continua la lettura - Dottrina Per il Lavoro

Transcript

continua la lettura - Dottrina Per il Lavoro
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
Contratti a termine
dopo il riordino della disciplina
Eufranio Massi – Esperto in Diritto del lavoro (*)
Art. 25: il principio di non discriminazione
Dalla lettura dell’art. 25 emerge chiaramente che al
lavoratore a termine spetta il trattamento economico e
normativo in essere nell’impresa per i lavoratori a
tempo indeterminato comparabili: con tale aggettivo
il legislatore delegato non fa altro che riprodurre un
principio già enunciato nell’art. 5 della legge n.
230/1962, in base al quale i prestatori da prendere
quale riferimento sono coloro che sono inquadrati
nello stesso livello sulla base dei criteri di classificazione dettati dalla contrattazione collettiva.
La disposizione è importante, in quanto è strettamente correlata ad alcune sanzioni amministrative esplicitamente previste dal comma 2 e, soprattutto, è la concreta applicazione di una delle finalità individuate
dalla direttiva 1999/70/Ce. Per completezza di informazione è opportuno ricordare come la violazione
(identica a quella già prevista dall’art. 6 del D.Lgs. n.
368/2001) sia punita con un importo compreso tra
25,82 e 154,94 euro: se si riferisce a più di cinque lavoratori la somma sale ed è compresa tra 154,94 e
1.032,91 euro.
Il principio di non discriminazione non si ferma soltanto ai richiami dell’art. 25 ma riguarda anche altre
disposizioni non richiamate che “toccano” la sfera individuale dei lavoratori.
Ci si riferisce, ad esempio, a tutte quelle previste dalla legge n. 265/1999 che disciplinano lo “status” degli amministratori locali. Vi sono una serie di garanzie (artt. 19 e 24) in favore degli amministratori, siano essi dipendenti pubblici o privati, senza alcuna
specificazione connessa alla durata del rapporto.
Uguali considerazioni possono farsi per eventuali permessi sindacali, atteso che la legge n. 300/1970 non
prevede alcuna esclusione per i lavoratori a termine,
oltre che, ovviamente, per i quindici giorni di congedo matrimoniale retribuito.
La non discriminazione passa anche attraverso l’applicazione di particolari istituti previsti da leggi sulle
quali, al momento, non ci si sofferma: ci si riferisce,
ad esempio, alla tutela ed al trattamento economico
in caso di assenze dovute a malattie, per le quali trova piena applicazione l’art. 5 della legge n. 638/1983
o alle tutele disposte in favore delle lavoratrici madri
per effetto delle norme compendiate nel D.Lgs. n.
151/2001 che trovano applicazione anche nei confronti dei lavoratori pubblici con contratto a tempo
determinato: ci si riferisce, ad esempio, alle novità introdotte in materia di congedo parentale ad ore dal
D.Lgs. n. 80/2015, “spiegato” da un punto di vista
amministrativo dalla circolare Inps n. 149/2015.
Sotto l’aspetto del divieto di discriminazione è interessante sottolineare la sentenza della Corte di Cassazione n. 9864 del 6 luglio 2002 riferito allo “status”
di maternità in correlazione alla stipula di un contratto a tempo determinato: non c’è alcuna disposizione
che imponga alla lavoratrice gestante di far conoscere, al momento della stipula al datore di lavoro la natura del proprio stato, neppure quando venga assunta
a tempo determinato. Tale obbligo non può, infatti, ricavarsi dai canoni generali di correttezza e buona fede previsti dagli articoli 1175 e 1375 c.c. o da altro
generale previsto dal nostro ordinamento, considerato
che una diversa opinione condurrebbe a ravvisare nello stato di gravidanza e puerperio un ostacolo all’assunzione al lavoro della donna e finirebbe, così, per
legittimare operazioni interpretative destinate a minare in maniera rilevante la tutela apprestata a favore
delle lavoratrici madri.
Art. 26: la formazione
Da un punto di vista strettamente normativo il nuovo
art. 27, rispetto al precedente art. 7 del D.Lgs. n.
(*) Il presente inserto è suddiviso in due parti. La prima parte è stata pubblicata nel n. 40 della rivista.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
III
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
368/2001, è molto più “scarno”: infatti del vecchio
testo è ripreso soltanto il comma 2.
I contratti collettivi, quindi anche quelli aziendali,
possono prevedere modalità e strumenti diretti ad
agevolare l’accesso dei lavoratori a tempo determinato ad opportunità di formazione adeguata, per aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale. Si tratta, come si
vede, non soltanto di formazione adeguata finalizzata
alle mansioni che il lavoratore è destinato a svolgere
ma anche di qualcosa che sembra puntare ad un “investimento” professionale, atteso che si parla di “promozione di carriera” e di facilitazioni, attraverso l’esperienza formativa, nella mobilità occupazionale in
altri contesti.
Ma questa non può essere la sola formazione (tra l’altro, prevista soltanto da una eventuale contrattazione
collettiva) che il datore è tenuto ad erogare: ci si riferisce all’obbligo di formazione che rappresenta una
attuazione specifica delle prescrizioni in materia di
prevenzione (sia di informazione che di informazione) che rientrano tra gli oneri del datore, secondo la
previsione contenuta nel D.Lgs. n. 81/2008. I requisiti
di sufficienza e di adeguatezza della formazione debbono avere una sostanziale rispondenza nei rischi
specifici del lavoro da effettuare.
Sulla base dei contenuti dell’art. 2, comma 1, lettera
a), del D.Lgs. n. 81/2008, lo svolgimento della formazione per la tutela e la sicurezza è indipendente
dalla tipologia contrattuale. Da ciò ne consegue che il
datore di lavoro sottostà agli obblighi previsti ex art.
17 (valutazione dei rischi e designazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) ed
ex art. 18 (nomina del medico competente, visita medica preventiva per i neo assunti, obbligo di informazione e di addestramento, ecc.), oltre agli obblighi
specifici derivanti dalla stessa valutazione dei rischi
tipici di quelle lavorazioni.
Art. 27: i criteri di computo
Una disposizione relativa ai nuovi contratti a termine
che è passata quasi inosservata è quella contenuta
nell’art. 27 del D.Lgs. n. 81/2015: qui il Legislatore
delegato ha esteso alla “quasi” generalità dei casi ciò
che nel 2013, per effetto della legge comunitaria n.
97, era stato previsto per il calcolo dei dipendenti ai
fini delle garanzie delle rappresentanze sindacali
aziendali ex art. 35 della legge n. 300/1970.
Prima di entrare nel merito delle novità introdotte
credo che sia necessario ricordare come fu variato dal
Legislatore il computo del contratto a termine ai fini
sopra indicati.
Fino alla data di entrata in vigore della legge n.
97/2013, l’art. 8 del D.Lgs. n. 368/2001, affermava
che, ai fini del campo di operatività delineato dall’art.
35 della legge n. 300/1970, i contratti a termine erano
computabili ove il rapporto avesse avuto una durata
superiore a nove mesi. L’art. 12 della legge comunitaria appena citata, prendendo lo spunto dalla procedu-
IV
ra di infrazione della Comunità Europea n.
2010/2045 stabilisce che «i limiti prescritti dal primo
e secondo comma dell’art. 35 della legge 20 maggio
1970, n. 300, per il computo dei dipendenti si basano
sul numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base
dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro».
La disposizione, in vigore dal 4 settembre 2013, va
correlata, ora, con il D.Lgs. n. 81/2015, nella quale i
lavoratori in mobilità, esclusi dalla disciplina speciale
sui contratti a tempo determinato, vanno, in ogni caso, computati, ai fini dell’art. 25 (principio di non discriminazione) e 27 (computo per le finalità dell’art.
35 della legge n. 300/1970): ebbene, la circolare del
Ministero del lavoro n. 35/2013 afferma che i computabili (con le modalità stabilite dalla legge n.
97/2013) sono «esclusivamente quelli assunti a partire dal 23 agosto 2013».
L’art. 35 stabilisce che per le imprese industriali e
commerciali le norme contenute nel titolo III (attività
sindacale) ad eccezione del primo comma dell’art. 27
(locali a disposizione delle rappresentanze sindacali
aziendali), si applicano a ciascuna sede, stabilimento,
filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di
quindici dipendenti. Per quelle agricole, invece, il limite dimensionale è fissato ad almeno sei dipendenti.
Queste norme trovano applicazione anche nei confronti delle imprese industriali e commerciali che nello stesso comune occupano almeno sedici dipendenti
e delle imprese agricole che nel medesimo ambito
territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche
se ciascuna unità produttiva, di per sé considerata,
non raggiunge tali limiti. È appena il caso di ricordare come per unità produttiva si intenda, per giurisprudenza costante, quella entità aziendale che si caratterizzi per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa
si svolga e si concluda il ciclo relativo, o una frazione, o un momento essenziale dell’attività produttiva
aziendale.
Da quanto appena detto, discende una applicazione
concreta dei nuovi criteri: in presenza di più contratti
a termine sviluppatisi nel corso degli ultimi ventiquattro mesi (criterio mobile che va calcolato, a ritroso dal momento in cui sarà necessario fare il computo) dovranno essere sommate le durate dei singoli
rapporti per cui, ad esempio, se nel biennio precedente sono stati stipulati contratti a tempo determinato di
8, 10 e 9 mesi, occorrerà sommare i periodi ed il risultato di 27 dovrà essere diviso per 24, dando un totale di 1,12 arrotondato per difetto ad una unità lavorativa.
