.
Poi l’interattività, cioè la capacità di essere in relazione continua con i propri
interlocutori, per potere adattare la propria azione alle nuove esigenze che si
manifestano. Uno Stato interattivo è quello che stimola il dialogo con imprese e
cittadini e li ascolta attentamente per poterli soddisfare al massimo.
Infine, la rete, cioè la scomparsa di soggetti monopolisti e di qualsiasi rendita di
posizione a favore, invece, di una struttura decentralizzata e di una pluralità di molti
attori.
Già nel ‘97, il Vice Presidente degli Stati Uniti, Al Gore, presentò un importante
rapporto in cui si proponeva di ristrutturare la Pubblica Amministrazione proprio
grazie alle nuove tecnologie dell’informazione. Con una bellissima frase diceva che
i cittadini americani avrebbero dovuto essere in un contatto immediato con la loro
Pubblica Amministrazione e con i servizi da essa erogati. E in questi ultimi anni
sono stati realizzati moltissimi servizi usufruibili direttamente dalla rete. In Italia,
invece, non si riesce ad andare oltre le promesse e le dichiarazioni di intenti.
Lo stesso Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, nel suo programma di
governo, ha sottolineato il rischio che lo sportello unico, il fiore all’occhiello del
progetto di semplificazione, si risolva in una mera riforma di facciata. Ad oggi, meno
del 40% degli sportelli è stato attivato, ma di questo solo il 15% si è dotato di un
archivio informatico.
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Ma non sono sufficienti le misteriose “strutture di coordinamento tecnico-operativo”
di cui egli parla. Occorre invece, una nuova organizzazione del lavoro e,
soprattutto, un nuovo status del lavoratore pubblico che deve effettivamente
equipararsi il più possibile a quello privato.
Pur nel rispetto delle eccezioni, il problema nella maggior parte dei casi sta nel
bassissimo livello di motivazione - e di conseguenza di efficienza - del personale
impiegato nello Stato e negli enti locali. In un sistema in cui il posto di lavoro, il
livello di retribuzione e perfino le carriere sono del tutto indipendenti dall’impegno e
dai risultati, è inevitable trovarsi in situazioni di alienazione e di scarsa motivazione.
Come è inevitabile che si consolidi una cultura del rifiuto del lavoro, sia come
impegno personale, sia come possibilità di realizzare se stessi.
Quindi, i problemi della Pubblica Amministrazione sono radicati nella sua cultura e
nella sua storia. Per risolverli, il punto di partenza non può che essere, anche nel
pubblico impiego, una nuova logica del lavoro, eliminando anche in questo caso
l’assoluta garanzia del posto fisso e inserendo invece intensi programmi di
riqualificazione e di formazione, premiando con stipendi adeguati i meritevoli, ma
riducendo con determinazione il numero di quelli che non accettano le nuove regole
del gioco.
Inoltre, è necessario utilizzare appieno le potenzialità e la dinamicità della nuova
economia per dare in gestione al settore privato molti dei servizi oggi svolti
inefficientemente dalla Pubblica Amministrazione. Ciò non vuol dire trasformare
monopoli pubblici in monopoli privati. Ma invece, nelle molte funzioni compatibili
con una gestione privata, occorre favorire la formazione di una pluralità di soggetti
operanti secondo logiche concorrenziali.
La verità è che i governi del passato hanno utilizzato la Pubblica Amministrazione
come un serbatoio di voti e un ammortizzatore per contenere il costo sociale dello
sviluppo di un’economia di mercato. Alimentando così, una segregazione del
pubblico impiego dal resto della società.
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Oggi ciò non è più sopportabile, non solo dalle imprese della new economy, ma
dagli stessi cittadini della new society.
Non possiamo immaginare un mondo in cui ognuno di noi, semplicemente
premendo un tasto, può comprare beni e servizi in ogni parte del mondo in tempo
reale, ma deve poi aspettare mesi, se non anni, per ottenere una risposta da un
ufficio pubblico.
