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PERIODICO QUADRIMESTRALE - PUBBLICAZIONE OMAGGIO - ANNO XXI N.77 DICEMBRE 2012 - SPEDIZIONE IN A.P. 70% - FILIALE DI MILANO
PANE QUOTIDIANO
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PERIODICO QUADRIMESTRALE DELLA SOCIETÀ PANE QUOTIDIANO (1898)
Iscritto alla
Unione
Stampa
Periodica
Italiana
ANNO XXI N.77 Dicembre 2012
Reg. del Trib. di Milano n.592 del 01/10/90
Spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Milano
Pubblicazione Omaggio
Direzione, Redazione, Pubblicità e Relazioni Stampa
Viale Toscana, 28 • 20136 Milano
Telefono 02-58310493 • Fax 02-58302734
www.panequotidiano.eu
indice
Crudo e cotto - Francesco Licchiello
4
La dieta mediterranea (e l’UNESCO) - Renzo Bracco
6
Il ‘Colpo di Stato’ - Gigliola Soldi Rondinini
10
Si crede a ciò in cui si vuole credere - Guido Buffo
12
Dalla Coda alla Testa del Drago - Enrica Franciolini
14
La Flotta Templare - Angelo Casati
17
Esicasmo, lo Zen dell’Occidente - Rodolfo Signifredi
19
Stati Uniti: capitalisti del Nord, gentiluomini e
schiavisti del Sud - Umberto Accomanno
21
Il disco di Festo: il più antico testo di lettere mobili
Atanor
23
Venezia: realtà e utopie alla 13a Mostra Internazionale
Vittoria Colpi
26
Gli enigmi nell’arte Bosch: Trittico delle delizie ovvero
il trionfo di Satana - Mirta Serrazanetta
29
El guarnasc - Ercole Pollini
30
Cucina - Ercole Pollini
33
Zanzare
34
[email protected]
Direttore Responsabile
Pier Maria Ferrario
Segretario di Redazione
Ercole Pollini
Relazioni Esterne
Cinzia Bianchi
Redazione
Gigliola Soldi Rondinini
Hanno collaborato:
Angelo Casati, Antonio Aràneo, Atanor, Enrica Franciolini, Ercole
Pollini, Francesco Licchiello, Gigliola Soldi Rondinini, Guido
Buffo, Mirta Serrazanetta, Renzo Bracco, Rodolfo Signifredi,
Umberto Accomanno, Vittoria Colpi.
Grafica e stampa:
Tipografia Vigrafica srl
Federico Ferrario
Viale gb Stucchi, 62/7 • Monza
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Copertina:
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Francesco Licchiello
Crudo e cotto
Antropologia dell’alimentazione
Il passaggio dallo stato naturale a quello culturale fu
compiuto in modo embrionale già ai tempi dell’homo
erectus, un ominide vissuto
tra i 1.600.000 e, in qualche
luogo, i 30.000 anni fa.
Infatti il Sinanthropus Pekinensis (300 a. C.), i cui resti
furono rinvenuti nella caverna
di Zhoukoudien nelle vicinanze di Pekino (Beijing) ) usava
vari utensili ed è quasi certo
che usasse il fuoco per cuocere il cibo e un linguaggio
per comunicare con gli altri.
Quale cibo? La carne della
selvaggina, radici, tuberi…
All’homo erectus fece seguito l’homo sapiens sapiens,
nostro
diretto
antenato,
giunto in Europa dall’Africa
e dal Medio Oriente intorno
a 45.000 anni fa, che eliminò,
talvolta mangiandolo, l’homo
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sapiens neanderthalensis che
l’aveva preceduto e che era
creatore di una superiore cultura materiale e spirituale.
L’ominide si alimentava con
la raccolta di frutti, radici,
tuberi, foglie, insetti; successivamente cominciò a mangiare anche la carne che si
procurava attraverso lo sciacallaggio o la caccia.
La carne veniva divorata cruda, ma in seguito fu scoperto
che cotta era più saporita e
più digeribile e, rispetto a una
laboriosa dieta erbivora o frugivora, la dieta carnea riduceva il volume dell’addome,
rendeva l’uomo più agile nei
movimenti e, con la riduzione
dei tempi per cibarsi, si aveva più tempo a disposizione
per dedicarsi ad altre attività.
Inoltre la caccia e l’assimilazione delle proteine animali
predisponevano a una pronunciata aggressività.
E’ stato accertato che, in luoghi e in epoche diverse, gli
uomini primitivi del paleolitico
praticavano il cannibalismo,
cioè mangiavano altri uomini.
Tra le varie ipotesi sul fenomeno del cannibalismo vi è
quella secondo la quale gli
uomini, vissuti per molti millenni come cacciatori e quindi come consumatori di proteine animali, quando diminuirono le prede a causa della
caccia o per cambiamenti
climatici e ambientali, per
continuare la dieta carnea, si
cibarono dei loro simili.
Intorno ai diecimila anni fa,
a causa della diminuzione
della selvaggina e per motivi
di comodità ambientale, gli
uomini da nomadi divennero
stanziali inventando, o me-
glio, dandosi all’allevamento
del bestiame e all’agricoltura.
La loro dieta si arricchì moltissimo e così nacque la “cucina”. Aldilà della semplice
descrizione dei cibi e della
loro cottura, l’analisi strutturale della cucina (cooking)
rivela schemi, disegni, motivi
da porre in relazione con la
formazione della cultura.
Il passaggio, il salto, dalla
natura alla cultura si compì,
dunque, anche con il passaggio dal crudo al cotto, dalla
dieta semplice a quella elaborata.
La cucina divenne una caratteristica importante del
comportamento umano correlato con il nutrimento che,
con il sesso e l’esercizio del
potere, è uno dei fondamenti
della vita sia degli animali che
dell’uomo.
Nell’uomo, tuttavia, a differenza degli animali, si compie il passaggio dalla natura
alla cultura per cui l’alimentazione, il potere e il sesso
assumono delle connotazioni
diverse con le quali si struttura la civiltà. Nell’umanità ogni
processo materiale è socializzato e produce delle rappresentazioni culturali, cioè
mentali.
Le analisi strutturali di LéviStrauss sulle mitologie dell’America Meridionale nell’opera
Il crudo e il cotto del 1964,
hanno messo l’accento sulle
tre condizioni fondamentali in cui i cibi si presentano
all’uomo, crudi, cotti o putridi, che portano alla duplice
opposizione crudo-cotto e
fresco-putrido, che esprimono anche i significati di natura
e cultura, vita e morte.
I processi culinari cambiano da una società all’altra
e riflettono l’ambiente geografico (flora e fauna), il reperimento, lo sfruttamento
delle risorse alimentari, le
tecniche culinarie e anche i
miti e i tabù, come nel pasto
totemico, in cui si mangia la
carne dell’animale totem che
rimanda all’origine della tribù
e all’antenato comune.
A questo proposito va ricordato che il sacrificio umano e
il consumo comunitario delle
carni del sacrificato, divenuto strumento del rapporto tra
l’uomo e la divinità, come nel
simbolismo dell’eucaristia,
era al centro di quasi tutte le
religioni primordiali.
Gli uomini preistorici avevano notato che la vita nasceva
soltanto da esseri viventi e
che si sosteneva consumando altre vite: piante, animali
e uomini.
Molte religioni si fondavano
sull’assunto che la vita era
nata dal sacrificio volontario di un dio che aveva così
creato l’umanità, per cui il
sacrificio animale e quello
umano, offerti agli dei, erano
una ripetizione rifondativa e
necessaria del sacrificio primordiale.
E’ evidente che gli uomini e
gli animali si nutrono consumando organismi viventi,
dalle piante agli altri animali.
Solo pochi elementi come
l’acqua e il sale sono inorganici.
L’uomo è all’apice della catena alimentare poiché mangia gli altri viventi e in tempi
remoti mangiava persino i
suoi simili, la qual cosa non
avviene nella stragrande
maggioranza delle specie
animali.
Con l’invenzione dell’agricoltura, in alcuni riti agrari,
le carni del sacrificato erano
sparse nei campi per fecondarli, come ricorda il mito di
Iside e Osiride.
Le operazioni culinarie sono
un luogo d’interazioni tecniche e nutrizionali, di rapporti
sociali e di rappresentazioni
culturali.
Pertanto i cibi assumono:
- valori sensoriali: sapore,
odore, tatto, temperatura…,
- valori estetici: apparecchiatura, colori, forma…
- valori culturali: tradizioni
culinarie etniche e familiari,
festività…
- valori sociali: cucina e consumo dei pasti rapportati
allo status o al ruolo sociale,
convivialità…
Il cibo acquista significati emozionali e simbolici
nel sociale e nelle religioni,
come nell’offerta di cibo agli
dei in vari culti primitivi o
contemporanei e nella transustanziazione del pane e
del vino nel corpo e nel sangue di Gesù nell’eucarestia a
ricordo del suo sacrificio per
riconciliare gli uomini con
Dio.
Alcune etnie distinguono tra
cibo puro o impuro.
Ad esempio gli ebrei consumano solo cibo kasher, i
musulmani non mangiano la
carne di maiale…
Certamente noi siamo, per
certi aspetti, ciò che mangiamo o ciò che hanno mangiato i nostri antenati. La scienza nutrizionale ci dice che le
varie popolazioni digeriscono
e assimilano meglio i cibi che
hanno consumato per millenni: si tratta di un adattamento
evolutivo. Tuttavia non abbiamo ancora le conoscenze e
le sperimentazioni adatte per
accertare l’interazione tra il
nostro soma, la nostra psiche
e il nutrimento che assumiamo; eppure questa interazione esiste ed è rilevante. Per
ora conosciamo, in parte, il
rapporto tra nutrizione e malattia.
Scrive Lévi-Strauss: «Il sistema culinario è un linguaggio nel quale ogni società
codifica quei messaggi che
le permettono di significare
almeno una parte di ciò che
essa è».
Nell’odierna società del benessere, caratteristica del
mondo nordoccidentale, l’arte culinaria (gastronomia) ha
assunto una grande rilevanza
economica, culturale e sociale.
Un tempo si distinguevano
nel mondo occidentale tre
tipi di cucine, supportate dai
ristoranti: la cucina francese considerata raffinata, la
cucina italiana apprezzata
per ricchezza e sapore e la
cucina cinese esotica e varia, sentita come popolare.
A completamento della diffusione del globalismo sono
apparse le cosiddette cucine
“etniche” provenienti da civiltà e popoli diversi.
L’industria cinematografica,
a specchio della realtà ambientale, mette in scena
donne affaccendate in cucina e la televisione propone
quotidianamente una grande
quantità di ricette realizzate
in ambienti culinari con bravi
cuochi e presentatrici.
Fin dall’inizio della civiltà il
pasto in comune assunse
un aspetto sociale e sacrale. Quelli che vi prendevano
parte si riconoscevano fratelli, compagni o amici. La
convivialità è una delle maggiori espressioni della socialità. Ancora oggi, presso alcuni popoli, è grave peccato
portare offesa a colui con il
quale si è diviso il pasto.
La convivialità non vuol dire
soltanto “consumare insieme
i cibi”. Convivialità è un
modo di intrattenersi con
gli altri, di comunicare, di
partecipare, che trova la
sua migliore espressione in
quei momenti che accompagnano e seguono il pranzo,
quando il pasto, le bevande
alcoliche, l’aumento degli ormoni endorfine e ossitocina,
hanno prodotto un’atmosfera socio-affettiva in cui è piacevole immergersi.
Il vino, assunto in giusta
quantità, scioglie i condizionamenti comportamentali,
esalta l’immaginazione e
spinge l’uomo a comunicare;
e questo stato di leggera eccitazione ed euforia si comunica anche all’astemio.
La convivialità dilata la nostra persona oltre le barriere
del nostro ego, ci fa sentire
gruppo, ci fa sentire elemento costitutivo di un tutto, del
mondo, che non si dà mai nel
singolo individuo, ma entro il
rapporto con gli altri.
La convivialità aiuta, inoltre,
a superare i grandi malanni
prodotti dall’attuale società:
la solitudine, l’incomunicabilità, la droga.
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Renzo Bracco
La dieta mediterranea
(e l’UNESCO)
Dopo aver fatto apprezzare
ai nostri lettori le prelibatezze di formaggi e salumi, ci
sembra doveroso ristabilire
l’equilibrio nutrizionale parlando di… dieta. Naturalmente non di una delle tante
diete che circolano da anni in
Italia e nel mondo, bensì della “madre di tutte le diete”: la
dieta mediterranea.
A qualcuno può essere sfuggita una notizia molto importante: il 16 novembre del
2010, la quinta Sessione del
Comitato intergovernativo
dell’Unesco ha incluso la dieta mediterranea nella Lista
del Patrimonio immateriale
dell’Umanità, accogliendo la
proposta del Ministero delle
Politiche agricole.
Non ci spaventi qui il termine
dieta (dal greco diaita): sta
a significare semplicemente “stile di vita”, ovvero l’insieme delle tradizioni, delle
conoscenze alimentari, dei
sapori e delle competenze
che hanno caratterizzato le
popolazioni del Mediterraneo. Trattasi di un modello
nutrizionale costituito principalmente da olio d’oliva,
cereali, frutta, spezie, una
moderata quantità di carne, pesce e latticini: il tutto
accompagnato dalla giusta
quantità di vino, nel rispetto
del territorio e dei tradizionali
mestieri dei popoli mediterranei, collegati all’agricoltura, viticultura e pesca.
Le origini di quella che oggi
definiamo “dieta mediterranea” risalgono alle abitudini
alimentari dell’antica Grecia
e dell’impero Romano, e si
sono mantenute quasi invariate fino ai giorni nostri.
Ma i suoi benefici per la salute furono individuati solo nel
1940 da un fisiologo americano, Angel Keys, durante il
suo soggiorno a Creta, dove
si trovava al seguito delle
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truppe alleate. Nelle sue osservazioni, si accorse che
nell’isola l’infarto miocardico
era pressoché sconosciuto,
facendone risalire l’origine
al tipo di alimentazione, praticato da secoli. Negli studi
successivi, condotti in sette
diversi Paesi, arrivò alla conclusione che negli abitanti
dei paesi mediterranei, data
il basso livello di colesterolo,
si registrava una minore incidenza di infarto. Nello stesso
periodo, la connessione tra
alimentazione e malattie del
ricambio fu intuita anche dal
medico nutrizionista genovese Lorenzo Piroddi, cui si
deve il libro Cucina mediterranea.
Praticare la dieta mediterranea non è difficile: molti dei
suoi prodotti cardine vedono
l’Italia al vertice della produzione mondiale. Basterà
citare la pasta, il vino, l’olio
d’oliva, la conserva di pomodoro, la verdura e la frutta
(anche se quest’ultima viene
oggi massicciamente importata persino da paesi extraeuropei, quali Israele, Cile,
Argentina, Sud Africa e Cina:
nei supermercati italiani si
può trovare facilmente l’aglio cinese. Se si pensa che
le esportazioni italiane negli
Stati Uniti iniziarono nel primo Novecento proprio con
l’aglio - e su ciò fu basata la
costituzione della Camera di
Commercio Italo-americana
di New York - si capisce
quanto in un secolo sia cambiato il mondo!).
L’olivo. È l’elemento fondamentale della dieta mediterranea: tracce fossili ne testimoniano la presenza ancor
prima della presenza dell’uomo. La sua coltivazione iniziò
in Siria, quindi passò a Creta,
e fu poi diffusa dai Fenici su
tutte le coste del Mediterraneo. Furono però i Romani
a perfezionare gli strumenti
utilizzati per la spremitura delle olive, e le tecniche
di conservazione dell’olio.
Questa sorta di elisir fu utilizzato sopratutto in cucina,
ma anche per cosmesi e per
illuminazione; l’ulivo divenne
anche simbolo di pace già
nelle Sacre Scritture, e simbolo di vittoria nella Magna
Grecia.
