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PERIODICO QUADRIMESTRALE - PUBBLICAZIONE OMAGGIO - ANNO XXI N.77 DICEMBRE 2012 - SPEDIZIONE IN A.P. 70% - FILIALE DI MILANO PANE QUOTIDIANO «FRATELLO... NESSUNO QUI TI DOMANDERA’ CHI SEI, NE’ PERCHE’ HAI BISOGNO, NE’ QUALI SONO LE TUE OPINIONI» C H V IA UO M I A P IL AR pa N LA ne UM R qu E E C ot RO O @ 0 N tin 2 N .it 58 OI? 31 04 93 IL CONTO CAMBIA, CAMBIA LA BANCA! Da Banca di Legnano cper onto xme Il Conto che fa i miei interessi. Zero spese, più interessi e tutta la libertà che ho sempre cercato. Basta con i soliti conti correnti che mi obbligano a regole che mi stanno strette. Finalmente c’è un conto nuovo che lascia fare a me. Decido io quando, dove e anche come utilizzare la Banca. Posso andarci, telefonare o connettermi attraverso internet, per controllare ma anche per operare. Le operazioni costano Zero euro, mentre gli interessi vengono aggiornati automaticamente. In più mi regala Carta Jeans, la prepagata ricaricabile. ContoPerMe, il conto multioperativo www.bancadilegnano.it Prendere visione delle condizioni economiche mediante i fogli informativi disponibili presso ogni Filiale (D. Lgs 385/93). Il presente messaggio pubblicitario ha finalità esclusivamente promozionali. PERIODICO QUADRIMESTRALE DELLA SOCIETÀ PANE QUOTIDIANO (1898) Iscritto alla Unione Stampa Periodica Italiana ANNO XXI N.77 Dicembre 2012 Reg. del Trib. di Milano n.592 del 01/10/90 Spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di Milano Pubblicazione Omaggio Direzione, Redazione, Pubblicità e Relazioni Stampa Viale Toscana, 28 • 20136 Milano Telefono 02-58310493 • Fax 02-58302734 www.panequotidiano.eu indice Crudo e cotto - Francesco Licchiello 4 La dieta mediterranea (e l’UNESCO) - Renzo Bracco 6 Il ‘Colpo di Stato’ - Gigliola Soldi Rondinini 10 Si crede a ciò in cui si vuole credere - Guido Buffo 12 Dalla Coda alla Testa del Drago - Enrica Franciolini 14 La Flotta Templare - Angelo Casati 17 Esicasmo, lo Zen dell’Occidente - Rodolfo Signifredi 19 Stati Uniti: capitalisti del Nord, gentiluomini e schiavisti del Sud - Umberto Accomanno 21 Il disco di Festo: il più antico testo di lettere mobili Atanor 23 Venezia: realtà e utopie alla 13a Mostra Internazionale Vittoria Colpi 26 Gli enigmi nell’arte Bosch: Trittico delle delizie ovvero il trionfo di Satana - Mirta Serrazanetta 29 El guarnasc - Ercole Pollini 30 Cucina - Ercole Pollini 33 Zanzare 34 [email protected] Direttore Responsabile Pier Maria Ferrario Segretario di Redazione Ercole Pollini Relazioni Esterne Cinzia Bianchi Redazione Gigliola Soldi Rondinini Hanno collaborato: Angelo Casati, Antonio Aràneo, Atanor, Enrica Franciolini, Ercole Pollini, Francesco Licchiello, Gigliola Soldi Rondinini, Guido Buffo, Mirta Serrazanetta, Renzo Bracco, Rodolfo Signifredi, Umberto Accomanno, Vittoria Colpi. Grafica e stampa: Tipografia Vigrafica srl Federico Ferrario Viale gb Stucchi, 62/7 • Monza tel. 039.20.28.028 • fax 039.20.28.044 www.vigrafica.com • [email protected] Copertina: Foto di Ivana Boris Gentile lettore/lettrice, La informiamo che i Suoi dati sono inseriti in un database gestito dall’editore. Siamo tenuti a informarLa che il trattamento dei dati che La riguardano viene svolto a mezzo di supporti informatici nel rispetto di quanto previsto dal decreto Legislativo 30-6-2003 N° 196 (pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 29-7-2003 N° 74) Codice in materia di protezione dei dati personali. In qualsiasi momento, Lei potrà richiedere la modifica o la cancellazione dei dati, scrivendo all’editore. Potrà ugualmente rivolgersi allo stesso indirizzo qualora Lei non desiderasse ricevere Che vi do. Gli autori si assumono la piena responsabilità degli articoli firmati. La rivista, salvo diversi accordi firmati tra le parti, diventa proprietaria delle foto, dei disegni e degli scritti pubblicati che non verranno restituiti; questi non possono essere pubblicati senza autorizzazione. La riproduzione, anche parziale, se autorizzata deve comunque citare la fonte. Eventuali collaborazioni danno diritto, salvo accordi particolari, solo a tre copie giustificative dei lavori pubblicati. Francesco Licchiello Crudo e cotto Antropologia dell’alimentazione Il passaggio dallo stato naturale a quello culturale fu compiuto in modo embrionale già ai tempi dell’homo erectus, un ominide vissuto tra i 1.600.000 e, in qualche luogo, i 30.000 anni fa. Infatti il Sinanthropus Pekinensis (300 a. C.), i cui resti furono rinvenuti nella caverna di Zhoukoudien nelle vicinanze di Pekino (Beijing) ) usava vari utensili ed è quasi certo che usasse il fuoco per cuocere il cibo e un linguaggio per comunicare con gli altri. Quale cibo? La carne della selvaggina, radici, tuberi… All’homo erectus fece seguito l’homo sapiens sapiens, nostro diretto antenato, giunto in Europa dall’Africa e dal Medio Oriente intorno a 45.000 anni fa, che eliminò, talvolta mangiandolo, l’homo 4 sapiens neanderthalensis che l’aveva preceduto e che era creatore di una superiore cultura materiale e spirituale. L’ominide si alimentava con la raccolta di frutti, radici, tuberi, foglie, insetti; successivamente cominciò a mangiare anche la carne che si procurava attraverso lo sciacallaggio o la caccia. La carne veniva divorata cruda, ma in seguito fu scoperto che cotta era più saporita e più digeribile e, rispetto a una laboriosa dieta erbivora o frugivora, la dieta carnea riduceva il volume dell’addome, rendeva l’uomo più agile nei movimenti e, con la riduzione dei tempi per cibarsi, si aveva più tempo a disposizione per dedicarsi ad altre attività. Inoltre la caccia e l’assimilazione delle proteine animali predisponevano a una pronunciata aggressività. E’ stato accertato che, in luoghi e in epoche diverse, gli uomini primitivi del paleolitico praticavano il cannibalismo, cioè mangiavano altri uomini. Tra le varie ipotesi sul fenomeno del cannibalismo vi è quella secondo la quale gli uomini, vissuti per molti millenni come cacciatori e quindi come consumatori di proteine animali, quando diminuirono le prede a causa della caccia o per cambiamenti climatici e ambientali, per continuare la dieta carnea, si cibarono dei loro simili. Intorno ai diecimila anni fa, a causa della diminuzione della selvaggina e per motivi di comodità ambientale, gli uomini da nomadi divennero stanziali inventando, o me- glio, dandosi all’allevamento del bestiame e all’agricoltura. La loro dieta si arricchì moltissimo e così nacque la “cucina”. Aldilà della semplice descrizione dei cibi e della loro cottura, l’analisi strutturale della cucina (cooking) rivela schemi, disegni, motivi da porre in relazione con la formazione della cultura. Il passaggio, il salto, dalla natura alla cultura si compì, dunque, anche con il passaggio dal crudo al cotto, dalla dieta semplice a quella elaborata. La cucina divenne una caratteristica importante del comportamento umano correlato con il nutrimento che, con il sesso e l’esercizio del potere, è uno dei fondamenti della vita sia degli animali che dell’uomo. Nell’uomo, tuttavia, a differenza degli animali, si compie il passaggio dalla natura alla cultura per cui l’alimentazione, il potere e il sesso assumono delle connotazioni diverse con le quali si struttura la civiltà. Nell’umanità ogni processo materiale è socializzato e produce delle rappresentazioni culturali, cioè mentali. Le analisi strutturali di LéviStrauss sulle mitologie dell’America Meridionale nell’opera Il crudo e il cotto del 1964, hanno messo l’accento sulle tre condizioni fondamentali in cui i cibi si presentano all’uomo, crudi, cotti o putridi, che portano alla duplice opposizione crudo-cotto e fresco-putrido, che esprimono anche i significati di natura e cultura, vita e morte. I processi culinari cambiano da una società all’altra e riflettono l’ambiente geografico (flora e fauna), il reperimento, lo sfruttamento delle risorse alimentari, le tecniche culinarie e anche i miti e i tabù, come nel pasto totemico, in cui si mangia la carne dell’animale totem che rimanda all’origine della tribù e all’antenato comune. A questo proposito va ricordato che il sacrificio umano e il consumo comunitario delle carni del sacrificato, divenuto strumento del rapporto tra l’uomo e la divinità, come nel simbolismo dell’eucaristia, era al centro di quasi tutte le religioni primordiali. Gli uomini preistorici avevano notato che la vita nasceva soltanto da esseri viventi e che si sosteneva consumando altre vite: piante, animali e uomini. Molte religioni si fondavano sull’assunto che la vita era nata dal sacrificio volontario di un dio che aveva così creato l’umanità, per cui il sacrificio animale e quello umano, offerti agli dei, erano una ripetizione rifondativa e necessaria del sacrificio primordiale. E’ evidente che gli uomini e gli animali si nutrono consumando organismi viventi, dalle piante agli altri animali. Solo pochi elementi come l’acqua e il sale sono inorganici. L’uomo è all’apice della catena alimentare poiché mangia gli altri viventi e in tempi remoti mangiava persino i suoi simili, la qual cosa non avviene nella stragrande maggioranza delle specie animali. Con l’invenzione dell’agricoltura, in alcuni riti agrari, le carni del sacrificato erano sparse nei campi per fecondarli, come ricorda il mito di Iside e Osiride. Le operazioni culinarie sono un luogo d’interazioni tecniche e nutrizionali, di rapporti sociali e di rappresentazioni culturali. Pertanto i cibi assumono: - valori sensoriali: sapore, odore, tatto, temperatura…, - valori estetici: apparecchiatura, colori, forma… - valori culturali: tradizioni culinarie etniche e familiari, festività… - valori sociali: cucina e consumo dei pasti rapportati allo status o al ruolo sociale, convivialità… Il cibo acquista significati emozionali e simbolici nel sociale e nelle religioni, come nell’offerta di cibo agli dei in vari culti primitivi o contemporanei e nella transustanziazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù nell’eucarestia a ricordo del suo sacrificio per riconciliare gli uomini con Dio. Alcune etnie distinguono tra cibo puro o impuro. Ad esempio gli ebrei consumano solo cibo kasher, i musulmani non mangiano la carne di maiale… Certamente noi siamo, per certi aspetti, ciò che mangiamo o ciò che hanno mangiato i nostri antenati. La scienza nutrizionale ci dice che le varie popolazioni digeriscono e assimilano meglio i cibi che hanno consumato per millenni: si tratta di un adattamento evolutivo. Tuttavia non abbiamo ancora le conoscenze e le sperimentazioni adatte per accertare l’interazione tra il nostro soma, la nostra psiche e il nutrimento che assumiamo; eppure questa interazione esiste ed è rilevante. Per ora conosciamo, in parte, il rapporto tra nutrizione e malattia. Scrive Lévi-Strauss: «Il sistema culinario è un linguaggio nel quale ogni società codifica quei messaggi che le permettono di significare almeno una parte di ciò che essa è». Nell’odierna società del benessere, caratteristica del mondo nordoccidentale, l’arte culinaria (gastronomia) ha assunto una grande rilevanza economica, culturale e sociale. Un tempo si distinguevano nel mondo occidentale tre tipi di cucine, supportate dai ristoranti: la cucina francese considerata raffinata, la cucina italiana apprezzata per ricchezza e sapore e la cucina cinese esotica e varia, sentita come popolare. A completamento della diffusione del globalismo sono apparse le cosiddette cucine “etniche” provenienti da civiltà e popoli diversi. L’industria cinematografica, a specchio della realtà ambientale, mette in scena donne affaccendate in cucina e la televisione propone quotidianamente una grande quantità di ricette realizzate in ambienti culinari con bravi cuochi e presentatrici. Fin dall’inizio della civiltà il pasto in comune assunse un aspetto sociale e sacrale. Quelli che vi prendevano parte si riconoscevano fratelli, compagni o amici. La convivialità è una delle maggiori espressioni della socialità. Ancora oggi, presso alcuni popoli, è grave peccato portare offesa a colui con il quale si è diviso il pasto. La convivialità non vuol dire soltanto “consumare insieme i cibi”. Convivialità è un modo di intrattenersi con gli altri, di comunicare, di partecipare, che trova la sua migliore espressione in quei momenti che accompagnano e seguono il pranzo, quando il pasto, le bevande alcoliche, l’aumento degli ormoni endorfine e ossitocina, hanno prodotto un’atmosfera socio-affettiva in cui è piacevole immergersi. Il vino, assunto in giusta quantità, scioglie i condizionamenti comportamentali, esalta l’immaginazione e spinge l’uomo a comunicare; e questo stato di leggera eccitazione ed euforia si comunica anche all’astemio. La convivialità dilata la nostra persona oltre le barriere del nostro ego, ci fa sentire gruppo, ci fa sentire elemento costitutivo di un tutto, del mondo, che non si dà mai nel singolo individuo, ma entro il rapporto con gli altri. La convivialità aiuta, inoltre, a superare i grandi malanni prodotti dall’attuale società: la solitudine, l’incomunicabilità, la droga. 