In Circolo ottobre 2012 - Parrocchia di S. Antimo Martire

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In Circolo ottobre 2012 - Parrocchia di S. Antimo Martire
Anno XI n. 35
Periodico del Centro Culturale Sant’Antimo
S. Cerbone 2012
Editoriale
Testimoni della differenza
cristiana
di Pier Luigi Castelli
Troppo frettolosamente si dà per scontato che il cristianesimo ormai abbia ben poco da dire agli
“emancipati” uomini del nostro tempo.
Che attraversi un profondo travaglio è indubitabile,
specialmente nei luoghi di lunga tradizione, ma per ben
altri motivi anche laddove vive la situazione di minoranza osteggiata, perseguitata, costretta alla fuga o all’insignificanza sociale.
Se in questi luoghi la testimonianza cristiana affronta
il rischio della perdita della vita, in quelli che molti definiscono un “mondo piuttosto decadente” e in cui è palpabile il declino, predomina l’indifferenza ovvero la irrilevanza dell’interrogativo religioso o, quando qualcuno se
lo pone, individua talora altre strade desiderando sperimentare una qualche novità.
Non manca poi chi ha assunto l’impegno esplicito di
farsi “missionario di ateismo”.
Al tempo stesso non mancano coloro che, dopo aver
abbandonato la professione del credo cristiano, dopo
aver militato nell’orizzonte ateo ed esercitato un forte
impegno in politica e nella società, non certo per delusioni sofferte ma per nuove convinzioni maturate all’interno
delle loro esperienze, riscoprono la bellezza e la significanza dell’essere cristiano, finalmente non per consuetudine – sempre meno giustificabile ed efficace – ma perché si è trovata o ritrovata un’acqua sorgiva fresca e feconda, capace di non bloccare il cammino, bensì di accompagnarlo con luce nuova in grado di far conoscere
aspetti insospettabili.
A ben vedere è proprio questa, io credo, una delle
caratteristiche fondamentali della fede in quel Dio il cui
volto si è disvelato in Gesù Cristo: accompagnare rispettosamente il cammino di ogni persona, valorizzare ogni
sua esperienza, accogliere ogni sua perplessità e ogni suo
interrogativo, realizzare una comunione non annullando
le diversità, ma ricca di quelle.
E’ vero, non è sempre stato così, ma è nel DNA del
Immagine di S. Cerbone offerta al Vescovo di Massa e Populonia
Giuseppe Morteo (1873 - 1891) dal Conte Curzio Desideri.
cristianesimo portare quelle caratteristiche e ci se ne
allontana se non le si vivono e non le si testimoniano.
Mi ha sempre affascinato il racconto lucano della Pentecoste: non si è “una chiesa” perché si parla una sola
lingua, ma perché si può ascoltare e comprendere l’unico
annuncio nella propria lingua. Le persone, le storie, le
esperienze si incontrano, si relazionano nella loro diversità, si accolgono e si sostengono.
La “differenza” caratterizza la fede cristiana: una differenza che appartiene anche a Dio, del quale si afferma
al contempo l’unicità nella triplicità; la differenza appartiene a Cristo, del quale si afferma la dualità della natura
nella unicità della persona; la differenza e l’unità si affermano, certo in altra maniera rispetto a quanto detto
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sopra, nella maternità verginale di Maria.
Si può sorridere, ma il sorriso può essere anche la spia
di un rifiuto a scendere in profondità e a coglierne i significati: la consistenza e il valore della “persona” (del
resto introdotti dal cristianesimo), la possibilità di una
salvezza veramente “universale”, il rispetto di una identità “misteriosa” (cioè di grazia) valorizzata in un rapporto
“Altro” e da questi totalmente “riempita”.
Ebbe a dire e a scrivere il cardinale Carlo Maria Martini: “Il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa
come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo
appare più bello, più vicino alla gente, più vero”.