Si narra che Giove, per premiare chi avesse fatto il miglior dono agli uomini, lo
regalò ad Atena, ritenendolo
più utile persino del cavallo,
donato da Poseidon. Anche
se l’olio appare quotidianamente sulle nostre tavole,
vediamo di conoscerne meglio le proprietà. L’olio d’oliva è costituito per oltre il
90% da grassi insaturi, che
non creano accumulo di colesterolo; è ricco di vitamina
E e di altri composti organici
che costituiscono la vitamina
P, contribuendo al mantenimento in buone condizioni
dei capillari sanguigni. Le altre proprietà: è altamente digeribile, favorisce le funzioni
gastro-intestinali, ha un benefico effetto sulla funzione
epatica favorendo il flusso
biliare; infine favorisce l’assorbimento di tutte le vitamine liposolubili. Consumato
nelle giuste dosi, l’olio extravergine è indicato a tutte le
età. Molto digeribile anche
per i bambini, è consigliato
agli adulti perché ricco di antiossidanti. Quale scegliere?
Non c’è che l’imbarazzo della scelta - e del gusto: sono
oltre 500 le coltivazioni di
ulivi, con oltre 300 varietà,
praticamente in tutte le regioni d’Italia. Per chi volesse
saperne di più, consigliamo
di visitare il Museo dell’Olivo,
sito a Imperia-Oneglia, che
illustra i suoi 10.000 anni di
storia.
I cereali. Da millenni rappresentano un alimento fondamentale dei paesi mediterranei: coltivati nelle zone
temperate, furono alla base
della creazione dei primi villaggi stanziali, e ancora oggi
sono una delle fonti primarie
per l’alimentazione dell’uomo. Già noti e molto utilizzati al tempo dei romani (il
lemma “cereale” origina da
“Ceres”, dea della coltivazione) comprendono il frumento - sinonimo di grano, nelle
sue diverse varietà: l’avena,
la segale, l’orzo, e il farro,
mentre il mais comparve nel
Mediterraneo solo dopo la
scoperta dell’America. Sono
ricchi di fosforo, proteine e
glutine (ahimè, molto dannoso per gli affetti da celiachia,
allergia al glutine sempre più
frequente: oggi sono un milione i colpiti solo in Italia).
La produzione del frumento
duro è in continua espansione, a seguito del costante
aumento del consumo di paste alimentari, mentre si sta
riscoprendo la coltivazione
del grano saraceno.
I legumi. Meglio noti come
“la carne dei poveri”, presentano un elevato contenuto di proteine e di carboidrati
a lento assorbimento, ovvero a basso indice glicemico.
Della famiglia delle leguminose, i più diffusi sulle nostre
tavole sono le lenticchie, i
ceci, le fave, i piselli, i lupini
- tuttora venduti sulle bancarelle romane - e sopratutti
i fagioli, originari dell’America centrale, nelle loro molte
varietà: borlotti, cannellini,
bianchi di Spagna, lamon
del Trentino, messicani (ottimi per il chili), brasiliani
(componenti di base della
fejoada, che si arricchisce
con erbe aromatiche, aglio,
cipolla e soprattutto con la
calabresa, salsiccia piccante
di chiara origine italiana). Per
i calciofili, annotiamo che la
ricetta della fejoada spiega
perché i calciatori brasiliani
tornino dalle vacanze in Brasile sempre in sovrappeso…
Frutta e verdura. È persino troppo banale ricordare
che si dovrebbe consumare
quotidianamente la quantità
ideale: 5 porzioni di frutta e
verdura.
I loro vantaggi sono indubbi:
di fronte a un ridotto potere
calorico, generano un senso
di sazietà che limita l’assunzione eccessiva di altri cibi.
Inoltre, la grande quantità
d’acqua contenuta - nella frutta anche superiore
al 90% - è particolarmente
preziosa nelle calde giornate
estive, per aiutare a integrare
i liquidi perduti. E poi ci sono
le vitamine: ci limitiamo a segnalare le principali, mentre
per i loro benefici sarebbe
necessario un trattato a parte.
Vitamina A: cedri, meloni
(utile per la formazione della
vitamina C)
Vitamine B1,B2,B3,B5: datteri, arachidi, noci, pinoli, pistacchi.
Vitamina C: agrumi, kiwi,
meloni, pomodori, peperoni,
verdura a foglia verde
Vitamina E: noci, avocado,
asparagi
Vitamina K: cavoli, spinaci,
cime di rapa
Inoltre la frutta e la verdura
contengono numerosi mine-
rali, molto utili all’organismo,
e in forma facilmente assimilabile: calcio, cromo, ferro,
iodio, magnesio, potassio,
selenio, sodio, zinco.
Carne e pesce. La dieta
mediterranea consiglia un
consumo di pesce più abbondante rispetto alla carne.
È la storia stessa dei paesi
mediterranei che da sempre
ha visto abbondare il pesce
- specie quello azzurro - sulle tavole dei suoi popoli: infatti contiene proteine, acidi
grassi essenziali al metabolismo e alcuni sali minerali.
Quanto alla carne, da privilegiare la carne bianca (pollo,
tacchino, coniglio, cappone,
faraona, galletto, gallina), in
quanto ricca di proteine, e
con un basso tenore di grassi.
Da non trascurare, di questi
tempi, il rapporto qualità/
prezzo! Molto versatili per
la loro cottura, si prestano a
preparazioni semplici e gustose: basta citare il pollo al
limone o il petto di faraona al
porto; sempre ottime e facili
le cotture al forno. Si consiglia anche la cottura su pia-
7
stre di ardesia, oggi reperibili
in commercio, in particolare
nel ponente ligure, in omaggio al tipo di cottura del’uomo preistorico, che cuoceva
la cacciagione su pietra rovente.
I benefici . Sono stati citati i
grassi insaturi e gli antiossidanti. I primi sono contenuti
in gran quantità nell’olio extravergine e nei pesci, mentre i grassi animali, saturi,
sono nocivi alle arterie. Se
assunti nelle giuste quantità,
fanno calare il livello di LDL
(il cosiddetto colesterolo
“cattivo”) mentre tendono ad
aumentare l’HDL, il colesterolo “buono”. Gli antiossidanti invece sono sostanze
prodotte dalle piante a difesa della loro stessa struttura:
si oppongono all’ossidazione prodotta dai radicali liberi,
dannosi all’organismo.
Si ritrovano nell’olio d’oliva,
ma anche nel vino rosso e in
molte verdure.
Concludendo, gli studi più
recenti sugli effetti della dieta mediterranea provano che
ha effetti protettivi sul cervel-
8
lo, contribuendo a prevenire
o a ritardare il declino cognitivo, oltre ai benefici effetti
più noti, quelli nei confronti
delle malattie cardiovascolari.
I prodotti biologici. Da alcuni anni si vanno diffondendo
anche in Italia i prodotti biologici, che provengono da
coltivazioni che escludono i
prodotti chimici di sintesi, nel
pieno rispetto dell’ambiente.
Come fertilizzanti, vengono
usati concimi organici e minerali naturali; per la difesa
dai parassiti, solo prodotti e
sistemi di origine naturale e
a basso impatto ambientale.
Un prodotto per essere classificato “bio” deve rispondere ad alcune norme: coltivazione lontana da possibili
fonti di contaminazione, quali fabbriche, autostrade, fonti
inquinanti, ecc. Il suolo può
essere convertito al bio solo
dopo una pausa di almeno
due anni, perché nel terreno
vi potrebbero essere ancora
residui di fitofarmaci; per i
prodotti di origine animale si
devono selezionare le razze,
e alimentarle con mangime
non trattato chimicamente,
che escluda totalmente l’uso
di antibiotici, ormoni o altri
prodotti di sintesi. Infine per
la lavorazione, la trasformazione e la conservazione si
deve ricorrere a metodi che
non facciano uso di sostanze chimiche. Queste regole
sono contenute nella normativa CE 834/07, che definisce anche l’etichettatura,
per individuare il paese d’origine, l’organismo di controllo (ma qui sorge qualche
dubbio…), la trasformazione
del prodotto e persino il numero dell’autorizzazione alla
stampa delle etichette.
Conclusione: come recita un
vecchio adagio, “l’uomo è
ciò che mangia”.
Cerchiamo di mangiare “mediterraneo”!
Ma non possiamo concludere questo articolo senza
proporre un paio di ricette,
molto “mediterranee” e certamente salubri.
Foglie di lattuga stufate. Ta-
gliare a listelle le foglie di
due cespi di lattuga, ridurre
a rondelle la cipolla; scaldare l’olio extravergine, far
appassire la cipolla a fuoco
basso. Aggiungere la lattuga
e continuare la cottura per 5
minuti, salare e pepare. Versare un bicchiere di brodo
vegetale nella casseruola,
coprire e cuocere per 10 minuti. A fine cottura, togliere il
coperchio, alzare il fuoco e
ridurre il sugo di cottura mescolando bene.
Carbonara di porro. Affettare la parte verde di 2 porri
e marinarla con sale grosso per 20 minuti. Liberare i
porri dal sale, sciacquarli e
farli saltare in padella con
olio extravergine. Lessare
la pasta, nel formato a gradimento: penne, spaghetti o
altro; sbattere due uova con
poco olio, 2 cucchiai di formaggio grattugiato (pecorino e/o parmigiano, a scelta),
sale, pepe e, se piace, noce
moscata. Versare la pasta, al
dente, nella padella, a fuoco spento, e condirla con le
uova e i porri saltati.
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QUANDO BEVI IL LATTE TI SENTI UN PALLONE?
Latte Granarolo Accadì.
Digeribile anche da chi
ha difficoltà con il lattosio.
Grazie alla scomposizione del lattosio
nei due zuccheri che lo costituiscono,
più facilmente assimilabili,
puoi ritrovare il piacere del latte.
Granarolo Accadì. Più digeribile di così!
La Grande Passione per l’Alta Qualità.
Gigliola Soldi Rondinini
Il ‘Colpo di Stato’
Che cos’è un ‘colpo di Stato’? È uno dei fenomeni oggi
più frequenti, ma tra i meno
conosciuti e più discussi come tecnica, usato per
risolvere le crisi politiche,
quale metodo quasi universale di accesso al potere e
di controllo illegittimo del
governo, e quindi merita una
breve analisi.
Il termine è nato nel secolo
XVII e in Francia e il primo
che ne parlò, e forse inventò il termine, fu Gabriel Naudé, che pubblicò nel 1639 le
Considerations politique sur
le Coup d’État a uso esclusivo del cardinale romano
Niccolò Guidi. Tale termine
rimase in uso e comparve in
tutti i dizionari; in particolare,
nella lingua inglese non venne tradotto e rimase coup
d’État.
Secondo Naudé il ‘colpo di
Stato’ poteva essere giusto,
se favoriva il bene comune,
o ingiusto se era attuato per
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interesse personale e, comunque, doveva essere l’ultimo strumento a cui poteva
ricorrere un principe per salvare il potere, aveva quindi
il carattere di ultima risorsa
per la sua conservazione e
uno scopo del tutto difensivo, non tendendo al suo
ampliamento. Per Naudè si
trattava di prendere le redini
dello Stato, non di abbatterlo, eliminare una leadership
ritenuta inetta, o una fazioni
privilegiata, o ancora, inteso
come azione che si svolge
dall’interno all’esterno, era
praticabile quando colui che
deteneva il potere sentiva il
bisogno di colpire con forza
per rinvigorirlo.
I caratteri fondamentali del
‘colpo di Stato’ erano e sono
visti in particolare nella segretezza nella fase di preparazione e nella necessità
di una celere attuazione una
volta iniziato, il che gli dà la
caratteristica di atto imme-
diato e inaspettato, quale
evento cospirativo il cui risultato non è affatto garantito perché può fallire in ogni
momento sia della preparazione che dell’attuazione.
Da non trascurare però il suo
carattere violento, poiché la
sua esecuzione richiede un
trasferimento del potere da
realizzare con la forza o minacciando di ricorrervi.
Il ‘colpo di Stato’ si differenzia poi da altri tipi di attacco
al potere costituito quali la
congiura di palazzo, le ribellioni, la jacquerie, l’insurrezione, dalle quali differisce
perché si svolge in modo
ordinato, ragionato e metodico, con un’apparenza di
legalità. In definitiva, il golpe
(nella dizione spagnola diventata usuale) non intende
abbattere definitivamente il
regime precostituito portando avanti un programma politico o una particolare ideologia, ma mira alla conquista
o al controllo del governo,
senza modifiche particolari
del regime politico, del sistema economico o del sistema
sociale e culturale esistente.
Il ‘colpo di Stato’ si svolge
quindi in circostanze eccezionali con l’intento di creare
eccezioni a vecchie regole e creare nuove regole da
queste eccezioni, ponendo i
problemi in termini di finalità
e giustificazione.
Oggi, visto l’uso che ne è
stato fatto dal secolo XX soprattutto nei Paesi sudamericani, la storiografia gli ha
riservato una notevole attenzione e sono state elaborate, nell’ambito delle scienze
sociali, quattro teorie di base
che ci consentono di valutare il suo peso in rapporto alle
situazioni politiche e costituzionali degli Stati in cui viene
attuato: in particolare sempre all’interno del processo
di sviluppo di crisi politiche,
ma prendendo in considerazione il livello di sviluppo
economico, il tipo di organizzazione politica, l’organizzazione militare, e via dicendo.
Storicamente, possiamo
andare molto indietro: altri
pensatori avevano riflettuto
su questioni relative all’uso
e all’abuso del potere, sulla natura della dominazione
del tiranno, sulle circostanze che possono giustificare
sui sudditi l’uso della forza
da parte dei governanti. Ad
esempio, Aristotele parla dei
‘segreti dei principi’, Tacito,
degli arcana imperiorum intendendo le regole usate per
la conservazione dello Stato
in funzione esclusiva della considerazione del bene
pubblico e non del diritto;
gli imperatori romani si succedevano spesso tramite le
congiure militari di solito attuate senza un piano premeditato; nel Medioevo i ‘colpi
di Stato’ - sebbene non esistesse uno Stato come oggi
- furono numerosi in Italia,
in Francia, in Inghilterra, in
Svezia, dal momento che
i nobili che sostenevano il
potere del re o del principe
vigilavano affinché non divenisse tirannia, nel qual caso
eliminavano il re, come lo eliminavano quando non aveva
a cuore il bene pubblico, o
era un rex inutilis. In seguito, l’Illuminismo non vi prestò attenzione, ma neppure
i ‘colpi di Stato’ avvenuti tra
il 1744 e il 1799 furono considerati insegnamenti importanti, a eccezione di quello
del 18 brumaio 1799 (9-10
novembre 1799, Napoleone
imperatore) che ancora oggi
è un esempio di golpe parlamentare: in una monarchia
assoluta si sarebbero verificate congiure di palazzo o
sedizioni militari. Visto dunque all’inizio in modo favorevole, cominciò ad avere
un’interpretazione negativa,
sebbene non da parte di
tutti gli storici, da quello del
2 dicembre 1851 attuato da
Luigi Napoleone Bonaparte
che divenne imperatore di
Francia, ma, verso la fine del
secolo, fu screditato come
fenomeno politico e consi-
derato sinonimo di violazione dei diritti civili e politici.
La tendenza al rifiuto morale e giuridico del golpismo
fu rinforzata dalle opinioni
di alcuni celebri intellettuali
del tempo, a cominciare da
Victor Hugo, che scrisse l’Histoire d’un crime e Napoleon
le petit chiaramente alludendo al colpo di stato del 2
dicembre 1851, e Marx, che
attraverso il colpo di Stato
di Luigi Napoleone, intendeva raccontare il processo di
scontro crescente fra le classi sociali che sfociava in un
colpo di Stato come sviluppo logico delle contraddizioni all’interno delle varie fazioni, che, però in ultima analisi,
favorirono il rafforzamento e
il perfezionamento burocratico dello Stato.
