Vittorio Sgarbi “Dare una mano al sole”

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Vittorio Sgarbi “Dare una mano al sole”
Vittorio Sgarbi
“Dare una mano al sole”
Presentazione catalogo “La poesia si fa immagine” Pinacoteca Comunale Imola - 2000
“Dare una mano al sole”. E’ questo il ruolo nel quale Tonino Gottarelli, poeta con le parole e con i
pennelli, riconosce la propria identità di pittore, individuando in essa il senso più autentico della propria arte. Un ruolo
che, per chi non conosce Gottarelli, potrebbe sembrare di ambizioni titaniche, da novello Prometeo dei nostri giorni. E’
invece una cotidiana oratio di francescana umiltà, una filosofia non dei cieli, ma della terra e per la terra che è
strettamente imparentata col più umano dei sentimenti della natura.
Dare una mano al sole significa, nel linguaggio dolce e suggestivo di Gottarelli, “togliere le cose dal
buio”, guardare oltre quanto ci concede la vista fisica, cercare il profondità la loro sostanza sotto l’aspetto più esteriore.
Dare una mano al sole significa guardare con gli occhi dell’anima. Sono ormai cinquant’anni che Gottarelli guarda e
dipinge con gli occhi dell’anima, facendo di questa esperienza un motivo di vitale necessità non solo per la propria arte,
ma anche per la propria esistenza. Non ha bisogno Gottarelli, di guardare Caspar Friedrich per concentrare la propria
riflessione sulla natura, allo stesso tempo esistenziale ed estetica.Non ha bisogno dello shock emotivo che genera la
cognizione del sublime per interrogarsi sui massimi sistemi.
La natura di Gottarelli, così apparentemente semplice, così comune nella sua omologazione alla
semiologia della civiltà moderna (i cartelli stradali, i pali della luce che campeggiano in tanti dipinti dell’artista), così
lontana da qualsiasi ragione di inquietudine, sembrerebbe definire quasi una dimensione dell’anti-sublime rispetto a
quella dei paesaggisti romantici. Ma sarebbe una contrapposizione, questa fra sublime e anti-sublime, che rischierebbe
di creare fratture fra Gottarelli e i suoi teorici precedenti.
Perché alla fine Friedrich e Gottarelli, anche per strade diverse, hanno un obiettivo comune: replicare
un’esperienza vitalistica di primaria importanza per l’uomo, quella che dalla percezione sensoriale della natura porta
all’individuazione della sua essenza.
L’originalità di Gottarelli sta nell’avere rinunciato a ogni preconcetta religione della natura per poter
sperimentare il suo sentimento anche negli aspetti più comuni, proprio perché contrapposti al sublime romantico.
Troppo facile, in un certo modo, commuoversi davanti allo spettacolo di una cascata fra i boschi, di un maestoso rudere
gotico al crepuscolo o di un mare di ghiacci in di scioglimento.
Sono “effetti speciali” che rispondono a percezioni della natura in condizioni di assoluta eccezionalità, mentre invece la
natura di Gottarelli è assai meno “speciale”, ma sempre in grado di farci vivere sensazioni nuove.
Ed è in questa esplorazione dei misteri dell’ordinario che Gottarelli pone le proprie perlustrazioni
pittoriche: Si potrebbe pensare che la pittura di Gottarelli possa presentare qualche consonanza con quella di Giorgio
Morandi, con l’universo in una stanza di via Fondanzza che tutti noi conosciamo e che analogamente non prevede
alcuna presenza umana. Che Gottarelli e Morandi siano interessati all’essenza delle cose, allo “spirito” del mondo
piuttosto che alla apparenza, è vero; rimane però profondamente diverso il processo attraverso il quale i due artisti
intendono mostrarsi. Morandi non si confronta direttamente con la natura, costruisce a tavolino ipotesi di mondi
metafisici con i quali conferisce uno spessore di sostanza assoluta alla banalità apparente di alcuni oggetti d’uso
quotidiano. Gottarelli invece trova direttamente la sua ipotesi di mondo in corpore vivi, affrontando la natura sul suo
stesso terreno, senza ricostruzioni arbitrarie, senza miracolose “divinizzazioni”. Morandi lascia chiuse le finestre del suo
studio e dipinge nature morte, Gottarelli le apre e dipinge nature vive; Morandi aspira a un tempo senza tempo,
Gottarelli fa i conti con il proprio.
In fondo le parentele artistiche più convincenti di Gottarelli risalgono alla grande tradizione del
Naturalismo lombardo, alle sue varie manifestazioni dal tardo Ottocento al Novecento, trovando comunque nel
colorismo post-impressionista di De Pisis, già predisposto genericamente alla visione lirica, e nell’esistenzialismo di De
Stael, ai confini fra figurazione e astrazione, i termini di paragone probabilmente più plausibili.
Gottarelli è un esistenzialista sereno, non tormentato dal dubbio o dal vortice delle passioni, un poeta
quasi involontario che si limita a registrare in pittura quello che i suoi occhi e la sua anima “provano” sulla natura. C’è
una perfetta aderenza fra esperienza sensoriale e tecnica in quelle stesure cromatiche dense e irregolari, cariche di un
profondo vigore interiore, che caratterizzano le sue immagini non come consuete riproduzioni, ma come impronte,
come calchi. Gottarelli ci chiede di assecondarlo, di entrare nel suo cosmos, nei suoi frammenti d'infinito che riesce a
catturare sui prevedibilissimi cigli di una strada, dietro un ironico segnale di pericolo che avvisa di improbabili
preoccupazioni. Ci promette in cambio un’esperienza estetica che è innanzitutto esperienza di vita, in un mondo sempre
più lontano da certi piaceri primari, sempre più conosciuto attraverso la meditazione della fotografia, del cinema, della
televisione, del computer, sempre più insensibile alla purezza degli occhi e dell’anima.