5 Renzo Bracco La dieta mediterranea (e l’UNESCO) Dopo aver fatto apprezzare ai nostri lettori le prelibatezze di formaggi e salumi, ci sembra doveroso ristabilire l’equilibrio nutrizionale parlando di… dieta. Naturalmente non di una delle tante diete che circolano da anni in Italia e nel mondo, bensì della “madre di tutte le diete”: la dieta mediterranea. A qualcuno può essere sfuggita una notizia molto importante: il 16 novembre del 2010, la quinta Sessione del Comitato intergovernativo dell’Unesco ha incluso la dieta mediterranea nella Lista del Patrimonio immateriale dell’Umanità, accogliendo la proposta del Ministero delle Politiche agricole. Non ci spaventi qui il termine dieta (dal greco diaita): sta a significare semplicemente “stile di vita”, ovvero l’insieme delle tradizioni, delle conoscenze alimentari, dei sapori e delle competenze che hanno caratterizzato le popolazioni del Mediterraneo. Trattasi di un modello nutrizionale costituito principalmente da olio d’oliva, cereali, frutta, spezie, una moderata quantità di carne, pesce e latticini: il tutto accompagnato dalla giusta quantità di vino, nel rispetto del territorio e dei tradizionali mestieri dei popoli mediterranei, collegati all’agricoltura, viticultura e pesca. Le origini di quella che oggi definiamo “dieta mediterranea” risalgono alle abitudini alimentari dell’antica Grecia e dell’impero Romano, e si sono mantenute quasi invariate fino ai giorni nostri. Ma i suoi benefici per la salute furono individuati solo nel 1940 da un fisiologo americano, Angel Keys, durante il suo soggiorno a Creta, dove si trovava al seguito delle 6 truppe alleate. Nelle sue osservazioni, si accorse che nell’isola l’infarto miocardico era pressoché sconosciuto, facendone risalire l’origine al tipo di alimentazione, praticato da secoli. Negli studi successivi, condotti in sette diversi Paesi, arrivò alla conclusione che negli abitanti dei paesi mediterranei, data il basso livello di colesterolo, si registrava una minore incidenza di infarto. Nello stesso periodo, la connessione tra alimentazione e malattie del ricambio fu intuita anche dal medico nutrizionista genovese Lorenzo Piroddi, cui si deve il libro Cucina mediterranea. Praticare la dieta mediterranea non è difficile: molti dei suoi prodotti cardine vedono l’Italia al vertice della produzione mondiale. Basterà citare la pasta, il vino, l’olio d’oliva, la conserva di pomodoro, la verdura e la frutta (anche se quest’ultima viene oggi massicciamente importata persino da paesi extraeuropei, quali Israele, Cile, Argentina, Sud Africa e Cina: nei supermercati italiani si può trovare facilmente l’aglio cinese. Se si pensa che le esportazioni italiane negli Stati Uniti iniziarono nel primo Novecento proprio con l’aglio - e su ciò fu basata la costituzione della Camera di Commercio Italo-americana di New York - si capisce quanto in un secolo sia cambiato il mondo!). L’olivo. È l’elemento fondamentale della dieta mediterranea: tracce fossili ne testimoniano la presenza ancor prima della presenza dell’uomo. La sua coltivazione iniziò in Siria, quindi passò a Creta, e fu poi diffusa dai Fenici su tutte le coste del Mediterraneo. Furono però i Romani a perfezionare gli strumenti utilizzati per la spremitura delle olive, e le tecniche di conservazione dell’olio. Questa sorta di elisir fu utilizzato sopratutto in cucina, ma anche per cosmesi e per illuminazione; l’ulivo divenne anche simbolo di pace già nelle Sacre Scritture, e simbolo di vittoria nella Magna Grecia. Si narra che Giove, per premiare chi avesse fatto il miglior dono agli uomini, lo regalò ad Atena, ritenendolo più utile persino del cavallo, donato da Poseidon. Anche se l’olio appare quotidianamente sulle nostre tavole, vediamo di conoscerne meglio le proprietà. L’olio d’oliva è costituito per oltre il 90% da grassi insaturi, che non creano accumulo di colesterolo; è ricco di vitamina E e di altri composti organici che costituiscono la vitamina P, contribuendo al mantenimento in buone condizioni dei capillari sanguigni. Le altre proprietà: è altamente digeribile, favorisce le funzioni gastro-intestinali, ha un benefico effetto sulla funzione epatica favorendo il flusso biliare; infine favorisce l’assorbimento di tutte le vitamine liposolubili. Consumato nelle giuste dosi, l’olio extravergine è indicato a tutte le età. Molto digeribile anche per i bambini, è consigliato agli adulti perché ricco di antiossidanti. Quale scegliere? Non c’è che l’imbarazzo della scelta - e del gusto: sono oltre 500 le coltivazioni di ulivi, con oltre 300 varietà, praticamente in tutte le regioni d’Italia. Per chi volesse saperne di più, consigliamo di visitare il Museo dell’Olivo, sito a Imperia-Oneglia, che illustra i suoi 10.000 anni di storia. I cereali. Da millenni rappresentano un alimento fondamentale dei paesi mediterranei: coltivati nelle zone temperate, furono alla base della creazione dei primi villaggi stanziali, e ancora oggi sono una delle fonti primarie per l’alimentazione dell’uomo. Già noti e molto utilizzati al tempo dei romani (il lemma “cereale” origina da “Ceres”, dea della coltivazione) comprendono il frumento - sinonimo di grano, nelle sue diverse varietà: l’avena, la segale, l’orzo, e il farro, mentre il mais comparve nel Mediterraneo solo dopo la scoperta dell’America. Sono ricchi di fosforo, proteine e glutine (ahimè, molto dannoso per gli affetti da celiachia, allergia al glutine sempre più frequente: oggi sono un milione i colpiti solo in Italia). La produzione del frumento duro è in continua espansione, a seguito del costante aumento del consumo di paste alimentari, mentre si sta riscoprendo la coltivazione del grano saraceno. I legumi. Meglio noti come “la carne dei poveri”, presentano un elevato contenuto di proteine e di carboidrati a lento assorbimento, ovvero a basso indice glicemico. Della famiglia delle leguminose, i più diffusi sulle nostre tavole sono le lenticchie, i ceci, le fave, i piselli, i lupini - tuttora venduti sulle bancarelle romane - e sopratutti i fagioli, originari dell’America centrale, nelle loro molte varietà: borlotti, cannellini, bianchi di Spagna, lamon del Trentino, messicani (ottimi per il chili), brasiliani (componenti di base della fejoada, che si arricchisce con erbe aromatiche, aglio, cipolla e soprattutto con la calabresa, salsiccia piccante di chiara origine italiana). Per i calciofili, annotiamo che la ricetta della fejoada spiega perché i calciatori brasiliani tornino dalle vacanze in Brasile sempre in sovrappeso… Frutta e verdura. È persino troppo banale ricordare che si dovrebbe consumare quotidianamente la quantità ideale: 5 porzioni di frutta e verdura. I loro vantaggi sono indubbi: di fronte a un ridotto potere calorico, generano un senso di sazietà che limita l’assunzione eccessiva di altri cibi. Inoltre, la grande quantità d’acqua contenuta - nella frutta anche superiore al 90% - è particolarmente preziosa nelle calde giornate estive, per aiutare a integrare i liquidi perduti. E poi ci sono le vitamine: ci limitiamo a segnalare le principali, mentre per i loro benefici sarebbe necessario un trattato a parte. Vitamina A: cedri, meloni (utile per la formazione della vitamina C) Vitamine B1,B2,B3,B5: datteri, arachidi, noci, pinoli, pistacchi. Vitamina C: agrumi, kiwi, meloni, pomodori, peperoni, verdura a foglia verde Vitamina E: noci, avocado, asparagi Vitamina K: cavoli, spinaci, cime di rapa Inoltre la frutta e la verdura contengono numerosi mine- rali, molto utili all’organismo, e in forma facilmente assimilabile: calcio, cromo, ferro, iodio, magnesio, potassio, selenio, sodio, zinco. Carne e pesce. La dieta mediterranea consiglia un consumo di pesce più abbondante rispetto alla carne. È la storia stessa dei paesi mediterranei che da sempre ha visto abbondare il pesce - specie quello azzurro - sulle tavole dei suoi popoli: infatti contiene proteine, acidi grassi essenziali al metabolismo e alcuni sali minerali. Quanto alla carne, da privilegiare la carne bianca (pollo, tacchino, coniglio, cappone, faraona, galletto, gallina), in quanto ricca di proteine, e con un basso tenore di grassi. Da non trascurare, di questi tempi, il rapporto qualità/ prezzo! Molto versatili per la loro cottura, si prestano a preparazioni semplici e gustose: basta citare il pollo al limone o il petto di faraona al porto; sempre ottime e facili le cotture al forno. Si consiglia anche la cottura su pia- 7 stre di ardesia, oggi reperibili in commercio, in particolare nel ponente ligure, in omaggio al tipo di cottura del’uomo preistorico, che cuoceva la cacciagione su pietra rovente. I benefici . Sono stati citati i grassi insaturi e gli antiossidanti. I primi sono contenuti in gran quantità nell’olio extravergine e nei pesci, mentre i grassi animali, saturi, sono nocivi alle arterie. Se assunti nelle giuste quantità, fanno calare il livello di LDL (il cosiddetto colesterolo “cattivo”) mentre tendono ad aumentare l’HDL, il colesterolo “buono”. Gli antiossidanti invece sono sostanze prodotte dalle piante a difesa della loro stessa struttura: si oppongono all’ossidazione prodotta dai radicali liberi, dannosi all’organismo. Si ritrovano nell’olio d’oliva, ma anche nel vino rosso e in molte verdure. Concludendo, gli studi più recenti sugli effetti della dieta mediterranea provano che ha effetti protettivi sul cervel- 8 lo, contribuendo a prevenire o a ritardare il declino cognitivo, oltre ai benefici effetti più noti, quelli nei confronti delle malattie cardiovascolari. I prodotti biologici. Da alcuni anni si vanno diffondendo anche in Italia i prodotti biologici, che provengono da coltivazioni che escludono i prodotti chimici di sintesi, nel pieno rispetto dell’ambiente. Come fertilizzanti, vengono usati concimi organici e minerali naturali; per la difesa dai parassiti, solo prodotti e sistemi di origine naturale e a basso impatto ambientale. Un prodotto per essere classificato “bio” deve rispondere ad alcune norme: coltivazione lontana da possibili fonti di contaminazione, quali fabbriche, autostrade, fonti inquinanti, ecc. Il suolo può essere convertito al bio solo dopo una pausa di almeno due anni, perché nel terreno vi potrebbero essere ancora residui di fitofarmaci; per i prodotti di origine animale si devono selezionare le razze, e alimentarle con mangime non trattato chimicamente, che escluda totalmente l’uso di antibiotici, ormoni o altri prodotti di sintesi. Infine per la lavorazione, la trasformazione e la conservazione si deve ricorrere a metodi che non facciano uso di sostanze chimiche. Queste regole sono contenute nella normativa CE 834/07, che definisce anche l’etichettatura, per individuare il paese d’origine, l’organismo di controllo (ma qui sorge qualche dubbio…), la trasformazione del prodotto e persino il numero dell’autorizzazione alla stampa delle etichette. Conclusione: come recita un vecchio adagio, “l’uomo è ciò che mangia”. Cerchiamo di mangiare “mediterraneo”! Ma non possiamo concludere questo articolo senza proporre un paio di ricette, molto “mediterranee” e certamente salubri. Foglie di lattuga stufate. Ta- gliare a listelle le foglie di due cespi di lattuga, ridurre a rondelle la cipolla; scaldare l’olio extravergine, far appassire la cipolla a fuoco basso. Aggiungere la lattuga e continuare la cottura per 5 minuti, salare e pepare. Versare un bicchiere di brodo vegetale nella casseruola, coprire e cuocere per 10 minuti. A fine cottura, togliere il coperchio, alzare il fuoco e ridurre il sugo di cottura mescolando bene. Carbonara di porro. Affettare la parte verde di 2 porri e marinarla con sale grosso per 20 minuti. Liberare i porri dal sale, sciacquarli e farli saltare in padella con olio extravergine. Lessare la pasta, nel formato a gradimento: penne, spaghetti o altro; sbattere due uova con poco olio, 2 cucchiai di formaggio grattugiato (pecorino e/o parmigiano, a scelta), sale, pepe e, se piace, noce moscata. Versare la pasta, al dente, nella padella, a fuoco spento, e condirla con le uova e i porri saltati. www.granarolo.it QUANDO BEVI IL LATTE TI SENTI UN PALLONE? Latte Granarolo Accadì. Digeribile anche da chi ha difficoltà con il lattosio. Grazie alla scomposizione del lattosio nei due zuccheri che lo costituiscono, più facilmente assimilabili, puoi ritrovare il piacere del latte. Granarolo Accadì. Più digeribile di così! La Grande Passione per l’Alta Qualità. Gigliola Soldi Rondinini Il ‘Colpo di Stato’ Che cos’è un ‘colpo di Stato’? È uno dei fenomeni oggi più frequenti, ma tra i meno conosciuti e più discussi come tecnica, usato per risolvere le crisi politiche, quale metodo quasi universale di accesso al potere e di controllo illegittimo del governo, e quindi merita una breve analisi. Il termine è nato nel secolo XVII e in Francia e il primo che ne parlò, e forse inventò il termine, fu Gabriel Naudé, che pubblicò nel 1639 le Considerations politique sur le Coup d’État a uso esclusivo del cardinale romano Niccolò Guidi. Tale termine rimase in uso e comparve in tutti i dizionari; in particolare, nella lingua inglese non venne tradotto e rimase coup d’État. Secondo Naudé il ‘colpo di Stato’ poteva essere giusto, se favoriva il bene comune, o ingiusto se era attuato per 10 interesse personale e, comunque, doveva essere l’ultimo strumento a cui poteva ricorrere un principe per salvare il potere, aveva quindi il carattere di ultima risorsa per la sua conservazione e uno scopo del tutto difensivo, non tendendo al suo ampliamento. Per Naudè si trattava di prendere le redini dello Stato, non di abbatterlo, eliminare una leadership ritenuta inetta, o una fazioni privilegiata, o ancora, inteso come azione che si svolge dall’interno all’esterno, era praticabile quando colui che deteneva il potere sentiva il bisogno di colpire con forza per rinvigorirlo. I caratteri fondamentali del ‘colpo di Stato’ erano e sono visti in particolare nella segretezza nella fase di preparazione e nella necessità di una celere attuazione una volta iniziato, il che gli dà la caratteristica di atto imme- diato e inaspettato, quale evento cospirativo il cui risultato non è affatto garantito perché può fallire in ogni momento sia della preparazione che dell’attuazione. Da non trascurare però il suo carattere violento, poiché la sua esecuzione richiede un trasferimento del potere da realizzare con la forza o minacciando di ricorrervi. Il ‘colpo di Stato’ si differenzia poi da altri tipi di attacco al potere costituito quali la congiura di palazzo, le ribellioni, la jacquerie, l’insurrezione, dalle quali differisce perché si svolge in modo ordinato, ragionato e metodico, con un’apparenza di legalità. In definitiva, il golpe (nella dizione spagnola diventata usuale) non intende abbattere definitivamente il regime precostituito portando avanti un programma politico o una particolare ideologia, ma mira alla conquista o al controllo del governo, senza modifiche particolari del regime politico, del sistema economico o del sistema sociale e culturale esistente. Il ‘colpo di Stato’ si svolge quindi in circostanze eccezionali con l’intento di creare eccezioni a vecchie regole e creare nuove regole da queste eccezioni, ponendo i problemi in termini di finalità e giustificazione. Oggi, visto l’uso che ne è stato fatto dal secolo XX soprattutto nei Paesi sudamericani, la storiografia gli ha riservato una notevole attenzione e sono state elaborate, nell’ambito delle scienze sociali, quattro teorie di base che ci consentono di valutare il suo peso in rapporto alle situazioni politiche e costituzionali degli Stati in cui viene attuato: in particolare sempre all’interno del processo di sviluppo di crisi politiche, ma prendendo in considerazione il livello di sviluppo economico, il tipo di organizzazione politica, l’organizzazione militare, e via dicendo. Storicamente, possiamo andare molto indietro: altri pensatori avevano riflettuto su questioni relative all’uso e all’abuso del potere, sulla natura della dominazione del tiranno, sulle circostanze che possono giustificare sui sudditi l’uso della forza da parte dei governanti. Ad esempio, Aristotele parla dei ‘segreti dei principi’, Tacito, degli arcana imperiorum intendendo le regole