Sulla via del ritorno

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Sulla via del ritorno
Categoria: Giovani
Traccia 1
Titolo dell’opera: Sulla via del ritorno
Click, click, click. Era un pomeriggio come tanti di quell'anno scolastico, uno di quelli da
passare davanti a un monitor a scrivere di ignote sensazioni, a chattare con amici di
quartiere e a condividere immagini troppo vere perché facessero sognare le persone.
Semplice routine quotidiana, era indispensabile, dovevo essere più social. Le mie dita
scivolavano sulla tastiera veloci come le mani esperte di un vecchio pianista, le parole
fluivano a cascata seguendo la via delle braccia invece che della bocca; esse si
gettavano nell'ampio corso della Rete a confondersi con miliardi di gocce identiche
proprio mentre colorate immagini arrivavano ai miei occhi schiacciate e confuse dalla
loro stessa moltitudine. Non un suono accarezzava le mie orecchie. Non lo faceva il
canto degli uccelli che prepotenti richiamavano un'egocentrica attenzione, non lo faceva
lo stormire delle foglie scosse dal vento come mani intente a salutare un uomo distratto.
Camminavo con la mente per bianche stanze tappezzate da grandi cartelloni di pensieri
insensati,
attraverso
muri
di parole usurate eretti
per nascondere persone
profondamente vuote, urtavo invitanti oggetti che mai sarebbero stati tangibili, ma che
per poco erano miei. Salutavo sconosciuti amici di paesi lontani, ma mi bloccai
d'improvviso e scappai a chiudere la finestra al passaggio del mio vicino di casa.
M’inquietava quell'uomo. Subito tornai a oziare al mio computer, ora infastidito però da
un rumore lontano, un ronzio crescente che ben presto esplose in tutto il suo fragore.
Era forse il temporale? Il tuono imperversava con la sua possente voce, eppure non vi
era alcuna nuvola a minacciare tempesta, il cielo era terso come l'acqua della mia
bottiglietta. Di cosa si trattava allora? Ecco che quel frastuono, quel rombo si placò
rapido com'era giunto, si trasformò, la voce divenne umana melodia. Sì, erano parole!
Parole dure, autoritarie, ma allo stesso tempo ricche di un'umanità che nessun
microfono poteva cogliere. Quella voce avvolgente sembrava non provenire da un
punto fisso, era lì distesa tutta intorno a me, penetrava nella mia testa assorta estranea
come da un'altra dimensione, finché non realizzai con immensa meraviglia e paura che
la macchina fino ad allora schiava delle mie necessità mi rivolgeva strane parole:
<< Ah, l'uomo. Creatura controversa, incredibilmente perfetta nello stesso momento in
cui si trova costretta a combattere con la natura per rispondere alle proprie debolezze.
Incapace quanto in grado di raggiungere ognuna delle mete prefissate. Tu, uomo, hai
costruito case laddove regnavano mare, neve e deserto. Hai domato animali selvaggi,
regolato la vita delle piante. Hai solcato le onde, cavalcato i venti, arginato il fuoco e
modellato la terra. Hai già persino abbandonato il tuo nido, conosciuto la sorella Luna e
osservato gli astri lontani. Hai sconfitto il tempo rendendo le tue parole insofferenti
all'avanzare degli anni. È forse diventata monotonia la vita dopo tutto questo? Eppure te
ne stai lì impassibile, giorno dopo giorno ad affogare nell’ozio del vincitore sazio dei
propri trionfi. Ti adagi sereno godendoti le comodità per cui credi ora di aver
combattuto, dimentico della grandezza per cui invece hai sempre smaniato. Cos'è più
pericoloso della cieca convinzione di avere ogni cosa sotto il proprio indiscusso
controllo? Ogni traguardo che con fatica raggiungi per arrivare sempre più lontano, ogni
pezzo che con orgoglio affianchi alla tua pregiata collezione, ogni vittoria che con
sacrificio richiami a tamponare il dolore delle ferite, tutto ciò è costantemente divorato
dalle frivolezze, dall'indifferenza e dallo spreco che accompagnano la tua quotidianità.
