AS Ivan Ieri - Comune di Marudo
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AS Ivan Ieri - Comune di Marudo
Fuori dallo schermo Out. Tagliato fuori, espulso, esiliato. Certo, la mia condotta non è mai stata impeccabile. Molti hanno spesso segnalato diversi miei interventi un po’ troppo spinti, giudicandoli offensivi. Ho sempre preferito dichiarare apertamente le mie posizioni, anche quando agli occhi dei più poteva sembrare inopportuno affiggerle in bacheca. Però questo non basta. Piuttosto avrebbero potuto bannarmi, la legge qui prevede questo, almeno per quanto riguarda gli utenti dai comportamenti più osceni o volgari. Eppure non mi sembra di essere arrivato a tanto. Magari mi sbaglio, forse non si tratta di una condanna. Forse è colpa di un virus. Oppure di un software non aggiornato. Boh. Non me lo spiego. È strano. Di solito ci metto pochi secondi a tirare le fila di un problema: è sufficiente rivolgere la domanda ad un qualsiasi motore di ricerca e la risposta, da qualche luogo nel mondo, arriva sempre, puntuale, esauriente. Mi sento completamente spaesato, privo di risorse. In che razza di posto sono finito? Sospeso in uno stato di confusione per qualche minuto, sono poi riuscito ad osservare la situazione con uno sguardo più lucido. D’altra parte la mia provenienza mi permette di avere gli strumenti necessari per analizzare qualunque tipo di caso, sebbene il mio – devo ammetterlo – non conosca precedente alcuno in nessuno degli storici registrati. Primati a parte, la situazione è questa: non è chiaro il perché, né come ci sia arrivato, ma sono stato gettato nel mondo fisico, reale. Mi trovo dall’altra parte dello schermo. Forse un umano in carne ed ossa ha esagerato smanettando al pc con qualche programma complicato fino a riuscire ad estrarmi dal mondo virtuale. O forse sono finito qui senza ragione alcuna. In ogni caso, ora non sono più l’user astratto di un social network, avatar fatto di pixel e smile confezionati, ma un essere vivente tridimensionale, in grado di muoversi, respirare, parlare. Mi tocco le dita delle mani, una ad una. Passo al palmo, poi direttamente al viso. Ispeziono con i polpastrelli i contorni del volto, le palpebre, le labbra. Percepisco lo spazio dentro e fuori di me. È una sensazione stranissima. Ovviamente so benissimo di cosa si tratta: nel mondo virtuale, ogni cosa del mondo empirico è documentata con la massima cura ed estensione. Ma si tratta di un’estensione meramente categoriale, descrittiva, unidimensionale. Scoprire che le stesse cose possono avere sostanza e forma concreta ti fa sentire come un piccolo Platone, che dalla perfetta esemplarità del mondo delle idee si trova a fare i conti con i rispettivi simulacri della realtà fisica. Ora, qui tutto sembra più grande e più piccolo allo stesso tempo. L’estensione nello spazio e nel tempo dà al mio corpo e agli oggetti che mi stanno intorno uno spessore e un’importanza prima sconosciuti, ma l’interdizione e il mistero che le cose sembrano avere addosso, rispetto all’immediata esaustività virtuale che permetteva di inquadrare subito tutto nei minimi dettagli, le rende più sottili, sfuggenti, come se opponessero alla percezione una resistenza all’accesso della vasta complessità che le contraddistingue. Provo ad emettere dei suoni, prima solo vocali poi qualche parola. È straordinario. Mi ricordo di una canzone ascoltata su youtube e postata diverse volte sulla mia bacheca. Inizio a cantarla, prima sottovoce, poi, man mano che prendo confidenza con le corde vocali, sempre più forte. Mente il canto prosegue, sento un’energia particolare attraversare tutti i muscoli del mio corpo, che inizia a sciogliersi e, lentamente, a improvvisare una piccola danza. Ritrovo nella voce e nel corpo i canali di un linguaggio autentico e insostituibile, i mezzi espressivi di una forza liberatoria e originale. Ma si capisce che non sono un granché abituato. In un secondo sono già inciampato e mi ritrovo col sedere a terra. Sorrido. Sento un grande sollievo. Quello che fino a qualche minuto prima avrei tradotto accostando due punti e una parentesi nello spazio