usate per la conservazione dello Stato in funzione esclusiva della considerazione del bene pubblico e non del diritto; gli imperatori romani si succedevano spesso tramite le congiure militari di solito attuate senza un piano premeditato; nel Medioevo i ‘colpi di Stato’ - sebbene non esistesse uno Stato come oggi - furono numerosi in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Svezia, dal momento che i nobili che sostenevano il potere del re o del principe vigilavano affinché non divenisse tirannia, nel qual caso eliminavano il re, come lo eliminavano quando non aveva a cuore il bene pubblico, o era un rex inutilis. In seguito, l’Illuminismo non vi prestò attenzione, ma neppure i ‘colpi di Stato’ avvenuti tra il 1744 e il 1799 furono considerati insegnamenti importanti, a eccezione di quello del 18 brumaio 1799 (9-10 novembre 1799, Napoleone imperatore) che ancora oggi è un esempio di golpe parlamentare: in una monarchia assoluta si sarebbero verificate congiure di palazzo o sedizioni militari. Visto dunque all’inizio in modo favorevole, cominciò ad avere un’interpretazione negativa, sebbene non da parte di tutti gli storici, da quello del 2 dicembre 1851 attuato da Luigi Napoleone Bonaparte che divenne imperatore di Francia, ma, verso la fine del secolo, fu screditato come fenomeno politico e consi- derato sinonimo di violazione dei diritti civili e politici. La tendenza al rifiuto morale e giuridico del golpismo fu rinforzata dalle opinioni di alcuni celebri intellettuali del tempo, a cominciare da Victor Hugo, che scrisse l’Histoire d’un crime e Napoleon le petit chiaramente alludendo al colpo di stato del 2 dicembre 1851, e Marx, che attraverso il colpo di Stato di Luigi Napoleone, intendeva raccontare il processo di scontro crescente fra le classi sociali che sfociava in un colpo di Stato come sviluppo logico delle contraddizioni all’interno delle varie fazioni, che, però in ultima analisi, favorirono il rafforzamento e il perfezionamento burocratico dello Stato. Il fenomeno del golpismo è notevolmente aumentato dopo la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto a causa dell’instabilità socio-politica dei Paesi del Terzo Mondo impegnati nella lotta per l’indipendenza e per i processi di integrazione e di sviluppo dopo il colonialismo, ed è spesso attuato dai militari, oggi ormai perfettamente organizzati e, in alcuni casi partecipanti alla vita politica dello Stato. Il golpismo come causa ed effetto dunque dell’instabilità politica? È un interrogativo da non trascurare, dal momento che la maggior parte degli analisti ha visto in esso la causa principale dell’indebolimento del potere politico e, secondo me, non occorre andare tanto lontano, ma si può guardare in casa nostra e agli eventi di un anno fa. Bibliografia E. GONZÁLEZ CALLEJA, Nelle tenebre di brumaio. Quattro secoli di riflessione politica sul colpo di Stato, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, Biblioteca della «Nuova Rivista Storica», 2012. G.SOLDI RONDININI, Colpo di Stato nel Medioevo? Un’ipotesi di ricerca, in «Nuova Rivista Storica», III, 2012, fascicolo monografico dedicato al “colpo di Stato”’. 11 Guido Buffo Si crede a ciò in cui si vuole credere Il termine Demagogia, ben noto a tutti noi, ha origini greche. È composto da demos (popolo) e aghein (trascinare); indica il comportamento - politico - di chi, attraverso false promesse vicine ai desideri del popolo, mira ad accaparrarsi il suo favore. La definizione, puntuale e sintetica, è accessibile da chiunque abbia una connessione internet, al sito - utile e prezioso - di Wikipedia. Nella nostra cultura, che molto deriva da quella greca classica, il termine demagogia è quasi indissolubilmente legato al mondo e alle terminologia della politica. Demagogo è - da Tulcidide in poi - l’agitatore di popolo che specula sull’ingenuità e sui sentimenti. Personaggio dipinto con i colori del cinismo, dell’oratoria che declina in affabulazione, dell’intelligenza che decade in furbizia, il demagogo è un profondo conoscitore del suo ambiente, del quale conosce i sentimenti - più spesso inespressi - e sa agire le leve, anche le più nascoste. Difficilmente il demagogo mente in modo spudorato; più spesso edulcora, ac- 12 compagna il pensiero, sorregge il sentire, accelera reazioni già latenti, dà voce al silenzio. Il suo linguaggio è quello della sua platea, della quale assorbe e riflette - con enfasi e maestria la cromia delle emozioni e delle pulsioni più recondite. Il suo modo di agire è preciso, puntuale, teso a praticità, votato a efficacia: è un comunicatore che ha quale scopo il generare riconoscenza e adesione. In questo senso, il demagogo ha la sua controparte nell’adulatore. Così come il primo si muove per assicurare e confermare il potere di chi è chiamato - o si candida - a governare il popolo (il demos degli antichi greci), il secondo agisce per assicurare il favore del potente a se stesso o ai suoi. Un unico modo di muoversi, lo stesso obiettivo imprescindibile di utilità, il medesimo bagaglio di furbizie oratorie e tecniche relazionali, seppure agiti in direzioni apparentemente opposte. Così come nella fiaba di Andersen Il vestito nuovo dell’Imperatore, uno solo osò dire che sua maestà girava nudo per la strada - peraltro generando scan- dalo - allo stesso modo, il demagogo e l’adulatore non trovano facili smentite. La verità, infatti, non è sempre un messaggio facile da trasmettere, e su questa difficoltà a intendere la verità queste due figure fanno parallelo affidamento. Non è possibile sbugiardare il demagogo senza accettare di fare i conti con la verità dalla quale egli cerca di distrarci, senza assumersi la responsabilità di voler sapere quali siano i fatti, le circostanze, le necessità. Il demagogo vince perché noi abdichiamo il nostro desiderio di voler comprendere come davvero stanno le cose, abdichiamo la nostra responsabilità di sapere e fare. Il demagogo vince perché noi - pur coscienti della sua dolce menzogna - abbiamo deciso di abbandonarci alle sue melliflue parole come i topi seguirono la dolce melodia del pifferaio di Hamelin. Così d’altronde è per l’adulatore, che vince perché - come uno specchio deformato - ci rimanda l’immagine di noi come vorremmo essere, e non come siamo. Riconosce le nostre debolezze, blandisce le nostre pi- grizie, culla il nostro ego sognante e ci fa sentire bene, consegnandoci l’immagine di noi che avremmo sempre voluto vedere: intelligenza, capacità, bellezza, potenza. In entrambi i casi - il demos dinanzi al demagogo, e il potente dinanzi all’adulatore - ciò che mostra essere decisivo è il ruolo dell’avidità e dell’indifferenza. Quando l’appetito della brama ha promessa di soddisfazione, il resto - tutto il resto - è fastidio, tacitato dall’indifferenza: la cupidigia instupidisce, e la promessa di soddisfazione è una droga alla quale difficilmente si resiste. Unico antidoto, pare: la ricerca della coerenza. Se una cosa è vera, dovrebbe essere difficile comportarsi come se non lo fosse; l’affermazione fatta dovrebbe implicare delle conseguenze; una promessa dovrebbe essere mantenuta; l’apprezzamento dovrebbe avere qualche riscontro con la realtà. Questo, in linea generale, è quanto insegnammo ai nostri figli, per ducarli alla verità, al rispetto, al vivere civile. Siamo rimasti coerenti con noi stessi? Grazie... Enrica Franciolini Dalla Coda alla Testa del Drago: una sfida affascinante! Da quando siamo entrati nell’Era dell’Acquario, studiare le vite precedenti, attraverso tecniche appropriate, dall’ipnosi al rebirthing, è diventata un’esigenza che molte persone sentono. La teoria del karma si basa su leggi molto complicate, che a volte sono state un po’ banalizzate nel corso del tempo, dalla letteratura specialistica e no, leggi che devono tener conto della complessità dell’essere umano e di tutte le componenti che lo costituiscono, e soprattutto del fatto che ciascuno di noi ha un percorso evolutivo unico e irripetibile, come di fatto è il nostro tema natale, o oroscopo. Prima di descrivere come l’Astrologia si occupa dell’argomento, vorrei precisare alcuni concetti relativi al karma. 14 La prima cosa da chiarire è che il karma non è una legge “punitiva”, quindi per prima cosa libererei il campo dal peso moralistico che spesso si attribuisce al karma, e che potremmo riassumere così: “sono stato “cattivo” nella vita precedente, quindi, ora è giusto che io “paghi” con l’infelicità. In realtà., che ci piaccia o no, la legge del karma ha basi scientifiche, dove per scienza si intende applicazione meccanica e impersonale di una serie di leggi, applicate però non solo al corpo fisico ma anche e soprattutto ai corpi Eterico, Astrale e Mentale, che ci costituiscono a un livello sottile. La Fisica classica, per la precisione la Dinamica, ci assicura che esiste una legge, detta di causa – effetto, secondo la quale ogni azione compiuta, provoca necessariamente un effetto, e inoltre la legge dell’azione - reazione chiarisce ancor meglio il fatto che, a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Anche nella fisiologia umana avviene una cosa simile: per esempio, esistono i muscoli estensori e abduttori per cui, per far muovere un muscolo, ce ne deve essere necessariamente un altro che compia l’azione contraria. Ebbene, le leggi del Karma estendono i risultati dell’applicazione di queste leggi fisiche ai mondi invisibili, per cui, qualunque azione l’essere umano compia, produce un effetto. Pertanto, se tutte le mie azioni producono effetti che non si esauriscono in questa vita, ecco che saranno necessarie altre incarnazioni affinché ogni effetto possa manifestarsi. Quello che complica terribilmente le cose è il fatto che anche il pensiero produce effetti, di cui la legge deve tenere conto: da qui si capisce bene quanto sia impossibile o per lo meno difficile per noi generalizzare, tirando facili quanto inesatte conclusioni. Un altro punto fondamentale da capire è che ogni vita ha un percorso evolutivo e che, la mia vita attuale, qualunque essa sia, mi pone a un livello evolutivo di partenza superiore rispetto a quello della vita precedente e questo a prescindere dalla posizione sociale occupata. Tutti i debiti e I crediti karmici che mi porto dalle vite precedenti vanno estinti esattamente con la persona o meglio con l’entità con cui lo si è contratto. Ecco perché nella nostra vita attuale incontriamo le stesse persone delle nostre vite precedenti, con le quali però cambiano i giochi delle parti. Poiché non è possibile incontrare in un’unica vita tutte le persone con cui si è avuto a che fare, sia per motivi di spazio, che di tempi diversi di incarnazione, ecco che sono necessarie molte vite per poter estinguere tutti i nostri debiti. Tutto ciò che odiamo, tutte le persone che abbiamo odiato o disprezzato, dovremo rincontrarle, per poter trasformare quell’energia negativa in positiva, o per lo meno dovremo chiudere il legame che trattiene la nostra evoluzione, in quanto l’odio crea legami profondi quanto l’amore. Anche il suicidio va svincolato da considerazioni di peccato in cui è sempre stato relegato, bensì va visto come un “errore” evolutivo. Infatti, molti studiosi concordano sul fatto che l’anima del suicida resta sulla terra, anche se non incarnata, fino al momento della morte prevista per quel corpo, e inoltre, bloccando il suo percorso evolutivo, l’anima dovrà riaffrontare nella prossima vita situazioni analoghe a quelle che l’hanno spinta a quel gesto. Quando chiudiamo un ciclo, per esempio affettivo, lavorativo, o abitativo, al fine di non trascinare nulla dietro di noi, dovremmo diventare consapevoli che quell’esperienza, per quanto dolorosa e difficile, non è stata una perdita di tempo, ma al contrario una necessaria tappa delle nostra evoluzione, Da questa comprensione profonda, nasce la liberazione definitiva dall’ esperienza stessa. Altro punto interessante è il percorso compiuto dall’Anima in evoluzione fra una vita e l’altra. Ci sono molte teorie di esoteristi e studiosi in proposito, ma molti concordano sul fatto che ci sono dei tempi prestabiliti fra una vita e l’altra, che possono essere in certi casi abbreviati, ma in linea di massima ci sono degli “iter” da rispettare. La prima cosa da fare per l’entità che si ritrova di là, è guardare la propria vita, senza pretese di giudizio, né tanto meno di condanna, semplicemente per fare una sorta di bilancio delle “mete” spirituali, evolutive raggiunte. Segue poi una fase di revisione specifica, nel dettaglio di ogni azione e pensiero significativo della propria vita. Secondo Steiner occorre un terzo del tempo della vita vissuta per compiere questa revisione. Infine, segue la fase di scelta e determinazione da parte dell’Entità, della prossima incarnazione, scelta molto difficile, in quanto si dovrà tenere conto dei debiti, ma anche dei crediti, nonché delle persone da incontrare di nuovo e delle situazioni da riaffrontare. A questo scopo, l’Entità viene aiutata dai cosiddetti “Spiriti del Karma” Vediamo ora come l’Astrologia karmica si inserisce in questo contesto. Cosa non deve fare. L’Astrologia karmica dovrebbe evitare di addentrarsi in pericolose, quanto poco credibili descrizioni di dettagli sulle vite precedenti, poiché la semplice curiosità di sapere dove e in che modo si svolgesse la nostra vita passata, per quanto pittoresca sia, non ci porta molto lontano. L’Astrologia non utilizza tecniche di regressione, in quanto non si occupa dei dettagli delle nostre vite precedenti, bensì delle dinamiche psicologiche e spirituali che ci derivano, come eredità karmiche, da vite precedenti e vanno dunque risolte in questa vita. Cosa deve fare. Un tema karmico deve considerare i principali punti nodali di un oroscopo, per capire in che modo la presente incarnazione, in questo segno zodiacale e con tutte le problematiche indicate dal tema stesso, è ottimale per smaltire i pesi che ci portiamo dietro e aiutarci ad andare oltre. Un tema natale karmico si occupa del karma dell’individuo a vari livelli. Si comincia con il karma etniaco, relativo al luogo e alla etnia di appartenenza, per passare poi al karma di tipo sociale, religioso e infine, quello familiare, tutti condizionamenti molto pesanti che influenzano in maniera importante la nostra vita. L’Astrologia karmico evolutiva si occupa dunque di analizzare alcuni punti dell’oroscopo che danno delle indicazioni, non tanto sui dettagli delle vite precedenti, quanto piuttosto sulle eredità positive e negative, sugli strascichi, i punti da risolvere, e soprattutto, offre degli spunti evolutivi, basati esclusivamente sull’utilizzo del libero arbitrio. In