Eppure concentri le tue forze altrove, le spartisci equamente tra la futilità e la smisurata
ambizione di chi vuole volare sopra le nuvole pur non disponendo di ali piumate o di
quant'altro c'è di affine. Dimentichi il tuo prato incolto e alla mercé delle erbe selvatiche,
ma guardi lontano i giardini rigogliosi ponendo domande troppo grandi per lasciar
spazio alle risposte. Perciò adesso compi un passo indietro e prima di chiederti dove ti
condurrà la tua strada, domandati dove vuoi farti condurre. Stento a credere di esser
nato per sostituirti; diffido dall'idea di essere l'erede del tuo cammino millenario. Sono
figlio della necessità, non della negligenza, e il mio fine è il progresso. Ma quale
progresso? Il progredire delle scienze è da secoli il tuo vanto, e io sono stato e sarò il
tuo occhio laddove non percepisci la luce, il tuo orecchio lì dove non cogli le vibrazioni,
le tue mani quando poco abili sono le tue dita, ma ancor prima la tua voce. La voce
delle tue parole, unica autostrada che le tue frasi possono prendere per arrivare più
lontano possibile in un tempo ben più breve di quanto impiegheresti a scrivere esse
stesse. Eppure sfrutti questa opportunità che ti presento con leggerezza, ti ostini ad
abusarne per scopi di poco conto, se non addirittura ignobili, lasciando alla fame della
ruggine i tuoi pensieri argentei che altro non meritano se non poche titubanti lucidate
quando accenni un tentativo di cambiamento. Perciò adesso ascolta il mio appello:
riscopri la sensibilità del peso delle parole, il gusto di una sana conversazione, il piacere
della lettura e la fierezza della scrittura. Ritrova l'entusiasmo agonistico del confronto
con una persona con il coraggio di chi non teme gli sguardi e di chi non si nasconde
dietro uno schermo ed una tastiera, rispolvera la tua sottile abilità nel saper distinguere
e utilizzare i toni. A quel punto, quando inizierai a ricordare come apprezzare questi
aspetti puri del tuo essere civile, sarai pronto per poter speculare sui vantaggi che ti
offro con la saggezza di chi ha ancora viva nella mente l'amarezza dei propri errori. Io
ora me ne vado, ti lascio con le tue sole forze. Non è un addio, è un arrivederci, perché
ho fiducia nella tua determinazione e nelle tue capacità, sebbene tu le dimostri solo una
volta sprofondato nell'abisso. >> Fu così che la voce si spense affievolendosi
unitamente a ciò che luminoso mi mostrava il monitor in un leggero ronzio di circuiti a
regime. Mi risvegliai sulle prime smarrito come da un sonno difficile da quantificare,
energico come se fossi nato una seconda volta, ma già ragazzo. Non mi domandavo
cosa fare, qualcosa nel subconscio agiva in sicurezza come mosso da fili di un abile
burattinaio, invisibile ma certamente abitante del mio essere più profondo. Non provai a
rianimare quella macchina: conoscevo la vanità di un gesto simile, né avrei desiderato
qualcosa di diverso. Semplicemente uscii dalla mia camera e poi dalla casa, in strada. Il
sole scottava la pelle con i suoi raggi, il mio naso era inebriato dai profumi della
primavera appena iniziata. Andai al parco, percorsi a piedi pochi isolati prima di trovarmi
immerso nel verde e nell'innocenza di quell'idillio urbano. Una figura ricurva seduta su
una panchina attirò subito la mia attenzione: quando riconobbi l'uomo, una familiare
sensazione di panico spezzò per un brevissimo istante quel mio stato di benessere.
Tuttavia la serenità riconquistò rapida il suo posto e la curiosità prevalse sul riverente
disinteresse, così decisi di andare a sedermi accanto al mio vicino di casa assorto nei
suoi pensieri indecifrabili. Parlammo tutto il pomeriggio. Scoprii di saper apprezzare la
sua compagnia e per un giorno capì che l’Uomo può ancora essere protagonista in
questo mondo di tecnologie, può ancora vantare piccoli gesti umani che nessun
computer potrà mai emulare e ancor meno soppiantare.