Detto questo, entro nel merito della questione osservando che il Legislatore delegato premette, all’applicazione della regola generale, la frase «salvo che sia
diversamente disposto», cosa che, ad esempio, riguarda una serie di disposizioni specifiche tra le quali
spicca il computo relativo alla base di calcolo per i
disabili.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
L’art. 4, comma 27, della legge n. 92/2012, intervenendo sull’art. 4 della legge n. 68/1999, aveva cancellato, ai fini del calcolo, quell’esonero normativo
concernente i rapporti a tempo determinato fino a nove mesi. Tale “status”, però, è durato soltanto pochi
giorni, in quanto con l’art. 46-bis della legge n.
134/2012 si è verificata una parziale “marcia indietro”, nel senso che, oggi, sono esclusi dal computo i
contratti a termine di durata fino a sei mesi. Va, peraltro, sottolineato come il Ministero del lavoro, con la
circolare n. 18 del 18 luglio 2012, dettando le prime
indicazioni operative alle proprie strutture periferiche,
abbia affermato che nel computo non vanno inclusi i
rapporti stipulati per la sostituzione di lavoratori
aventi diritto alla conservazione del posto (es. maternità, infortunio, malattia, nel caso in cui questi ultimi
siano stati già calcolati) e che i singoli contratti vanno
computati con riferimento all’anno (due rapporti a
tempo determinato di sei mesi, valgono, ad esempio,
una unità).
Un’altra norma particolare concerne il lavoro a tempo
parziale e determinato, ove l’art. 9 del D.Lgs. n.
81/2015 afferma che “ai fini della applicazione di
qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per
la quale sia rilevante il numero dei dipendenti, i lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione
all’orario svolto, rapportato al tempo pieno. A tal fine, l’arrotondamento opera per le frazioni di orario
che eccedono la somma degli orari a tempo parziale
corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno». I lavoratori a tempo parziale con contratto a termine, vanno computati pro-quota in relazione all’orario svolto ma, ovviamente, ai fini delle quantificazioni di organico previste dall’art. 35 della legge n.
300/1970 per l’applicazione di particolari garanzie,
occorrerà effettuare il calcolo sulla base dei nuovi criteri introdotti dall’art. 12 della legge n. 97/2013.
Un discorso abbastanza analogo, nel senso che anche
qui si rinviene una disposizione particolare, lo troviamo per il contratto intermittente ove l’art. 18 del
D.Lgs. n. 81/2015 afferma che ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina legale o contrattuale per la
quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, il lavoratore intermittente è computato
nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario
di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun
semestre.
C’è, poi, la disposizione specifica contenuta nell’art.
18, comma 9, della legge n. 300/1970 ove si afferma
che ai fini del computo dei dipendenti lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale
vanno calcolati «per la quota di orario effettivamente
svolto».
Un altro istituto sul quale si incide, ai fini della computabilità, è quello della sicurezza.
L’art. 4, comma 1, lettera d), del D.Lgs. n. 81/2008,
che tratta, invece, gli obblighi in materia di sicurezza
ed igiene sul lavoro, esclude dal computo dei dipendenti utile per far scattare particolari obblighi in ma-
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
teria di sicurezza ed igiene sul lavoro, i soggetti che
sono stati assunti con contratto a tempo determinato
in sostituzione di lavoratori aventi diritto alla conservazione del posto.
Va ricordato, inoltre, come i contratti a termine siano
espressamente esclusi dal computo del personale in
forza alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le assunzioni a tempo determinato: infatti,
l’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2015, comprende, nella base
di calcolo, unicamente i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato.
Su chi va ad incidere la nuova determinazione contenuta nell’art. 27?
Innanzitutto, sulle imprese artigiane e, soprattutto, sui
limiti dimensionali previsti dalla legge n. 443/1985
ma anche (probabilmente, con effetti positivi per
l’impresa) sui limiti dimensionali delle aziende con
un organico inferiore alle venti unità le quali, in caso
di sostituzione di una lavoratrice avente diritto alla
conservazione del posto, godono per un massimo di
dodici mesi di una franchigia contributiva pari al
50%.
C’è, infine, quello che a me sembra l’aspetto di maggiore impatto: quello relativo ai limiti dimensionali
per l’applicazione della procedura di mobilità e dei
trattamenti conseguenti, dei trattamenti integrativi, e
della disciplina dei fondi di solidarietà per i quali è in
corso l’iter di approvazione del Decreto delegato e
che, presumibilmente, andrà in Gazzetta Ufficiale
verso la fine del prossimo mese di agosto. Qui si parla (art. 13 della bozza di decreto approvato, in prima
lettura, dal Consiglio de Ministri) di percentuali variabili della contribuzione ordinaria legate al numero
dei dipendenti, del numero medio di più di quindici
dipendenti riferito al semestre precedente per gli interventi integrativi straordinari (art. 20), del numero
individuato dalle parti sociali ai fini dei fondi di solidarietà bilaterali (art. 26), del fondo di solidarietà residuale (numero superiore alle quindici unità, secondo la dizione dell’art. 28) e del fondo di interazione
salariale che dovrebbe riguardare i datori di lavoro
che occupano mediamente più di cinque dipendenti
(art. 29) e che non rientrano nell’ambito di applicazione previsto dalla normativa generale. Quanto appena detto potrebbe avere un impatto notevole sia
sulla contribuzione dovuta che sulle prestazioni.
Ma qui, come sempre, occorrerà attendere ciò che sarà scritto nella versione definitiva del decreto e, soprattutto, l’orientamento sia del Ministero del lavoro
che dell’Inps.
Art. 28: decadenza e tutela
L’art. 28 ricorda che l’impugnazione del contratto a
tempo determinato deve avvenire, pena la decadenza,
entro centoventi giorni dalla sua comunicazione in
forma scritta o dalla comunicazione, sempre in forma
scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi
atto scritto, anche di natura extragiudiziale, idoneo a
rendere nota la volontà del lavoratore al datore di la-
V
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
voro anche attraverso l’intervento di una organizzazione sindacale: ovviamente, l’impugnazione è inefficace se non segue, con le modalità previste dal secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604/1966, il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in
funzione di giudice del lavoro.
Il termine di centoventi giorni rappresenta, nel sistema delle impugnazioni delle risoluzioni del rapporto
di lavoro, una eccezione rispetto al termine ordinario
perentorio di 60 giorni: ciò fu il frutto di quanto, allora, affermò l’art. 1, comma 11, della legge n. 92/2012
che, innovando l’art. 32, comma 3, lettera a), della
legge n. 183/2010, prese atto che lo “stacco” da un
contratto a tempo determinato e l’altro era fissato, rispettivamente, in sessanta e novanta giorni, rendendo,
di fatto, impossibile il rispetto del termine generale.
Ora, lo stacco è tornato a dieci e venti giorni, ma il
termine “lungo” per impugnare è rimasto lo stesso.
Il legislatore delegato, ha anche riaffermato, al comma 2, che nei casi di trasformazione (non si parla più
di conversione) del contratto a termine in un contratto
a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore
al risarcimento del danno fissando una indennità di
natura onnicomprensiva compresa tra un minimo di
2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del Tfr (modalità già inserita dal D.Lgs. n. 23/2015 per il calcolo della indennità dei lavoratori assunti con “le tutele crescenti”), definendo l’importo sulla base dei criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei
lavoratori occupati, dimensioni dell’azienda, anzianità
di servizio, comportamento e condizioni delle parti).
L’indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal
lavoratore comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza
del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha
ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
Qualora (comma 3) la contrattazione collettiva, anche
aziendale, secondo l’interpretazione fornita dall’art.
51, preveda l’assunzione a tempo indeterminato, di
lavoratori già occupati a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo di dodici mensilità viene ridotto a sei.
La legittimità di tale interpretazione (che riprende
quella analoga contenuta nell’art. 32, comma 5, della
legge n. 183/2010 e nell’art. 1, comma 13 della legge
n. 92/2012) è stata già oggetto di un intervento della
Corte Costituzionale con la sentenza n. 226 del 25 luglio 2014, investita dal Tribunale di Velletri circa la
conformità del risarcimento rispetto agli articoli 3 e
117 della Costituzione, in quanto rappresenterebbe
anche una riduzione delle tutele previste nella Direttiva Europea sui contratti a tempo determinato, la
1999/70 Ce.
La Consulta ha dichiarato infondato il ricorso, dopo
aver anche argomentato sulla volontà del Legislatore
comunitario. La forfetizzazione del risarcimento accompagnata dalla trasformazione del rapporto coniuga la tutela economica del prestatore al «bisogno di
VI
certezza dei rapporti giuridici tra le parti coinvolte
nei processi produttivi anche alfine di superare inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il
sistema previgente».
La specifica indennità risarcitoria in caso di trasformazione del contratto a termine è stata dichiarata
conforme alla Direttiva Europea da una sentenza della Corte Europea di Giustizia (C-361/2012) del 12 dicembre 2013 (l’esame riguardava il contenuto dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010) che, decidendo su una remissione proveniente dal Tribunale
di Napoli, ha ritenuto che non si potesse parlare di discriminazione rispetto al trattamento di natura economica scaturente dall’applicazione dell’art. 18 della
legge n. 300/1970. La Corte ha ritenuto che la differenza di trattamento sia pienamente compatibile con
le disposizioni comunitarie che vietano l’approvazione di regole discriminatorie tra lavoratori con contratto a tempo determinato, ma non il trattamento differenziato tra situazioni giuridiche non equivalenti.