Il fenomeno del golpismo è
notevolmente
aumentato
dopo la Seconda Guerra
Mondiale, soprattutto a causa dell’instabilità socio-politica dei Paesi del Terzo Mondo
impegnati nella lotta per l’indipendenza e per i processi
di integrazione e di sviluppo
dopo il colonialismo, ed è
spesso attuato dai militari,
oggi ormai perfettamente
organizzati e, in alcuni casi
partecipanti alla vita politica
dello Stato.
Il golpismo come causa ed
effetto dunque dell’instabilità
politica? È un interrogativo
da non trascurare, dal momento che la maggior parte
degli analisti ha visto in esso
la causa principale dell’indebolimento del potere politico
e, secondo me, non occorre
andare tanto lontano, ma si
può guardare in casa nostra
e agli eventi di un anno fa.
Bibliografia
E. GONZÁLEZ CALLEJA, Nelle tenebre di brumaio. Quattro
secoli di riflessione politica sul
colpo di Stato, Roma, Società
Editrice Dante Alighieri, Biblioteca della «Nuova Rivista Storica»,
2012.
G.SOLDI RONDININI, Colpo di
Stato nel Medioevo? Un’ipotesi di ricerca, in «Nuova Rivista
Storica», III, 2012, fascicolo monografico dedicato al “colpo di
Stato”’.
11
Guido Buffo
Si crede a ciò in cui si vuole credere
Il termine Demagogia, ben
noto a tutti noi, ha origini
greche. È composto da demos (popolo) e aghein (trascinare); indica il comportamento - politico - di chi,
attraverso false promesse
vicine ai desideri del popolo, mira ad accaparrarsi il
suo favore. La definizione,
puntuale e sintetica, è accessibile da chiunque abbia
una connessione internet,
al sito - utile e prezioso - di
Wikipedia.
Nella nostra cultura, che
molto deriva da quella greca
classica, il termine demagogia è quasi indissolubilmente legato al mondo e alle
terminologia della politica.
Demagogo è - da Tulcidide
in poi - l’agitatore di popolo
che specula sull’ingenuità
e sui sentimenti. Personaggio dipinto con i colori del
cinismo, dell’oratoria che
declina in affabulazione,
dell’intelligenza che decade
in furbizia, il demagogo è
un profondo conoscitore
del suo ambiente, del quale
conosce i sentimenti - più
spesso inespressi - e sa agire le leve, anche le più nascoste.
Difficilmente il demagogo
mente in modo spudorato;
più spesso edulcora, ac-
12
compagna il pensiero, sorregge il sentire, accelera
reazioni già latenti, dà voce
al silenzio. Il suo linguaggio
è quello della sua platea,
della quale assorbe e riflette - con enfasi e maestria la cromia delle emozioni e
delle pulsioni più recondite.
Il suo modo di agire è preciso, puntuale, teso a praticità, votato a efficacia: è un
comunicatore che ha quale
scopo il generare riconoscenza e adesione.
In questo senso, il demagogo ha la sua controparte
nell’adulatore. Così come il
primo si muove per assicurare e confermare il potere
di chi è chiamato - o si candida - a governare il popolo
(il demos degli antichi greci),
il secondo agisce per assicurare il favore del potente a
se stesso o ai suoi. Un unico
modo di muoversi, lo stesso
obiettivo imprescindibile di
utilità, il medesimo bagaglio
di furbizie oratorie e tecniche relazionali, seppure agiti
in direzioni apparentemente
opposte.
Così come nella fiaba di
Andersen Il vestito nuovo
dell’Imperatore, uno solo
osò dire che sua maestà
girava nudo per la strada
- peraltro generando scan-
dalo - allo stesso modo, il
demagogo e l’adulatore non
trovano facili smentite. La
verità, infatti, non è sempre
un messaggio facile da trasmettere, e su questa difficoltà a intendere la verità
queste due figure fanno parallelo affidamento.
Non è possibile sbugiardare il demagogo senza accettare di fare i conti con la
verità dalla quale egli cerca
di distrarci, senza assumersi la responsabilità di voler
sapere quali siano i fatti, le
circostanze, le necessità. Il
demagogo vince perché noi
abdichiamo il nostro desiderio di voler comprendere come davvero stanno le
cose, abdichiamo la nostra
responsabilità di sapere e
fare. Il demagogo vince perché noi - pur coscienti della
sua dolce menzogna - abbiamo deciso di abbandonarci alle sue melliflue parole come i topi seguirono la
dolce melodia del pifferaio
di Hamelin.
Così d’altronde è per l’adulatore, che vince perché
- come uno specchio deformato - ci rimanda l’immagine di noi come vorremmo
essere, e non come siamo.
Riconosce le nostre debolezze, blandisce le nostre pi-
grizie, culla il nostro ego sognante e ci fa sentire bene,
consegnandoci l’immagine
di noi che avremmo sempre
voluto vedere: intelligenza,
capacità, bellezza, potenza.
In entrambi i casi - il demos
dinanzi al demagogo, e il potente dinanzi all’adulatore
- ciò che mostra essere decisivo è il ruolo dell’avidità
e dell’indifferenza. Quando
l’appetito della brama ha
promessa di soddisfazione, il resto - tutto il resto - è
fastidio, tacitato dall’indifferenza: la cupidigia instupidisce, e la promessa di
soddisfazione è una droga
alla quale difficilmente si
resiste.
Unico antidoto, pare: la ricerca della coerenza.
Se una cosa è vera, dovrebbe essere difficile comportarsi come se non lo fosse;
l’affermazione fatta dovrebbe implicare delle conseguenze; una promessa dovrebbe essere mantenuta;
l’apprezzamento dovrebbe
avere qualche riscontro con
la realtà. Questo, in linea
generale, è quanto insegnammo ai nostri figli, per
ducarli alla verità, al rispetto, al vivere civile.
Siamo rimasti coerenti con
noi stessi?
Grazie...
Enrica Franciolini
Dalla Coda alla Testa del Drago:
una sfida affascinante!
Da quando siamo entrati
nell’Era dell’Acquario, studiare le vite precedenti, attraverso tecniche appropriate, dall’ipnosi al rebirthing,
è diventata un’esigenza che
molte persone sentono.
La teoria del karma si basa
su leggi molto complicate,
che a volte sono state un
po’ banalizzate nel corso del
tempo, dalla letteratura specialistica e no, leggi che devono tener conto della complessità dell’essere umano e
di tutte le componenti che lo
costituiscono, e soprattutto del fatto che ciascuno di
noi ha un percorso evolutivo
unico e irripetibile, come di
fatto è il nostro tema natale,
o oroscopo.
Prima di descrivere come
l’Astrologia si occupa dell’argomento, vorrei precisare
alcuni concetti relativi al karma.
14
La prima cosa da chiarire è
che il karma non è una legge
“punitiva”, quindi per prima
cosa libererei il campo dal
peso moralistico che spesso
si attribuisce al karma, e che
potremmo riassumere così:
“sono stato “cattivo” nella
vita precedente, quindi, ora
è giusto che io “paghi” con
l’infelicità.
In realtà., che ci piaccia o no,
la legge del karma ha basi
scientifiche, dove per scienza si intende applicazione
meccanica e impersonale di
una serie di leggi, applicate
però non solo al corpo fisico
ma anche e soprattutto ai
corpi Eterico, Astrale e Mentale, che ci costituiscono a
un livello sottile. La Fisica
classica, per la precisione
la Dinamica, ci assicura che
esiste una legge, detta di
causa – effetto, secondo la
quale ogni azione compiuta,
provoca necessariamente un
effetto, e inoltre la legge
dell’azione - reazione chiarisce ancor meglio il fatto che,
a ogni azione corrisponde
una reazione uguale e contraria. Anche nella fisiologia
umana avviene una cosa simile: per esempio, esistono i
muscoli estensori e abduttori
per cui, per far muovere un
muscolo, ce ne deve essere necessariamente un altro
che compia l’azione contraria. Ebbene, le leggi del
Karma estendono i risultati
dell’applicazione di queste
leggi fisiche ai mondi invisibili, per cui, qualunque azione l’essere umano compia,
produce un effetto. Pertanto,
se tutte le mie azioni producono effetti che non si esauriscono in questa vita, ecco
che saranno necessarie altre
incarnazioni affinché ogni
effetto possa manifestarsi.
Quello che complica terribilmente le cose è il fatto che
anche il pensiero produce effetti, di cui la legge deve tenere conto: da qui si capisce
bene quanto sia impossibile
o per lo meno difficile per noi
generalizzare, tirando facili
quanto inesatte conclusioni.
Un altro punto fondamentale
da capire è che ogni vita ha
un percorso evolutivo e che,
la mia vita attuale, qualunque essa sia, mi pone a un
livello evolutivo di partenza
superiore rispetto a quello
della vita precedente e questo a prescindere dalla posizione sociale occupata. Tutti
i debiti e I crediti karmici che
mi porto dalle vite precedenti vanno estinti esattamente
con la persona o meglio con
l’entità con cui lo si è contratto. Ecco perché nella nostra
vita attuale incontriamo le
stesse persone delle nostre
vite precedenti, con le quali
però cambiano i giochi delle
parti. Poiché non è possibile incontrare in un’unica vita
tutte le persone con cui si è
avuto a che fare, sia per motivi di spazio, che di tempi
diversi di incarnazione, ecco
che sono necessarie molte
vite per poter estinguere tutti
i nostri debiti.
Tutto ciò che odiamo, tutte le
persone che abbiamo odiato
o disprezzato, dovremo rincontrarle, per poter trasformare quell’energia negativa
in positiva, o per lo meno
dovremo chiudere il legame
che trattiene la nostra evoluzione, in quanto l’odio crea
legami profondi quanto l’amore.
Anche il suicidio va svincolato da considerazioni di
peccato in cui è sempre stato relegato, bensì va visto
come un “errore” evolutivo.
Infatti, molti studiosi concordano sul fatto che l’anima del suicida resta sulla
terra, anche se non incarnata, fino al momento della morte prevista per quel
corpo, e inoltre, bloccando
il suo percorso evolutivo,
l’anima dovrà riaffrontare
nella prossima vita situazioni analoghe a quelle che
l’hanno spinta a quel gesto.
Quando chiudiamo un ciclo,
per esempio affettivo, lavorativo, o abitativo, al fine di
non trascinare nulla dietro
di noi, dovremmo diventare
consapevoli che quell’esperienza, per quanto dolorosa
e difficile, non è stata una
perdita di tempo, ma al contrario una necessaria tappa
delle nostra evoluzione, Da
questa comprensione profonda, nasce la liberazione
definitiva dall’ esperienza
stessa.
Altro punto interessante è il
percorso compiuto dall’Anima in evoluzione fra una vita
e l’altra. Ci sono molte teorie di esoteristi e studiosi in
proposito, ma molti concordano sul fatto che ci sono
dei tempi prestabiliti fra una
vita e l’altra, che possono
essere in certi casi abbreviati, ma in linea di massima
ci sono degli “iter” da rispettare.
La prima cosa da fare per
l’entità che si ritrova di là,
è guardare la propria vita,
senza pretese di giudizio,
né tanto meno di condanna, semplicemente per fare
una sorta di bilancio delle
“mete” spirituali, evolutive
raggiunte.
Segue poi una fase di revisione specifica, nel dettaglio
di ogni azione e pensiero significativo della propria vita.
Secondo Steiner occorre un
terzo del tempo della vita
vissuta per compiere questa
revisione.
Infine, segue la fase di scelta e determinazione da parte dell’Entità, della prossima
incarnazione, scelta molto
difficile, in quanto si dovrà
tenere conto dei debiti, ma
anche dei crediti, nonché
delle persone da incontrare
di nuovo e delle situazioni da riaffrontare. A questo
scopo, l’Entità viene aiutata dai cosiddetti “Spiriti del
Karma”
Vediamo ora come l’Astrologia karmica si inserisce in
questo contesto.
Cosa non deve fare. L’Astrologia karmica dovrebbe evitare di addentrarsi in pericolose, quanto poco credibili
descrizioni di dettagli sulle
vite precedenti, poiché la
semplice curiosità di sapere
dove e in che modo si svolgesse la nostra vita passata,
per quanto pittoresca sia,
non ci porta molto lontano. L’Astrologia non utilizza
tecniche di regressione, in
quanto non si occupa dei
dettagli delle nostre vite
precedenti, bensì delle dinamiche psicologiche e spirituali che ci derivano, come
eredità karmiche, da vite
precedenti e vanno dunque
risolte in questa vita.
Cosa deve fare. Un tema
karmico deve considerare
i principali punti nodali di
un oroscopo, per capire in
che modo la presente incarnazione, in questo segno zodiacale e con tutte
le problematiche indicate
dal tema stesso, è ottimale per smaltire i pesi che ci
portiamo dietro e aiutarci ad
andare oltre.
Un tema natale karmico si
occupa del karma dell’individuo a vari livelli.
Si comincia con il karma etniaco, relativo al luogo e alla
etnia di appartenenza, per
passare poi al karma di tipo
sociale, religioso e infine,
quello familiare, tutti condizionamenti molto pesanti
che influenzano in maniera
importante la nostra vita.
L’Astrologia karmico evolutiva si occupa dunque
di analizzare alcuni punti
dell’oroscopo che danno
delle indicazioni, non tanto
sui dettagli delle vite precedenti, quanto piuttosto sulle
eredità positive e negative,
sugli strascichi, i punti da
risolvere, e soprattutto, offre
degli spunti evolutivi, basati
esclusivamente sull’utilizzo
del libero arbitrio.
In effetti, l’Astrologia esoterica, così poco amata dagli
astrologi classici, è l’unica
branca dell’Astrologia che
lascia parecchio spazio al
libero arbitrio, spingendosi
ben oltre le normali previsioni astrologiche, che siamo
abituati ad ascoltare.
Molto semplice è infatti, sentire, o “leggere” gli eventi
in un giro di carte, o in una
lettura astrologica normale;
ben altra cosa è individuare i punti deboli che ci derivano da vite precedenti e
sentirci dire in che direzione
potremmo andare, per evolvere e superare certi stati di
coscienza. Si capisce bene
quanto siano differenti le due
posizioni e quanto più semplice sia dire alla gente cosa
le accadrà, senza tanti possibilismi.
L’Astrologia indiana e anche
quella araba basano molte
delle loro teorie interpretative sui punti karmici, che non
sono affatto punti celesti,
bensì punti virtuali ricavati
da calcoli e leggi numeriche
applicate al tema natale di
base, a testimonianza di
quanto la teoria del karma
sia radicata profondamente nelle più antiche culture
astrologiche.
Nell’analisi di un tema natale karmico evolutivo in seno
all’Astrologia occidentale,
voglio parlarvi di due punti
particolarmente interessanti
e cioè dei Nodi Lunari, detti
rispettivamente Nodo Lunare Nord o Testa del Drago,
e Nodo Lunare Sud, o Coda
del Drago.
Essi sono due punti disposti
in posizione diametralmente
opposta nel cerchio zodiacale, cosicchè se uno è, per
esempio, a 20° Bilancia, l’altro sarà a 20° Ariete, e così
via.
Dunque, anche i loro significati sono opposti, ma collegati e il percorso evolutivo
dell’individuo consiste nel
passare dall’energia dell’uno
all’energia contenuta nell’altro, compiendo un percorso per niente scontato, per
niente facile, insomma una
vera e propria sfida!
Il Nodo Lunare Sud rappresenta la nostra “eredità karmica”, nel bene come nel
male, e cioè i talenti che possediamo in questa vita, cioè
i doni, le facilità che spesso
ci derivano dal fatto che ce
le siamo portati dietro vita
dopo vita, ma anche i limiti,
le paure, oppure i rapporti
sbagliati che ci trasciniamo
nell’arco del tempo senza riuscire mai a risolverli.