Nel ’93, il Ministro della Funzione Pubblica, Sabino Cassese, pubblicò il “Rapporto
sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni”. In quel rapporto, che denunciava
lo stato drammatico della Pubblica Amministrazione, si diceva che gli uffici pubblici
devono essere in grado di misurare il proprio rendimento, che i costi dei servizi
devono essere correlati alla loro qualità, che gli utenti devono avere la possibilità di
far sentire la propria voce.
Cosa è stato fatto da allora?
Attraverso la rete, oggi i cittadini, le imprese, i consumatori, tutti i gruppi sociali,
hanno una possibilità in più per comunicare le proprie idee, le proprie valutazioni e
il proprio scontento. La Pubblica Amministrazione non può pensare di continuare a
vivere su un’isola sempre più distante dal resto del Paese.
La rete restituisce al cittadino la libertà di parola, modificando profondamente la
filosofia e il mercato dell’informazione e della comunicazione.
Fino ad oggi i media tradizionali sotto la pressione di un’agguerrita concorrenza e
della necessità di sfruttare le evidenti economie di scala che caratterizzano anche
questo settore, hanno teso ad appiattirsi sulle preferenze dell’italiano medio,
adattandosi alla cultura di massa della nostra società. E purtroppo, facendo ciò, ne
hanno assecondato anche i difetti, come il personalismo e una certa diffidenza
verso l’impresa, il profitto e il mercato.
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Oggi la rete permette, invece, di superare l’intermediazione dei media, dando luogo
a innumerevoli centri di informazione e facilitando la comunicazione diretta tra
soggetti. Chiunque può comunicare la sua verità e il suo pensiero e chiunque può
ricevere l’informazione che vuole e scegliere cosa lo interessa di più.
L’accesso alla comunicazione di massa cambia profondamente la funzione dei
media, che sono oggi costretti a rinunciare al proprio ruolo di depositari della verità
e di interpreti della realtà, e ad evolvere verso quello di fornitori di informazioni e di
servizi. La sfida per il mondo della comunicazione è di costruire e di gestire una
convergenza tra Internet e media tradizionali. Una sfida che spinge questo settore
verso logiche di maggiore libertà di espressione e verso il superamento di interessi
corporativi. Al pari delle imprese e del mondo del lavoro, anche i media tradizionali
devono affrontare un nuovo modo di pensare e di fare informazione.
La new economy necessita dunque di una new society, cioè di un sistema di
coerenze nelle istituzioni, nelle regole dell’economia e del lavoro, nelle infrastrutture
materiali e immateriali, nelle logiche della comunicazione, nei comportamenti.
Senza questo sistema di coerenze corriamo il rischio che queste trasformazioni non
solo non si traducano in uno slancio verso lo sviluppo, l’occupazione e la
democrazia, ma che producano squilibri nel nostro sistema economico e sociale,
dividendo il Paese tra chi lotta ogni giorno per vivere nel futuro, e chi è condannato
a vivere nel passato.
Questo sistema di coerenze non può non interessare anche il nostro sistema
politico. La rete rappresenta infatti un formidabile strumento di gestione
democratica della politica. Non solo perché permette un facile accesso a documenti
e materiali un tempo riservati a pochi, ma anche perché si traduce nella possibilità
di intervento diretto nei luoghi dove si decide. Forse per la prima volta nella storia
contemporanea, vi è la possibilità di realizzare una reale partecipazione alla vita
pubblica, che non sia limitata alla scelta dei rappresentanti attraverso il voto.
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Di fronte a tali potenzialità è inconcepibile che la società politica sia così lontana
dalla società civile. Oggi è stato raggiunto e superato il livello di guardia della
sfiducia dei cittadini verso la politica. Lo registrano molte indagini e sondaggi, e
soprattutto lo testimonia il crescente livello dell’astensionismo, evidente sintomo di
un crescente distacco da una politica fatta di tante polemiche e personalismi, ma di
poche riforme.