Una constatazione conclusiva, su questo argomento,
va fatta partendo dal fatto che la fine delle causali e
la novità introdotta con l’art. 23, comma 4, che esclude la trasformazione del contratto in caso di superamento del limite percentuale legale o contrattuale alla
stipula, hanno, di molto, ristretto l’operatività della
norma prevista dall’art. 28.
Una riflessione si rende necessaria in tema di licenziamento: quello di natura disciplinare legittima la
possibilità del recesso anticipato?
La risposta è positiva ma, il tutto, va riportato all’interno dell’art. 7 della legge n. 300/1970, in ottemperanza a ciò che affermò la Corte Costituzionale con
la sentenza n. 204 del 30 novembre 1982.
Un’altra riflessione va fatta sulla tutela della maternità in caso di cessazione del contratto a tempo determinato: l’art. 54 consente la risoluzione del rapporto
alla scadenza del termine.
Un breve cenno ad altre due considerazioni che riguardano le procedure collettive di riduzione di personale ed il periodo di preavviso: per quel che concerna il primo argomento si ricorda che l’art. 24,
comma 4, della legge n. 223/1991 afferma che esse
non riguardano «i casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili e
nei casi di attività stagionali e saltuarie».
Per quel che riguarda, invece, la seconda questione si
ricorda che la particolare configurazione del contratto
a termine ove esiste una scadenza prefissata esclude
che il datore di lavoro sia tenuto al rispetto dell’obbligo previsto dall’art. 2118 c.c.
Art. 55: abrogazioni relative a normative
sui contratti a termine
Nel D.Lgs. n. 81/2015 l’art. 55 rappresenta un po’ un
articolo “omnibus”, nel senso che comprende tutta
una serie di abrogazioni e norme transitorie che riguardano tutte le tipologie contrattuali e gli istituti
compresi nel provvedimento.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
Per quel che riguarda il contratto a tempo determinato
viene abrogato, a partire dal 25 giugno 2015, il
D.Lgs. n. 368/2001 (comma 1, lettera b), ad eccezione dell’art. 2 (comma 2) la cui cancellazione è rimandata al 1° gennaio 2017.
Per la verità il Legislatore delegato parlando di abrogazione del D.Lgs. n. 368/2001 aggiunge «e fermo
restando quanto disposto dall’art. 9, comma 20, del
D.L. n. 78/2010 convertito, con modificazioni, nella
legge n. 122». Di cosa si tratta?
È una norma che, all’insegna del contenimento della
spesa pubblica fissa, nella Pubblica Amministrazione,
comprese le Agenzie, le Università e gli Enti pubblici
non economici. limiti alla utilizzazione di personale
con tipologie flessibili, tra cui il contratto a tempo determinato.
Il comma 2, invece, rinvia di circa 18 mesi l’abrogazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 368/2001 ai settori del
trasporto aereo, dei servizi aeroportuali ed a quelli
postali di avere una normativa del tutto particolare
che, almeno per il trasporto aereo, affonda le sue origini nell’art. 1, lettera f), della legge n. 230/1962.
Per quel che concerne il trasporto aereo ed i servizi
aeroportuali (se ne parla perché la norma sarà vigente
anche l’anno prossimo) è previsto che le imprese possano stipulare contratti a termine per un periodo massimo complessivo di sei mesi tra aprile ed ottobre, o
di quattro mesi in altri periodi dell’anno nel rispetto
di una percentuale massima del 15% dell’organico
aziendale adibito costantemente. L’aliquota massima
va calcolata sul personale in forza alla data del 1°
gennaio dell’anno al quale si riferiscono le assunzioni. Nei c.d. “aeroporti minori” che lavorano oltre le
proprie normali possibilità in alcuni brevi periodi dell’anno il limite del 15% può essere sforato, ma è necessaria la preventiva autorizzazione della Direzione
territoriale del lavoro che è tenuta ad emettere il
provvedimento, entro i sessanta giorni successivi all’istanza (v. D.M. n. 227/1995), sulla base di considerazioni relative alla quantità dell’attività ed al parere
delle organizzazioni provinciali di categoria alle quali
vanno comunicate le richieste di assunzione.
Quanto detto per il trasporto aereo e per i servi aeroportuali si applica anche, per effetto del comma 1-bis
dell’art. 2, alle imprese concessionarie dei servizi nel
settore delle poste: qui il periodo massimo complessivo è di sei mesi tra aprile ed ottobre, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti. Anche in questo caso la percentuale è del 15% sull’organico in forza al 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le
assunzioni, rispetto alle quali incombe sul datore di
lavoro un onere di comunicazione nei confronti delle
organizzazioni sindacali provinciali di categoria.
La norma specifica, dopo quella generale introdotta
nel nostro ordinamento dal D.L. n. 34/2014 e ripetuta
dall’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2015, non aveva, ad avviso di chi scrive, più ragione di esistere e bene ha
fatto il Legislatore delegato a procedere all’abrogazione.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Contratti a termine particolari previsti
dall’ordinamento
Assunzioni degli sportivi professionisti
Un altro contratto a termine che è fuori dalla disciplina del D.Lgs. n. 81/2015 (che non ne fa, assolutamente, cenno) è quello previsto dalla legge n.
91/1981 in materia di rapporti tra società sportive e
professionisti. Il rapporto può assumere diverse forme
e, per quel che ci interessa in questa trattazione, anche quello del contratto a tempo determinato che deve essere conforme (art. 4) ad un contratto tipo predisposto dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate. Il comma 8 del
medesimo articolo, oltre ad escludere l’applicazione
di disposizioni fondamentali della legge n. 300/1970
afferma che «ai contratti a termine non si applicano
le norme della legge n. 230/1962»: ovviamente, ora,
tale disposizione è da leggersi riferita al D.Lgs. n.
81/2015. Il contratto (art. 5) può contenere l’apposizione di un termine risolutivo, non superiore a cinque
anni, dalla data di inizio del rapporto ed è ammessa
la successione di contratto a termine fra gli stessi soggetti, come è ammessa la cessione del contratto. Si
tratta, in ogni caso, di un contratto tipico che deve rispettare le formalità previste dall’art. 4: se ciò non
avviene, affermò, a suo tempo, la Corte di Cassazione
(Cass., 8 giugno 1995, n. 6439), ricorrendone i presupposti, il contratto è di lavoro subordinato e, quindi, non operando la deroga prevista al comma 8 dell’art. 4, si applica la disciplina generale sul contratto
a tempo determinato.
Il contratto degli sportivi professionisti è, a tutti gli
effetti, una tipologia di lavoro subordinato, sia pure a
termine, nella maggior parte dei casi (nel settore calcistico la durata massima del contratto è di cinque anni). Ciò comporta la necessità di tutti gli adempimenti
amministrativi conseguenti alla instaurazione ed alla
gestione di un normale rapporto di lavoro (comunicazione anticipata al centro per l’impiego, scritturazioni
sul Libro Unico del Lavoro alle scadenze prefissate,
ecc.), ma anche, nell’ipotesi di una risoluzione anticipata sia consensuale (cosa frequentissima nel c.d.
“mercato calciatori”) che per dimissioni, quella della
convalida dell’atto rescissorio, secondo la procedura
individuata dall’art. 4, commi 17 e seguenti, della
legge n. 92/2012 e che sta per essere cambiata dal decreto legislativo sulla semplificazione nei rapporti di
lavoro.
Il D.Lgs. n. 81/2015 non trova, in alcun modo, applicazione e le stesse eventuali rivendicazioni di natura
giudiziaria non possono essere avanzate direttamente,
in quanto la clausola compromissoria prevede che
sulle stesse si pronunci un collegio arbitrale.
Assunzioni nelle imprese qualificate come
“start-up innovative”
C’è, poi, il contratto a tempo determinato attivabile
nelle c.d. “start-up innovative” e che trova la propria
VII
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
disciplina fondamentale nell’art. 28 della legge n.
223/1991. I requisiti per la costituzione di queste imprese sono espressamente indicati dall’art. 25 che, in
alcuni punti, è stato innovato attraverso l’art. 9 del
D.L. n. 76/2013 e che prevede cospicui vantaggi di
natura fiscale, economica e normativa.
La materia delle “start-up innovative” è, in questa sede, unicamente trattata per i rapporti a tempo determinato i quali si sviluppano con disposizioni fortemente derogative rispetto al D.Lgs. n. 81/2015.
Il comma 1 dell’art. 28 afferma che le disposizioni si
applicano per un periodo di quattro anni (quindi, non
sono strutturali) dalla data di costituzione dell’impresa innovativa o se è già stata costituita nei due anni
precedenti il 20 ottobre 2012, data di entrata in vigore
del D.L. n. 179/2012, per scendere a tre se la “nascita” risale al triennio precedente e a due se la costituzione è avvenuta nei quattro anni antecedenti.
Il successivo comma 2 “tagliava”, anticipando quello
che, a partire dal 21 marzo 2014 sarebbe avvenuto
con il D.L. n. 34/2014, le motivazioni tecnico, produttive, organizzative e sostitutive. Affermando che
le stesse si ritenevano sussistenti allorquando erano
inerenti o strumentali all’oggetto sociale della startup.
Il comma 3 si preoccupa di toccare altri aspetti importanti che rappresentano una deroga sia alla durata
che al periodo di “stacco” tra un contratto e l’altro,
che all’istituto della proroga, che alla stipula di un ulteriore contratto a tempo determinato al raggiungimento della “soglia” dei trentasei mesi che, infine, alla non computabilità sotto l’aspetto quantitativo di tali contratti, secondo la previsione confermata dall’art.