Di contro, il Nodo lunare
Nord, rappresenta una difficoltà, o meglio, una sfida,
in quanto sta alla persona
riuscire a sciogliere il karma
passato contenuto nel Nodo
lunare Sud per arrivare a realizzare il contenuto di quello
Nord.
Dalla coda, cioè dalla parte del Drago contenuto in
ognuno di noi, rivolta verso
il passato, alla Testa del Drago, cioè la parte rivolta verso
il futuro : questo è il percorso
evolutivo che ci viene chiesto di compiere.
Qui di seguito è pubblicata
la tabella delle posizioni del
Nodo lunare Nord dal 1930
a oggi, nella quale ciascuno
di voi potrà trovare la sua
posizione nel proprio tema
natale.
Sarebbe bello poter valutare
anche il settore o casa astrologica in cui il Nodo si posiziona, ma questo diventa un
discorso personalizzato, che
non è possibile inserire in un
contesto generale.
15
Data di nascita
1930 dall’1-1 al 7-7
dall’8-7 al 31-12
1931 dall’1-1 al 28-12
dal 29-12 al 31-12
1932 dall’1- 1 al 31- 12
1933 dall’1- 1 al 24 -6
dal 25 –6 al 31-12
1934 dall’1-1 al 31-12
1935 dall’1-1 all’8-3
dal 9-3 al 31-12
1936 dall’1-1 al 14-9
dal 15-9 al 31-12
1937 dall’1-1 al 31-12
1938 dall’1-1 al 3-3
dal 4-3 al 31-12
1939 dall’1-1 al 12-9
dal 13-9 al 31-12
1940 dall’1-1 al 31-12
1941 dall’1-1 al 24-5
dal 25-5 al 31-12
1942 dall’1-1 al 21-11
dal 22-11 al 31-12
1943 dall’1-1 al 31-12
1944 dall’1-1 all’11-5
dal 12 - 5 al 31-12
1945 dall’1-1 al 3-12
dal 4-12 all’11-12
Il 13 e 14
dal 15-12 al 31 - 12
1946 dall’1-1 al 4
dal 5-1 al 31-12
1947 dall’1-1 al 2-8
1948 dal 3-8 al 31-12
1949 dall’1-1 al 26-1
dal 27-1 al 31-12
1950 dall’1-1 al 26-7
dal 27-7 al 31-12
1951 dall’1-1 al 31-12
1952 dall’1-1 al 28-3
dal 29-3 al 31-12
1953 dall’1-1 al 9-10
dal 10-10 al 31-12
1954 dall’1-1 al 31-12
1955 dall’1-1 al 2-4
dal 3-4 al 31-12
1956 dall’1-1 al 4 -10
dal 5-10 al 31-12
1957 dall’1-1 al 31-12
1958 dall’1-1 al 16-6
dal 17-6 al 31-12
1959 dall’1-1 al 15-12
dal 16-12 al 31-12
Nodo lunare nord
Toro
Ariete
Ariete
Pesci
Pesci
Pesci
Acquario
Acquario
Acquario
Capricorno
Capricorno
Sagittario
Sagittario
Sagittario
Scorpione
Scorpione
Bilancia
Bilancia
Bilancia
Vergine
Vergine
Leone
Leone
Leone
Cancro
Cancro
Gemelli
Cancro
Gemelli
Cancro
Gemelli
Gemelli
Toro
Toro
Ariete
Ariete
Pesci
Pesci
Pesci
Acquario
Acquario
Capricorno
Capricorno
Capricorno
Sagittario
SAgittario
Scorpione
Scorpione
Scorpione
Bilancia
Bilancia
Vergine
1992 dall’1-1 all’1-8
dal 2-8 al 31-12
1993 dall’1-1 al 31-12
1994 dall’1-1 all1-2
dal 2-2 al 31-12
1995 dall’1-1 al 31-7
dall’1-8 al 31-12
1996 dall’1-1 al 31-12
1997 dall’1-1 al 25-1
dal 26-1 al 31-12
1998 dall’1-1 al 20-10
dal 21-10 al 31-12
1999 dall’1-1 al 31-12
2000 dall’1-1 al 9-4
dal 10-4 al 31-12
2001 dall’1-1 al 13-10
dal 14-10 al 31-12
2002 dall’1-1 al 31-12
2003 dall’1-1 al 14 -4
dal 15 -4 al 31-12
Capricorno
Sagittario
Sagittario
Sagittario
Scorpione
Scorpione
Bilancia
Bilancia
Bilancia
Vergine
Vergine
Leone
Leone
Leone
Cancro
Cancro
Gemelli
Gemelli
Gemelli
Toro
Data di nascita
1960 dall’1-1 al 31-12
1961 dall’1-1 al 10- 6
dall’11-6 al 31-12
1962 dall’1-1 al 23-12
dal 24-12 al 31-12
1963 dall’1-1 al 31-12
1964 dall’1-1 al 25-8
dal 26-8 al 31-12
1965 dall’1-1 al 12-12
1966 dall’1-1 al 19-2
dal 20-2 al 31-12
1967 dall’1-1 al 19-8
dal 20-8 al 31-12
1968 dall’1-1 al 31-12
1969 dall’1-1 al 19-4
dal 20-4 al 31-12
1970 dall’1-1 al 2-11
dal 3-11 al 31-12
1971 dall’1-1 al 31-12
1972 dall’1-1 al 27-4
dal 28-4 al 31-12
1973 dall’1-1 al 27-10
dal 28- 10 al 31-12
1974 dall’1-1 al 31-12
1975 dall’1-1 al 10-7
dall’11-7 al 31-2
1976 dall’1-1 al 31-12
1977 dall’1-1 al 7-1
dall’8-1 al 31-12
1978 dall’1-1 al 5-7
dal 6-7 al 31-12
1979 dall’1-1 al 31-12
1980 dall’1-1 al 12 -1
dal 13-1 al 31-12
1981 dall’1-1 al 24-9
dal 25-9 al 31-12
1982 dall’1-1 al 31-12
1983 dall’1-1 al 16-3
dal 17-3 al 31-12
1984 dall’1-1 all’11-9
dal 12-9 al 31-12
1985 dall’1-1 al 31-12
1986 dall’1-1 al 6-4
dal 7-4 al 31-12
1987 dall’1-1 al 2-12
dal 3-12 al 31-12
1988 dall’1-1 al 31-12
1989 dall’1-1 al 22-5
1989 dal 23-5 al 31-12
1990 dall’1-1 al 18-11
dal 19-11 al 31-12
1991 dall’1-1 al 31-12
2004 dall’1-1 al 26-12
dal 27-12 al 31-12
2005 dall’1-1 al 31-12
42006 dall’1-1 al 22-6
dal 23-6 al 31-12
2007 dall’1-1 al 14-12
Il 15 e il 16 dic.
Il 17 dicembre
dal 18-12 al 31-12
2008 dall’1-1 al 31-12
2009 dall’1 -1 al 21-8
2009 dal 22- 8al 31-12
2010 tutto
2011 dall’1-1 al 3-3
2011 dal 4-3 al 31-12
2012 dall’1-1 al 30-8
2012 dal 31-8 al 31-12
Nodo lunare nord
Vergine
Vergine
Leone
Leone
Cancro
Cancro
Cancro
Gemelli
Gemelli
Gemelli
Toro
Toro
Ariete
Ariete
Ariete
Pesci
Pesci
Acquario
Acquario
Acquario
Capricorno
Capricorno
Sagittario
Sagittario
Sagittario
Scorpione
Scorpione
Scorpione
Bilancia
Bilancia
Vergine
Vergine
Vergine
Leone
Leone
Cancro
Cancro
Cancro
Gemelli
Gemelli
Toro
Toro
Toro
Ariete
Ariete
Pesci
Pesci
Pesci
Acquario
Acquario
Capricorno
Capricorno
Toro
Ariete
Ariete
Ariete
Pesci
Pesci
Acquario
Pesci
Acquario
Acquario
Acquario
Capricorno
Capricorno
Capricorno
Sagittario
Sagittario
Scorpione
continua nel prossimo numero
16
Angelo Casati
La Flotta Templare
I Templari hanno posseduto
navi proprie, sin dalla fine
del 1200. Le necessità logistiche prima, e commerciali
poi, costrinsero i Templari a
estendere una loro rete marittima di contatti dall’Europa
fino in Terrasanta. Di conseguenza, ben presto, il dominio del Tempio non si estese
più solo sulla terraferma, ma
anche sul mare. All’originaria necessità di trasportare
in Terrasanta pellegrini, cavalieri, cavalli e materiali di
prima necessità quali armi,
denaro, legname e materie
prime come ferro, rame, argento, piombo, essi risposero creando una propria flotta.
Bisogna inoltre considerare
che le navi protette dai Cavalieri diventavano un mezzo
sicuro per i pellegrini.
Sono arrivati sino a noi documenti storici che attestano, fin dagli inizi, la proprietà
di navi da parte dell’Ordine
che, in poco tempo, divenne
anche proprietario di porti
e di cantieri navali. Del resto un articolo della Regola
dell’Ordine precisa addirit-
tura: ”Tutte le navi marittime
che sono a San Giovanni
d’Acri, sono poste all’Ordine del Commendatore della
città di Gerusalemme“. Vi
cito alcuni esempi: nel 1234
vi è un decreto che libera le
navi templari, provenienti da
Outremer, dall’obbligo di dichiarare ai doganieri il carico
di archi e balestre, trasportati sulle loro navi. Nel 1248
in alcuni contratti navali marsigliesi, viene citata la nave
templare la “Buona Ventura“:
nel 1288 compare la “Rosa
del Tempio“ e successivamente viene registrato l’affitto della nave : “Benedetta“ al
prezzo di 2600 libbre di Tolone. Nel 1278, Carlo D’Angiò,
si servì di navi Templari per
il trasporto di 35 cavalli da
guerra.
La nave Templare più famosa fu, il “Falco del Tempio“, grossa e panciuta nave
ammiraglia costruita dai
genovesi e comandata dal
leggendario capitano, frate
Ruggero da Flor.
Nel 1291, il Falco del Tempio,
fu l’ultima nave a lasciare il
porto della città di Acri, alla
fine conquistata da Musulmani, divenendo così testimone storica dell’atto conclusivo della presenza crociata in Terrasanta, (ricordare
il glorioso sacrificio di tutti gli
Ordini cavallereschi che uniti, purtroppo tardivamente,
si immolarono al completo,
Templari, Ospitalieri, Teutonici e S. Lazzaro per permettere ai civili di salvarsi).
Ricordiamo che la bandiera
delle navi Templari era un
teschio con due tibie incrociate, e Ruggero da Flor
divenne in seguito famoso
capitano di ventura nelle
guerre che infiammarono il
Mediterraneo, nella rivalità
delle città marinare. A causa
della crescente necessità di
trasportare cavalli, i Templari
crearono un tipo di nave particolare che permetteva di far
salire direttamente i cavalli a
bordo, con l’uso di passerelle, senza doverli imbragare e
sollevare con argani. Tali navi
vennero dette “ Uscieri “ per
via del grande portellone che
si apriva sulla fiancata, per
alcuni autori si trattò di un’invenzione dei Bizantini, che i
Templari si limitarono a perfezionare. Ancora una volta
l’Ordine si poneva su un gradino più alto rispetto ai vari
monarchi europei, i re all’epoca non disponevano di
una vera flotta, ma dovevano
affittare le navi. Dalle cronache del tempo sappiamo che
Templari e Ospitalieri, diedero luogo a furiose battaglie
sul mare, contro i Musulmani, per il dominio delle rotte
del Mediterraneo.
Il porto di Marsiglia fu agli inizi
il più importante per l’ordine,
poi si sviluppò Motpellier e
quelli in Puglia e Sicilia, nonché vari porti sull’Adriatico.
Il Tempio disponeva di una
17
rada propria a Saint Raphael, sulla costa provenzale e
di un’altra a Colliure su quella Catalana. Aveva inoltre
una grossa base a Maiorca
e in Portogallo. In Provenza
i prodotti raccolti nelle oltre
9000 case e commende venivano movimentati tramite i
porti di Biot, Nizza e Tolone,
dove il Tempio disponeva di
un accesso privato indipendente. I normali rapporti con
i possedimenti del Tempio in
Inghilterra e Scozia erano assicurati dai porti della costa
18
fiamminga come Barfleur e
da San Valery-en-Caux, con
le sue Commende di Blosseville e di Drosay, dai porti
della Somme e da quelli della
costa settentrionale. Fu una
nave Templare a trasportare
i fondi di Enrico III° in Francia e sempre navi templari,
trasportarono per conto del
papato, i proventi della “Ventesima“, la Tassa per le Crociate, dall’Europa in Oriente. In Terrasanta il porto più
importante fu quello di Acri,
dove vi era un vero e proprio
quartiere del Tempio, ma anche i porti di Cesarea, Tiro,
Sidone, Jebail, Tortosa, noché il controllo totale di Port
Bonnel a nord di Antiochia.
Fu proprio la particolare importanza, attribuita dai Templari a un porto decentrato
come quello di La Rochelle
sull’Atlantico e al fatto che,
nel 1307 da quel porto scomparve l’ultima flotta Templare, ad alimentare la leggenda sulle miniere d’argento
che i Templari avrebbero
possedute nelle Americhe e
sulle basi segrete nel nuovo
Mondo, che avrebbero loro
offerto rifugio dopo la caduta dell’Ordine. In realtà La
Rochelle è un altro dei tanti
misteri irrisolti del Tempio.
Di solito le basi templari avevano un solo scopo: facilitare
le comunicazioni con i porti
del Mediterraneo e la Terrasanta. La Rochelle sull’oceano atlantico era una delle
più importanti commende
dell’Ordine e il suo porto
ospitava una grande flotta.
E’ evidente però che il porto
non si trovava sulla rotta del
Medio Oriente.
Si può sostenere che questa
flotta molto costosa e formata da molte navi mercantili
ma anche da guerra (50 e 30),
gestita da marinai che appartenevano de iure al Tempio,
assicurasse i collegamenti
tra Francia, Inghilterra, Portogallo e la Bretagna, la quale non faceva parte del regno
di Francia come del resto la
stessa Rochelle, che nel XII
sec. era sotto il controllo
inglese. Ma la Flotta aveva
forse altri scopi? E che cosa
ne fu dopo lo scioglimento dell’Ordine? Il tesoro dei
Templari fu messo in salvo
da questa flotta? Non si sa
assolutamente nulla. Un’immagine concreta dell’Importanza dell’Ordine di Cristo,
come si denominò in Portogallo l’Ordine del Tempio
dopo il 1307, è nelle gesta
delle grandi scoperte marittime che si susseguirono dopo
tale data. Basta sottolineare
un fatto, la Croce patente
Rossa, l’insegna dell’Ordine, campeggiava sulle vele
dei primi grandi navigatori,
come Diego Cao che piantò
la bandiera su tutte le coste
africane.
Sarà stato un caso che anche le caravelle di Cristoforo
Colombo, le prime navi giunte ufficialmente in America,
si fregiavano sulle loro vele
dell’insegna Templare, La
Croce Rossa Patente.
Rodolfo Signifredi
Quando il respiro diventa una incessante meditazione e preghiera
Esicasmo, lo Zen dell’Occidente
La riscoperta da parte
dell’occidente delle discipline psicofisiche orientali ha
rilanciato anche l’Esicasmo,
che è una meditazione dinamica e ritmica per eccellenza
perché recitata seguendo il
respiro. La pratica giapponese dell’Hara ci aiuta a conoscerlo
L’Esicasmo è la “preghiera
respirata” dei monaci ortodossi divulgata nel secolo
passato dai Racconti di un
pellegrino russo di autore
anonimo. Questi racconti
sono il libro più conosciuto e
diffuso della spiritualità russa.