Un Paese in cui alcune forze politiche e sindacali esultano per la bassa
partecipazione al voto è destinato inevitabilmente a ridurre la quantità e la qualità
della sua democrazia. I cittadini italiani non dimenticheranno facilmente che ancora
una volta i politici, quelli che dovrebbero garantire la democrazia e i diritti
costituzionali, li hanno invitati ad andare al mare, invece di votare. Sarà sempre più
difficile in futuro convincerli a rimanere in città.
Nella situazione attuale sarebbe pura utopia pensare ad utilizzare la rete per forme
di
democrazia
diretta.
La
rete
però,
potrebbe
certamente
favorire
un
riavvicinamento tra rappresentanti e rappresentati, a patto che i nostri politici non
utilizzino Internet solo come un ulteriore strumento di propaganda, ma siano
disposti a accettare la logica del confronto e della verifica continua con i cittadini.
E’ in questa direzione che occorre muoversi, a cominciare dalla riforma elettorale e
dal trasferimento del maggior numero possibile di competenze alle Regioni. Il
modello a cui tendere è senza dubbio quello federale, concependo il federalismo
non come un’ideologia, ma uno strumento essenziale per una maggiore
democrazia e una maggiore efficienza della Pubblica Amministrazione.
Un federalismo, che possa procedere eventualmente a velocità e geometria
variabili, cominciando da quelle regioni che ne sentono maggiormente l’esigenza,
essendo pronte a goderne i benefici e ad assumersene la responsabilità.
In conclusione la rivoluzione della connessione è un altro aspetto del cambiamento
che bussa alla nostra porta e che richiede come risposta la modernizzazione di
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questo Paese. Una modernizzazione che i Giovani Imprenditori chiedono da anni e
che continueranno ad esigere come diritto delle nuove generazioni, come
responsabilità della classe dirigente.
La nuova economia rende ancora più urgente questa modernizzazione, ma nello
stesso tempo dà precise indicazioni sulle direzioni da prendere.
In primo luogo verso la cultura della comunicazione. Infatti tutta l’economia digitale
è tesa a rendere possibile, più rapido e più economico il nostro modo di
comunicare. E poiché la comunicazione è il fondamento della società, della nostra
cultura, della nostra identità individuale e di tutto il sistema economico, la
comunicazione ne diventa il cuore.
In secondo luogo verso una nuova concezione del lavoro e dell’impresa. La new
economy, richiede sempre più una forte motivazione e un forte coinvolgimento del
lavoratore nell’azienda, mentre è il capitale umano e non più il capitale finanziario o
quello fisico, a costituire la colonna portante dell’impresa stessa. La distinzione tra
le due identità di lavoratore e di imprenditore, e soprattutto la loro contrapposizione,
appare superata dalla coscienza delle grandi opportunità che vengono offerte.
In terzo luogo verso nuove regole, nuovi obiettivi e nuovi valori. La competitività e il
successo di un individuo, di un’impresa, dello Stato, si misurano sul piano della
interattività, della competenza e della flessibilità. Si afferma l’uguaglianza delle
opportunità e non più l’uguaglianza dei risultati. Si interpreta la solidarietà come
aiuto ad entrare e crescere nella società, non come sistema di protezioni e privilegi
che condannerebbe inevitabilmente all’emarginazione. Si recupera la cultura
d’impresa e si accettano le regole del mercato.
Infine la new economy indica chiaramente le priorità del Paese: la riforma del
sistema di istruzione, la revisione della regolamentazione del lavoro e dello stato
sociale, la riforma della Pubblica Amministrazione, il riavvicinamento tra società
politica e società civile.
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Nella società della connessione, nella new society, la differenza non sarà più tra
impresa e lavoro, tra riformatori e conservatori, tra vecchia e nuova generazione.
La differenza sarà tra chi si è accorto che il mondo sta cambiando e chi non vuole
accorgersene. Tra connessi e sconnessi.
Voltaire scriveva: ”Chi non vive lo spirito del suo tempo, del suo tempo si prende
solo i mali”.
Noi Giovani Imprenditori vogliamo vivere lo spirito del nostro tempo.