23, comma 2, lettera b) del D.Lgs. n. 81/2015.
La durata minima del contratto è di sei mesi, quella
massima di trentasei. È tuttavia possibile prevedere
una durata inferiore ai sei mesi.
Lo “stop and go” tra un contratto e l’altro (dieci o
venti giorni secondo la durata del primo rapporto)
non trova applicazione: queste imprese possono anche “attaccare” un contratto all’altro senza soluzione
di continuità e senza correre il rischio della trasformazione a tempo indeterminato.
Il limite massimo dei rapporti a termine trova il “muro” dei trentasei mesi: anche qui, ai fini della computabilità, valgono le regole generali, che a partire dal
18 luglio 2012, comprendono anche le utilizzazioni
con contratto di somministrazione. Superata la soglia,
il contratto si considera a tempo indeterminato a meno che, prima dello “sforamento”, le parti non sottoscrivano, presso la Direzione territoriale del Lavoro
competente per territorio, un ulteriore contratto a termine la cui durata massima è fissata dal Legislatore
in dodici mesi: la particolarità, rispetto alla regola generale allora vigente, era che non c’era bisogno di alcun accordo collettivo che fissasse il limite massimo
e non necessariamente il lavoratore doveva sottoscrivere il contratto con l’assistenza di un rappresentante
VIII
sindacale (cose che, ora, sono state generalizzate dal
D.Lgs. n. 81/2015).
Se il datore di lavoro arriva al limite dei trentasei
mesi, non stipula l’ulteriore contratto a termine e
non trasforma il rapporto a tempo indeterminato,
può continuare ad avvalersi dell’opera del lavoratore?
Il legislatore si è preoccupato che un uso “distorto” o
“capzioso” della norma consenta l’utilizzazione del
lavoratore con altre forme contrattuali e, pertanto, ha
affermato al comma 5 che la «trasformazione in contratti di collaborazione priva dei caratteri della prestazione d’opera o professionale determina la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato». Detto
questo, però, non va dimenticata anche l’interpretazione fornita dal Ministero del lavoro per tutti i contratti a termine nella circolare n. 18/2012: è possibile
un impiego successivo dello stesso lavoratore attraverso contratti di somministrazione, atteso che il
“blocco” riguarda soltanto i contratti a tempo determinato.
Il comma 6 si può definire come una disposizione di
“chiusura”: vi si afferma che, per quanto non previsto
esplicitamente, valgono le regole del D.Lgs. n.
368/2001 (ora del D.Lgs. n. 81/2015) e quelle del capo I, titolo II, del D.Lgs. n. 276/2003, che disciplina i
rapporti in somministrazione che però, ora, sono
“normati” dagli articoli da 30 a 39 del D.Lgs. n.
81/2015: tra questi si potrebbero citare i termini per
l’impugnativa del licenziamento per nullità del termine da esternare al datore di lavoro entro centoventi
giorni, con ricorso in giudizio entro i centottanta giorni o il risarcimento del danno che accompagna la
reintegra, in caso di illegittimità del licenziamento,
fissata, in un’indennità risarcitoria compresa tra 2,5 e
12 mensilità, comprensiva delle conseguenze retributive e contributive (art. 28 del D.Lgs. n. 81/2015).
Collocamento dei disabili
La normativa sul contratto a termine va, necessariamente, rapportata, ad avviso di chi scrive, ad altre
leggi come, ad esempio, la n. 68/1999 che interessa il
collocamento dei disabili.
Il contratto a termine viene in evidenza per due aspetti:
a) ai fini della computabilità nella base di calcolo per
la individuazione della copertura d’obbligo relativa ai
datori di lavoro pubblici e privati soggetti all’onere,
come previsto dall’art. 4, comma 1;
b) ai fini dell’assolvimento dell’obbligo, attraverso le
convenzioni per l’inserimento lavorativo, nella previsione dell’art. 11, comma 2.
In ordine al primo aspetto si osserva che la norma afferma, tra le altre cose, la non computabilità dei soggetti con contratto a tempo determinato di durata non
superiore a sei mesi (a ciò si è giunti dopo le modifiche introdotte con l’art. 46-bis della legge n.
134/2012). Il problema che si pone è se il calcolo vada effettuato sulla base del singolo contratto o della
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
sommatoria di più contratti nel periodo considerato
(si fa la “fotografia” dell’organico al 31 dicembre essendo, al momento, l’obbligo di presentazione del
prospetto fissato al 31 gennaio successivo). La risposta, attenendosi alla dizione letterale della norma, non
può che propendere per la prima tesi.
Il Ministero del lavoro, con la circolare n. 4 del 17
gennaio 2000, ha affrontato il problema relativo ai
datori di lavoro che svolgono attività stagionale, affermando che sono esclusi dalla base di computo i lavoratori che abbiano prestato attività nell’arco dell’anno solare, anche se non continuativamente, per un
periodo complessivo di nove mesi (ora ridotto a sei
mesi), calcolato sulla base delle corrispondenti giornate lavorative.
Per quel che concerne il secondo aspetto va sottolineato come nell’ottica di favorire l’inserimento dei
soggetti portatori di handicap, il Legislatore ha previsto la possibilità, attraverso l’istituto della convenzione tra datore di lavoro e servizio territoriale competente del collocamento dei disabili, di contratti a tempo determinato.
L’assunzione di un lavoratore disabile con contratto a
termine è stata ritenuta, in passato, in linea di massima, non coerente con il dettato, allora previsto, dalla
legge n. 482/1968, che calcolava le carenze d’obbligo
sulla base delle scoperture relative al personale a tempo indeterminato, fatta eccezione per le attività a carattere stagionale di durata superiore a tre mesi: e la
Magistratura di merito fu coerente con tale principio
sostenendo (Trib. Milano, 28 luglio 1982, Pret. Sestri
Ponente, 18 febbraio 1989) che il fine generale della
legge era quello di assicurare un’occupazione stabile
e duratura al disabile.
Ora, un’assunzione a termine è possibile nell’ambito
di una convenzione ex art. 11 della legge n. 68/1999
ove, all’accordo tra il servizio disabili e l’impresa, sovrintende, a mo’ di regia, il comitato tecnico, previsto
dall’art. 6: lo spirito della convenzione è quello di venire, da un lato, incontro alle esigenze del datore di
lavoro e, dall’altro, quello di favorire il proficuo inserimento di soggetti con particolari handicap. Ciò che
è importante sottolineare (anche ai fini di una eventualità risarcitoria) è che, comunque, risulti dalla richiesta di avviamento inviata all’organo del collocamento (qui, c’è sempre il nulla-osta) dalla quale risulti che l’instaurando rapporto è a tempo determinato
(Cass. 26 settembre 1998, n. 9658).
La previsione del contratto a termine per un lavoratore disabile era già fuori dalle specifiche motivazioni
previste all’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001:
lo aveva affermato la Cassazione con la sentenza n.
13285 del 31 maggio 2010, sostenendo che non era
necessario indicare le ragioni che giustificavano la
scelta, in quanto l’assunzione era regolata dalla legge
n. 68/1999 che non prevedeva tale giustificazione.
Ora, a maggior ragione, tale tesi è attuale, in considerazione della abrogazione delle ragioni giustificatrici.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Lavoratori marittimi
Va, da subito, sottolineato come nel caso di specie, si
sia, completamente, al di fuori del D.Lgs. n. 81/2015.
Infatti, il contratto a termine dei lavoratori marittimi
trova la propria specifica disciplina nel R.D. 30 marzo 1942, n. 327 (c.d. “codice della navigazione”) il
quale, all’art. 325 stabilisce che il contratto di arruolamento può essere stipulato:
a) per un dato viaggio o per più viaggi;
b) a tempo determinato;
c) a tempo indeterminato.
Agli effetti del contratto di arruolamento per viaggio
si intende il complesso delle traversate tra porto di
caricazione e porto di ultima destinazione, oltre all’eventuale traversata in zavorra per raggiungere il porto
di caricazione.
Il successivo art. 326 afferma che il contratto a tempo
determinato e quello per più viaggi possono essere
stipulati per una durata non superiore ad un anno: se
sono stipulati per una durata superiore, si considerano
a tempo indeterminato.
Se, in forza di più contratti di viaggio o più contratti
a termine, o con più contratti dell’uno o dell’altro tipo, l’arruolato presti servizio ininterrotto alle dipendenze dello stesso armatore per oltre un anno, il rapporto di arruolamento viene regolato dalle disposizioni concernenti il contratto a tempo indeterminato.
Una prestazione si considera ininterrotta se lo stacco
tra la stipula di un contratto e l’altro intercorre un periodo pari od inferiore a 60 giorni.
Le disposizioni del codice della navigazione sono state oggetto di una decisione della Corte Europea di
Giustizia il 3 luglio 2014 (cause riunite C-362/13, C363/13 e C-407/13), interpellata dalla Corte di Cassazione con ordinanze del 3 aprile 2013, pervenute il
28 giugno ed il 17 luglio 2013, la quale, investita da
ricorsi di tre lavoratori adibiti al trasporto marittimo
ferroviario nello stretto di Messina, chiedeva se la
normativa di riferimento fosse compatibile con l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato nel settore, concluso il 18 marzo 1999, figurante come allegato alla Direttiva 1999/70/Ce, e con la Direttiva
2009/13/Ce, recante attuazione dell’accordo concluso
dall’Associazione armatori della Comunità Europea e
dalla Federazione europea dei lavoratori dei trasporti.
