KIERKEGAARD: ASPETTI BIOGRAFICI E USO DEGLI

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KIERKEGAARD: ASPETTI BIOGRAFICI E USO DEGLI
KIERKEGAARD: ASPETTI BIOGRAFICI E USO DEGLI PSEUDONIMI
a) Aspetti biografici
In un autore come Soren Kierkegaard l’aspetto biografico, seppur apparentemente privo di
eventi significativi, assume un ruolo di primo piano, più che altro per la profonda risonanza
che questi ebbero al cospetto della sua tormentata personalità. Nell’interpretazione che lo
stesso autore dà della sua esistenza, come traspare dal suo Diario, essa sarebbe stata
segnata dal rapporto con tre persone: il padre, la fidanzata Regine Olsen, il vescovo
Mynster. Iniziamo dal primo. Michael Pedersen Kierkegaard, poverissimo pastore di
pecore nello Jutland, che educò il figlio ad una religiosità luterana molto austera, riuscì poi
ad accumulare un consistente patrimonio grazie al commercio della lana. Tuttavia, egli
visse con disagio la sua fortunata ascesa sociale, la quale strideva con la profonda
religiosità che da sempre lo aveva caratterizzato. Oltre a ciò, ad aggravare la situazione ci
fu indubbiamente il lutto che lo privò della moglie. L’uomo si convinse che la sua ricchezza
fosse del tutto immeritata e destinata ad essere ripagata in senso negativo da una sorta di
maledizione in grado di ripercuotersi sulla famiglia stessa. E’ a ciò che Soren fa riferimento
quando parla del “gran terremoto” che sconquassò la sua vita: “ Fu allora ch’io ebbi il
sospetto che l’avanzata età di mio padre non fosse una benedizione divina ma piuttosto
una maledizione (…). Qualche colpa doveva gravare sulla famiglia intera, un castigo di
Dio vi pendeva sopra: essa doveva scomparire, rasa al suolo dalla divina onnipotenza,
cancellata come un tentativo fallito”.
Da alcune allusioni fatte nel Diario (da cui è tratta questa citazione) ci sono due dettagli
della vita del padre, di cui il figlio venne a conoscenza in un momento di ebbrezza Di
costui e che Soren non ebbe mai il coraggio di approfondire: all’origine del castigo
potrebbero esserci o l’imprecazione che l’uomo lanciò contro Dio quando, da adolescente,
aveva dovuto soffrire la povertà nelle desolate lande dello Jutland, oppure, la relazione
che il padre ebbe con la domestica pochi mesi dopo la morte della prima moglie, che fece
balenare nel figlio il terribile sospetto di essere figlio illegittimo. Al di là di queste due
questioni, resta il fatto che Kierkegaard eredita dal genitore l’idea di un contrasto
insanabile tra il successo mondano e la sua compatibilità con un cristianesimo vissuto in
un modo davvero coerente. Perciò il filosofo si considerò come un penitente. La
conclusione del fidanzamento con Regine Olsen, durato circa un anno, avvenne per
volontà di Soren in modo brusco e improvviso, affinché la ragazza, addossando a lui la
colpa della rottura, potesse continuare ancora a credere nell’amore e trovare un marito
diverso: “ Uscire dalla relazione come una canaglia, come la più autentica canaglia! – non
si poteva far altro per rimetterla a galla, per renderla libera e darle la spinta per il
matrimonio”. Il motivo della rottura del fidanzamento emerge dal Diario con sufficiente
chiarezza: per un vero cristiano cosa deve avere la priorità, Dio o gli affetti umani? E’ una
scelta assoluta, di principio, che lega l’uomo Kierkegaard ad un vincolo totalizzante
con Dio: “Il mio fidanzamento con lei e la sua rottura dipendono in fondo dal mio rapporto
a Dio; formano, se così posso dire, divinamente il mio fidanzamento con Dio”. Regine è
per lui una prova, “un esame di filosofia, come egli lo chiama: come Dio chiede ad Abramo
di sacrificare suo figlio Isacco (ciò che vedremo in Timore e tremore), allo stesso modo
impone a lui di rinunciare al suo amore terreno.