L’immediatezza del linguaggio parlato, la ricchezza delle
scene, l’ingenuità fresca del
racconto, la vivacità popolare
e la sincerità di una esperienza di vita mistica ne fanno un
libro pervaso di gioia e unico
al mondo. Carlo Carretto lo
portava sempre con sé nei
suoi lunghi soggiorni nel deserto algerino come Piccolo
Fratello dì Gesù.
L’Esicasmo viene considerato anche lo Zen dell’Occidente e merita certamente
una chiara esposizione che
aiuti ad apprezzarlo anche
da parte di chi ricerca tecniche più lontane dalla nostra
eredità culturale e spirituale.
Ma in questo articolo ci serve
solo come spunto di partenza
per parlare di un’altra “meditazione respirata” che viene
dall’Oriente, però elaborata
da un occidentale. Parliamo
del “respiro nell’Hara” insegnato fino a tarda età da Karl
Graf Durckheim nella sua
Scuola di terapia iniziatica e
che ha tante analogie con l’Esicasmo.
Vogliamo provare a esporre
questa tecnica dell’Hara per
farla poi dissolvere nell’Esicasmo sul finale. È una esercitazione molto stimolante
per chi voglia crearsi un rituale quotidiano e continuo;
addirittura incessante, perché può prolungarsi anche
nel sonno. Sentiamo, allora,
cosa intende Durckheim per
Hara riassumendo il suo pensiero direttamente dal libro
omonimo edito tanti anni fa
dalle Mediterranee e sempre
ristampato come un classico.
HARA, IL CENTRO VITALE
DELL’UOMO
Hara, in giapponese vuol dire
“ventre”, ma in senso psicofisico indica il baricentro
dell’individuo alla base del
tronco e, in senso più ampio, la disposizione generale
dell’uomo che si è reso libero
dal condizionamento del piccolo Io. Ogni volta che siamo
tesi verso uno scopo cadiamo facilmente fuori da questo centro, perché l’azione
parte dal nostro Io, così pauroso di fronte alla sofferenza
e così bisognoso di sicurezze. Quando l’uomo giunge a
stabilirsi nell’hara sente che
questo suo spazio è legato
alle potenze della creazione;
a forza di trasformazione e
rigenerazione che cambiano il suo modo di concepire
il mondo e lo mantengono
calmo nelle tempeste della
vita. Così, nei momenti critici,
l’hara ci mette a disposizione
tutto ciò che abbiamo e sappiamo, tutto ciò di cui siamo
capaci. Chi dispone dell’hara
resta sempre in piedi acquistando una stabilità sorprendente, sia fisicamente che
moralmente, anche quando
riceve un urto o un rovescio.
E chi padroneggia l’hara si
stanca meno, perché riportandosi nel mezzo può sempre attingervi le energie che
lo rinnovano. Ogni volta che
qualsiasi lavoro viene fatto
con hara, cioè con la forza
del centro e con un io rila-
sciato, lo sforzo necessario si
riduce a un minimo perché il
movimento avviene in modo
organico.
E nella malattia le forze guaritrici della natura non vengono contrastate dall’angoscia
dell’Io. La guarigione non è
più ostacolata da intime tensioni e contrazioni di chi è
preoccupato per il male e le
sue conseguenze, ma favorita invece dalle forze più profonde aperte dall’hara. Quando si è inserito il “centro”,
tutti gli organi vi partecipano
come funzioni di un tutto unitario. E l’hara dà all’uomo la
capacità di sopportare il dolore. Per chi sposta nell’hara
la propria coscienza è come
se l’Io che soffre fisicamente
non esistesse. Imparando a
lasciar cadere l’Io timoroso
di tutto e concentrandosi
nella parte mediana del corpo, il dolore non si avverte
quasi più. Mentre la saldezza
nell’hara immunizza dalle intossicazioni.
Inoltre l’hara ristabilisce l’unità dell’uomo con se stesso, non più in contrasto con
il bisogno di sfogare i suoi
impulsi; in questo spazio
nuovo, le tensioni interne accumulate si risolvono da sole
trasformandosi in energia positiva senza doversi scaricare
all’esterno. Per chi possiede
l’hara è come se una porta interiore si fosse aperta e così
le reazioni alle provocazioni
o le pulsioni istintuali che si
vogliono evitare non vengono
represse ma sciolte e sublimate in creatività.
Da secoli, in Oriente, l’hara
è un punto fermo nella cura
della salute generale e nella
terapia iniziatica. Calandosi
qui, la persona si lascia permeare dal suo Essere interiore.
L’intera regione del bacino è
il “mare dell’energia vitale” e
al suo interno c’è il centro essenziale della vita. Qui si attiva la forza terrena che è insita
nella persona: questo centro
è il tanden, tre dita sotto l’ombelico e tre dita all’interno
dell’addome. L’energia che vi
viene attivata è il ki dello zen
o il prana dello yoga.
Con il respiro si rafforza l’hara. A ogni inspirazione viene
fornita nuova energia vitale
la quale riattiva l’energia già
presente nell’addome; da
qui si distribuisce attraverso i
vari meridiani in tutto il corpo
fisico e in quello psichico. Lo
scopo degli esercizi hara è di
imparare a lasciar scorrere
liberamente questi flussi di
energia, senza ostacolarli con
l’Io cosciente. Ciò è possibile
se la persona è bene ancorata all’addome. Altrimenti le
energie vitali vengono deviate e trattenute a livello delle
spalle. E questo blocco impedisce anche alle energie
spirituali, che restano confinate nel capo, di scendere in
tutta la persona. Quando ci si
contrae a livello delle spalle
vengono a mancare le energie nella regione vitale e contemporaneamente si ostacola la libera circolazione delle
energie dell’Essere.
IL RITUALE DELL’HARA
Perciò l’esercizio fondamentale dell’hara consiste
nel rilassare le spalle all’inizio di ogni espirazione e
nell’insediarsi nell’addome
alla fine dell’espiro, sostando qui piacevolmente, in
modo da lasciarsi rigenerare
con il rinnovarsi dell’inspiro.
In questo modo si allentano
anche le tensioni più profonde e si trova dentro di sé,
insieme alla propria forza, la
fiducia in un sostegno superiore. Occorre però una pratica perseverante per riuscire
a stabilizzare durevolmente
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la traslazione in basso del
centro di gravità. La pratica
nei dettagli è così: 1) schiena
eretta senza tensione 2) lasciar scendere le spalle liberamente 3) rilasciare il plesso
solare e il ventre 4) immettere una certa forza nel basso
ventre sentendosi “laggiù,
un po’ sotto l’ombelico” 5)
ascoltare il respiro scendere nell’hara e risalire verso il
cervello. Tutto ciò che è sopra l’ombelico deve restare
disteso; solo nella parte inferiore del ventre c’è una lieve
tensione.
Così, fin dal principio, l’esercizio con l’hara consiste
nel lasciarsi andare verso il
basso. È un movimento da
ripetere sistematicamente. Si
avvertirà una forza che sorge
dal mezzo, sale lungo il dorso
e libera lo spazio superiore
dando una sensazione di euforia.
È fondamentale, a questo
scopo, allenarsi a percepire la “corporeità interiore”; a
occhi chiusi “sentirsi dentro”,
sotto la pelle e sciogliere tutte le tensioni, ascoltando il respiro che va e viene spontaneamente da questo centro.
Seduti o in piedi, con il busto bene eretto, osservare il
processo della respirazione,
interiorizzandosi nell’addome
e sentire il respiro che viene
e va. Con l’espiro “scivolare”
all’interno, ma senza insaccarsi, continuando a mantenere la posizione eretta.
L’espirazione si farà spontaneamente più lenta dell’inspirazione, e con il tempo potrà
diventare tre volte più lunga.
All’inizio di ogni espirazione
rilassare consapevolmente le
spalle, ma senza spingerle in
basso; un allentamento psicologico che parte dall’Io. Al
termine dell’espirazione sostare fiduciosi nella regione
del bacino. Così si può prendere coscienza delle energie
vitali che ora affluiscono liberamente nell’addome, cioè
nel loro centro, dopo essere
state sbloccate dalle spalle.
A ogni atto respiratorio ripetere il rilassamento delle
spalle e la sosta nel bacino.
L’Io in alto non ha più nulla da
trattenere e viene a sua volta
attirato nel bacino. Durante
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la pausa o l’apnea restare
fiduciosi nelle fondamenta
dell’addome. Lasciare che
la parte inferiore dell’addome sporga in fuori, mentre la
zona superiore si sposta in
dentro e verso il basso.
Poi visualizzare all’interno
dell’hara il centro dell’energia, il tanden, che si espande
con l’inspirazione e che durante l’espirazione distribuisce la sua energia, il ki , in
tutto il corpo. A questo punto
è fondamentale il modo giusto di lasciar tendere il basso
ventre. Nella respirazione naturale, l’addome si gonfia con
l’inspiro e si contrae durante
l’espiro. Ma quando l’espirazione è completa e accentuata il basso ventre sporge un
poco; lo sanno bene i cantanti. Anche la regione lombare
si dilata durante questa accentuazione e pausa dell’espiro. Quindi, basso ventre in
leggera tensione e stomaco
rilasciato.
Ogni inspirazione procura
nuove energie, rinnova ogni
singola cellula. E così l’intero
processo del respiro diventa
una continua trasformazione.
Per restare ancorati alla base
e non volare di nuovo verso
l’alto, considerare il vissuto
quotidiano come un esercizio interessante che consente di imparare e fare sempre
nuove esperienze. Arrivare a
percepire veramente le fondamenta dentro di noi con
espirazioni ancora più lunghe, evitando però di afflosciarsi. Insediarsi nel bacino
senza timori inconsci verso le
forze racchiuse nella regione
pelvica. Affidarsi a esse fiduciosamente.
IL RESPIRO HARA CON LE
FORMULE
La ritualità dell’hara, man
mano che si approfondisce,
trae vantaggio dalla formulazione di atteggiamenti mentali che sottolineano le varie
fasi. Ci sono quattro tempi
nel respiro naturale effettuato in situazioni di calma, due
per l’espiro, uno per la pausa
e uno per l’inspiro. Per esercitarci in questa respirazione
possiamo cominciare dicendo mentalmente la formula
più semplice: “Espiro - Espiro
- Pausa - Inspiro” in sincronia
con le singole fasi.
La quiete, la distensione e il
raccoglimento che derivano
dalla giusta posizione del corpo e dalla giusta respirazione
risultano ancor più profondi
se accompagnano i quattro
tempi del respiro con quattro intenzioni che facilitano
il distacco, la distensione, lo
spostamento del baricentro
interiore dall’alto verso il basso. Nei due tempi dell’espiro
diciamo “abbandonare - discendere”; durante la pausa
“unirsi”; durante l’inspiro, che
non si compie a comando ma
spontaneamente, “risalire”.
L’esercizio base, nel suo
complesso, consiste proprio nel sottolineare anche
psicologicamente la discesa in basso del baricentro,
la stabilizzazione nell’hara e
la liberazione delle energie
bloccate.
“Abbandonare” significa allontanare tutte le preoccupazioni, le tensioni, le paure,
le maschere, i desideri di affermare se stessi... “Discendere” vuol dire affidarsi, appoggiarsi alle forze benefiche
del nostro profondo. “Unirsi”
è collegarsi alla propria essenza, al Sè, all’archetipo,
all’autentico che è in noi. È il
completo abbandono dell’Io
che si libera delle sue vecchie
forme. Mentre il “Risalire”
corrisponde al ritrovarsi rinnovati, trasformati dall’incontro sia pur fugace dell’Io con
il Sè e, attraverso questo, del
proprio “essere” con l’Essere
trascendente.
Questo movimento è il ciclo
della ruota della trasformazione che si compie in ogni
vera meditazione. E questo
movimento lo si ritrova anche nell’Esicasmo dal quale
eravamo partiti. Le sue semplicissime tecniche portano
la mente a concentrarsi sul
cuore o sull’hara, mentre il
respiro si muove dall’esterno all’interno e dall’interno
all’esterno trasportando con
sé una formula giaculatoria
come il kirye eleyson che
tradotta suona così: “Signor
mio Gesù Cristo, abbi pietà
di me”.
Dall’efficacia di questo antico rituale ortodosso, che
l’esperienza diretta e i racconti dei monaci greci e
russi comprovano, e dalle
risonanze psicofisiche del
rito orientale dell’hara, riproposte da un mistico come
Durckheim che ne ha fatto
il fulcro della propria realizzazione, viene spontaneo
l’incontro tra queste due
pratiche in una sintesi ideale
per il nostro tempo. C’è chi
lo ha fatto con notevoli benefici per l’anima e il corpo.
In tempi di aridità spirituale
come il nostro è sorprendente sentire che la preghiera non è spenta e che è lo
stesso nostro organismo a
richiederla per il proprio benessere. Quando il respiro
diventa preghiera.
Umberto Accomanno
Stati Uniti:
capitalisti del Nord, gentiluomini e schiavisti del Sud
La chiusura del mondo sudista americano rispetto all’evoluzione borghese del resto
della civiltà occidentale è la
chiave per comprendere la
natura del mondo confederato(1). La schiavitù dette al
Sud uno specifico modo di
vita perché formò la base di
un ordine sociale in cui il lavoro schiavistico dominò, e
praticamente escluse, ogni
altro tipo. Su tale base si fondò l’autorità di una potente e
notevole classe sociale che,
pur costituendo soltanto
una minima parte della popolazione bianca, riuscì con
rimarchevole successo a
edificare un tipo particolare
di civiltà che fu la ripresa di
una società sostanzialmente
arcaica. È fuori discussione
che il carattere agrario della
civiltà sudista influì enormemente sulla sua cultura, i
suoi valori sociali, l’intera vita
della sua comunità: ma quello che sembra per lo più difficile da intendere è che esso
fu vincolato al suo carattere
agrario (arretrato) praticamente senza possibilità di
progresso o di trasformazione proprio dal sorgere e dallo svilupparsi della schiavitù.
Nel 1619 un negriero olandese sbarcò a Jamestown venti schiavi africani. Sebbene
i neri inizialmente fossero,
come i bianchi, schiavi vincolati a contratto, in meno
di mezzo secolo la loro condizione sarebbe diventata di
schiavi tout court.
Dal momento stesso in cui
la peculiare istituzione fornì
la base su cui sorse l’intero
edificio della società e della
civiltà sudista, il conflitto tra
questa e la sezione borghese e capitalistica del Nord
America divenne inevitabile. La condizione del Sud in
rapporto al resto del mondo
occidentale era ben altro
che una semplice differenza di attività economiche.
La schiavitù era la base su
cui sorgeva un’intera cultura e un’intera civiltà e quindi
non era riformabile se non a
prezzo di provocare il crollo
di tutto l’enorme edificio che
essa sorreggeva. E di fronte
a una tale prospettiva, qualunque classe dominante
avrebbe indietreggiato. Tuttavia il contrasto sarebbe
maturato progressivamente. La secessione del South
Carolina sarebbe arrivata
solo nel dicembre del 1860,
mentre la capitolazione di
Fort Sumter a opera delle
truppe confederate avvenne
solo nell’aprile del 1861. Per
un periodo piuttosto lungo la
società schiavistica del Sud
riuscì a convivere con quella
capitalistica del Nord. Infatti,
quando gli inglesi offesero
gli interessi e l’amor proprio
delle tredici colonie, il Nord
e il Sud combatterono insieme per l’indipendenza. Il Sud
schiavista, da parte sua, fornì alla causa indipendentista
sia i capi militari, a cominciare da George Washington
(membro dell’élite meridionale e grande proprietario
di schiavi), sia pensatori,
ideologi ed esponenti politici (Patrick Henry, Thomas
Jefferson, James Madison e
altri ancora). Era tipico infatti
di una società aristocratica
come quella che dominava
la società del Sud disprezzare le attività mercantili e
considerare loro prerogativa e vocazione il governo e
la difesa dello Stato. Tutte
le classi aristocratiche avevano sempre considerato la
politica e la guerra come un
loro diritto-dovere, simili anche in questo ai senatori romani della tarda Repubblica.