Le conclusioni della Corte Europea, chiamata anche a
definire se la legge nazionale poteva indicare la durata del contratto ma non il termine sono state le seguenti:
a) l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,
concluso il 18 marzo 1999, figurante quale allegato
alla Direttiva 1999/70/Ce del Consiglio del 28 giugno
1999, relativo all’accordo quadro Ces, Unice e Ceep
sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che si applica a lavoratori, quali i ricorrenti nei procedimenti principali, occupati in qualità
di marittimi con contratti a tempo determinato su traghetti che effettuano un tragitto marittimo tra due
porti situati nel medesimo Stato membro;
IX
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
b) le disposizioni dell’accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato devono essere interpretate nel senso che esse non ostano a una normativa nazionale,
quale quella in questione nei procedimenti principali,
la quale prevede che i contratti di lavoro a tempo determinato debbono indicare la loro durata, ma non il
loro termine;
c) la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che
essa non osta, in linea di principio, a una normativa
nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, la quale prevede la trasformazione dei
contratti a tempo determinato in un rapporto a tempo
indeterminato unicamente nel caso in cui un lavoratore interessato sia stato occupato ininterrottamente in
forza di contratti del genere dallo stesso datore di lavoro per una durata superiore ad un anno, tenendo
presente che il rapporto va considerato ininterrotto
quando i contratti a tempo determinato sono separati
da un intervallo inferiore o pari a 60 giorni. Spetta,
tuttavia, al giudice del rinvio verificare che i presupposti per l’applicazione nonché l’effettiva attuazione
di detta normativa costituiscano una misura adeguata
per prevenire e punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
Pubblico impiego
Sul contratto a tempo determinato nelle Pubbliche
Amministrazioni, il Legislatore è intervenuto più volte e l’originario testo contenuto nell’art. 36 del
D.Lgs. n. 165/2001 è stato riscritto più volte, come
dimostra l’art. 49 della legge n. 133/2008 e da, ultimo, il D.L. 31 agosto 2013, n. 101 convertito, con
modificazioni, nella legge n. 125/2013. Il Legislatore
fa riferimento, a più riprese, al D.Lgs. n. 368/2001
(che, ora, va inteso al D.Lgs. n. 81/2015) ma, come
cercherò di dimostrare, molte sono le disposizioni
che non trovano applicazione o che sono difficili da
applicare.
È proprio partendo dai contenuti dell’art. 4 della legge n. 125, entrato nel “corpus” dell’art. 36, che possiamo capire quale è, al momento, lo “stato dell’arte”.
Negli ultimi anni l’obiettivo che i vari Governi si sono posti, spesso con risultati altalenanti, è stato quello
di contenere la spesa pubblica, sia intervenendo sulle
assunzioni in pianta stabile con il blocco delle stesse,
sia intervenendo con il c.d. “patto di stabilità” sulle
spese del personale, sia, infine, cercando di limitare il
ricorso a forme contrattuali flessibili.
Per quel che riguarda i rapporti a tempo determinato
vengono, ora, stabiliti due punti essenziali ed inderogabili:
a) i contratti possono essere instaurati «per rispondere
ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale». Rispetto al vecchio testo è stato aggiunto l’avverbio «esclusivamente» che dovrebbe costitui-
X
re una remora normativa, finalizzata a far sì che la disposizione non venga aggirata;
b) il contratto a termine deve trovare specifico riferimento in una ben precisa motivazione, pur mancando,
nella normativa generale del D.Lgs. n. 81/2015, le ragioni giustificatrici: ciò significa che dovranno essere
chiaramente riportate e specificate le motivazioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive alla base
dell’assunzione che, ovviamente, debbono trovare anche una stretta correlazione con le “esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”. Esse
non debbono essere delle “clausole di stile” (che la
Giurisprudenza ha, più volte, annullato nel settore
privato sotto l’imperio del D.Lgs. n. 368/2001), ma
debbono avere un contenuto particolarmente esaustivo finalizzato a giustificare quel tipo di assunzione a
termine che resta pur sempre eccezionale.
Il D.L. n. 101/2013 non è intervenuto sul comma 5bis dell’art. 36: da ciò ne discende che l’esercizio del
diritto di precedenza per assunzioni a tempo indeterminato che scatta dopo almeno sei mesi di rapporto,
quello per lavoro stagionale (entrambi debbono essere
esercitati, per iscritto, rispettivamente, entro sei e tre
mesi dalla scadenza), è valido unicamente per i contratti sottoscritti a seguito di avviamento a selezione
per qualifiche e profili professionali per i quali si
chiede, quale titolo, la scuola dell’obbligo. La ragione
appare evidente: l’avviamento a selezione (in origine,
previsto dall’art. 16 della legge n. 86/1987) fu pensato come sostituto del concorso pubblico, per ovviare
alle “lunghezze procedurali” di quest’ultimo.
Il comma 5-ter che è stato aggiunto dal D.L. n.
101/2013 afferma che il D.Lgs. n. 368/2001 (ora è da
intendersi il D.Lgs. n. 81/2015) si applica a tutte le
Pubbliche Amministrazioni (che sono quelle individuate dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001) e
che il contratto a tempo determinato (al di fuori della
ipotesi sopra evidenziata del comma 5-bis) non può
essere trasformato a tempo indeterminato.
Quali sono le conseguenze del mancato rispetto di
queste disposizioni?
I contratti a termine posti in essere sono nulli e determinano responsabilità erariale (comma 5-quater).
Quest’ultimo concetto fa sì che, da un punto di vista
economico, il lavoratore va retribuito per le prestazioni effettuate (con i relativi oneri contributivi), ma chi
“paga” è il Dirigente responsabile per il quale viene
espressamente richiamato l’art. 21 (mancato raggiungimento degli obiettivi, inosservanza delle direttive
che possono comportare anche l’impossibilità del rinnovo dell’incarico dirigenziale, con posizionamento
“fuori ruolo” o, nei casi più gravi, con la risoluzione
del rapporto, previa contestazione disciplinare). Sotto
l’aspetto prettamente pratico, la norma ricorda che al
Dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del
lavoro flessibile (quindi, non soltanto, il contratto a
tempo determinato ma anche quello di somministrazione o le prestazioni accessorie, rivisti nelle forme e
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
nei contenuti dal D.Lgs. n. 81/2015), non può essere
erogata la retribuzione di risultato.
L’applicazione integrale della normativa sui contratti
a termine, ora disciplinati non più dal D.Lgs. n.
368/2001, ma dagli articoli compresi tra il 19 ed il 29
del D.Lgs. n. 81/2015, significa verificare anche sino
a che punto sono utilizzabili taluni istituti come la
proroga e l’ulteriore contratto a tempo determinato
dopo il raggiungimento del tetto massimo dei 36 mesi.
Premesso che dell’ulteriore contratto ne parlerò al termine di questa riflessione, andiamo a verificare come,
in che termini, e con quali limiti si possa parlare della
proroga nei contratti a termine nella Pubblica Amministrazione.
L’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2015, proseguendo nella
semplificazione già portata avanti con la legge n.
78/2014, ha previsto un massimo di 5 proroghe nell’arco temporale di 36 mesi, ha ipotizzato che in caso
di superamento del limite massimo il contratto si considera a tempo indeterminato a partire dalla sesta proroga, ha tolto il riferimento «alla stessa attività», lasciando, ovviamente, la manifestazione del consenso
alla prosecuzione da parte del lavoratore e considerando che, per effetto dell’art. 3, il lavoratore può essere adibito a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime
effettivamente svolte.
Ebbene, questi principi non sono facilmente trasportabili per le seguenti considerazioni:
a) nel settore privato, il datore di lavoro, a fronte di
esigenze lavorative che egli stesso valuta e delle quali
non deve rispondere a nessuno, decide di prorogare il
contratto come crede. Nel settore pubblico ciò non è
così semplice, nel senso che il Dirigente deve verificare se le esigenze temporanee ed eccezionali (che
debbono essere esclusive) sussistono ancora (e per
quanto) e se sussiste la copertura economica (contributiva e salariale), derivante dall’impegno finanziario
previsto: si tratta di passaggi importanti che, se non
rispettati, potrebbero portare anche ad una responsabilità di natura erariale;
b) nel settore privato, il datore di lavoro se “sbaglia”
il computo delle proroghe vede il rapporto trasformato a tempo indeterminato a partire dalla sesta ed è lo
stesso a “pagarne” le conseguenze. Nel settore pubblico, invece, non c’è la trasformazione del rapporto
a tempo indeterminato, attesa la previsione dell’art.
97 della Costituzione, ed il Dirigente risponde, personalmente, del danno economico (legato alle prestazioni svolte dal lavoratore) qualora il proprio comportamento sia dovuto a dolo o colpa grave.
Le nuove disposizioni sui contratti a termine esplicano anche i propri effetti sull’art. 7, comma 6, della
legge n. 125/2013, che consente la stipula di contratti
a termine o di collaborazione, anche di natura occasionale, per esigenze rispetto alle quali non possono
far fronte con il “normale organico”. Senza andare
nello specifico (cosa che ci porterebbe lontano dalla
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
nostra riflessione, atteso che si tratta di un fenomeno
molto abusato per gli uffici di diretta collaborazione
del personale politico di “vertice”), si ricorda che il
comma 3 (con la non erogazione del premio di risultato per il Dirigente responsabile) si applica anche a
tali ipotesi e, fermo restando il divieto della trasformazione a tempo indeterminato, trovano applicazione
le disposizioni del comma 5-quater dell’art. 36 (nullità del contratto, responsabilità erariale e responsabilità dirigenziale).