effetti, l’Astrologia esoterica, così poco amata dagli astrologi classici, è l’unica branca dell’Astrologia che lascia parecchio spazio al libero arbitrio, spingendosi ben oltre le normali previsioni astrologiche, che siamo abituati ad ascoltare. Molto semplice è infatti, sentire, o “leggere” gli eventi in un giro di carte, o in una lettura astrologica normale; ben altra cosa è individuare i punti deboli che ci derivano da vite precedenti e sentirci dire in che direzione potremmo andare, per evolvere e superare certi stati di coscienza. Si capisce bene quanto siano differenti le due posizioni e quanto più semplice sia dire alla gente cosa le accadrà, senza tanti possibilismi. L’Astrologia indiana e anche quella araba basano molte delle loro teorie interpretative sui punti karmici, che non sono affatto punti celesti, bensì punti virtuali ricavati da calcoli e leggi numeriche applicate al tema natale di base, a testimonianza di quanto la teoria del karma sia radicata profondamente nelle più antiche culture astrologiche. Nell’analisi di un tema natale karmico evolutivo in seno all’Astrologia occidentale, voglio parlarvi di due punti particolarmente interessanti e cioè dei Nodi Lunari, detti rispettivamente Nodo Lunare Nord o Testa del Drago, e Nodo Lunare Sud, o Coda del Drago. Essi sono due punti disposti in posizione diametralmente opposta nel cerchio zodiacale, cosicchè se uno è, per esempio, a 20° Bilancia, l’altro sarà a 20° Ariete, e così via. Dunque, anche i loro significati sono opposti, ma collegati e il percorso evolutivo dell’individuo consiste nel passare dall’energia dell’uno all’energia contenuta nell’altro, compiendo un percorso per niente scontato, per niente facile, insomma una vera e propria sfida! Il Nodo Lunare Sud rappresenta la nostra “eredità karmica”, nel bene come nel male, e cioè i talenti che possediamo in questa vita, cioè i doni, le facilità che spesso ci derivano dal fatto che ce le siamo portati dietro vita dopo vita, ma anche i limiti, le paure, oppure i rapporti sbagliati che ci trasciniamo nell’arco del tempo senza riuscire mai a risolverli. Di contro, il Nodo lunare Nord, rappresenta una difficoltà, o meglio, una sfida, in quanto sta alla persona riuscire a sciogliere il karma passato contenuto nel Nodo lunare Sud per arrivare a realizzare il contenuto di quello Nord. Dalla coda, cioè dalla parte del Drago contenuto in ognuno di noi, rivolta verso il passato, alla Testa del Drago, cioè la parte rivolta verso il futuro : questo è il percorso evolutivo che ci viene chiesto di compiere. Qui di seguito è pubblicata la tabella delle posizioni del Nodo lunare Nord dal 1930 a oggi, nella quale ciascuno di voi potrà trovare la sua posizione nel proprio tema natale. Sarebbe bello poter valutare anche il settore o casa astrologica in cui il Nodo si posiziona, ma questo diventa un discorso personalizzato, che non è possibile inserire in un contesto generale. 15 Data di nascita 1930 dall’1-1 al 7-7 dall’8-7 al 31-12 1931 dall’1-1 al 28-12 dal 29-12 al 31-12 1932 dall’1- 1 al 31- 12 1933 dall’1- 1 al 24 -6 dal 25 –6 al 31-12 1934 dall’1-1 al 31-12 1935 dall’1-1 all’8-3 dal 9-3 al 31-12 1936 dall’1-1 al 14-9 dal 15-9 al 31-12 1937 dall’1-1 al 31-12 1938 dall’1-1 al 3-3 dal 4-3 al 31-12 1939 dall’1-1 al 12-9 dal 13-9 al 31-12 1940 dall’1-1 al 31-12 1941 dall’1-1 al 24-5 dal 25-5 al 31-12 1942 dall’1-1 al 21-11 dal 22-11 al 31-12 1943 dall’1-1 al 31-12 1944 dall’1-1 all’11-5 dal 12 - 5 al 31-12 1945 dall’1-1 al 3-12 dal 4-12 all’11-12 Il 13 e 14 dal 15-12 al 31 - 12 1946 dall’1-1 al 4 dal 5-1 al 31-12 1947 dall’1-1 al 2-8 1948 dal 3-8 al 31-12 1949 dall’1-1 al 26-1 dal 27-1 al 31-12 1950 dall’1-1 al 26-7 dal 27-7 al 31-12 1951 dall’1-1 al 31-12 1952 dall’1-1 al 28-3 dal 29-3 al 31-12 1953 dall’1-1 al 9-10 dal 10-10 al 31-12 1954 dall’1-1 al 31-12 1955 dall’1-1 al 2-4 dal 3-4 al 31-12 1956 dall’1-1 al 4 -10 dal 5-10 al 31-12 1957 dall’1-1 al 31-12 1958 dall’1-1 al 16-6 dal 17-6 al 31-12 1959 dall’1-1 al 15-12 dal 16-12 al 31-12 Nodo lunare nord Toro Ariete Ariete Pesci Pesci Pesci Acquario Acquario Acquario Capricorno Capricorno Sagittario Sagittario Sagittario Scorpione Scorpione Bilancia Bilancia Bilancia Vergine Vergine Leone Leone Leone Cancro Cancro Gemelli Cancro Gemelli Cancro Gemelli Gemelli Toro Toro Ariete Ariete Pesci Pesci Pesci Acquario Acquario Capricorno Capricorno Capricorno Sagittario SAgittario Scorpione Scorpione Scorpione Bilancia Bilancia Vergine 1992 dall’1-1 all’1-8 dal 2-8 al 31-12 1993 dall’1-1 al 31-12 1994 dall’1-1 all1-2 dal 2-2 al 31-12 1995 dall’1-1 al 31-7 dall’1-8 al 31-12 1996 dall’1-1 al 31-12 1997 dall’1-1 al 25-1 dal 26-1 al 31-12 1998 dall’1-1 al 20-10 dal 21-10 al 31-12 1999 dall’1-1 al 31-12 2000 dall’1-1 al 9-4 dal 10-4 al 31-12 2001 dall’1-1 al 13-10 dal 14-10 al 31-12 2002 dall’1-1 al 31-12 2003 dall’1-1 al 14 -4 dal 15 -4 al 31-12 Capricorno Sagittario Sagittario Sagittario Scorpione Scorpione Bilancia Bilancia Bilancia Vergine Vergine Leone Leone Leone Cancro Cancro Gemelli Gemelli Gemelli Toro Data di nascita 1960 dall’1-1 al 31-12 1961 dall’1-1 al 10- 6 dall’11-6 al 31-12 1962 dall’1-1 al 23-12 dal 24-12 al 31-12 1963 dall’1-1 al 31-12 1964 dall’1-1 al 25-8 dal 26-8 al 31-12 1965 dall’1-1 al 12-12 1966 dall’1-1 al 19-2 dal 20-2 al 31-12 1967 dall’1-1 al 19-8 dal 20-8 al 31-12 1968 dall’1-1 al 31-12 1969 dall’1-1 al 19-4 dal 20-4 al 31-12 1970 dall’1-1 al 2-11 dal 3-11 al 31-12 1971 dall’1-1 al 31-12 1972 dall’1-1 al 27-4 dal 28-4 al 31-12 1973 dall’1-1 al 27-10 dal 28- 10 al 31-12 1974 dall’1-1 al 31-12 1975 dall’1-1 al 10-7 dall’11-7 al 31-2 1976 dall’1-1 al 31-12 1977 dall’1-1 al 7-1 dall’8-1 al 31-12 1978 dall’1-1 al 5-7 dal 6-7 al 31-12 1979 dall’1-1 al 31-12 1980 dall’1-1 al 12 -1 dal 13-1 al 31-12 1981 dall’1-1 al 24-9 dal 25-9 al 31-12 1982 dall’1-1 al 31-12 1983 dall’1-1 al 16-3 dal 17-3 al 31-12 1984 dall’1-1 all’11-9 dal 12-9 al 31-12 1985 dall’1-1 al 31-12 1986 dall’1-1 al 6-4 dal 7-4 al 31-12 1987 dall’1-1 al 2-12 dal 3-12 al 31-12 1988 dall’1-1 al 31-12 1989 dall’1-1 al 22-5 1989 dal 23-5 al 31-12 1990 dall’1-1 al 18-11 dal 19-11 al 31-12 1991 dall’1-1 al 31-12 2004 dall’1-1 al 26-12 dal 27-12 al 31-12 2005 dall’1-1 al 31-12 42006 dall’1-1 al 22-6 dal 23-6 al 31-12 2007 dall’1-1 al 14-12 Il 15 e il 16 dic. Il 17 dicembre dal 18-12 al 31-12 2008 dall’1-1 al 31-12 2009 dall’1 -1 al 21-8 2009 dal 22- 8al 31-12 2010 tutto 2011 dall’1-1 al 3-3 2011 dal 4-3 al 31-12 2012 dall’1-1 al 30-8 2012 dal 31-8 al 31-12 Nodo lunare nord Vergine Vergine Leone Leone Cancro Cancro Cancro Gemelli Gemelli Gemelli Toro Toro Ariete Ariete Ariete Pesci Pesci Acquario Acquario Acquario Capricorno Capricorno Sagittario Sagittario Sagittario Scorpione Scorpione Scorpione Bilancia Bilancia Vergine Vergine Vergine Leone Leone Cancro Cancro Cancro Gemelli Gemelli Toro Toro Toro Ariete Ariete Pesci Pesci Pesci Acquario Acquario Capricorno Capricorno Toro Ariete Ariete Ariete Pesci Pesci Acquario Pesci Acquario Acquario Acquario Capricorno Capricorno Capricorno Sagittario Sagittario Scorpione continua nel prossimo numero 16 Angelo Casati La Flotta Templare I Templari hanno posseduto navi proprie, sin dalla fine del 1200. Le necessità logistiche prima, e commerciali poi, costrinsero i Templari a estendere una loro rete marittima di contatti dall’Europa fino in Terrasanta. Di conseguenza, ben presto, il dominio del Tempio non si estese più solo sulla terraferma, ma anche sul mare. All’originaria necessità di trasportare in Terrasanta pellegrini, cavalieri, cavalli e materiali di prima necessità quali armi, denaro, legname e materie prime come ferro, rame, argento, piombo, essi risposero creando una propria flotta. Bisogna inoltre considerare che le navi protette dai Cavalieri diventavano un mezzo sicuro per i pellegrini. Sono arrivati sino a noi documenti storici che attestano, fin dagli inizi, la proprietà di navi da parte dell’Ordine che, in poco tempo, divenne anche proprietario di porti e di cantieri navali. Del resto un articolo della Regola dell’Ordine precisa addirit- tura: ”Tutte le navi marittime che sono a San Giovanni d’Acri, sono poste all’Ordine del Commendatore della città di Gerusalemme“. Vi cito alcuni esempi: nel 1234 vi è un decreto che libera le navi templari, provenienti da Outremer, dall’obbligo di dichiarare ai doganieri il carico di archi e balestre, trasportati sulle loro navi. Nel 1248 in alcuni contratti navali marsigliesi, viene citata la nave templare la “Buona Ventura“: nel 1288 compare la “Rosa del Tempio“ e successivamente viene registrato l’affitto della nave : “Benedetta“ al prezzo di 2600 libbre di Tolone. Nel 1278, Carlo D’Angiò, si servì di navi Templari per il trasporto di 35 cavalli da guerra. La nave Templare più famosa fu, il “Falco del Tempio“, grossa e panciuta nave ammiraglia costruita dai genovesi e comandata dal leggendario capitano, frate Ruggero da Flor. Nel 1291, il Falco del Tempio, fu l’ultima nave a lasciare il porto della città di Acri, alla fine conquistata da Musulmani, divenendo così testimone storica dell’atto conclusivo della presenza crociata in Terrasanta, (ricordare il glorioso sacrificio di tutti gli Ordini cavallereschi che uniti, purtroppo tardivamente, si immolarono al completo, Templari, Ospitalieri, Teutonici e S. Lazzaro per permettere ai civili di salvarsi). Ricordiamo che la bandiera delle navi Templari era un teschio con due tibie incrociate, e Ruggero da Flor divenne in seguito famoso capitano di ventura nelle guerre che infiammarono il Mediterraneo, nella rivalità delle città marinare. A causa della crescente necessità di trasportare cavalli, i Templari crearono un tipo di nave particolare che permetteva di far salire direttamente i cavalli a bordo, con l’uso di passerelle, senza doverli imbragare e sollevare con argani. Tali navi vennero dette “ Uscieri “ per via del grande portellone che si apriva sulla fiancata, per alcuni autori si trattò di un’invenzione dei Bizantini, che i Templari si limitarono a perfezionare. Ancora una volta l’Ordine si poneva su un gradino più alto rispetto ai vari monarchi europei, i re all’epoca non disponevano di una vera flotta, ma dovevano affittare le navi. Dalle cronache del tempo sappiamo che Templari e Ospitalieri, diedero luogo a furiose battaglie sul mare, contro i Musulmani, per il dominio delle rotte del Mediterraneo. Il porto di Marsiglia fu agli inizi il più importante per l’ordine, poi si sviluppò Motpellier e quelli in Puglia e Sicilia, nonché vari porti sull’Adriatico. Il Tempio disponeva di una 17 rada propria a Saint Raphael, sulla costa provenzale e di un’altra a Colliure su quella Catalana. Aveva inoltre una grossa base a Maiorca e in Portogallo. In Provenza i prodotti raccolti nelle oltre 9000 case e commende venivano movimentati tramite i porti di Biot, Nizza e Tolone, dove il Tempio disponeva di un accesso privato indipendente. I normali rapporti con i possedimenti del Tempio in Inghilterra e Scozia erano assicurati dai porti della costa 18 fiamminga come Barfleur e da San Valery-en-Caux, con le sue Commende di Blosseville e di Drosay, dai porti della Somme e da quelli della costa settentrionale. Fu una nave Templare a trasportare i fondi di Enrico III° in Francia e sempre navi templari, trasportarono per conto del papato, i proventi della “Ventesima“, la Tassa per le Crociate, dall’Europa in Oriente. In Terrasanta il porto più importante fu quello di Acri, dove vi era un vero e proprio quartiere del Tempio, ma anche i porti di Cesarea, Tiro, Sidone, Jebail, Tortosa, noché il controllo totale di Port Bonnel a nord di Antiochia. Fu proprio la particolare importanza, attribuita dai Templari a un porto decentrato come quello di La Rochelle sull’Atlantico e al fatto che, nel 1307 da quel porto scomparve l’ultima flotta Templare, ad alimentare la leggenda sulle miniere d’argento che i Templari avrebbero possedute nelle Americhe e sulle basi segrete nel nuovo Mondo, che avrebbero loro offerto rifugio dopo la caduta dell’Ordine. In realtà La Rochelle è un altro dei tanti misteri irrisolti del Tempio. Di solito le basi templari avevano un solo scopo: facilitare le comunicazioni con i porti del Mediterraneo e la Terrasanta. La Rochelle sull’oceano atlantico era una delle più importanti commende dell’Ordine e il suo porto ospitava una grande flotta. E’ evidente però che il porto non si trovava sulla rotta del Medio Oriente. Si può sostenere che questa flotta molto costosa e formata da molte navi mercantili ma anche da guerra (50 e 30), gestita da marinai che appartenevano de iure al Tempio, assicurasse i collegamenti tra Francia, Inghilterra, Portogallo e la Bretagna, la quale non faceva parte del regno di Francia come del resto la stessa Rochelle, che nel XII sec. era sotto il controllo inglese. Ma la Flotta aveva forse altri scopi? E che cosa ne fu dopo lo scioglimento dell’Ordine? Il tesoro dei Templari fu messo in salvo da questa flotta? Non si sa assolutamente nulla. Un’immagine concreta dell’Importanza dell’Ordine di Cristo, come si denominò in Portogallo l’Ordine del Tempio dopo il 1307, è nelle gesta delle grandi scoperte marittime che si susseguirono dopo tale data. Basta sottolineare un fatto, la Croce patente Rossa, l’insegna dell’Ordine, campeggiava sulle vele dei primi grandi navigatori, come Diego Cao che piantò la bandiera su tutte le coste africane. Sarà stato un caso che anche le caravelle di Cristoforo Colombo, le prime navi giunte ufficialmente in America, si fregiavano sulle loro vele dell’insegna Templare, La Croce Rossa Patente. Rodolfo Signifredi Quando il respiro diventa una incessante meditazione e preghiera Esicasmo, lo Zen dell’Occidente La riscoperta da parte dell’occidente delle discipline psicofisiche orientali ha rilanciato anche l’Esicasmo, che è una meditazione dinamica e ritmica per eccellenza perché recitata seguendo il respiro. La pratica giapponese dell’Hara ci aiuta a conoscerlo L’Esicasmo è la “preghiera respirata” dei monaci ortodossi divulgata nel secolo passato dai Racconti di un pellegrino russo di autore anonimo. Questi racconti sono il libro più conosciuto e diffuso della spiritualità russa. L’immediatezza del linguaggio parlato, la ricchezza delle scene, l’ingenuità fresca del racconto, la vivacità popolare e la sincerità di una esperienza di vita mistica ne fanno un libro pervaso di gioia e unico al mondo. Carlo Carretto lo portava sempre con sé nei suoi lunghi soggiorni nel deserto algerino come Piccolo Fratello dì Gesù. L’Esicasmo viene considerato anche lo Zen dell’Occidente e merita certamente una chiara esposizione che aiuti ad apprezzarlo anche