Non è un caso che dei primi
cinque presidenti degli Stati
Uniti ben quattro siano stati
grandi piantatori sudisti. Il
rapporto con gli schiavi, autoritario e paternalistico, aveva contribuito ad addestrare
gli aristocratici del Sud al comando, sviluppando la loro
capacità di saper ottenere
sia il rispetto sia l’ammirazione dei loro sottoposti. La
vita agricola, la pratica della
caccia e il coesistere con
la natura avevano educato
sia l’élite dei piantatori che
tutta la popolazione bianca
del Sud, fossero piccoli proprietari terrieri che yeomen
(contadini liberi che ai signori si ispiravano) a saper cavalcare, sparare, affrontare
le intemperie e l’inclemenza
della natura.
Inoltre , l’orgoglio aristocratico li portava a una naturale
fierezza e combattività. Nel
Sud c’erano persone di delicata immaginazione, di istinti
urbani e di metodi aristocratici, gente superiore: in breve
gentiluomini. Era una civiltà
con molti aspetti eccellenti,
forse la migliore che l’emisfero occidentale avesse mai
conosciuto, senza dubbio la
migliore che questi stati abbiano mai veduto (scriveva
un commentatore dell’epoca). Tuttavia, il contrasto con
la borghesia del Nord non
aveva tardato a manifestarsi
subito dopo l’indipendenza
delle tredici colonie britanniche. Il ministro delle finanze
della nuova Unione, Alexander Hamilton di New York,
che tra i leader della rivoluzione rappresentava i ceti
borghesi e capitalistici del
Settentrione, vedeva il futuro
degli Stati Uniti in un grande
organismo economicamente
centralizzato, che si doveva
fondare su un mercato unico nazionale, trasformando
gli Stati dell’Unione in mere
province.
Questa politica non poteva
non urtare violentemente
con l’autonomia e l’individualismo dei piantatori del
Sud. Il primo passo compiuto da Hamilton fu quello di federalizzare il debito
pubblico degli Stati che si
sarebbero così trovati del
tutto privi di ogni autorità in
campo economico, nonché
costretti ad accettare che
i creditori dell’Unione (in
misura schiacciante grandi
finanzieri del Nord) venissero ripagati dal governo
centrale, il quale si sarebbe
procurato i fondi necessari mediante la tassazione di
beni reali certi (le piantagioni degli aristocratici sudisti).
Inoltre, Hamilton desiderava
21
che l’intera gestione finanziaria dell’Unione fosse posta sotto la tutela di una banca centrale simile alla Banca
d’Inghilterra. I piantatori invece difendevano tutta una
serie di istituti bancari locali
che esercitavano il piccolo
credito agrario a basso tasso
di interesse.
Chi contrastò Hamilton fu il
futuro presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson,
grande piantatore virginiano (possedeva 200 schiavi), uomo di grande cultura
e illuminista, ammiratore di
Rousseau. Jefferson, pur
ritenendo la schiavitù una
piaga, pensava che non si
potesse cancellare con un
tratto di penna. Jefferson,
fondatore del Partito Demo-
22
cratico, realizzò un compromesso basato sull’alleanza
tra l’élite agraria del Sud e le
classi popolari del Nord, una
politica che avrebbe garantito un cinquantennio di stabilità e rimandato lo scontro
bellico che avrebbe causato
centinaia di migliaia di morti.
Tuttavia, il sistema sudista
schiavistico rappresentava
un’economia della stagnazione. I proprietari, specialmente i maggiori, tendevano
sempre più a considerarla
una sorta di mondo a parte, un luogo dove produrre
ricchezza non in sé o per
reinvestirla, come nel Nord
America , ma per incrementare il lusso, i piaceri della
vita. I sudisti, meno vincolati
dal profitto, meno stimolati
dal pungolo di una spietata
concorrenza, più portati ad
apprezzare il denaro come
strumento per un’esistenza
più piacevole, erano considerati, da osservatori come
Tocqueville, più franchi, più
affascinanti rispetto ai loro
confratelli del Nord borghese
e capitalista, sovente dominato dalla grettezza, dall’avarizia e dallo sfruttamento
spietato dei ceti umili.
Le differenze tra le due sezioni degli Stati Uniti sono
ben rappresentate dalle diverse risposte che sudisti e
nordisti danno al visitatore
dei loro rispettivi territori. I
nordisti: “Perdoni signore,
che cosa viene a fare qui?”; i
sudisti: “Si segga, forestiero,
che cosa posso offrirle?”. Si
tratta di un semplice aneddoto, ma la dice lunga circa i
diversi atteggiamenti. Nonostante il fascino aristocratico,
il Sud si trovò, in poco tempo, in difficoltà. Alla vigilia
della guerra di secessione al
Nord oltre il 60% della popolazione era assorbito nell’industria, mentre nel Sud tale
percentuale era ferma a un
misero 16%, inoltre, le industrie meridionali rimanevano
di modestissime dimensioni. Alcune statistiche hanno
sottolineato che il Sud, alla
metà dell’Ottocento, possedeva 159 officine. Fabbriche
di modestissime dimensioni,
sovente poco più che artigiane; l’intero capitale investito ammontava a poco più
di 9 milioni di dollari, mentre
nella sola Nuova Inghilterra
si contavano 570 fabbriche
con un capitale di oltre 69
milioni di dollari. Senza contare la gigantesca attrezzatura industriale di New York,
di Pittsburgh, detta la città
dell’acciaio , o di Chicago, la
cui stazione ferroviaria aveva una movimentazione di
ben 74 treni al giorno già nel
1859. Secondo le statistiche
del 1860, l’intera attrezzatura
del Nord industriale consisteva in 140.000 fabbriche
con 1.311.000 operai e un
capitale investito superiore
al miliardo di dollari. Si calcola altresì una produzione
annua pari a 1886 miliardi di
dollari. Queste le premesse(2)
che portarono alla Guerra di
Secessione : dall’elezione di
Lincoln nel 1860, alla secessione del South Carolina fino
alla capitolazione delle truppe confederate nel 1865.
Note:
1) RAIMONDO LURAGHI,
La spada e le magnolie.
Il Sud nella storia degli Stati
Uniti, Roma 2007 ;
2) REID MITCHELL,
La guerra civile americana,
Bologna 2003
Atanor
Il disco di Festo
il più antico testo di lettere mobili
La sera del 3 luglio 1908, durante una campagna di scavi
della Missione Archeologica
Italiana diretta dal prof. Luigi Pernier*, veniva rinvenuto
il cosiddetto “disco di Festo” nel palazzo reale minoico della località da cui il
documento trae il nome, e
precisamente in uno strato
archeologico non posteriore
alla fine del periodo medio
minoico, cioè al secolo diciottesimo a. C.
Si tratta di un disco di forma
geometrica imperfetta, ottenuto a mano mediante la
compressione su un piano di
una palla di creta ancor fresca e di colore grigio-giallognolo-rossiccio. Nonostante
l’incendio del palazzo che lo
ha in parte annerito, esso è
in uno stato di quasi perfetta conservazione e presenta
solo lievi screpolature.
In questo singolare cimelio
si può vedere la più antica
testimonianza finora pervenutaci di un procedimento
analogo a quello della stampa dato che esso reca un
enigmatico testo impresso a
lettere mobili.
Infatti su ambedue le facce,
a mezzo di una punta dura,
sono state graffite delle linee
e poi, a mezzo di punzoni,
impressi dei segni puramente pittografici che ammontano complessivamente a
duecentoquarantuno, tutti
leggibilissimi tranne uno
solo scomparso del tutto
in seguito a scrostatura; i
tipi assommano invece a
quarantacinque e, in linea
di massima, rappresentano
oggetti, persone, piante, animali, costruzioni ecc. perfettamente riconoscibili.
Le ipotesi più disparate sono
state emesse circa il significato di tale iscrizione senza
però diradarne il mistero e
una simile, anzi maggiore in-
certezza
regna
nella determinazione della zona
di origine del documento.
Mentre infatti il Pernier lo
riteneva prodotto nel luogo stesso ove fu rinvenuto,
quasi tutti gli studiosi si rivolgevano verso altre zone
del bacino mediterraneo, e
in particolare verso l’Asia
Minore, senza tuttavia addurre prove conclusive al riguardo. Anche se l’ipotesi di
E. Meyer, che lo attribuisce
ai Filistei, va scartata per ragioni di carattere cronologico, anche se non maggiore
consistenza hanno la tesi del
MacAlister, che lo ritiene importato dalla costa africana,
e quella di sir A. J. Evans,
che lo attribuisce alla costa
sud occidentale microasiatica, non crediamo per questo
che si debba consentire nel
giudizio espresso negli anni
Fotografia di una faccia del disco di Festo.
trenta dal Diringer che “se
dobbiamo proprio deciderci
per una opinione, preferiremo – sino a prova contraria
ma concreta – considerare il
disco di Festo come opera
del luogo dove è stato ritrovato”; a noi sembra che la
delicata questione non possa ancora venire risolta con
certezza, ma dobbiamo tuttavia ricordare che nell’isola
di Creta è stata messa alla
luce un’ascia con segni affini
a quelli del disco, sebbene di
fattura meno accurata, più
corsiva.
Questo cimelio ci pone an-
che di fronte a due problemi insolubili: quello della
scrittura e, in dipendenza di
esso, quello della lingua in
cui il testo è redatto.
Prendendo in considerazione soltanto il primo, dobbiamo notare che ad esso non
potremo dare forse mai una
chiara risposta se la scrittura
è puramente mnemonica o
ideografica o anche composta da segni aventi valore in
parte ideografico e in parte
fonetico, a meno che non
tornino alla luce iscrizioni
bilingui che presentino i requisiti necessari per svelare
23
24
tale enigma che, come disse
il Pernier, è ancora più impenetrabile della sfinge etrusca.
Se infatti i segni del disco
hanno valore mnemonico o
ideografico, è chiaro che la
loro interpretazione può variare da studioso a studioso
e che uno stesso interpretatore non può escludere mai
la possibilità che un medesimo passo sia da intendersi
in più maniere; ne consegue
evidentemente che nessuna
esegesi apparirà sicura a
meno che non intervengano
altri elementi probanti, cioè
numerosi testi congeneri che
diano il modo di procedere
a confronti applicando su
larga scala il metodo combinatorio o di interpretazione
intertestuale.
Per una scrittura in parte
fonetica e in parte ideografica si risolse il noto specialista di antichità cretesi sir
Arthur J. Evans che già nel
1909 osservava l’esistenza,
a parer suo innegabile, di un
elemento certo ideografico
tra i pittogrammi del disco.
Lo seguì, fra gli altri, Gustave Glotz, il quale notava che
i segni «quoique souvent
groupés dans un disématisme quasi syllabique, ne
sont pas assez mèlés d’élements phonétiques pour
tourner en écriture vraiment
linéaire. Certains groupes
(vedi fig 3) manifestent encore la prédominance de
l’image, sur le son comme
la sucession de la téte de
guerrier, du bouclier, e du
captif aux mains liées dans
le dos. Un tiers des signes
parait ainsi avoir une valeur
idéographique». Per parte
nostra, ci sembra che questi
elementi abbiano un peso
molto relativo, dato che un
susseguirsi di immagini in
stretto rapporto l’una con
l’altra non è di per sé sufficiente per dimostrare che
una scrittura è ideografica.
Lo spazio non ci consente un più esteso esame dei
vari problemi connessi con
questo singolarissimo documento, del quale ci basta aver messo in rilievo il
notevole procedimento di
impressione a lettere mobili
(che non ha riscontro nell’antichità) unendo qualche cenno generale all’enigma della
scrittura.
Bibliografia:
D. Diringer, L’alfabeto nella
storia della civiltà
J. Sundwall, art. Phoistz
Diskus-de Gruyter, vol X.
• Prof. Luigi Pernier (Roma
23 novembre 1974 - Rodi 18
agosto 1937) Archeologo.
25
Vittoria Colpi
Venezia: realtà e utopie alla
13a Mostra Internazionale
Common ground è il titolo
assegnato quest’anno alla
13. Mostra internazionale di
architettura di Venezia ed è
anche l’invito del curatore,
David Chipperfield, a scoprire i valori comuni nel fare architettura, quindi a porre l’interesse non su edifici isolati,
spettacolari nella struttura e
talora avulsi dal contesto nel
quale vengono inseriti, ma su
progetti che nascono dal dialogo e dalla condivisione di
problemi e intenti.
Una manifestazione che vuole
porsi come risposta alle Starchitecture, apparse nei paesi
del Golfo, in Cina, Corea e
Giappone e in stati più piccoli
e che paiono il frutto dei valori
di mercato e dell’ideologia del
postmodernismo.
L’attenzione degli espositori,
studi di architettura e delegazioni nazionali, si è rivolta
quindi agli spazi pubblici, alle
esigenze della gente, sotto il
26
profilo dell’accoglienza, e al
miglioramento delle relazioni
sociali, come pure alla riqualificazione e riuso delle risorse ed edifici esistenti e alle
capacità associative degli architetti nell’uso di tecnologie
ormai globalizzate.
Di tutto quanto la 13. Mostra
di Architettura offre al visitatore, abbiamo colto alcuni
spunti di riflessione, curiosità
e qualche evento particolare.
All’Arsenale, nelle Corderie,
la mostra si apre, non a caso,
con una rielaborazione di un
chiosco di giornali. Studenti di
Architettura di Venezia, in collaborazione con ETH Zurigo e
con Case Studio Vogt, hanno
preso in gestione un chiosco
cittadino dove espongono
poster, mappe e giornali realizzati per lo più con interviste
ai passanti su temi quali turismo, beni pubblici e realtà
quotidiane. Il frutto è il giornale “Republic of common
ground” distribuito in mostra.
La piccola architettura del
chiosco ci riporta alle sue antiche origini islamiche di fontana pubblica, creando inoltre
una forte analogia tra l’acqua un tempo distribuita alla
gente e la parola stampata e
diffusa. Dell’importanza dei
media dà conto l’esperienza
della Filarmonica di Amburgo, che gli architetti Herzog &
de Meuron hanno progettato
riqualificando un vecchio edificio portuale sull’Elba e il cui
cantiere è stato sospeso nel
2011 per controversie tra le
parti sociali, sorte per i costi
eccessivi e amplificate dalla
stampa.
Il percorso della mostra è
coinvolgente e sembra trascinarci in una città fluida dove
si fondono il brulichio della
gente, le radici storiche della
pratica architettonica e una
progettazione condivisa. E
il grande salone “Gateway”
allestito da Norman Foster,
Carlos Cargas e Charles Sandison, tra suoni e proiezioni
avvalora questa sensazione.
Per terra si rincorrono i grandi
nomi dell’architettura dei vari
secoli e paesi, sulle pareti si
susseguono veloci le immagini delle città e degli edifici
all’interno della vita quotidiana o di grandi eventi, il tutto
accompagnato dal rumore
della folla negli stadi, nelle
manifestazioni o semplicemente nelle strade.
La spettacolare installazione
di Zaha Hadid, ci rammenta
poi come l’architettura debba
vivere in simbiosi con la poetica dell’arte. ZHA ci propone
candidi moduli dalle forme
flessuose che si ricollegano
alle sottili coperture a guscio
e alle tensostrutture ideate
dai grandi maestri dell’architettura e ora oggetto di sperimentazione con nuovi materiali da parte dei suoi giovani
allievi presso l’Università di
Arti Applicate di Vienna.