La normativa italiana che esclude nel settore pubblico
la trasformazione (il D.Lgs. n. 81/2015 non parla più
di “conversione”) a tempo indeterminato dei contratti
a termine per violazione delle disposizioni che li regolano, è stata oggetto anche di una pronuncia della
Corte Europea di Giustizia il 7 settembre 2006, nella
causa C – 180/04. Nel dispositivo, pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 28 ottobre 2006, si afferma che «l’accordo quadro sul lavoro
a termine, del 18 marzo 1999, che figura nell’allegato
all a di rett iva del Consi g li o 2 8 g iugno 1999,
1999/70/Ce, relativa all’accordo quadro Ces, Unice e
Ceep su lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso
di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di
contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato
da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore
pubblico, che questi siano trasformati in contratti o
rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale
trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di
lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente
al settore privato, qualora tale normativa contenga
un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del
caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un
datore di lavoro rientrante nel settore pubblico».
C’è, poi, la questione della contribuzione: le Amministrazioni Pubbliche non debbono pagare il contributo
aggiuntivo dell’1,40% su tutti i contratti a termine (le
eccezioni riguardano anche i c.d. “contratti sostitutivi”, quelli stagionali e frutto di avvisi comuni, e l’apprendistato, nella sola ipotesi nella quale è considerato contratto a termine - settore del turismo in ambito
stagionale - atteso che si tratta di un contratto a tempo indeterminato): lo afferma, espressamente, l’art. 2,
comma 29, della legge n. 92/2012. All’atto della cessazione del rapporto a tempo determinato il lavoratore ha diritto al trattamento di NASpI secondo le modalità, gli importi e la temporalità fissati dal D.Lgs.
n. 22/2015.
Due parole, inoltre, legate agli adempimenti burocratici: tutte le Pubbliche Amministrazioni debbono
adempiere alle comunicazioni obbligatorie telematiche nei confronti del centro per l’impiego entro il 20
del mese successivo a quello nel quale è avvenuto
l’evento, attraverso il modello “Unilav”: ciò riguarda
sia le instaurazioni che le proroghe, che, infine, le
cessazioni. Per quel che riguarda il contratto a tempo
XI
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
determinato se, all’atto della comunicazione di avvenuta assunzione è già stato fissato il termine finale, la
comunicazione di cessazione non va effettuata.
Il mancato assolvimento di tali oneri comporta l’irrogazione, per ogni violazione, di una sanzione amministrativa compresa tra 100 e 500 euro, diffidabile ex
D.Lgs. n. 124/2004 e sanabile con il pagamento in
misura minima, nei termini consentivi, pari a 100 euro oltre alle spese di notifica.
Va, poi, ricordato come la Corte Europea di Giustizia
con la sentenza del 26 novembre 2014 (C-22/2013)
relativa al personale a tempo determinato della scuola, abbia stabilito alcuni punti importanti che debbono
valere anche per altri comparti pubblici: la reiterazione dei contratti a termine oltre il limite massimo di
36 mesi finalizzata a coprire le carenze di organico,
senza alcuna previsione di procedura concorsuale, è
contraria alla Direttiva comunitaria 1999/70 Ce.
Quanto appena detto offre la possibilità di trattare
l’ultimo argomento relativo alla stipula di un ulteriore
contratto a tempo determinato, secondo la previsione
contenuta nell’art. 19, comma 3, del D.Lgs. n.
81/2015.
Vi sono delle oggettive difficoltà per la stipula di un
ulteriore contratto a termine per la durata massima di
dodici mesi sottoscritto avanti al funzionario della Direzione territoriale del lavoro competente per territorio: se il nuovo contratto va a coprire carenze di organico, sia pure “mascherate” con altre motivazioni, è
senz’altro contrario alla Direttiva comunitaria ma, al
contempo, pur se non lo fosse, dovrebbe trovare una
oggettiva giustificazione nelle motivazioni già alla
base del contratto (esigenze di natura esclusivamente
temporanea ed eccezionale alle quali non si può far
fronte con il normale organico). In tale ipotesi sarebbe opportuno acquisire “a priori” un parere dell’ufficio legale dell’Ente e, magari, se possibile, ottenere
una sorta di avallo preventivo degli organi di controllo, finalizzato a certificare che le ragioni eccezionali
(ad esempio, eventi sismici) che lo hanno determinato
non sono ancora terminate.
Il rischio di una richiesta di danno erariale da parte
degli organi di controllo della Corte dei Conti (che
potrebbe riguardare anche il funzionario della Direzione del lavoro che ha siglato l’accordo sottoscritto
dalle parti) appare estremamente possibile.
Lavoro stagionale dei cittadini
extracomunitari
Un caso del tutto particolare di lavoro a termine di
carattere stagionale è quello previsto dall’art. 24 del
D.Lgs. n. 286/1998 che ha subito notevoli modifiche
attraverso l’art. 17 del D.L. n. 5/2012, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 35/2012.
C’è, subito, da sottolineare come il D.Lgs. n.
368/2001 (ed, ora, il D.Lgs. n. 81/2015) non sia,
automaticamente, applicabile a tale fattispecie che fa
riferimento sia alle modalità di costituzione, che al rilascio del permesso di soggiorno che alle durate mini-
XII
me e massime dei rapporti, al D.Lgs. n. 286/1998 ed
al regolamento applicativo contenuto nel D.P.R. n.
394/1999.
Il c.d. “decreto flussi” relativo all’anno, emanato con
un D.P.C.M., stabilisce il numero delle quote di ingresso per lavoro stagionale, riferito alle singole nazionalità, con precedenza per quei Paesi con i quali
l’Italia ha siglato accordi di collaborazione. Il numero
delle quote viene ripartito, su base provinciale, dalla
Direzione Generale per l’immigrazione del Ministero
del lavoro, sulla base sia dei fabbisogni che delle determinazioni adottate “in congiunta” con il Dicastero
dell’Interno. Gli ingressi per lavoro stagionale, riguardano, appunto, quelle attività che per la loro conformazione sono da definirsi come tali (si pensi al
settore turistico ma, soprattutto, a quello agricolo):non possono, ad esempio, essere considerate “stagionali” attività che seppur facenti riferimento al mondo
agricolo, tali non sono (si pensi, ad esempio, alla cura
del bestiame).
La durata complessiva del rapporto o dei rapporti che
legittimano l’ingresso nel nostro Paese va da un minimo di venti giorni ad un massimo di nove mesi.
Le istanze vanno presentate allo Sportello Unico per
l’Immigrazione, ubicato presso la Prefettura, esclusivamente in via telematica e l’autorizzazione all’ingresso viene rilasciata al termine di un veloce iter
procedimentale che vede coinvolte, a vario titolo, la
Direzioni territoriale del lavoro e la Questura. Le domande possono essere presentate anche dalle associazioni di categoria per conto degli imprenditori agricoli associati, come affermato dalla circolare del Ministero del lavoro n. 6/2007.
L’art. 17, della legge n. 35/2012, oltre a modificare
l’art. 24 del D.Lgs. n. 286/1998, afferma (comma 1)
che attraverso la comunicazione obbligatoria anticipata al centro per l’impiego ex art. 9-bis della legge n.
608/1996, il datore di lavoro assolve anche a tutti gli
obblighi di comunicazione della stipula del contratto
di soggiorno concluso direttamente tra le parti per
l’assunzione di un lavoratore con permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato in corso di
validità.
L’art. 24 del T.U. n. 286/1998 viene modificato nei
commi 2 e 3, sicché, ora, la normativa di riferimento
prevede che nel caso in cui siano trascorsi venti giorni dalla presentazione dell’istanza per l’ingresso di un
lavoratore extra comunitario per lavoro stagionale e
lo sportello unico per l’immigrazione non abbia
espresso il proprio diniego, la domanda si intende accolta in virtù del principio del silenzio-assenso, qualora sussistano due precise condizioni:
• la richiesta riguardi un lavoratore già autorizzato
nell’anno precedente a prestare la propria attività lavorativa presso lo stesso datore di lavoro;
• il lavoratore stagionale sia stato effettivamente assunto dal datore di lavoro ed abbia rispettato tutte le
condizioni inserite nel permesso di soggiorno.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
Nel “corpus” normativo viene, poi, inserito un nuovo
comma, il 3-bis, con il quale si stabilisce che, fermo
restando il periodo massimo di nove mesi del permesso di lavoro stagionale, l’autorizzazione si intende
prorogata ed il permesso di soggiorno può essere rinnovato nel caso in cui si presenti una nuova opportunità di lavoro stagionale offerta dallo stesso o da altro
datore di lavoro.
L’art. 17 continua, poi, intervenendo sul regolamento
attuativo del T.U. n. 286/1998, con alcuni chiarimenti
relativi agli articoli 38 e 38-bis del D.P.R. n.
394/1999 ed introducendo un ulteriore periodo al
comma 3 dell’art. 38-bis: queste sono le novità:
• l’autorizzazione al lavoro può essere concessa a più
datori di lavoro, dopo il primo, che utilizzano lo stesso lavoratore stagionale in periodi successivi, ed è rilasciata a ciascuno di essi pur se il lavoratore si trovi,
legittimamente nel nostro Paese, a causa dell’avvenuta instaurazione del primo rapporto di lavoro stagionale: il lavoratore è esonerato dall’obbligo di rientro
nel proprio Paese per il visto consolare d’ingresso, ed
il permesso è rinnovato fino alla scadenza del nuovo
rapporto stagionale, nel rispetto del limite massimo
(nove mesi);
• la richiesta di assunzione per gli anni successivi al
primo, può essere effettuata da un datore di lavoro diverso da quello che ha ottenuto il nulla osta triennale
al lavoro stagionale.