da parte di chi ricerca tecniche più lontane dalla nostra eredità culturale e spirituale. Ma in questo articolo ci serve solo come spunto di partenza per parlare di un’altra “meditazione respirata” che viene dall’Oriente, però elaborata da un occidentale. Parliamo del “respiro nell’Hara” insegnato fino a tarda età da Karl Graf Durckheim nella sua Scuola di terapia iniziatica e che ha tante analogie con l’Esicasmo. Vogliamo provare a esporre questa tecnica dell’Hara per farla poi dissolvere nell’Esicasmo sul finale. È una esercitazione molto stimolante per chi voglia crearsi un rituale quotidiano e continuo; addirittura incessante, perché può prolungarsi anche nel sonno. Sentiamo, allora, cosa intende Durckheim per Hara riassumendo il suo pensiero direttamente dal libro omonimo edito tanti anni fa dalle Mediterranee e sempre ristampato come un classico. HARA, IL CENTRO VITALE DELL’UOMO Hara, in giapponese vuol dire “ventre”, ma in senso psicofisico indica il baricentro dell’individuo alla base del tronco e, in senso più ampio, la disposizione generale dell’uomo che si è reso libero dal condizionamento del piccolo Io. Ogni volta che siamo tesi verso uno scopo cadiamo facilmente fuori da questo centro, perché l’azione parte dal nostro Io, così pauroso di fronte alla sofferenza e così bisognoso di sicurezze. Quando l’uomo giunge a stabilirsi nell’hara sente che questo suo spazio è legato alle potenze della creazione; a forza di trasformazione e rigenerazione che cambiano il suo modo di concepire il mondo e lo mantengono calmo nelle tempeste della vita. Così, nei momenti critici, l’hara ci mette a disposizione tutto ciò che abbiamo e sappiamo, tutto ciò di cui siamo capaci. Chi dispone dell’hara resta sempre in piedi acquistando una stabilità sorprendente, sia fisicamente che moralmente, anche quando riceve un urto o un rovescio. E chi padroneggia l’hara si stanca meno, perché riportandosi nel mezzo può sempre attingervi le energie che lo rinnovano. Ogni volta che qualsiasi lavoro viene fatto con hara, cioè con la forza del centro e con un io rila- sciato, lo sforzo necessario si riduce a un minimo perché il movimento avviene in modo organico. E nella malattia le forze guaritrici della natura non vengono contrastate dall’angoscia dell’Io. La guarigione non è più ostacolata da intime tensioni e contrazioni di chi è preoccupato per il male e le sue conseguenze, ma favorita invece dalle forze più profonde aperte dall’hara. Quando si è inserito il “centro”, tutti gli organi vi partecipano come funzioni di un tutto unitario. E l’hara dà all’uomo la capacità di sopportare il dolore. Per chi sposta nell’hara la propria coscienza è come se l’Io che soffre fisicamente non esistesse. Imparando a lasciar cadere l’Io timoroso di tutto e concentrandosi nella parte mediana del corpo, il dolore non si avverte quasi più. Mentre la saldezza nell’hara immunizza dalle intossicazioni. Inoltre l’hara ristabilisce l’unità dell’uomo con se stesso, non più in contrasto con il bisogno di sfogare i suoi impulsi; in questo spazio nuovo, le tensioni interne accumulate si risolvono da sole trasformandosi in energia positiva senza doversi scaricare all’esterno. Per chi possiede l’hara è come se una porta interiore si fosse aperta e così le reazioni alle provocazioni o le pulsioni istintuali che si vogliono evitare non vengono represse ma sciolte e sublimate in creatività. Da secoli, in Oriente, l’hara è un punto fermo nella cura della salute generale e nella terapia iniziatica. Calandosi qui, la persona si lascia permeare dal suo Essere interiore. L’intera regione del bacino è il “mare dell’energia vitale” e al suo interno c’è il centro essenziale della vita. Qui si attiva la forza terrena che è insita nella persona: questo centro è il tanden, tre dita sotto l’ombelico e tre dita all’interno dell’addome. L’energia che vi viene attivata è il ki dello zen o il prana dello yoga. Con il respiro si rafforza l’hara. A ogni inspirazione viene fornita nuova energia vitale la quale riattiva l’energia già presente nell’addome; da qui si distribuisce attraverso i vari meridiani in tutto il corpo fisico e in quello psichico. Lo scopo degli esercizi hara è di imparare a lasciar scorrere liberamente questi flussi di energia, senza ostacolarli con l’Io cosciente. Ciò è possibile se la persona è bene ancorata all’addome. Altrimenti le energie vitali vengono deviate e trattenute a livello delle spalle. E questo blocco impedisce anche alle energie spirituali, che restano confinate nel capo, di scendere in tutta la persona. Quando ci si contrae a livello delle spalle vengono a mancare le energie nella regione vitale e contemporaneamente si ostacola la libera circolazione delle energie dell’Essere. IL RITUALE DELL’HARA Perciò l’esercizio fondamentale dell’hara consiste nel rilassare le spalle all’inizio di ogni espirazione e nell’insediarsi nell’addome alla fine dell’espiro, sostando qui piacevolmente, in modo da lasciarsi rigenerare con il rinnovarsi dell’inspiro. In questo modo si allentano anche le tensioni più profonde e si trova dentro di sé, insieme alla propria forza, la fiducia in un sostegno superiore. Occorre però una pratica perseverante per riuscire a stabilizzare durevolmente 19 la traslazione in basso del centro di gravità. La pratica nei dettagli è così: 1) schiena eretta senza tensione 2) lasciar scendere le spalle liberamente 3) rilasciare il plesso solare e il ventre 4) immettere una certa forza nel basso ventre sentendosi “laggiù, un po’ sotto l’ombelico” 5) ascoltare il respiro scendere nell’hara e risalire verso il cervello. Tutto ciò che è sopra l’ombelico deve restare disteso; solo nella parte inferiore del ventre c’è una lieve tensione. Così, fin dal principio, l’esercizio con l’hara consiste nel lasciarsi andare verso il basso. È un movimento da ripetere sistematicamente. Si avvertirà una forza che sorge dal mezzo, sale lungo il dorso e libera lo spazio superiore dando una sensazione di euforia. È fondamentale, a questo scopo, allenarsi a percepire la “corporeità interiore”; a occhi chiusi “sentirsi dentro”, sotto la pelle e sciogliere tutte le tensioni, ascoltando il respiro che va e viene spontaneamente da questo centro. Seduti o in piedi, con il busto bene eretto, osservare il processo della respirazione, interiorizzandosi nell’addome e sentire il respiro che viene e va. Con l’espiro “scivolare” all’interno, ma senza insaccarsi, continuando a mantenere la posizione eretta. L’espirazione si farà spontaneamente più lenta dell’inspirazione, e con il tempo potrà diventare tre volte più lunga. All’inizio di ogni espirazione rilassare consapevolmente le spalle, ma senza spingerle in basso; un allentamento psicologico che parte dall’Io. Al termine dell’espirazione sostare fiduciosi nella regione del bacino. Così si può prendere coscienza delle energie vitali che ora affluiscono liberamente nell’addome, cioè nel loro centro, dopo essere state sbloccate dalle spalle. A ogni atto respiratorio ripetere il rilassamento delle spalle e la sosta nel bacino. L’Io in alto non ha più nulla da trattenere e viene a sua volta attirato nel bacino. Durante 20 la pausa o l’apnea restare fiduciosi nelle fondamenta dell’addome. Lasciare che la parte inferiore dell’addome sporga in fuori, mentre la zona superiore si sposta in dentro e verso il basso. Poi visualizzare all’interno dell’hara il centro dell’energia, il tanden, che si espande con l’inspirazione e che durante l’espirazione distribuisce la sua energia, il ki , in tutto il corpo. A questo punto è fondamentale il modo giusto di lasciar tendere il basso ventre. Nella respirazione naturale, l’addome si gonfia con l’inspiro e si contrae durante l’espiro. Ma quando l’espirazione è completa e accentuata il basso ventre sporge un poco; lo sanno bene i cantanti. Anche la regione lombare si dilata durante questa accentuazione e pausa dell’espiro. Quindi, basso ventre in leggera tensione e stomaco rilasciato. Ogni inspirazione procura nuove energie, rinnova ogni singola cellula. E così l’intero processo del respiro diventa una continua trasformazione. Per restare ancorati alla base e non volare di nuovo verso l’alto, considerare il vissuto quotidiano come un esercizio interessante che consente di imparare e fare sempre nuove esperienze. Arrivare a percepire veramente le fondamenta dentro di noi con espirazioni ancora più lunghe, evitando però di afflosciarsi. Insediarsi nel bacino senza timori inconsci verso le forze racchiuse nella regione pelvica. Affidarsi a esse fiduciosamente. IL RESPIRO HARA CON LE FORMULE La ritualità dell’hara, man mano che si approfondisce, trae vantaggio dalla formulazione di atteggiamenti mentali che sottolineano le varie fasi. Ci sono quattro tempi nel respiro naturale effettuato in situazioni di calma, due per l’espiro, uno per la pausa e uno per l’inspiro. Per esercitarci in questa respirazione possiamo cominciare dicendo mentalmente la formula più semplice: “Espiro - Espiro - Pausa - Inspiro” in sincronia con le singole fasi. La quiete, la distensione e il raccoglimento che derivano dalla giusta posizione del corpo e dalla giusta respirazione risultano ancor più profondi se accompagnano i quattro tempi del respiro con quattro intenzioni che facilitano il distacco, la distensione, lo spostamento del baricentro interiore dall’alto verso il basso. Nei due tempi dell’espiro diciamo “abbandonare - discendere”; durante la pausa “unirsi”; durante l’inspiro, che non si compie a comando ma spontaneamente, “risalire”. L’esercizio base, nel suo complesso, consiste proprio nel sottolineare anche psicologicamente la discesa in basso del baricentro, la stabilizzazione nell’hara e la liberazione delle energie bloccate. “Abbandonare” significa allontanare tutte le preoccupazioni, le tensioni, le paure, le maschere, i desideri di affermare se stessi... “Discendere” vuol dire affidarsi, appoggiarsi alle forze benefiche del nostro profondo. “Unirsi” è collegarsi alla propria essenza, al Sè, all’archetipo, all’autentico che è in noi. È il completo abbandono dell’Io che si libera delle sue vecchie forme. Mentre il “Risalire” corrisponde al ritrovarsi rinnovati, trasformati dall’incontro sia pur fugace dell’Io con il Sè e, attraverso questo, del proprio “essere” con l’Essere trascendente. Questo movimento è il ciclo della ruota della trasformazione che si compie in ogni vera meditazione. E questo movimento lo si ritrova anche nell’Esicasmo dal quale eravamo partiti. Le sue semplicissime tecniche portano la mente a concentrarsi sul cuore o sull’hara, mentre il respiro si muove dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno trasportando con sé una formula giaculatoria come il kirye eleyson che tradotta suona così: “Signor mio Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Dall’efficacia di questo antico rituale ortodosso, che l’esperienza diretta e i racconti dei monaci greci e russi comprovano, e dalle risonanze psicofisiche del rito orientale dell’hara, riproposte da un mistico come Durckheim che ne ha fatto il fulcro della propria realizzazione, viene spontaneo l’incontro tra queste due pratiche in una sintesi ideale per il nostro tempo. C’è chi lo ha fatto con notevoli benefici per l’anima e il corpo. In tempi di aridità spirituale come il nostro è sorprendente sentire che la preghiera non è spenta e che è lo stesso nostro organismo a richiederla per il proprio benessere. Quando il respiro diventa preghiera. Umberto Accomanno Stati Uniti: capitalisti del Nord, gentiluomini e schiavisti del Sud La chiusura del mondo sudista americano rispetto all’evoluzione borghese del resto della civiltà occidentale è la chiave per comprendere la natura del mondo confederato(1). La schiavitù dette al Sud uno specifico modo di vita perché formò la base di un ordine sociale in cui il lavoro schiavistico dominò, e praticamente escluse, ogni altro tipo. Su tale base si fondò l’autorità di una potente e notevole classe sociale che, pur costituendo soltanto una minima parte della popolazione bianca, riuscì con rimarchevole successo a edificare un tipo particolare di civiltà che fu la ripresa di una società sostanzialmente arcaica. È fuori discussione che il carattere agrario della civiltà sudista influì enormemente sulla sua cultura, i suoi valori sociali, l’intera vita della sua comunità: ma quello che sembra per lo più difficile da intendere è che esso fu vincolato al suo carattere agrario (arretrato) praticamente senza possibilità di progresso o di trasformazione proprio dal sorgere e dallo svilupparsi della schiavitù. Nel 1619 un negriero olandese sbarcò a Jamestown venti schiavi africani. Sebbene i neri inizialmente fossero, come i bianchi, schiavi vincolati a contratto, in meno di mezzo secolo la loro condizione sarebbe diventata di schiavi tout court. Dal momento stesso in cui la peculiare istituzione fornì la base su cui sorse l’intero edificio della società e della civiltà sudista, il conflitto tra questa e la sezione borghese e capitalistica del Nord America divenne inevitabile. La condizione del Sud in rapporto al resto del mondo occidentale era ben altro che una semplice differenza di attività economiche. La schiavitù era la base su cui sorgeva un’intera cultura e un’intera civiltà e quindi non era riformabile se non a prezzo di provocare il crollo di tutto l’enorme edificio che essa sorreggeva. E di fronte a una tale prospettiva, qualunque classe dominante avrebbe indietreggiato. Tuttavia il contrasto sarebbe maturato progressivamente. La secessione del South Carolina sarebbe arrivata solo nel dicembre del 1860, mentre la capitolazione di Fort Sumter a opera delle truppe confederate avvenne solo nell’aprile del 1861. Per un periodo piuttosto lungo la società schiavistica del Sud riuscì a convivere con quella capitalistica del Nord. Infatti, quando gli inglesi offesero gli interessi e l’amor proprio delle tredici colonie, il Nord e il Sud combatterono insieme per l’indipendenza. Il Sud schiavista, da parte sua, fornì alla causa indipendentista sia i capi militari, a cominciare da George Washington (membro dell’élite meridionale e grande proprietario di schiavi), sia pensatori, ideologi ed esponenti politici (Patrick Henry, Thomas Jefferson, James Madison e altri ancora). Era tipico infatti di una società aristocratica come quella che dominava la società del Sud disprezzare le attività mercantili e considerare loro prerogativa e vocazione il governo e la difesa dello Stato. Tutte le classi aristocratiche avevano sempre considerato la politica e la guerra come un loro diritto-dovere, simili anche in questo ai senatori romani della tarda