L’arte si associa all’architettura nell’esperienza di riqualificazione di un intero paesaggio. Così in Messico la Ruta
del Peregrino, un percorso di
117 chilometri e dedicato alla
Vergine di Talpa, è stato valorizzato con punti panoramici,
dormitori e diverse costruzioni, accentuando il significato
spirituale del luogo.
Una forte componente artistica anche nei progetti di
AR:BA, un brand nato recentemente dalla collaborazione
tra studi di Malesia e italiani
e che ha dato vita a diversi
insediamenti ecosostenibili
che fondono tradizioni culturali dell’est e dell’ovest. Lo
spazio della Malesia, intitolato “Voices”, raccoglie una
serie di modelli di affascinanti
architetture all’interno di una
particolare struttura di ferro
serpentinata, per dare una
idea di coesione nella progettazione dell’ambiente.
In Common Ground non è
mancato il cenno alla congiuntura economica internazionale sfavorevole che accomuna il mondo occidentale
e ai suoi riflessi sugli studi di
architettura. Questo problema è affrontato dal critico
spagnolo Fernandez Galiano
con uno stand nel quale dei
giovani vestiti di bianco, quasi
in segno di resa, mostrano ai
visitatori modelli di importanti
edifici realizzati a Madrid e a
Barcellona.
Passiamo ai Padiglioni internazionali ai Giardini, dove il
tema della mostra è sottolineato con semplicità e nel contempo con determinazione
nello spazio degli Stati Uniti
ai Giardini. L’installazione
“Spontaneous Interventions:
Design Actions for the Common Goods” evidenzia come
attrezzature o piccoli ma efficaci interventi degli individui
possano migliorare lo spazio
pubblico di una collettività.
Numerosi gli esempi apportati. Tra questi: le Bubbleware,
bolle gonfiabili realizzate ad
Austin, Texas, che invitano i
cittadini a sviluppare nuove
forme di interazione sociale e
con i loro vivaci colori modificano l’aspro aspetto urbano;
le numerose City Farm di Chicago che riescono a sostenere l’economia locale fornendo
ortaggi a residenti e ristoranti
e incentivano le occasioni di
lavoro; infine l’esperimento
ormai diffuso del Neighborland Website. Creato a New
Orleans per dare alla gente la
possibilità di definire e realizzare comuni obiettivi, offre ai
cittadini delle tessere su cui
scrivere la cosa più desiderata per il proprio quartiere, traendone poi valutazioni.
Il problema dell’accoglienza
è particolarmente sentito in
Canada, un paese da sem-
pre aperto alle immigrazioni,
tuttora un’eccezione nel panorama internazionale di diffidenza, se non di chiusura.
Migrating Landscapes è l’installazione proposta, costruita con una miriade di strutture
di legno che definiscono diverse idee di abitazione e di
coinvolgimento nella società.
27
L’aspetto spettacolare di mosaico che ne deriva richiama
l’identità culturale pluralistica
del Canada.
Nel contenitore Common
Ground non è mancato il
cenno al risparmio delle risorse. Il Padiglione tedesco ha
puntato sulle tre R: Reduce,
Reuse, Recycle, creando una
sorta di alleanza tra vecchio e
nuovo. Gli esempi di riqualificazione apportati mostrano
come la Baukultur tedesca
ponga gli architetti di fronte
alle questioni dell’energia, dei
cambiamenti climatici e della
demografia e attribuisca loro
il compito e la sfida di aggiornare le strutture esistenti.
Questa capacità di recupero
viene anche definita col termine resilience. E l’AAA, Atelier d’Architecture Autogérée,
fondato nel 2001 e con sede
a Parigi, focalizza in particolare il problema dell’Urban
Resilience, un passo avanti
rispetto alla sostenibilità. Se
infatti la sostenibilità vuole
mantenere lo status quo del
sistema, controllando l’equilibrio tra input e output, l’Urban
Resilience porta il sistema a
un cambiamento, ipotizzando
cicli di produzione - consumo, su una base locale la più
ridotta possibile ed una partecipazione attiva e coerente
dei cittadini.
Anche il problema della densità di popolazione è stata
oggetto di interesse in Com-
28
mon Ground, per esempio
dall’Angola, con un padiglione all’Isola di San Giorgio
Maggiore curato da due giovani architetti, Stefano Rabolli
Pansera e Paula Nascimento.
Essi hanno preso in considerazione nella città di Luanda
una zona periferica contraddistinta da un forte densità
di popolazione, circa 53.800
persone per Kmq, da carenza
di edifici e di infrastrutture,
quali la rete fognaria e quella
elettrica. Il progetto esposto,
in scala reale 1:1, evita interventi invasivi sul tessuto urbano esistente e si propone
come spazio verde dotato
di una infrastruttura a bassa tecnologia. Quest’ultima
consiste nella piantumazione tra gli edifici di un tipo di
canna, l’Arundo donax, ideale per la bio-massa e inoltre
in grado di filtrare le acque
sporche e di assorbire grandi
quantità di anidride carbonica, migliorando le condizioni
di vita in modo sostanziale.
Un cenno infine al Padiglione Italia curato da Luca Zevi
e dal titolo “Le Quattro Stagioni”: il racconto dei rapporti tra architettura, economia e territorio nel nostro
paese, partendo dagli anni
Cinquanta del Novecento.
Un percorso che inizia con
l’esperienza della città-fabbrica di Ivrea, dove Adriano
Olivetti vuole fare di ogni
complesso industriale un’opera d’arte e d’architettura.
I successivi anni Ottanta
vedono purtroppo un’aggressione al territorio con
capannoni e brutti edifici,
mentre l’architettura made
in Italy nell’ultimo quindicennio ha cercato di ricreare
una tipologia olivettiana di
paesaggi industriali, riqualificando insediamenti e spazi
pubblici. Ma non è tutto. La
sfida di Expo 2015 “Nutrire
il Pianeta” rappresenta un
nuovo traguardo dell’architettura verso la Green Economy e verso il concetto e
la realizzazione di comunità
sostenibili, in un rapporto
equilibrato di spazi agricoli e urbani e dove la gente
possa vivere, lavorare e nutrirsi.
Quanto sopra scritto è una
piccola parte di tutto ciò che
la 13. Mostra Internazionale
comprende, in un “common
ground” di ideali e realtà.
Ma la lezione di Chipperfield
verrà ascoltata?
Alle spalle di Venezia, a Marghera spunta già la minaccia
del Palais Lumière di Pierre
Cardin, una torre alta 255
metri con 65 piani abitabili,
definita dallo stilista veneto
ma naturalizzato francese
un “progetto per recuperare
un territorio urbano e paesaggistico degradato”. Sarà
davvero un faro per Venezia
o non getterà sulla città lagunare, patrimonio universale, una luce sinistra?
Mirta Serrazanetta
Gli enigmi nell’arte
Bosch: Trittico delle delizie
ovvero il trionfo di Satana
Paesaggio allucinante e ricco di risonanze misteriose
questo proposto nell’attuale
numero del Pane Quotidiano, che ritrae il Giardino delle
Delizie, scomparto centrale
del Trittico omonimo. Uno
stagno in cui defluiscono
quattro fiumi che ospitano
ai loro bordi strani gusci rotti
di grandi uova, nelle quali si
accalcano esseri umani nudi
ambiguamente “unisex”…
singolari e suggestive colline,
torri sulle rive dello stagno,
ricche di escrescenze minerali e vegetali… al centro un
enorme globo, grigio azzurro,
galleggiante sull’acqua immota, su cui nude figure di
amanti si esibiscono in strane acrobazie… così proposto
questo frammento di paesaggio potrebbe essere facilmente scambiato per una
pittura ricca di onirica suggestione di un artista surrealista
del XX secolo! A dipingerla
invece è stato uno straordinario pittore fiammingo del
primo Cinquecento: Hieronymus Bosch. Il suo particolarissimo stile dal complesso
simbolismo, che trae le sue
fonti dell’alchimia, dalla letteratura mistica e dai detti popolari, dà forma a una tematica esclusivamente religiosa
e morale: traviserebbe lo
spirito della ricerca artistica
di Bosch chi cercasse di interpretare le sue opere come
se fossero frutto di pura divagazione fantastica. La sua
arte, con perfetta aderenza
alle esigenze della sua epoca, non si prefigge un mero
compiacimento formale, ma
vuole soprattutto essere significante, vuole trasmettere un messaggio morale.
In quasi tutti i suoi dipinti il
pittore mira a sottolineare la
pericolosa vicenda cui l’umanità va incontro, qualora
si lasci sedurre dall’insidia
del peccato. L’unico rimedio
al male è da Bosch indicato
nella piena consapevolezza
dello stesso e da ciò deriva
la foga quasi ossessiva con
cui mette in evidenza la debolezza e i vizi dell’umanità.
Non sappiamo con precisione chi siano i committenti di
Bosch, probabilmente enti
religiosi (il fine moraleggiante d’altronde rendeva ac-
gati alla vicenda della Guerra
dei Cento Anni, particolari
privilegi ed esenzioni fiscali
avevano creato una situazione di singolare prosperità e
benessere. La ricchezza era
quindi largamente diffusa e
produceva un forte desiderio
di vita e di piacere. Vigevano
così abitudini e usanze affatto licenziose, che di lì a pochi
decenni il clima moralistico
cettabili anche i mezzi figurativi più audaci, quali sono
appunto quelli del nostro
pittore); sappiamo però che
l’artista credeva fortemente, tanto da far parte di una
confraternita, quella di Nostra Signora, nella necessità
di un’opera di moralizzazione
che si opponesse alla ormai
diffusa licenziosità e rilassatezza dei costumi, dilagante
nella borghesia e persino nel
clero.
Nelle Fiandre, infatti, alla fine
del Quattrocento, nonostante gli sconvolgimenti politici
e gli scontri sanguinosi colle-
della Riforma avrebbe “spazzato via”. Erano molto diffuse
e frequentate le famose “stufe”, bagni in comune ove non
esisteva separazione tra uomini e donne, che fungevano spesso da vere e proprie
case di piacere. Si tollerava
ampiamente che le adescatrici cercassero ovunque la
loro occasionale clientela…
non esclusi i luoghi sacri
come le chiese. L’azione del
clero era d’altronde debole
e inefficace, perché anche i
suoi membri cedevano volentieri al richiamo del piacere: frequentavano assidua-
mente le famigerate “stufe”,
avevano delle concubine,
permettevano che avessero
luogo singolari e irriverenti
cerimonie come, ad esempio, l’elezione della reginetta
delle concubine!. La cerimonia avveniva a Liegi, durante
le feste di Pasqua; la reginetta, una volta eletta, veniva
portata in trionfo in chiesa,
ove occupava un trono speciale per tutta la durata delle
cerimonie pasquali. Se quindi corruzione, licenziosità e
irriverenza dominavano gran
parte della popolazione, vi si
opponevano però numerose
Confraternite, come quella di
Bosch, che auspicavano una
moralizzazione della società
contemporanea, con particolare riferimento alle usanze
sessuali. Anche il Trittico delle Delizie risponde a questi
intenti moraleggianti e didascalici. Il Trittico, che ha ante
mobili alla maniera d’Oltralpe, chiuso, all’esterno rappresenta il terzo giorno della
creazione, come antefatto.
Aperto, mostra nello scomparto di sinistra la creazione
di Eva, evento base dei mali
nel mondo, prima tentazione
e preludio alla fatale caduta.
Al centro è invece raffigurato il Giardino delle delizie,
che rappresenta il torpore
morale dell’anima dedita ai
piaceri sessuali e dimentica
della salvezza. Nello scomparto interno di destra infine
compare la raffigurazione
dell’inferno, cioè dell’inevitabile castigo. Lo scomparto
più famoso è indubbiamente
quello centrale, ove una folla
di nudi delicati ed esili si abbandona ai piaceri della carne, in un giardino popolato
da suggestive forme di frutti
e di animali di proporzioni
gigantesche, chiari simboli,
come l’uovo, di piaceri sessuale e di lussuria.
29
Ercole Pollini
El guarnasc
Il Battipalo “MARTIN”
Quasi ottant’anni fa, da ragazzino, per me e i miei coetanei era un avvenimento
quando arrivava a Tremezzo il
battipalo che, senza un nome
di battesimo, a nostra conoscenza, che lo identificasse,
era chiamato “MARTIN”.
Probabilmente, l’etimologia
della parola trae origine dalla
funzione di …..martinetto…
ossia, la massa battente sul
palo.
Normalmente, questa nave
officina veniva a controllare
i pontili d’attracco al centro
lago – i più provati durante
la stagione estiva dai quasi
continui approdi di battelli, allora, in massima parte a ruote
– ai primi d’ottobre, alla fine
della stagione turistica.
Capitava sporadicamente, in
piena stagione, che qualche
maldestro timoniere prendesse d’infilata normalmente
la terna dei pali d’appoggio e,
quando andava male (ma era
assi raro) i pali di sostegno
del pontile vero e proprio. In
questo caso, l’intervento del
MARTIN, era immediato: un
vero e proprio Pronto Soccorso.
A onore del vero, bisogna
dire in gergo che per far orario (ciò stava a significare “ricuperare il ritardo”), i poveri
timonieri, quando non il capitano stesso, erano costretti
a fare delle vere acrobazie
all’accostamento ai pontili
con dei battelli lunghi cinquanta – settanta metri. Arri-
vavano a piena velocità quasi
al pontile, poi veniva ordinato
“l’indietro tutta” e, quando
andava bene, il battello veniva pennellato in posizione al
pontile. Mi ricordo di due comandanti, il mio amico Berto
Corti e il genovese Massanti,
che erano dei veri maestri in
tale bisogna.
Oggi qualcuno può domandarsi: “Ma chi glielo faceva
fare?”. A quel tempo, in piena
era fascista, per le ferrovie e
i mezzi pubblici di trasporto,
battelli compresi, era imperativo “rispettare gli orari”; non
come si fa oggi che un povero pendolare che parte da
Piacenza, arriva a Milano con
decine e decine di minuti di
ritardo! E nota: non si barava
Giugno 1974 - Il battipalo MARTIN ormeggiato alla boa nel porto di Como in predisarmo.
30
ampliando gli orari e inoltre
con mezzi superlativi a disposizione ma con locomotive a
vapore, il che è tutto dire.
Cari lettori cosa ne pensate?
A quei tempi non c’era la
televisione e i cinematografi erano una rarità, e per noi
“giovani figli della lupa capitolina” era un doppio divertimento l’arrivo del “Martin”; in
primis, per l’equipaggio che
spesso e volentieri tirava dei
moccoli, non proprio elaborati alla fiorentina, in ogni modo
abbastanza significativi; in
secundis, per il gravoso e
difficile lavoro di piazzamento dei lunghi e grossi pali per
l’attracco dei battelli, che richiedeva una grande abilità.
direzione di marcia che avveniva con il motore al minimo.
Giugno 1974 - Il battipalo MARTIN ormeggiato alla boa nel porto di Como in predisarmo.
Caratteristiche tecniche
Purtroppo, malgrado le mie
continue ricerche, non ci
sono biografie dei battelli
battipalo del lago di Como,
salvo quelle per la TREMEZZINA; e sì che tutti i pontili
costruiti dalla fine dagli ultimi
lustri del 1800 al 1979 sono
la testimonianza del notevole
lavoro svolto da queste unità,
nemmeno nelle memorie del
compianto capitano Armando Sberze, vera enciclopedia
della storia dei battelli del
lago di Como.
Pertanto tutte le informazioni
che tenterò di dare di seguito, sono frutto dei miei ricordi visivi di gioventù e delle
informazioni raccolte (bocca - orecchio) dagli anziani
“lagheè”, passati all’Oriente
Eterno ormai da decenni.