C’è un’ultima questione che riguarda la contribuzione
aggiuntiva dell’1,4%, a partire dal 1° gennaio 2013:
la stessa non si applica ai datori di lavoro che occupano lavoratori extra comunitari stagionali, in quanto la
caratteristica del contratto è proprio quella della stagionalità.
Incentivi per l’assunzione con contratto
a tempo determinato
La Legislazione italiana relativa alle agevolazioni per
le assunzioni è cresciuta, nel corso degli anni, in maniera disordinata ed “affastellata”: più volte si è cercato di razionalizzare la materia e, per certi aspetti,
anche la legge delega n. 183/2014 ci prova.
Ovviamente, la maggior parte degli incentivi (che
possono essere di natura economica, contributiva, fiscale e normativa) sono finalizzati alle assunzioni a
tempo indeterminato, come dimostrano, da ultimo, le
disposizioni agevolatrici contenute nella legge n.
190/2014. Basti pensare all’esonero contributivo fino
ad un massimo di 8.060 euro sulla quota a carico del
datore di lavoro da far valere per ognuno dei tre anni
successivi alla instaurazione del rapporto, con l’unico
limite, per il lavoratore, dato dal non aver avuto negli
ultimi sei mesi un contratto a tempo indeterminato
(art. 1, comma 118), dalla esclusione dalla base di
calcolo dell’Irap del costo del personale assunto a
tempo indeterminato (art. 1, commi da 20 a 26).
Detto questo, tuttavia, se vi va a “spulciare” la normativa, ci si accorge che anche per i contratti a tempo
determinato c’è qualcosa di interessante.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
La breve disamina che segue tratterà, quindi, unicamente gli incentivi per le assunzioni a tempo determinato, ricordando che il presupposto per il godimento
delle agevolazioni è il rispetto della previsione contenuta nell’art. 1, commi 1175 e 1176 della legge n.
296/2006 (possesso del Durc ed applicazione del trattamento economico e normativo previsto nel Ccnl di
categoria stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale e, se
esistenti, da quello disciplinato dal contratto di secondo livello) ed il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 4, commi 12 e seguenti della legge n. 92/2012 e
che si sostanzia, fondamentalmente, nel rispetto dei
diritti di precedenza, nel non riconoscimento dei benefici in caso di interventi integrativi salariali straordinari in corso e nel non riconoscimento nelle ipotesi
in cui le assunzioni a termine riguardino lavoratori licenziati, negli ultimi sei mesi dallo stesso datore di
lavoro o da imprese collegate o controllate.
Andiamo con ordine:
a) assunzione a termine dei lavoratori in mobilità
(art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991)
I lavoratori in mobilità possono essere assunti con un
contratto a tempo determinato di durata non superiore
a dodici mesi. L’assunzione presenta una specifica
agevolazione: il, datore di lavoro “gode” di una contribuzione ridotta sulla quota a suo carico, del tutto
analoga a quella prevista in via ordinaria per gli apprendisti (10%).
Le caratteristiche del contratto a termine sono essenzialmente due: la prima fa riferimento ad un principio
consolidato che è quello in base al quale, già prima
delle novità introdotte con la legge n. 78/2014, non
era in alcun modo necessaria la individuazione di una
delle motivazioni individuate dal vecchio art. 1 del
D.Lgs. n. 368/2001, principio ora confermato dall’art.
29, comma 1, lettera a) del D.Lgs. n. 81/2015. Lo disse, da subito, in via amministrativa, il Ministero del
Lavoro, lo sostenne la Cassazione pur in vigenza della legge n. 230/1962, lo dice, ora, la norma che del
D.Lgs. n. 81/2015 ritiene applicabili soltanto gli artt.
25 (divieto di discriminazione) e 27 (criteri di computo).
La seconda riguarda la durata dell’agevolazione contributiva: essa non può essere superiore (riferita al
singolo lavoratore) a dodici mesi (raggiungibili con
uno o più contratti, anche prorogati).
Il contratto a termine può essere anche a tempo parziale: ovviamente, la contribuzione agevolata incide
soltanto sulle ore lavorate.
La trasformazione del rapporto a tempo indeterminato
comporta, se avviene nel corso del 2015, la piena applicabilità delle agevolazioni previste dalla legge n.
190/2014 (8.060 euro all’anno per tre anni, ma senza
cumulabilità della agevolazione contributiva ridotta
del 10% prevista dalla legge n. 223/1991), alle quali
si aggiunge, secondo la circolare Inps n. 17/2015, il
50% dell’indennità di mobilità non ancora percepita
dal lavoratore.
XIII
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
La platea dei soggetti “potenzialmente” interessati al
contratto a termine è composta da tutti i lavoratori
iscritti nelle liste di mobilità sia perché licenziati al
termine di una procedura collettiva di riduzione di
personale che per giustificato motivo oggettivo, con
esclusione dal 1° gennaio 2013 dei lavoratori licenziati da aziende che occupano fino a quindici dipendenti.
È appena il caso di ricordare che, non trovando applicazione il D.Lgs. n. 81/2015, i contratti a termine per
i lavoratori in mobilità, non rientrano nella sommatoria dei trentasei mesi e non sono sottoposti, all’interno dei dodici mesi massimi di durata, alle disposizioni sull’intervallo tra un contratto a termine, alla disciplina del diritto di precedenza (tranne che ciò non sia
previsto da una disposizione contrattuale, non trovando applicazione l’art. 24) ed al numero massimo di
proroghe;
b) assunzione a termine per sostituzione di lavoratrici o lavoratori in astensione obbligatoria o facoltativa per maternità presso datori di lavoro sotto dimensionati alle venti unità (art. 4, commi 2, 3 e 4, del
D.Lgs. n. 151/2001)
L’art. 10, comma 2, della legge n. 53/2000, poi confluito nell’art. 4 del D.Lgs. n. 151/2001, nell’intento
di favorire l’occupazione, sia pure temporanea, dei lavoratori attraverso il contratto a termine con motivazione “sostitutiva per maternità”, ha previsto che nelle aziende con meno di venti dipendenti venga concesso uno sgravio contributivo del 50% fino al compimento di un anno di età del figlio della lavoratrice
o del lavoratore in congedo, o per un anno dall’accoglienza del minore adottato o in affidamento. Se la
sostituzione avviene con un contratto di somministrazione a tempo determinato, l’impresa utilizzatrice recupera lo sgravio contributivo direttamente dalla
Agenzia per il lavoro.
Nelle aziende in cui operano lavoratrici autonome in
maternità (che sono tutte quelle comprese nel Capo V
del D.Lgs. n. 151/2001) è possibile procedere entro il
primo anno di età del bambino nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento con lo
sgravio contributivo che è sempre pari al 50%.
Come si vede, si tratta di una tutela ad “ampio spettro” che va esaminata con particolare attenzione.
Va, innanzitutto, verificato il sistema di calcolo degli
addetti. Nel computo rientrano tutti i lavoratori in forza, compresi quelli a domicilio ed i dirigenti, fatta eccezione di coloro che sono i sostituti “a termine” dei
titolari aventi diritto alla conservazione del posto (ovviamente, se computati).
Nella base di calcolo non rientrano gli apprendisti
(art. 47, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2015), gli assunti
con contratto di reinserimento (art. 20 della legge n.
223/1991) ed i lavoratori già impiegati in lavori socialmente utili ed assunti a tempo indeterminato (art.
7 del D.Lgs. n. 81/2000), mentre i lavoratori con contratto a tempo parziale sono calcolati “pro-quota” in
XIV
relazione all’orario svolto rispetto a quello contrattuale (art. 9 del D.Lgs. n. 81/2015).
Secondo l’Inps lo sgravio è riconosciuto anche nell’ipotesi in cui il lavoratore o la lavoratrice siano stati
sostituiti da due lavoratori a tempo parziale, purché la
somma delle loro prestazioni orarie sia uguale a quella di chi è stato sostituito (messaggio n. 28 del 14
febbraio 2001).
Cosa deve fare il datore di lavoro per accedere al beneficio contributivo?
Secondo la circolare Inps n. 117 del 20 giugno 2001
è sufficiente un’autocertificazione con la quale l’interessato dichiara di avere un organico inferiore alle
venti unità e che l’assunzione è avvenuta in sostituzione di lavoratrice assente per maternità.
Il Ministero del lavoro ha avuto modo di interessarsi
agli sgravi contributivi riconosciuti per tale tipologia
di contratto a termine rispondendo ad un interpello
(n. 36 del 1° settembre 2008) con il quale era stato
chiesto se l’incentivo poteva essere riconosciuto fino
al compimento di un anno di età del bambino, in presenza di un titolo di assenza mutato (da congedo a ferie). Il Dicastero del Welfare ha risposto negativamente, osservando che «non sembrano ravvisabili
margini interpretativi per poter procedere ad un ampliamento degli sgravi contributivi, in presenza di
una casistica compiutamente delineata dal Legislatore», circoscritta alla sola sostituzione di lavoratrici e
lavoratori in congedo;
c) incentivi al reimpiego di personale con qualifica
dirigenziale e sostegno alla piccola impresa (art. 20
della legge n. 266/1997)
Le imprese che occupano meno di duecentocinquanta
dipendenti o i loro consorzi che intendono assumere,
anche con contratto a termine, dirigenti privi di occupazione usufruiscono di uno sgravio complessivo della quota contributiva (sia a carico del datore che del
lavoratore) pari al 50% per una durata non superiore
a dodici mesi. Le modalità operative sono contenute
nel messaggio Inps n. 23786 del 24 giugno 2005 e
nella circolare del Ministero del lavoro n. 218 del 6
novembre 2007;
d) l’assunzione con contratto a termine degli ultracinquantenni (art. 4, comma 8, della legge n.