Repubblica. Non è un caso che dei primi cinque presidenti degli Stati Uniti ben quattro siano stati grandi piantatori sudisti. Il rapporto con gli schiavi, autoritario e paternalistico, aveva contribuito ad addestrare gli aristocratici del Sud al comando, sviluppando la loro capacità di saper ottenere sia il rispetto sia l’ammirazione dei loro sottoposti. La vita agricola, la pratica della caccia e il coesistere con la natura avevano educato sia l’élite dei piantatori che tutta la popolazione bianca del Sud, fossero piccoli proprietari terrieri che yeomen (contadini liberi che ai signori si ispiravano) a saper cavalcare, sparare, affrontare le intemperie e l’inclemenza della natura. Inoltre , l’orgoglio aristocratico li portava a una naturale fierezza e combattività. Nel Sud c’erano persone di delicata immaginazione, di istinti urbani e di metodi aristocratici, gente superiore: in breve gentiluomini. Era una civiltà con molti aspetti eccellenti, forse la migliore che l’emisfero occidentale avesse mai conosciuto, senza dubbio la migliore che questi stati abbiano mai veduto (scriveva un commentatore dell’epoca). Tuttavia, il contrasto con la borghesia del Nord non aveva tardato a manifestarsi subito dopo l’indipendenza delle tredici colonie britanniche. Il ministro delle finanze della nuova Unione, Alexander Hamilton di New York, che tra i leader della rivoluzione rappresentava i ceti borghesi e capitalistici del Settentrione, vedeva il futuro degli Stati Uniti in un grande organismo economicamente centralizzato, che si doveva fondare su un mercato unico nazionale, trasformando gli Stati dell’Unione in mere province. Questa politica non poteva non urtare violentemente con l’autonomia e l’individualismo dei piantatori del Sud. Il primo passo compiuto da Hamilton fu quello di federalizzare il debito pubblico degli Stati che si sarebbero così trovati del tutto privi di ogni autorità in campo economico, nonché costretti ad accettare che i creditori dell’Unione (in misura schiacciante grandi finanzieri del Nord) venissero ripagati dal governo centrale, il quale si sarebbe procurato i fondi necessari mediante la tassazione di beni reali certi (le piantagioni degli aristocratici sudisti). Inoltre, Hamilton desiderava 21 che l’intera gestione finanziaria dell’Unione fosse posta sotto la tutela di una banca centrale simile alla Banca d’Inghilterra. I piantatori invece difendevano tutta una serie di istituti bancari locali che esercitavano il piccolo credito agrario a basso tasso di interesse. Chi contrastò Hamilton fu il futuro presidente degli Stati Uniti, Thomas Jefferson, grande piantatore virginiano (possedeva 200 schiavi), uomo di grande cultura e illuminista, ammiratore di Rousseau. Jefferson, pur ritenendo la schiavitù una piaga, pensava che non si potesse cancellare con un tratto di penna. Jefferson, fondatore del Partito Demo- 22 cratico, realizzò un compromesso basato sull’alleanza tra l’élite agraria del Sud e le classi popolari del Nord, una politica che avrebbe garantito un cinquantennio di stabilità e rimandato lo scontro bellico che avrebbe causato centinaia di migliaia di morti. Tuttavia, il sistema sudista schiavistico rappresentava un’economia della stagnazione. I proprietari, specialmente i maggiori, tendevano sempre più a considerarla una sorta di mondo a parte, un luogo dove produrre ricchezza non in sé o per reinvestirla, come nel Nord America , ma per incrementare il lusso, i piaceri della vita. I sudisti, meno vincolati dal profitto, meno stimolati dal pungolo di una spietata concorrenza, più portati ad apprezzare il denaro come strumento per un’esistenza più piacevole, erano considerati, da osservatori come Tocqueville, più franchi, più affascinanti rispetto ai loro confratelli del Nord borghese e capitalista, sovente dominato dalla grettezza, dall’avarizia e dallo sfruttamento spietato dei ceti umili. Le differenze tra le due sezioni degli Stati Uniti sono ben rappresentate dalle diverse risposte che sudisti e nordisti danno al visitatore dei loro rispettivi territori. I nordisti: “Perdoni signore, che cosa viene a fare qui?”; i sudisti: “Si segga, forestiero, che cosa posso offrirle?”. Si tratta di un semplice aneddoto, ma la dice lunga circa i diversi atteggiamenti. Nonostante il fascino aristocratico, il Sud si trovò, in poco tempo, in difficoltà. Alla vigilia della guerra di secessione al Nord oltre il 60% della popolazione era assorbito nell’industria, mentre nel Sud tale percentuale era ferma a un misero 16%, inoltre, le industrie meridionali rimanevano di modestissime dimensioni. Alcune statistiche hanno sottolineato che il Sud, alla metà dell’Ottocento, possedeva 159 officine. Fabbriche di modestissime dimensioni, sovente poco più che artigiane; l’intero capitale investito ammontava a poco più di 9 milioni di dollari, mentre nella sola Nuova Inghilterra si contavano 570 fabbriche con un capitale di oltre 69 milioni di dollari. Senza contare la gigantesca attrezzatura industriale di New York, di Pittsburgh, detta la città dell’acciaio , o di Chicago, la cui stazione ferroviaria aveva una movimentazione di ben 74 treni al giorno già nel 1859. Secondo le statistiche del 1860, l’intera attrezzatura del Nord industriale consisteva in 140.000 fabbriche con 1.311.000 operai e un capitale investito superiore al miliardo di dollari. Si calcola altresì una produzione annua pari a 1886 miliardi di dollari. Queste le premesse(2) che portarono alla Guerra di Secessione : dall’elezione di Lincoln nel 1860, alla secessione del South Carolina fino alla capitolazione delle truppe confederate nel 1865. Note: 1) RAIMONDO LURAGHI, La spada e le magnolie. Il Sud nella storia degli Stati Uniti, Roma 2007 ; 2) REID MITCHELL, La guerra civile americana, Bologna 2003 Atanor Il disco di Festo il più antico testo di lettere mobili La sera del 3 luglio 1908, durante una campagna di scavi della Missione Archeologica Italiana diretta dal prof. Luigi Pernier*, veniva rinvenuto il cosiddetto “disco di Festo” nel palazzo reale minoico della località da cui il documento trae il nome, e precisamente in uno strato archeologico non posteriore alla fine del periodo medio minoico, cioè al secolo diciottesimo a. C. Si tratta di un disco di forma geometrica imperfetta, ottenuto a mano mediante la compressione su un piano di una palla di creta ancor fresca e di colore grigio-giallognolo-rossiccio. Nonostante l’incendio del palazzo che lo ha in parte annerito, esso è in uno stato di quasi perfetta conservazione e presenta solo lievi screpolature. In questo singolare cimelio si può vedere la più antica testimonianza finora pervenutaci di un procedimento analogo a quello della stampa dato che esso reca un enigmatico testo impresso a lettere mobili. Infatti su ambedue le facce, a mezzo di una punta dura, sono state graffite delle linee e poi, a mezzo di punzoni, impressi dei segni puramente pittografici che ammontano complessivamente a duecentoquarantuno, tutti leggibilissimi tranne uno solo scomparso del tutto in seguito a scrostatura; i tipi assommano invece a quarantacinque e, in linea di massima, rappresentano oggetti, persone, piante, animali, costruzioni ecc. perfettamente riconoscibili. Le ipotesi più disparate sono state emesse circa il significato di tale iscrizione senza però diradarne il mistero e una simile, anzi maggiore in- certezza regna nella determinazione della zona di origine del documento. Mentre infatti il Pernier lo riteneva prodotto nel luogo stesso ove fu rinvenuto, quasi tutti gli studiosi si rivolgevano verso altre zone del bacino mediterraneo, e in particolare verso l’Asia Minore, senza tuttavia addurre prove conclusive al riguardo. Anche se l’ipotesi di E. Meyer, che lo attribuisce ai Filistei, va scartata per ragioni di carattere cronologico, anche se non maggiore consistenza hanno la tesi del MacAlister, che lo ritiene importato dalla costa africana, e quella di sir A. J. Evans, che lo attribuisce alla costa sud occidentale microasiatica, non crediamo per questo che si debba consentire nel giudizio espresso negli anni Fotografia di una faccia del disco di Festo. trenta dal Diringer che “se dobbiamo proprio deciderci per una opinione, preferiremo – sino a prova contraria ma concreta – considerare il disco di Festo come opera del luogo dove è stato ritrovato”; a noi sembra che la delicata questione non possa ancora venire risolta con certezza, ma dobbiamo tuttavia ricordare che nell’isola di Creta è stata messa alla luce un’ascia con segni affini a quelli del disco, sebbene di fattura meno accurata, più corsiva. Questo cimelio ci pone an- che di fronte a due problemi insolubili: quello della scrittura e, in dipendenza di esso, quello della lingua in cui il testo è redatto. Prendendo in considerazione soltanto il primo, dobbiamo notare che ad esso non potremo dare forse mai una chiara risposta se la scrittura è puramente mnemonica o ideografica o anche composta da segni aventi valore in parte ideografico e in parte fonetico, a meno che non tornino alla luce iscrizioni bilingui che presentino i requisiti necessari per svelare 23 24 tale enigma che, come disse il Pernier, è ancora più impenetrabile della sfinge etrusca. Se infatti i segni del disco hanno valore mnemonico o ideografico, è chiaro che la loro interpretazione può variare da studioso a studioso e che uno stesso interpretatore non può escludere mai la possibilità che un medesimo passo sia da intendersi in più maniere; ne consegue evidentemente che nessuna esegesi apparirà sicura a meno che non intervengano altri elementi probanti, cioè numerosi testi congeneri che diano il modo di procedere a confronti applicando su larga scala il metodo combinatorio o di interpretazione intertestuale. Per una scrittura in parte fonetica e in parte ideografica si risolse il noto specialista di antichità cretesi sir Arthur J. Evans che già nel 1909 osservava l’esistenza, a parer suo innegabile, di un elemento certo ideografico tra i pittogrammi del disco. Lo seguì, fra gli altri, Gustave Glotz, il quale notava che i segni «quoique souvent groupés dans un disématisme quasi syllabique, ne sont pas assez mèlés d’élements phonétiques pour tourner en écriture vraiment linéaire. Certains groupes (vedi fig 3) manifestent encore la prédominance de l’image, sur le son comme la sucession de la téte de guerrier, du bouclier, e du captif aux mains liées dans le dos. Un tiers des signes parait ainsi avoir une valeur idéographique». Per parte nostra, ci sembra che questi elementi abbiano un peso molto relativo, dato che un susseguirsi di immagini in stretto rapporto l’una con l’altra non è di per sé sufficiente per dimostrare che una scrittura è ideografica. Lo spazio non ci consente un più esteso esame dei vari problemi connessi con questo singolarissimo documento, del quale ci basta aver messo in rilievo il notevole procedimento di impressione a lettere mobili (che non ha riscontro nell’antichità) unendo qualche cenno generale all’enigma della scrittura. Bibliografia: D. Diringer, L’alfabeto nella storia della civiltà J. Sundwall, art. Phoistz Diskus-de Gruyter, vol X. • Prof. Luigi Pernier (Roma 23 novembre 1974 - Rodi 18 agosto 1937) Archeologo. 25 Vittoria Colpi Venezia: realtà e utopie alla 13a Mostra Internazionale Common ground è il titolo assegnato quest’anno alla 13. Mostra internazionale di architettura di Venezia ed è anche l’invito del curatore, David Chipperfield, a scoprire i valori comuni nel fare architettura, quindi a porre l’interesse non su edifici isolati, spettacolari nella struttura e talora avulsi dal contesto nel quale vengono inseriti, ma su progetti che nascono dal dialogo e dalla condivisione di problemi e intenti. Una manifestazione che vuole porsi come risposta alle Starchitecture, apparse nei paesi del Golfo, in Cina, Corea e Giappone e in stati più piccoli e che paiono il frutto dei valori di mercato e dell’ideologia del postmodernismo. L’attenzione degli espositori, studi di architettura e delegazioni nazionali, si è rivolta quindi agli spazi pubblici, alle esigenze della gente, sotto il 26 profilo dell’accoglienza, e al miglioramento delle relazioni sociali, come pure alla riqualificazione e riuso delle risorse ed edifici esistenti e alle capacità associative degli architetti nell’uso di tecnologie ormai globalizzate. Di tutto quanto la 13. Mostra di Architettura offre al visitatore, abbiamo colto alcuni spunti di riflessione, curiosità e qualche evento particolare. All’Arsenale, nelle Corderie, la mostra si apre, non a caso, con una rielaborazione di un chiosco di giornali. Studenti di Architettura di Venezia, in collaborazione con ETH Zurigo e con Case Studio Vogt, hanno preso in gestione un chiosco cittadino dove espongono poster, mappe e giornali realizzati per lo più con interviste ai passanti su temi quali turismo, beni pubblici e realtà quotidiane. Il frutto è il giornale “Republic of common ground” distribuito in mostra. La piccola architettura del chiosco ci riporta alle sue antiche origini islamiche di fontana pubblica, creando inoltre una forte analogia tra l’acqua un tempo distribuita alla gente e la parola stampata e diffusa. Dell’importanza dei media dà conto l’esperienza della Filarmonica di Amburgo, che gli architetti Herzog & de Meuron hanno progettato riqualificando un vecchio edificio portuale sull’Elba e il cui cantiere è stato sospeso nel 2011 per controversie tra le parti sociali, sorte per i costi eccessivi e amplificate dalla stampa. Il percorso della mostra è coinvolgente e sembra trascinarci in una città fluida dove si fondono il brulichio della gente, le radici storiche della pratica architettonica e una progettazione condivisa. E il grande salone “Gateway” allestito da Norman Foster, Carlos Cargas e Charles Sandison, tra suoni e proiezioni avvalora questa sensazione. Per terra si rincorrono i grandi nomi dell’architettura dei vari secoli e paesi, sulle pareti si susseguono veloci le immagini delle città e degli edifici all’interno della vita quotidiana o di grandi eventi, il tutto accompagnato dal rumore della folla negli stadi, nelle manifestazioni o semplicemente nelle strade. La spettacolare installazione di Zaha Hadid, ci rammenta poi come l’architettura debba vivere in simbiosi con la poetica dell’arte. ZHA ci propone candidi moduli dalle forme flessuose che si ricollegano alle sottili coperture a guscio e alle tensostrutture ideate dai grandi maestri dell’architettura e ora oggetto di sperimentazione con nuovi materiali da parte dei suoi giovani allievi presso l’Università di Arti Applicate di Vienna. L’arte si associa all’architettura nell’esperienza di