Le due fotografie da me fatte
nel giugno del 1979, riprendono il MARTIN a Como ormeggiato alla boa in diga,
ormai prossimo al disarmo,
dopo quasi settant’anni d’intenso servizio.
Il MARTIN venne progettato
e costruito all’inizio del 1900,
secondo alcuni, dall’allora direttore della Soc. Lariana ing.
Campiglio, che, per le nuove
esigenze di logistica, necessitava di un mezzo atto sia
alla costruzione dei pontili,
sia come nave officina vera e
propria per gli interventi che
oggi chiamiamo “di pronto
soccorso” della numerosa
flotta del Lario.
adibita a magazzino; la parte
centrale ad alloggio dell’equipaggio con brandine, una
mini cucina a carbone e alcune suppellettili; la parte di
poppa alloggiava un motore
a testa calda a petrolio con
inserimento manuale della
Motorizzazione
Merita un cenno storico il
MOTORE A TESTA CALDA
Questo tipo di motore, l’antisegnano per eccellenza del
motore Diesel, lo si può definire come MOTORE SEMIDIESEL (1906/1908).
Era un motore alimentato a
petrolio o a olio combustibile pesante, nel quale l’introduzione dell’aria è separata
da quella del combustibile,
come nei motori DIESEL, ma
la compressione della prima
è mantenuta tra limiti molto
più bassi, sicché per ottenere l’accensione della miscela
combustibile si rende necessario la aggiunta di un sistema di accensione il quale si
riduce a un semplice artificio:
riscaldare la testa del cilindro
con una “lampada svedese”
detta, in gergo tecnico franco-milanese, “salumò”, che
non è altro che una lampada
a saldare a vapori di benzina
in pressione.
Qualcuno di Voi si ricorda i famosi fornelli a petrolio “PRIMUS”?
L’avviamento di questo motore, classificabile come un
“ 2 tempi”, avviene girando
a mano l’albero motore in
modo da portare il cilindro in
compressione, con una rotazione, di senso opposto alla
normale, e senza che lo stantuffo raggiunga il punto morto
superiore. Fatto ciò, si aziona
a mano la piccola pompa del
Novembre 1941 - Impegnato nel ricupero del BRUNATE affondato a
Bellagio.
Scafo
Era a fondo piatto, con la
prua assai profilata ma con la
poppa squadrata per conferire allo scafo una buona stabilità, inoltre la sua struttura
era surdimensionata per sopperire alle notevoli sollecitazioni cui veniva sottoposto.
Il pescaggio era quasi di due
metri.
La cala di prua che impegnava un terzo dello scafo, era
31
Ve lo garantisco, non ho più
mangiato una polenta così
saporita!
Per concessione particolare
ci versarono mezzo bicchiere di un profumato vino rosso prodotto dal parroco di
San Giovanni di Bellagio.
Gennaio 1947 - Impegnato al ricupero del BARADELLO affondato ad Abbadia Lariana dagli aerei alleati il 27
gennaio 1945.
combustibile, ottenendo uno
spruzzo di petrolio o di olio
combustibile che, bruciando
a contatto della calotta della testa, precedentemente
riscaldata dalla lampada a
benzina, produce l’esplosione e fa partire il motore.
Una volta partito, il motore viene alimentato con un
semplice carburatore a caduta.
Era quanto di più spartano
esistesse allora, ma tanto il
battipalo non necessitava
di una gran velocità. Erano motori monocilindrici, di
potenza inferiore ai 25 CV, e
con un numero di giri assai
basso. La loro semplicità e
robustezza
caratterizzava
una affidabilità notevole.
Argano
L’argano e il gruppo frizione
che comandavano il martinetto, erano sistemati sopracoperta. Non ho notizie
del tipo di motore ma so certamente che era un diesel
di provenienza automobilistica, adattato alla bisogna
dalle capaci maestranze
della Lariana.
Organo di governo
Il timone era diretto, comandato da una semplice barra
di governo, esposto ai quat-
32
tro venti, poiché una cabina
di comando sarebbe stata
d’intralcio alla movimentazione dei lunghi pali.
Equipaggio
Era composto di cinque unità, il caposquadra facente
funzione di comandante, il
motorista e tre operai poli
funzioni. Mi ricordo sempre
con simpatia di loro, per la
loro abilità e affiatamento e,
perché, malgrado una parvenza di un carattere burbero, avevano un cuore d’oro.
A tale proposito vi racconto
un fatto: era settembre inoltrato ed erano dovuti intervenire d’urgenza per ripristinare una palificazione d’appoggio adiacente al pontile.
La giornata era stupenda e
a noi nullafacenti non pareva vero dell’insperato diversivo. A un certo punto ai
quattro della mia banda, io,
il Miro, il Ras Malugheta e il
Pagnottella venne un’idea:
andare a rubare della frutta
sui piani di Rogaro e portarla all’equipaggio. Ipso facto
partiamo e nel giro di poco
tempo riempiamo un capace
paniere di uva, fichi, pesche
tardive, pere e mele.
Ritornati alla base, ci rechiamo a bordo del battipalo
mentre ferveva il lavoro, ac-
colti dagli urlacci degli operai preoccupati della nostra
incolumità. Avviciniamo il
capo, detto Negus, e gli consegniamo il paniere con la
frutta. Tutti restarono senza
parola, tanto era la sorpresa.
Dai loro occhi capimmo che
erano commossi. Il capo allora ci disse: andate a casa
e avvisate le vostre mamme
che oggi verrete a mangiare
con noi la “pulenta vuncia” e
i “bastardelli” (specie di cacciatori della Tremezzina).
Il motorista che aveva anche
la funzione di cuoco, liberata
la fucina dagli attrezzi, piazzato un trespolo, vi appese
un capace paiolo di rame
per riscaldare l’acqua della polenta. Con consumata
abilità, quando l’acqua cominciò a bollire vi versò la
farina mista di granoturco
e farina facendo attenzione
che non si formassero i “frati”. A due terzi dalla cottura
aggiunse un mezzo chilo di
burro, altrettanto formaggio
magro di Rogaro, un tocco
di Gorgonzola e continuò a
rimestare il tutto sino a fine
cottura.
Apparecchiata una tavola
spartana sulla tuga del motore, con al centro due bei
bottiglioni di vino, il capo
riempì i nostri piatti e i loro.
Procedura di piazzamento
del palo
Cerco di descrivere come si
svolgeva il lavoro:
- I pali da sostituire, normalmente pini di Slavonia,
approvvigionati in Tirolo,
lunghi dai dieci ai quindici
metri; venivano trainati dal
battipalo;
- Giunti sul posto di piazzamento, venivano issati a
bordo per l’applicazione a
una estremità di una puntazza e all’altra, di un anello di
contenimento battitura, entrambi forgiati con la fucina
di bordo;
- Si procedeva quindi a sfilare il palo avariato, imbragato con una fune d’acciaio
e tirandolo con l’argano del
martinetto;
- Determinata la posizione
idonea, si cominciava a rizzare il palo nuovo utilizzano
la torre di prua o quella laterale secondo la bisogna;
- A questo punto s’iniziava
con la massima circospezione a battere il palo col martinetto facendo la massima
attenzione che la punta non
incontrasse qualche grosso
masso che ne impedisse la
penetrazione e rovinasse di
conseguenza la puntazza. I
due addetti alla torre, si regolavano che la penetrazione del palo, a ogni colpo del
martinetto, fosse regolare
altrimenti ne bloccavano immediatamente la battitura.
Era un lavoro di una squadra affiatata, reso ancor
più difficile dall’ancoraggio
del battipalo e soprattutto
dall’accostamento continuo
dei battelli di linea che interrompevano il lavoro.
- Ovviamente questo lavoro
non poteva essere eseguito
con il lago mosso. Alcune
volte, specie se la sostituzione del palo avveniva in
alta stagione, il lavoro si
effettuava anche di notte e
con la pioggia.
Ercole Pollini
Repertorio Gastronomico Milanese
La gloriosa storia dei crauti
Dalle memorie culinarie di mia nonna Ester (classe
1865), riporto questa ricetta milanese per cucinare
il cavolo bianco e quello rosso, retaggio della dominazione austriaca a Milano, verdura che si accompagna solo al “cotechino” e, di riflesso, alle “luganeghe” brianzole, ovviamente, dal tardo ottobre
all’inverno.
Un po’ di storia è di pragmatica: …È superfluo ricordare la grande diffusione che hanno i crauti
(il “Sauekraut” degli Austriaci, la “choucroute” dei
Francesi e dei Belgi) in tutta l’Europa, e specialmente in quella centrale e occidentale. La fama dei
crauti è antica e con molta probabilità la preparazione di questa peculiare del cavolo (bianco e rosso)
è mediterranea e anzi latina.
Il nome tedesco del cavolo, Kohl, deriva dal nome
latino coulis, e la parola popolare kumpost, ancora
usata in alcuni villaggi della Germania per designare
i crauti, proviene dal vocabolario latino compositum
col quale si classificavano tanto le olive conservate
in una particolare salsa, quanto i cavoli fermentati
e conservati.
La parola tedesca “sukrut” (crauti) compare nelle
cronache tedesche verso il II° secolo. In tutto il
Medio Evo ai cavoli si è attribuito non solamente il
significato di un buon ortaggio alimentare, ma anche quello di un ortaggio a carattere medicamentoso: e un vecchio proverbio popolare germanico diceva appunto che il cavolo cura la pelle dei giovani.
Nel 1610 il medico Ippolito Guarinoninus in una sua
nota opera indica i crauti come un ottimo sussidio
diuretico.
Nel periodo delle esplorazioni e dei viaggi oceanici
(e cioè nel periodo susseguente alla scoperta dell’America) i crauti assumevano una grande importanza come materiale antiscorbutico, materiale che
era possibile caricare a bordo delle navi in quantità
grande. Ogni nave cercava di procurarsene masse
notevoli prima di intraprendere un viaggio di lunga
durata e ancora verso la metà del XVIII secolo lo
scorbuto compariva con relativa frequenza negli
equipaggi inglesi per l’incuria nel preparare l’adeguato carico di crauti, mentre non faceva la sua apparizione sulle navi olandesi rifornite del benefico
ortaggio conservato. Del resto i navigatori di ogni
paese conoscevano l’importanza dei crauti (che in
ultima analisi costituivano la sola forma di ortaggio
conservato in un’epoca nella quale era ignoto l’impiego del freddo e di altri conservativi) e Cook nel
suo viaggio circumterrestre caricò in partenza 80 t.
di crauti e gli ufficiali ne mangiavano ogni giorno
per dare il buon esempio agli equipaggi.
Nel primo ventennio del secolo scorso, la scoperta
della vitamina contenuta in quantità e in modo vario
(Vitamina B1, B6, A, C, ecc.) nel cavolo ha finito per
nobilitare completamente il cavolo e i crauti.
Ingredienti (per quattro persone)
-
un cavolo cappuccio (più gustoso quello rosso) del peso di 1 kg
30 g di burro
150 g lardo venato o, meglio, parte grassa del prosciutto crudo
n° 3 cucchiai di olio d’oliva extra vergine
n° 4 scalogni (in mancanza, cipolla bianca)
100 cc di vino bianco
100 cc di aceto di vino bianco
brodo di carne o vegetale q.b.
aromi: timo, due foglie di alloro, alcune bacche di ginepro
sale qb
Preparazione
Eliminare dal cavolo le foglie esterne - tagliare a metà il cavolo - eliminare il torsolo - tagliate le foglie a piccole strisce e metterle a bagno
nell’acqua per almeno un’ora, indi, scolarle accuratamente.
Mettere in una casseruola: il burro, il lardo o il grasso di prosciutto crudo dopo averlo spappolato bene con una mezzaluna, l’olio d’oliva, lo
scalogno tagliato assai finemente e rosolare il tutto a fuoco moderato.
Quando lo scalogno comincia a imbiondire, aggiungere le striscioline di
cavolo, farle stufare sempre a fuoco moderato (non devono assolutamente essere “gremate” - inizio di bruciatura, - altrimenti sarebbero da
buttare) mescolandole continuamente. Appena appassite, aggiungere il
vino bianco e farlo sfumare a fuoco leggermente più alto.
Indi riabbassare il fuoco, aggiungere l’aceto, mescolando bene, gli
aromi, salare quanto basta e portare a cottura con del brodo che va
aggiunto gradatamente. Cuocere col fuoco al minimo per almeno due ore.
I crauti possono essere serviti caldi o tiepidi con il cotechino o le salamelle, che sono di pragmatica.
33
Antonio Aràneo
Zanzare
Un raffinato è uno capace di
sbadigliare senza aprire la
bocca.
(J. Garland Pollard)
Un gentiluomo è uno capace
di descrivere Sophia Loren
senza fare gesti.
(M. Audiard)
In Italia vi sono oltre cinquanta milioni di attori. I
peggiori sono sul palcoscenico.
(Orson Welles)
Gli attori recitano nella
speranza di fare l’amore.
Le attrici fanno l’amore nella
speranza di recitare.
(D. Formica)
L’uomo è l’unico animale
che arrossisce, ma è anche
l’unico ad averne motivo.
(Mark Twain)
Una volta si diceva: ti amerò
tutta la vita. Ma allora la vita
media era di 45 anni. Oggi è
meglio non sbilanciarsi.
(L. De Crescenzo)
conto in banca non può
essere brutto.
(Zsa Zsa Gabor)
L’amore è fisica,
il matrimonio è chimica.
(A. Dumas f.)
L’amore è cieco, ma
il matrimonio ci dà la vista.
(Georg C. Lichtenberg)
Gli uomini nascono liberi e
con uguali diritti. Poi,
purtroppo, molti si sposano.
(Marcel Jouhandeau)
Io le ho chiesto di sposarmi,
e lei mi ha detto di no.
E da allora viviamo felici e
contenti.
(Spike Milligan)
La felicità di un uomo
ammogliato dipende dalle
donne che non ha sposato.
(Oscar Wilde)
Certamente ci sarebbero
meno mariti traditi se si
abolisse il matrimonio.
(J. A. L. Commerson)
Gli uomini hanno soltanto
due cose per la testa.
La seconda è il denaro.
(Jeanne Moreau)
Il matrimonio riduce i nostri
diritti e aumenta i nostri
doveri.
(Alexander G. Bell)
Queste donne impossibili:
non si può vivere né con
loro, né senza di loro.
(Aristofane)
Un uomo che parla male del
matrimonio, o non ha avuto
la donna che desiderava,
oppure l’ha avuta.
(Jacques Marchand)
Le donne sono nate
per soffriggere.
(G. Boncompagni)
Un uomo con un grosso
34
Dobbiamo sposare soltanto
donne belle, se vogliamo che
poi qualcuno ce ne liberi.
(Sacha Guitry)
La moglie al marito:
Caro, cosa preferisci: una
donna bella o una donna
intelligente?
- Nessuna delle due, cara.
Ti amo così come sei…
(L. Chicchi)
- Ci sono due posti dove,
più che altro, mi piace esser
baciata.
- Quali?
- Venezia e Sorrento.
(Gino e Michele)
Le mogli sono come le scarpe: quando cominciano ad
andar bene sono da buttar
via.
(L. Antonelli)
Dicono che Orfeo scese
fino all’Inferno per cercare
la moglie scomparsa.
Tutti i vedovi che conosco
non andrebbero neppure in
Paradiso per ritrovare la loro
moglie.
(N. De Lanclos)
Gli atei non dovrebbero
avere l’osso sacro.
(R. Gomez de la Serna)
- Pierino, fammi un esempio
di un verbo al presente e un
altro all’imperfetto.
- Sì, un esempio è mio zio,
che si chiama Guido; l’altro
è mio cugino, che si chiama
Gustavo.
(L. Chicchi)
Se son fiori, fioriranno.
Se son more, moriranno.
Se son cachi, …
(L. Chicchi)
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