92/2012)
Nell’intento di favorire l’occupazione dei soggetti di
difficile ricollocazione, il Legislatore ha previsto che,
a partire dal 1° gennaio 2013, i datori di lavoro (con
esclusione di quelli domestici) che assumono con
contratto a termine, anche in somministrazione, lavoratori “over 50”, disoccupati da oltre dodici mesi,
hanno diritto alla riduzione del 50% dei contributi a
carico del datore di lavoro per un periodo massimo di
dodici mesi.
Sull’argomento sono intervenute le circolari Inps n.
111/2013 e quella del Ministero del lavoro n. 34/2013
che hanno trattato l’argomento, sia anche per le assunzioni a tempo indeterminato, sottolineando la necessità, ai fini del riconoscimento dei benefici di al-
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
cune condizioni, riferibili alla regolarità contributiva,
all’applicazione dei trattamenti economici previsti
dalla contrattazione collettiva, al rispetto dei diritti di
precedenza ex art. 4, comma 12 della legge n.
92/2012, all’incremento occupazionale, richiesto dal
Regolamento Ce n. 800/2008.
Il Legislatore parla di contratti a termine: qui si pone
un primo problema che è quello di decidere se essi
rientrano nella sfera d’influenza del D.Lgs. n.
81/2015, oppure no. La risposta, è, senz’altro, positiva in quanto la norma non individua alcuna esclusione, come, invece, è avvenuto per il contratto a tempo
determinato ex art. 8, comma 2, della legge n.
223/1991, escluso espressamente dall’art. 29, comma
1, lettera a), del D.Lgs. n. 81/2015.
Il Legislatore riconosce un massimo di dodici mesi di
sgravio contributivo: ciò non significa che il contratto
non possa avere una durata superiore (e, magari, con
la proroga arrivare fino a trentasei mesi), ma esso
rappresenta il tetto massimo rispetto al quale opera lo
sgravio, al quale (con la sola eccezione del contratto
per sostituzione di lavoratore assente avente diritto alla conservazione del posto, o di quello per attività
stagionali), si applica il contributo addizionale
dell’1,4%, restituibile, in caso di trasformazione del
rapporto a tempo indeterminato grazie alla previsione
contenuta nell’art. 1, comma 135, della legge n.
147/2013 che ha superato il limite posto dalla legge
“Fornero” relativo agli ultimi sei mesi. La restituzione del contributo addizionale, sotto forma di conguaglio, avviene anche nell’ipotesi in cui il contratto a
tempo indeterminato venga instaurato entro i sei mesi
successivi alla cessazione del rapporto a termine: in
questo caso vengono detratti i mesi “di non lavoro”
intercorrenti tra la cessazione del primo contratto e
l’inizio del secondo.
Qualora la trasformazione del contratto a termine degli “over 50” avvenga nel corso del 2015, sono applicabili le agevolazioni previste dall’art. 1, comma 118,
della legge n. 190/2014: lo afferma la circolare Inps
n. 17/2015 che, tuttavia, richiama il rispetto delle
condizioni generali e specifiche di cui si è parlato pocanzi.
La descrizione, sia pure sommaria, delle agevolazioni
disposte in favore delle imprese che assumono lavoratori “over 50” disoccupati da oltre un anno, suscita
una domanda: si tratta di una nuova tipologia assuntiva, oppure nel nostro ordinamento già c’era qualcosa
di simile?
Il pensiero corre agli incentivi per l’occupazione previsti, in maniera non strutturale dall’art. 2 della legge
n. 191/2009 e, segnatamente, al comma 134, prorogato, per tutto il 2012, attraverso l’art. 33, comma 25,
della legge n. 183/2011, per i quali la contribuzione
ridotta a carico dei datori di lavoro era del tutto pari a
quella prevista, in via ordinaria, per gli apprendisti
(10%). Tale disposizione ammetteva al beneficio chi
assume lavoratori titolari dell’indennità di disoccupazione con requisiti normali che avessero compiuto al-
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
meno cinquanta anni (non c’era l’ulteriore requisito
dello “status” che si protrae da almeno un anno). Il
beneficio spettava anche alle società cooperative per
il socio con il quale era stato, successivamente, instaurato un rapporto di lavoro subordinato. Il contratto poteva essere a tempo determinato, indeterminato,
a tempo pieno o parziale, con varie gradualità negli
incentivi e con possibilità di cumulo con altre agevolazioni previste, se ne ricorrevano i presupposti dal
comma 151. Tale beneficio (D.M. n. 53343 del 26 luglio 2010 e circ. Inps n. 22/2011) non era riconosciuto in alcuni casi che si trovano, oggi, riportati al comma 12 dell’art. 4);
e) incentivi alle assunzioni di donne di qualsiasi età
(art. 4, comma 11, della legge n. 92/2012)
Le stesse disposizioni (e questo è un ulteriore incentivo) trovano applicazione, nel rispetto del regolamento
Ce n. 800/2008, nei confronti delle assunzioni di donne di qualsiasi età, prive di un impiego regolarmente
retribuito da almeno sei mesi, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali europei e nelle aree individuate dal Ministro
del lavoro in “concerto” con quello dell’economia, e
che presentano determinati requisiti (art. 2, punto 18,
lettera e del regolamento sopra citato), nonché in relazione alle assunzioni di donne di qualsiasi età prive
di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, residenti su tutto il territorio nazionale.
Su questi aspetti sono intervenuti a regolamentare la
materia sia la circolare Inps n. 111/2013 che quella
del Ministero del lavoro n. 34/2013, la quale ultima,
tra l’altro, ha fornito una definizione relativa al requisito del lavoro non regolarmente retribuito da almeno
sei mesi, affermando che lo stesso deve avere quale
parametro di riferimento non tanto la temporaneità,
quanto la congruità del guadagno. Alla luce di quanto
appena detto sono da prendere in considerazione le
novità introdotte con il D.L. n. 76/2013 che, riformando quanto affermato nella legge n. 92/2012, consente il mantenimento dell’iscrizione nelle liste in
presenza di un reddito da lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa non superiore a
8.000 euro l’anno e 4.800 in caso di lavoro autonomo.
La situazione concernente le donne in cerca di occupazione da almeno sei mesi residenti nelle Regioni
ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi
strutturali dell’Unione europea sembrava, però, cambiata a partire dal 1° luglio 2014: ne dava notizia il
messaggio n. 6235 dell’Inps del 23 luglio 2014 il
quale affermava che l’incentivo era venuto meno non
per carenza di fondi ma perché nella normativa europea non c’era più la definizione di aree svantaggiate
alla quale fare riferimento (la disposizione era scaduta il 31 dicembre 2013 e la successiva proroga fino al
successivo 30 giugno era passata “senza colpo ferire”). Da ciò ne conseguiva, sotto l’aspetto operativo,
che dal 1° luglio 2014 non riceveva più il modello
XV
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
con il quale, in via preventiva, i datori di lavoro chiedevano la fruizione dell’agevolazione. Ma il 29 luglio
successivo (messaggio n. 6319) l’Istituto annullava il
messaggio precedente a seguito di un intervento del
Ministero del lavoro del 25 luglio (nota n.
40/00228096) il quale chiariva che l’incentivo previsto costituisce un regime di aiuti in favore dei lavoratori svantaggiati, sicché è possibile continuare a considerare utili ai fini dell’applicazione dell’incentivo le
aree indicate nella Carta, adottata con decisione
2007/5618, recepita nella legislazione nazionale con
D.M. del Ministro dello sviluppo economico del 27
marzo 2008, fino all’adozione della nuova Carta.
Per quel che riguarda la possibilità di assunzione a
tempo determinato, partendo dalla previsione contenuta nelle prime parole del comma 11, e ribadendo, si
può sostenere che:
a) lo sgravio contributivo del 50% è per un massimo
di dodici mesi: in caso di trasformazione del rapporto
a tempo indeterminato, lo stesso viene riconosciuto
XVI
per altri sei mesi, ma se ciò avviene nel corso del
2015, trovano applicazione le indicazioni previste
nella circolare Inps n. 17/2015 con l’applicazione, nel
rispetto di alcune previsioni generali, dell’incentivo
più favorevole previsto dall’art. 1, comma 118, della
legge n. 190/2014:
b) il contratto a termine può essere stipulato senza far
alcun riferimento a ragioni giustificatrici;
c) il contratto a termine così stipulato (a meno che
non si tratti di un contratto per attività stagionali)
rientra nella sommatoria dei trentasei mesi che rappresentano, sommati ai contratti di somministrazione,
il limite massimo, superato il quale, senza alcuna soluzione di continuità, il contratto diviene a tempo indeterminato;
d) a partire dal 1° gennaio 2013, trova applicazione il
contributo addizionale dell’1,40%, a meno che il contratto a termine non sia stato stipulato per ragioni “sostitutive” o per attività stagionali.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015