riqualificazione di un intero paesaggio. Così in Messico la Ruta del Peregrino, un percorso di 117 chilometri e dedicato alla Vergine di Talpa, è stato valorizzato con punti panoramici, dormitori e diverse costruzioni, accentuando il significato spirituale del luogo. Una forte componente artistica anche nei progetti di AR:BA, un brand nato recentemente dalla collaborazione tra studi di Malesia e italiani e che ha dato vita a diversi insediamenti ecosostenibili che fondono tradizioni culturali dell’est e dell’ovest. Lo spazio della Malesia, intitolato “Voices”, raccoglie una serie di modelli di affascinanti architetture all’interno di una particolare struttura di ferro serpentinata, per dare una idea di coesione nella progettazione dell’ambiente. In Common Ground non è mancato il cenno alla congiuntura economica internazionale sfavorevole che accomuna il mondo occidentale e ai suoi riflessi sugli studi di architettura. Questo problema è affrontato dal critico spagnolo Fernandez Galiano con uno stand nel quale dei giovani vestiti di bianco, quasi in segno di resa, mostrano ai visitatori modelli di importanti edifici realizzati a Madrid e a Barcellona. Passiamo ai Padiglioni internazionali ai Giardini, dove il tema della mostra è sottolineato con semplicità e nel contempo con determinazione nello spazio degli Stati Uniti ai Giardini. L’installazione “Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Goods” evidenzia come attrezzature o piccoli ma efficaci interventi degli individui possano migliorare lo spazio pubblico di una collettività. Numerosi gli esempi apportati. Tra questi: le Bubbleware, bolle gonfiabili realizzate ad Austin, Texas, che invitano i cittadini a sviluppare nuove forme di interazione sociale e con i loro vivaci colori modificano l’aspro aspetto urbano; le numerose City Farm di Chicago che riescono a sostenere l’economia locale fornendo ortaggi a residenti e ristoranti e incentivano le occasioni di lavoro; infine l’esperimento ormai diffuso del Neighborland Website. Creato a New Orleans per dare alla gente la possibilità di definire e realizzare comuni obiettivi, offre ai cittadini delle tessere su cui scrivere la cosa più desiderata per il proprio quartiere, traendone poi valutazioni. Il problema dell’accoglienza è particolarmente sentito in Canada, un paese da sem- pre aperto alle immigrazioni, tuttora un’eccezione nel panorama internazionale di diffidenza, se non di chiusura. Migrating Landscapes è l’installazione proposta, costruita con una miriade di strutture di legno che definiscono diverse idee di abitazione e di coinvolgimento nella società. 27 L’aspetto spettacolare di mosaico che ne deriva richiama l’identità culturale pluralistica del Canada. Nel contenitore Common Ground non è mancato il cenno al risparmio delle risorse. Il Padiglione tedesco ha puntato sulle tre R: Reduce, Reuse, Recycle, creando una sorta di alleanza tra vecchio e nuovo. Gli esempi di riqualificazione apportati mostrano come la Baukultur tedesca ponga gli architetti di fronte alle questioni dell’energia, dei cambiamenti climatici e della demografia e attribuisca loro il compito e la sfida di aggiornare le strutture esistenti. Questa capacità di recupero viene anche definita col termine resilience. E l’AAA, Atelier d’Architecture Autogérée, fondato nel 2001 e con sede a Parigi, focalizza in particolare il problema dell’Urban Resilience, un passo avanti rispetto alla sostenibilità. Se infatti la sostenibilità vuole mantenere lo status quo del sistema, controllando l’equilibrio tra input e output, l’Urban Resilience porta il sistema a un cambiamento, ipotizzando cicli di produzione - consumo, su una base locale la più ridotta possibile ed una partecipazione attiva e coerente dei cittadini. Anche il problema della densità di popolazione è stata oggetto di interesse in Com- 28 mon Ground, per esempio dall’Angola, con un padiglione all’Isola di San Giorgio Maggiore curato da due giovani architetti, Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento. Essi hanno preso in considerazione nella città di Luanda una zona periferica contraddistinta da un forte densità di popolazione, circa 53.800 persone per Kmq, da carenza di edifici e di infrastrutture, quali la rete fognaria e quella elettrica. Il progetto esposto, in scala reale 1:1, evita interventi invasivi sul tessuto urbano esistente e si propone come spazio verde dotato di una infrastruttura a bassa tecnologia. Quest’ultima consiste nella piantumazione tra gli edifici di un tipo di canna, l’Arundo donax, ideale per la bio-massa e inoltre in grado di filtrare le acque sporche e di assorbire grandi quantità di anidride carbonica, migliorando le condizioni di vita in modo sostanziale. Un cenno infine al Padiglione Italia curato da Luca Zevi e dal titolo “Le Quattro Stagioni”: il racconto dei rapporti tra architettura, economia e territorio nel nostro paese, partendo dagli anni Cinquanta del Novecento. Un percorso che inizia con l’esperienza della città-fabbrica di Ivrea, dove Adriano Olivetti vuole fare di ogni complesso industriale un’opera d’arte e d’architettura. I successivi anni Ottanta vedono purtroppo un’aggressione al territorio con capannoni e brutti edifici, mentre l’architettura made in Italy nell’ultimo quindicennio ha cercato di ricreare una tipologia olivettiana di paesaggi industriali, riqualificando insediamenti e spazi pubblici. Ma non è tutto. La sfida di Expo 2015 “Nutrire il Pianeta” rappresenta un nuovo traguardo dell’architettura verso la Green Economy e verso il concetto e la realizzazione di comunità sostenibili, in un rapporto equilibrato di spazi agricoli e urbani e dove la gente possa vivere, lavorare e nutrirsi. Quanto sopra scritto è una piccola parte di tutto ciò che la 13. Mostra Internazionale comprende, in un “common ground” di ideali e realtà. Ma la lezione di Chipperfield verrà ascoltata? Alle spalle di Venezia, a Marghera spunta già la minaccia del Palais Lumière di Pierre Cardin, una torre alta 255 metri con 65 piani abitabili, definita dallo stilista veneto ma naturalizzato francese un “progetto per recuperare un territorio urbano e paesaggistico degradato”. Sarà davvero un faro per Venezia o non getterà sulla città lagunare, patrimonio universale, una luce sinistra? Mirta Serrazanetta Gli enigmi nell’arte Bosch: Trittico delle delizie ovvero il trionfo di Satana Paesaggio allucinante e ricco di risonanze misteriose questo proposto nell’attuale numero del Pane Quotidiano, che ritrae il Giardino delle Delizie, scomparto centrale del Trittico omonimo. Uno stagno in cui defluiscono quattro fiumi che ospitano ai loro bordi strani gusci rotti di grandi uova, nelle quali si accalcano esseri umani nudi ambiguamente “unisex”… singolari e suggestive colline, torri sulle rive dello stagno, ricche di escrescenze minerali e vegetali… al centro un enorme globo, grigio azzurro, galleggiante sull’acqua immota, su cui nude figure di amanti si esibiscono in strane acrobazie… così proposto questo frammento di paesaggio potrebbe essere facilmente scambiato per una pittura ricca di onirica suggestione di un artista surrealista del XX secolo! A dipingerla invece è stato uno straordinario pittore fiammingo del primo Cinquecento: Hieronymus Bosch. Il suo particolarissimo stile dal complesso simbolismo, che trae le sue fonti dell’alchimia, dalla letteratura mistica e dai detti popolari, dà forma a una tematica esclusivamente religiosa e morale: traviserebbe lo spirito della ricerca artistica di Bosch chi cercasse di interpretare le sue opere come se fossero frutto di pura divagazione fantastica. La sua arte, con perfetta aderenza alle esigenze della sua epoca, non si prefigge un mero compiacimento formale, ma vuole soprattutto essere significante, vuole trasmettere un messaggio morale. In quasi tutti i suoi dipinti il pittore mira a sottolineare la pericolosa vicenda cui l’umanità va incontro, qualora si lasci sedurre dall’insidia del peccato. L’unico rimedio al male è da Bosch indicato nella piena consapevolezza dello stesso e da ciò deriva la foga quasi ossessiva con cui mette in evidenza la debolezza e i vizi dell’umanità. Non sappiamo con precisione chi siano i committenti di Bosch, probabilmente enti religiosi (il fine moraleggiante d’altronde rendeva ac- gati alla vicenda della Guerra dei Cento Anni, particolari privilegi ed esenzioni fiscali avevano creato una situazione di singolare prosperità e benessere. La ricchezza era quindi largamente diffusa e produceva un forte desiderio di vita e di piacere. Vigevano così abitudini e usanze affatto licenziose, che di lì a pochi decenni il clima moralistico cettabili anche i mezzi figurativi più audaci, quali sono appunto quelli del nostro pittore); sappiamo però che l’artista credeva fortemente, tanto da far parte di una confraternita, quella di Nostra Signora, nella necessità di un’opera di moralizzazione che si opponesse alla ormai diffusa licenziosità e rilassatezza dei costumi, dilagante nella borghesia e persino nel clero. Nelle Fiandre, infatti, alla fine del Quattrocento, nonostante gli sconvolgimenti politici e gli scontri sanguinosi colle- della Riforma avrebbe “spazzato via”. Erano molto diffuse e frequentate le famose “stufe”, bagni in comune ove non esisteva separazione tra uomini e donne, che fungevano spesso da vere e proprie case di piacere. Si tollerava ampiamente che le adescatrici cercassero ovunque la loro occasionale clientela… non esclusi i luoghi sacri come le chiese. L’azione del clero era d’altronde debole e inefficace, perché anche i suoi membri cedevano volentieri al richiamo del piacere: frequentavano assidua- mente le famigerate “stufe”, avevano delle concubine, permettevano che avessero luogo singolari e irriverenti cerimonie come, ad esempio, l’elezione della reginetta delle concubine!. La cerimonia avveniva a Liegi, durante le feste di Pasqua; la reginetta, una volta eletta, veniva portata in trionfo in chiesa, ove occupava un trono speciale per tutta la durata delle cerimonie pasquali. Se quindi corruzione, licenziosità e irriverenza dominavano gran parte della popolazione, vi si opponevano però numerose Confraternite, come quella di Bosch, che auspicavano una moralizzazione della società contemporanea, con particolare riferimento alle usanze sessuali. Anche il Trittico delle Delizie risponde a questi intenti moraleggianti e didascalici. Il Trittico, che ha ante mobili alla maniera d’Oltralpe, chiuso, all’esterno rappresenta il terzo giorno della creazione, come antefatto. Aperto, mostra nello scomparto di sinistra la creazione di Eva, evento base dei mali nel mondo, prima tentazione e preludio alla fatale caduta. Al centro è invece raffigurato il Giardino delle delizie, che rappresenta il torpore morale dell’anima dedita ai piaceri sessuali e dimentica della salvezza. Nello scomparto interno di destra infine compare la raffigurazione dell’inferno, cioè dell’inevitabile castigo. Lo scomparto più famoso è indubbiamente quello centrale, ove una folla di nudi delicati ed esili si abbandona ai piaceri della carne, in un giardino popolato da suggestive forme di frutti e di animali di proporzioni gigantesche, chiari simboli, come l’uovo, di piaceri sessuale e di lussuria. 29 Ercole Pollini El guarnasc Il Battipalo “MARTIN” Quasi ottant’anni fa, da ragazzino, per me e i miei coetanei era un avvenimento quando arrivava a Tremezzo il battipalo che, senza un nome di battesimo, a nostra conoscenza, che lo identificasse, era chiamato “MARTIN”. Probabilmente, l’etimologia della parola trae origine dalla funzione di …..martinetto… ossia, la massa battente sul palo. Normalmente, questa nave officina veniva a controllare i pontili d’attracco al centro lago – i più provati durante la stagione estiva dai quasi continui approdi di battelli, allora, in massima parte a ruote – ai primi d’ottobre, alla fine della stagione turistica. Capitava sporadicamente, in piena stagione, che qualche maldestro timoniere prendesse d’infilata normalmente la terna dei pali d’appoggio e, quando andava male (ma era assi raro) i pali di sostegno del pontile vero e proprio. In questo caso, l’intervento del MARTIN, era immediato: un vero e proprio Pronto Soccorso. A onore del vero, bisogna dire in gergo che per far orario (ciò stava a significare “ricuperare il ritardo”), i poveri timonieri, quando non il capitano stesso, erano costretti a fare delle vere acrobazie all’accostamento ai pontili con dei battelli lunghi cinquanta – settanta metri. Arri- vavano a piena velocità quasi al pontile, poi veniva ordinato “l’indietro tutta” e, quando andava bene, il battello veniva pennellato in posizione al pontile. Mi ricordo di due comandanti, il mio amico Berto Corti e il genovese Massanti, che erano dei veri maestri in tale bisogna. Oggi qualcuno può domandarsi: “Ma chi glielo faceva fare?”. A quel tempo, in piena era fascista, per le ferrovie e i mezzi pubblici di trasporto, battelli compresi, era imperativo “rispettare gli orari”; non come si fa oggi che un povero pendolare che parte da Piacenza, arriva a Milano con decine e decine di minuti di ritardo! E nota: non si barava Giugno 1974 - Il battipalo MARTIN ormeggiato alla boa nel porto di Como in predisarmo. 