di una chat prende forma in una risata scomposta e divertita. Il mondo di fuori, ora, è molto più grande di come lo immaginavo prima. Cammino per una strada deserta, e mi sento come un bambino. Ogni cosa attorno si presenta ai miei occhi in un abito completamente rinnovato, con una bellezza rinvigorita. Entro in locale e subito mi vedo circondato da una folla variegata. Ecco dov’erano tutti. Gente di tutte le età che conversa animosamente, che brinda con grossi boccali, che scherza o litiga. Osservo gli uomini uno ad uno, con cura, ed è come essere attraversati da una scarica elettrica. Un tizio mi sembra di conoscerlo, forse l’ho incrociato su qualche social network. Ma poi è sufficiente che noti uno sguardo, qualche parola accompagnata da una gestualità particolare, un piccolo tic nervoso dell’occhio, e quell’utente, che davo per scontato e credevo di aver inquadrato a sufficienza grazie a qualche foto, alle amicizie in comune e agli interessi elencati su una pagina, si trasforma in una presenza del tutto sconosciuta. Diventa interessante. Ripenso un attimo alla mia vita sociale nel mondo dentro la rete, alla stratificatissima quantità di contatti coi quali intrattengo rapporti più o meno quotidianamente. Credo sia una cosa eccezionale riuscire a comunicare con così tanti utenti contemporaneamente e spesso così lontani tra di loro. Le mie amicizie in Australia, in India, in Finlandia, per esempio, che difficilmente riuscirei a mantenere salde nel mondo reale, mi sono sempre sembrate una grande risorsa, per incentivare e nutrire uno sguardo interculturale e allargare il proprio orizzonte sul mondo. Ho sempre ritenuto la mia socialità più ricca e appagante di quella possibile per un uomo in carne e ossa, limitata dalle distanze geografiche, dai percorsi di vita individuali, dal caso. Eppure adesso mi basta soffermarmi sull’espressività di uno soltanto dei soggetti che mi circondano in questo bar per ricevere la sorpresa di un arricchimento relazionale molto più forte e sfaccettato. Mentre mi chiedo come dev’essere intrattenere una conversazione, la vedo. Seduta al bancone, china, con un bicchiere di vino davanti. Bellissima. Mi sembra di non aver mai visto una ragazza così bella. Le ragazze migliori che avevo incrociato virtualmente erano tali grazie alla pubblicazione online di set fotografici particolarmente riusciti. Molto spesso era il dettaglio a fare la differenza. Qualcosa di particolarmente appetibile che forse nella realtà nemmeno esisterebbe veniva ricercato artificialmente e accentuato sulla foto grazie all’aiuto di qualche manipolazione grafica. Ma quello che ho davanti agli occhi ora è completamente diverso. Non c’è nessun dettaglio che prevale sugli altri, né è una particolare posa, o luce, o inquadratura, o un outfit azzeccato a rendere meravigliosa questa ragazza. La sua bellezza non sta tanto nel fermo immagine, nel fascino di un ritratto immobile e sospeso nel tempo e nello spazio, ma nella complessa dinamicità di un corpo che si muove, che gioca con le dita con il bordo del bicchiere, che esita quando il barista la incalza con una domanda, che sposta ciuffi di capelli timidamente, che incrocia il mio sguardo e subito lo abbassa, come fosse una cosa proibita. Tutto questo lo trovo incantevole e, soprattutto, inedito. Quello che la rende irresistibile è che lei è là seduta davanti a me, e che qualche piccolo gesto del suo corpo in relazione allo spazio intorno incatena, per qualche ragione che non riesco a spiegare, la mia attenzione. La bellezza della presenza, del qui ed ora, va a sostituire la presenza della bellezza in qualche scatto fortunato. Faccio due passi timidamente e mi siedo sullo sgabello accanto al suo. Sento che è il momento giusto per cominciare a scambiare due parole nel nuovo mondo ma qualcosa come un bavaglio attorcigliato attorno allo stomaco sembra frenarmi e tirarmi lontano dal mio intento. Ho paura. Certo, non mi sono ancora relazionato direttamente con nessuno qui, e forse si tratta anche di una specie di ansia da prima prestazione, ma non credo sia solo questo. Quello che mi trattiene, sento, è proprio l’idea dell’approccio con la ragazza. Se la presenza del suo corpo la percepisco come elegante seduzione, la presenza del mio riesco ad avvertirla solo come ostacolo ingombrante. Abituato ad approcci anonimi e sicuri, preservati dai rischi di un contatto diretto, e in cui basta chiudere la pagina per superare un ipotetico momento di imbarazzo, sento che qui devo mettermi in gioco totalmente per potermi relazionare, che devo espormi. Mi faccio coraggio e azzardo un esordio. “cm va?”