Per ultimo, il vescovo Mynster, amico di suo padre, di cui da ragazzino Soren aveva
ascoltato le prediche. Egli incarna quella teologia filo - hegeliana, tipica della Chiesa
luterana, che a suo giudizio è sinonimo di ipocrisia e compromesso con il mondo, cosa
che falsifica il cristianesimo fino a svilirlo nella sua essenza. Contro il cristianesimo che
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vuole riconciliarsi con il mondo, Kierkegaard intende “reintrodurre il cristianesimo nella
cristianità.”
b) L’uso degli pseudonimi
Le opere di Kierkegaard possono essere divise in tre gruppi: gli scritti pseudonimi, i più
diffusi e conosciuti, gli scritti edificanti o religiosi, firmati con il proprio nome ma dalla
limitata circolazione e infine le Carte, mole sterminata di pagine che ha nel Diario l’opera
più famosa. Dunque, perché gli scritti di maggior circolazione e successo (Aut aut, Timore
e tremore, Briciole di filosofia, Il concetto dell’angoscia, Postilla conclusiva non scientifica,
La malattia mortale) sono pubblicati nascondendosi dietro pseudonimi (come Victor
eremita, Johannes de Silentio, Johannes Climacus, ecc.)? Le motivazioni sono di diverso
tipo. In primo luogo, ciò risponde alla volontà dell’autore di comunicare non già una
dottrina bell’e fatta bensì le varie possibilità dell’esistenza umana. Nelle sue opere si
realizza dunque un teatro delle maschere, dove ogni pseudonimo serve per distanziare il
suo autentico autore (Kierkegaard) e il suo punto di vista da quello delle maschere dei suoi
personaggi: solo così il filosofo può mantenere un distacco ironico rispetto alle varie
possibilità dell’esistenza rappresentate in tali opere. Con l’ironia, dopo aver suscitato
l’interesse del lettore (come Socrate faceva con i suoi interlocutori), lo lascia solo affinché
egli sia indotto ad interrogarsi sulle varie possibilità dell’esistenza e a sceglierne una.
Questa forma di comunicazione è per il filosofo la più efficace in un mondo che vive
nell’anonimato e nella comunicazione inautentica. Qui possiamo notare una polemica da
parte di Kierkegaard nei confronti della nascente società di massa, nella quale chi
comunica e come comunica è più importante del contenuto stesso del messaggio (ciò che
si chiama anonimato del mittente). Socrate e Cristo, viceversa, sono stati autentici
maestri di comunicazione, perché in loro la verità si fa esistenza, nel senso che essi
mettono in pratica ciò che affermano. D’altra parte, nella società attuale si ha anche un
anonimato del ricevente: lo sviluppo della stampa ha reso l’individuo un Io impersonale,
un pubblico anonimo in cui le persone vengono indotte ad essere come gli altri e perdono
la loro irriducibile singolarità, la loro specificità in cambio della rassicurazione che dà loro
l’uniformarsi alla massa (noi oggi diremo l’omologarsi, il massificarsi). Attraverso gli
pseudonimi, Kierkegaard si rivolge al singolo che alberga in ognuno di noi, costringendolo
a riconoscersi o a distanziarsi in opposte alternative di esistenza, come se fossero i suoi
personaggi a comunicare direttamente con lui. Quindi, contrariamente a quanto
potrebbe apparire a prima vista, tale tecnica non serve al nostro autore per
mascherare l’io, ma paradossalmente per farlo emergere: “ Il mio compito fu perciò di
creare personalità di autori e di lanciarli in mezzo alla realtà della vita per abituare un po’
gli uomini a parlare in prima persona. La mia azione è così quella di un precursore, fino a
quando verrà colui che nel senso più rigoroso dica: io”.
E il punto sta proprio qui (per cui veniamo al secondo motivo che induce il pensatore
danese all’uso di pseudonimi): lo stesso Soren Kierkegaard non si sente pronto a parlare
in prima persona perché non si considerava ancora un testimone della verità ma appunto
un penitente. Egli stesso, insomma (e ciò fa comprendere l’importanza dei motivi
autobiografici nel contesto della produzione kierkegaardiana), non fu in grado di scegliere
nessuno degli stadi delineati nelle sue opere: non solo non fu mai un esteta e un seduttore
(il che era quanto mai estraneo alla sua indole) ma neanche padre di famiglia o pastore.
Ciò va tenuto ben presente per una autentica comprensione del pensiero di questo
filosofo.
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