30 ampliando gli orari e inoltre con mezzi superlativi a disposizione ma con locomotive a vapore, il che è tutto dire. Cari lettori cosa ne pensate? A quei tempi non c’era la televisione e i cinematografi erano una rarità, e per noi “giovani figli della lupa capitolina” era un doppio divertimento l’arrivo del “Martin”; in primis, per l’equipaggio che spesso e volentieri tirava dei moccoli, non proprio elaborati alla fiorentina, in ogni modo abbastanza significativi; in secundis, per il gravoso e difficile lavoro di piazzamento dei lunghi e grossi pali per l’attracco dei battelli, che richiedeva una grande abilità. direzione di marcia che avveniva con il motore al minimo. Giugno 1974 - Il battipalo MARTIN ormeggiato alla boa nel porto di Como in predisarmo. Caratteristiche tecniche Purtroppo, malgrado le mie continue ricerche, non ci sono biografie dei battelli battipalo del lago di Como, salvo quelle per la TREMEZZINA; e sì che tutti i pontili costruiti dalla fine dagli ultimi lustri del 1800 al 1979 sono la testimonianza del notevole lavoro svolto da queste unità, nemmeno nelle memorie del compianto capitano Armando Sberze, vera enciclopedia della storia dei battelli del lago di Como. Pertanto tutte le informazioni che tenterò di dare di seguito, sono frutto dei miei ricordi visivi di gioventù e delle informazioni raccolte (bocca - orecchio) dagli anziani “lagheè”, passati all’Oriente Eterno ormai da decenni. Le due fotografie da me fatte nel giugno del 1979, riprendono il MARTIN a Como ormeggiato alla boa in diga, ormai prossimo al disarmo, dopo quasi settant’anni d’intenso servizio. Il MARTIN venne progettato e costruito all’inizio del 1900, secondo alcuni, dall’allora direttore della Soc. Lariana ing. Campiglio, che, per le nuove esigenze di logistica, necessitava di un mezzo atto sia alla costruzione dei pontili, sia come nave officina vera e propria per gli interventi che oggi chiamiamo “di pronto soccorso” della numerosa flotta del Lario. adibita a magazzino; la parte centrale ad alloggio dell’equipaggio con brandine, una mini cucina a carbone e alcune suppellettili; la parte di poppa alloggiava un motore a testa calda a petrolio con inserimento manuale della Motorizzazione Merita un cenno storico il MOTORE A TESTA CALDA Questo tipo di motore, l’antisegnano per eccellenza del motore Diesel, lo si può definire come MOTORE SEMIDIESEL (1906/1908). Era un motore alimentato a petrolio o a olio combustibile pesante, nel quale l’introduzione dell’aria è separata da quella del combustibile, come nei motori DIESEL, ma la compressione della prima è mantenuta tra limiti molto più bassi, sicché per ottenere l’accensione della miscela combustibile si rende necessario la aggiunta di un sistema di accensione il quale si riduce a un semplice artificio: riscaldare la testa del cilindro con una “lampada svedese” detta, in gergo tecnico franco-milanese, “salumò”, che non è altro che una lampada a saldare a vapori di benzina in pressione. Qualcuno di Voi si ricorda i famosi fornelli a petrolio “PRIMUS”? L’avviamento di questo motore, classificabile come un “ 2 tempi”, avviene girando a mano l’albero motore in modo da portare il cilindro in compressione, con una rotazione, di senso opposto alla normale, e senza che lo stantuffo raggiunga il punto morto superiore. Fatto ciò, si aziona a mano la piccola pompa del Novembre 1941 - Impegnato nel ricupero del BRUNATE affondato a Bellagio. Scafo Era a fondo piatto, con la prua assai profilata ma con la poppa squadrata per conferire allo scafo una buona stabilità, inoltre la sua struttura era surdimensionata per sopperire alle notevoli sollecitazioni cui veniva sottoposto. Il pescaggio era quasi di due metri. La cala di prua che impegnava un terzo dello scafo, era 31 Ve lo garantisco, non ho più mangiato una polenta così saporita! Per concessione particolare ci versarono mezzo bicchiere di un profumato vino rosso prodotto dal parroco di San Giovanni di Bellagio. Gennaio 1947 - Impegnato al ricupero del BARADELLO affondato ad Abbadia Lariana dagli aerei alleati il 27 gennaio 1945. combustibile, ottenendo uno spruzzo di petrolio o di olio combustibile che, bruciando a contatto della calotta della testa, precedentemente riscaldata dalla lampada a benzina, produce l’esplosione e fa partire il motore. Una volta partito, il motore viene alimentato con un semplice carburatore a caduta. Era quanto di più spartano esistesse allora, ma tanto il battipalo non necessitava di una gran velocità. Erano motori monocilindrici, di potenza inferiore ai 25 CV, e con un numero di giri assai basso. La loro semplicità e robustezza caratterizzava una affidabilità notevole. Argano L’argano e il gruppo frizione che comandavano il martinetto, erano sistemati sopracoperta. Non ho notizie del tipo di motore ma so certamente che era un diesel di provenienza automobilistica, adattato alla bisogna dalle capaci maestranze della Lariana. Organo di governo Il timone era diretto, comandato da una semplice barra di governo, esposto ai quat- 32 tro venti, poiché una cabina di comando sarebbe stata d’intralcio alla movimentazione dei lunghi pali. Equipaggio Era composto di cinque unità, il caposquadra facente funzione di comandante, il motorista e tre operai poli funzioni. Mi ricordo sempre con simpatia di loro, per la loro abilità e affiatamento e, perché, malgrado una parvenza di un carattere burbero, avevano un cuore d’oro. A tale proposito vi racconto un fatto: era settembre inoltrato ed erano dovuti intervenire d’urgenza per ripristinare una palificazione d’appoggio adiacente al pontile. La giornata era stupenda e a noi nullafacenti non pareva vero dell’insperato diversivo. A un certo punto ai quattro della mia banda, io, il Miro, il Ras Malugheta e il Pagnottella venne un’idea: andare a rubare della frutta sui piani di Rogaro e portarla all’equipaggio. Ipso facto partiamo e nel giro di poco tempo riempiamo un capace paniere di uva, fichi, pesche tardive, pere e mele. Ritornati alla base, ci rechiamo a bordo del battipalo mentre ferveva il lavoro, ac- colti dagli urlacci degli operai preoccupati della nostra incolumità. Avviciniamo il capo, detto Negus, e gli consegniamo il paniere con la frutta. Tutti restarono senza parola, tanto era la sorpresa. Dai loro occhi capimmo che erano commossi. Il capo allora ci disse: andate a casa e avvisate le vostre mamme che oggi verrete a mangiare con noi la “pulenta vuncia” e i “bastardelli” (specie di cacciatori della Tremezzina). Il motorista che aveva anche la funzione di cuoco, liberata la fucina dagli attrezzi, piazzato un trespolo, vi appese un capace paiolo di rame per riscaldare l’acqua della polenta. Con consumata abilità, quando l’acqua cominciò a bollire vi versò la farina mista di granoturco e farina facendo attenzione che non si formassero i “frati”. A due terzi dalla cottura aggiunse un mezzo chilo di burro, altrettanto formaggio magro di Rogaro, un tocco di Gorgonzola e continuò a rimestare il tutto sino a fine cottura. Apparecchiata una tavola spartana sulla tuga del motore, con al centro due bei bottiglioni di vino, il capo riempì i nostri piatti e i loro. Procedura di piazzamento del palo Cerco di descrivere come si svolgeva il lavoro: - I pali da sostituire, normalmente pini di Slavonia, approvvigionati in Tirolo, lunghi dai dieci ai quindici metri; venivano trainati dal battipalo; - Giunti sul posto di piazzamento, venivano issati a bordo per l’applicazione a una estremità di una puntazza e all’altra, di un anello di contenimento battitura, entrambi forgiati con la fucina di bordo; - Si procedeva quindi a sfilare il palo avariato, imbragato con una fune d’acciaio e tirandolo con l’argano del martinetto; - Determinata la posizione idonea, si cominciava a rizzare il palo nuovo utilizzano la torre di prua o quella laterale secondo la bisogna; - A questo punto s’iniziava con la massima circospezione a battere il palo col martinetto facendo la massima attenzione che la punta non incontrasse qualche grosso masso che ne impedisse la penetrazione e rovinasse di conseguenza la puntazza. I due addetti alla torre, si regolavano che la penetrazione del palo, a ogni colpo del martinetto, fosse regolare altrimenti ne bloccavano immediatamente la battitura. Era un lavoro di una squadra affiatata, reso ancor più difficile dall’ancoraggio del battipalo e soprattutto dall’accostamento continuo dei battelli di linea che interrompevano il lavoro. - Ovviamente questo lavoro non poteva essere eseguito con il lago mosso. Alcune volte, specie se la sostituzione del palo avveniva in alta stagione, il lavoro si effettuava anche di notte e con la pioggia. Ercole Pollini Repertorio Gastronomico Milanese La gloriosa storia dei crauti Dalle memorie culinarie di mia nonna Ester (classe 1865), riporto questa ricetta milanese per cucinare il cavolo bianco e quello rosso, retaggio della dominazione austriaca a Milano, verdura che si accompagna solo al “cotechino” e, di riflesso, alle “luganeghe” brianzole, ovviamente, dal tardo ottobre all’inverno. Un po’ di storia è di pragmatica: …È superfluo ricordare la grande diffusione che hanno i crauti (il “Sauekraut” degli Austriaci, la “choucroute” dei Francesi e dei Belgi) in tutta l’Europa, e specialmente in quella centrale e occidentale. La fama dei crauti è antica e con molta probabilità la preparazione di questa peculiare del cavolo (bianco e rosso) è mediterranea e anzi latina. Il nome tedesco del cavolo, Kohl, deriva dal nome latino coulis, e la parola popolare kumpost, ancora usata in alcuni villaggi della Germania per designare i crauti, proviene dal vocabolario latino compositum col quale si classificavano tanto le olive conservate in una particolare salsa, quanto i cavoli fermentati e conservati. La parola tedesca “sukrut” (crauti) compare nelle cronache tedesche verso il II° secolo. In tutto il Medio Evo ai cavoli si è attribuito non solamente il significato di un buon ortaggio alimentare, ma anche quello di un ortaggio a carattere medicamentoso: e un vecchio proverbio popolare germanico diceva appunto che il cavolo cura la pelle dei giovani. Nel 1610 il medico Ippolito Guarinoninus in una sua nota opera indica i crauti come un ottimo sussidio diuretico. Nel periodo delle esplorazioni e dei viaggi oceanici (e cioè nel periodo susseguente alla scoperta dell’America) i crauti assumevano una grande importanza come materiale antiscorbutico, materiale che era possibile caricare a bordo delle navi in quantità grande. Ogni nave cercava di procurarsene masse notevoli prima di intraprendere un viaggio di lunga durata e ancora verso la metà del XVIII secolo lo scorbuto compariva con relativa frequenza negli equipaggi inglesi per l’incuria nel preparare l’adeguato carico di crauti, mentre non faceva la sua apparizione sulle navi olandesi rifornite del benefico ortaggio conservato. Del resto i navigatori di ogni paese conoscevano l’importanza dei crauti (che in ultima analisi costituivano la sola forma di ortaggio conservato in un’epoca nella quale era ignoto l’impiego del freddo e di altri conservativi) e Cook nel suo viaggio circumterrestre caricò in partenza 80 t. di crauti e gli ufficiali ne mangiavano ogni giorno per dare il buon esempio agli equipaggi. Nel primo ventennio del secolo scorso, la scoperta della vitamina contenuta in quantità e in modo vario (Vitamina B1, B6, A, C, ecc.) nel cavolo ha finito per nobilitare completamente il cavolo e i crauti. Ingredienti (per quattro persone) - un cavolo cappuccio (più gustoso quello rosso) del peso di 1 kg 30 g di burro 150 g lardo venato o, meglio, parte grassa del prosciutto crudo n° 3 cucchiai di olio d’oliva extra vergine n° 4 scalogni (in mancanza, cipolla bianca) 100 cc di vino bianco 100 cc di aceto di vino bianco brodo di carne o vegetale q.b. aromi: timo, due foglie di alloro, alcune bacche di ginepro sale qb Preparazione Eliminare dal cavolo le foglie esterne - tagliare a metà il cavolo - eliminare il torsolo - tagliate le foglie a piccole strisce e metterle a bagno nell’acqua per almeno un’ora, indi, scolarle accuratamente. Mettere in una casseruola: il burro, il lardo o il grasso di prosciutto crudo dopo averlo spappolato bene con una mezzaluna, l’olio d’oliva, lo scalogno tagliato assai finemente e rosolare il tutto a fuoco moderato. Quando lo scalogno comincia a imbiondire, aggiungere le striscioline di cavolo, farle stufare sempre a fuoco moderato (non devono assolutamente essere “gremate” - inizio di bruciatura, - altrimenti sarebbero da buttare) mescolandole continuamente. Appena appassite, aggiungere il vino bianco e farlo sfumare a fuoco leggermente più alto. Indi riabbassare il fuoco, aggiungere l’aceto, mescolando bene, gli aromi, salare quanto basta e portare a cottura con del brodo che va aggiunto gradatamente. Cuocere col fuoco al minimo per almeno due ore. I crauti possono essere serviti caldi o tiepidi con il cotechino o le salamelle, che sono di pragmatica. 33 Antonio Aràneo Zanzare Un raffinato è uno capace di sbadigliare senza aprire la bocca. (J. Garland Pollard) Un gentiluomo è uno capace di descrivere Sophia Loren senza fare gesti. (M. Audiard) In Italia vi sono oltre cinquanta milioni di attori. I peggiori sono sul palcoscenico. (Orson Welles) Gli attori recitano nella speranza di fare l’amore. Le attrici fanno l’amore nella speranza di recitare. (D. Formica) L’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma è anche l’unico ad averne motivo. (Mark Twain) Una volta si diceva: ti amerò tutta la vita. Ma allora la vita media era di 45 anni. Oggi è meglio non sbilanciarsi. (L. De Crescenzo) conto in banca non può essere brutto. (Zsa Zsa Gabor) L’amore è fisica, il matrimonio è chimica. (A. Dumas f.) L’amore è cieco, ma il matrimonio ci dà la vista. (Georg C. Lichtenberg) Gli uomini nascono liberi e con uguali diritti. Poi, purtroppo, molti si sposano. (Marcel Jouhandeau) Io le ho chiesto di sposarmi, e lei mi ha detto di no. E da allora viviamo felici e contenti. (Spike Milligan) La felicità di un uomo ammogliato dipende dalle donne che non ha sposato. (Oscar Wilde) Certamente ci sarebbero meno mariti traditi se si abolisse il matrimonio. (J. A. L. Commerson) Gli uomini hanno soltanto due cose per la testa. La seconda è il denaro. (Jeanne Moreau) Il matrimonio riduce i nostri diritti e aumenta i nostri doveri. (Alexander G. Bell) Queste donne impossibili: non si può vivere né con loro, né senza di loro. (Aristofane) Un uomo che parla male del matrimonio, o non ha avuto la donna che desiderava, oppure l’ha avuta. (Jacques Marchand) Le donne sono nate per soffriggere. (G. Boncompagni) Un uomo con un grosso 34 Dobbiamo sposare soltanto donne belle, se vogliamo che poi qualcuno ce ne liberi. (Sacha Guitry) La moglie al marito: Caro, cosa preferisci: una donna bella o una donna intelligente? - Nessuna delle due, cara. Ti amo così come sei… (L. Chicchi) - Ci sono due posti dove, più che altro, mi piace esser baciata. - Quali? - Venezia e Sorrento. (Gino e Michele) Le mogli sono come le scarpe: quando cominciano ad andar bene sono da buttar via. (L. Antonelli) Dicono che Orfeo scese fino all’Inferno per cercare la moglie scomparsa. Tutti i vedovi che conosco non andrebbero neppure in Paradiso per ritrovare la loro moglie. (N. De Lanclos) Gli atei non dovrebbero avere l’osso sacro. (R. Gomez de la Serna) - Pierino, fammi un esempio di un verbo al presente e un altro all’imperfetto. - Sì, un esempio è mio zio, che si chiama Guido; l’altro è mio cugino, che si chiama Gustavo. (L. Chicchi) Se son fiori, fioriranno. Se son more, moriranno. Se son cachi, … (L. Chicchi) CERAMICHE • PARQUET • GRANITI • PIETRE • MOSAICI • MARMI • ARREDOBAGNO • SANITARI • RUBINETTERIE • BOX DOCCIA • VASCHE IDROMASSAGGIO • SAUNE • CUCINE • Lo Showroom Caimi è aperto per voi !! Tutti i giorni fino alle ore 19.00 Il Sabato fino alle ore 18.00 Il Giovedì apertura straordinaria fino alle ore 21.00 !! Caimi International Via Adamello,37 • 20824 Lazzate (MB) • Tel . +39 02 96720500 r.a. 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