. Lei mi guarda un po’ interdetta inarcando le sopracciglia. Mi rendo subito conto che qualcosa è andato storto. Le mie parole sono evidentemente uscite in un modo diverso da come le avevo pensate. Mi convinco però che si tratta soltanto di una mia impressione plasmata dall’imbarazzo e ci riprovo: “tt ok? Cm mai 6 qui da sola?”. No, niente da fare. Le mie frasi vengono riprodotte con le stesse forme sincopate che utilizzavo nel mio mondo. Mi rendo conto che è difficile abituarsi in fretta e che il divario fondamentale che mi separa dalla realtà concreta è un difetto di origine meramente proporzionale. Qui tutto è come se si presentasse nella sua massima estensione. E non si tratta solo di un’estensione spaziale degli oggetti e delle persone, ma anche delle emozioni, dei comportamenti, delle intenzioni, delle percezioni, del linguaggio appunto, e del tempo più in generale, come catalizzatore di tutte le attività che prevedano un coinvolgimento nel mondo della mente umana. D’altra parte nel mio mondo tutto è tradotto in una forma sintetica e ristretta. È come se a governarlo fosse un supremo principio economico, per il quale bisogna ottenere il massimo col minor spreco possibile, che si tratti di acquisizione di conoscenze, di relazioni, di divertimento, di conversazioni. Nel frattempo la ragazza, come si può immaginare, se n’è andata, senza scontarmi un’ultima occhiata di sdegno. Vedo in compenso avvicinarsi a me un'altra persona. Mi fissa dall’angolo opposto del locale e sembra accennare un lieve sorriso. Ci metto qualche secondo, ma poi capisco che si tratta del ragazzo che poco prima credevo di aver riconosciuto in qualche utente virtuale. Ormai si trova a pochi passi da me, si ferma e mi da un’ultima occhiata come per avere la conferma di qualcosa. Poi si abbassa nella mia direzione: “Marco, che sorpresa! È da un po’ che non ti si vede in giro. Ti sei staccato dal tuo computer finalmente!”. Quel nome arriva come una frustata. Come una scossa che rimette in moto i miei sensi, come se avessero dormito fino a poco prima. Marco. Avevo letto da qualche parte che il nome proprio è la prima forma con cui possiamo aver coscienza della nostra identità, il primo originale marchio di riconoscimento e di distinzione nel mondo. Mi trovo di nuovo in uno stato di shock, come quello di qualche ora prima ma ora tutto torna alla memoria. Un corto circuito e via, la corrente se n’è andata. Ecco cosa è successo stamattina. Non sono l’abitante di un mondo parallelo, ma un appassionato maniacale di computer, nonché studente alla facoltà di informatica. Marco. In un secondo mi passa davanti agli occhi tutto l’ultimo mese trascorso, giorni interi chiusi in casa per lavorare sulla tesi di laurea, tutto il giorno davanti al computer, tutti i giorni. Devo essere stata la vittima di qualche strano transfert psicologico, mi dico, probabilmente mi sono identificato troppo con il mio oggetto di studio. Marco, sì. Scuoto un attimo la testa e la sollevo verso il ragazzo, in cui riconosco finalmente un amico che non vedo da un pezzo e non un soggetto senza nome incrociato da qualche parte sul web. “Ciao Christian”. Smette di guardarmi perplesso, preoccupato per il mio stato confusionale e torna a sorridermi: “Da quant’è che stavi chiuso in casa? Sembra quasi tu abbia visto un fantasma”. Mi dà una pacca sulla spalla e si volta verso il barista chiedendogli due birre. Io sorrido, imbarazzato. Poi sento una strana curiosità. Inizio a chiacchierare con il mio amico, come se non l’avessi mai fatto. Capisco di non averlo mai ascoltato davvero, mi sembra di iniziare a conoscerlo solo adesso.