In effetti la fede in Cristo ci è data, ci si fa incontro e,
se non sono cancellate le domande che sono corredo
dell’uomo che non rinuncia a pensare, più forte ancora è
la richiesta di farci noi interrogare da ciò che ci ha raggiunto: in Gesù l’Assoluto non è in attingibile ma vicino,
coinvolto nella storia personale e di popolo, vindice dei
poveri e degli oppressi, misericordioso e liberatore, Padre prima che giudice e, se giudice, lo è in quanto Padre,
mostrando così che l’amore deve vincere sulla paura. Se
non ci convincerà l’amore, mai lo farà la paura.
Daniel Marguerat può affermare che dire la fede nel
mondo di oggi pone una sfida, che però è quella di sempre, fin dall’inizio: “nel linguaggio di tutti narrare un’esperienza di Dio diversa da tutte le altre, acquisita con
Gesù, in una storia di vita e di morte” e in una predicazione che attinge dalla vita quotidiana ma aprendola ad
ulteriori significati. Così, evangelicamente, l’esperienza
della malattia, dell’impotenza, del dispiacere o della solitudine non è nell’orizzonte della sconfitta, ma in quello
aperto dal miracolo della comunione e della condivisione
che l’adesione all’annuncio e alle opere di Gesù produce:
si rischiano vie nuove che la storia dei santi, testimoni
tando diversi l’uno dall’altro, documenta nel tempo fino
ad oggi. C’è uno sguardo nuovo sul reale perché si sa
che “Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 1,68).
“Pensare che il cristianesimo non cambierà una situazione, significa privarlo della sua parte più importante” (Scheiter).
Non si può, pertanto, non seminare fiducia. Il silenzio,
piuttosto, riflessivo ed operoso e non il lamento, rintuzzato da Gesù sulla via del Calvario, deve accompagnare
l’esperienza cristiana.
Questa non può non dialogare con il mondo e deve
farlo “opportunamente ed inopportunamente” direbbe
San Paolo. E qui c’è l’idea di un rapporto che accetta lo
scambio e l’arricchimento reciproco, non l’omologazione. C’è anche l’idea di prendere sul serio gli interlocutori, nella loro responsabilità verso se stessi e gli altri, con
la consapevolezza che si è chiamati tutti a rispondere dei
propri atti, mai insignificanti e privi di conseguenze.
Al tempo stesso si riserva l’ultimo giudizio a Dio e al
futuro, perché della Sua verità si è servitori e non possessori e ad essa si è condotti progressivamente dallo Spirito (cfr Gv 16,13).
Dio non è un concetto, non viene al termine di un
cammino che l’uomo percorre in attesa di risposte ai suoi
bisogni, ai suoi desideri e alle sue sconfitte: non sarebbe
che un dio piccolo piccolo, “con occhi che non vedono,
orecchie che non odono” e mani inoperose.
Dio si rivela e agisce nella storia e solo “nella storia”
lo si afferma e lo si racconta, nelle opportunità che si
offrono, non nelle porte che si chiudono. La Città di Dio,
la nuova Gerusalemme del libro della Rivelazione dell’agire di Dio in Gesù Cristo e nella storia degli uomini di
cui si è fatto compagno, non ha lati sbarrati: l’annuncio è
per tutte le genti e da ogni dove le genti debbono poter
essere accolte. E’ l’abbattimento di ogni “serra” che può
certo salvaguardare, ma che isolerebbe.
C’è chi sarebbe disposto ad accettare un cristianesimo
che non si esponesse e non si compromettesse con le
vicende della vita personale e sociale, che assumesse le
caratteristiche di una “nicchia” e magari fosse una valvola di sfogo per gente rassegnata e sfiduciata.
Ma non è questa la fede cristiana: i personaggi del
Vangelo sono certamente secondari rispetto alle consuete
narrazioni della “grande storia”, fatta da re e imperatori,
da grossi eventi economici e politici, da guerre e rivoluzioni che designano vincitori e sconfitti e da quel perenne divario tra chi ha cultura, soldi e potere e chi invece è
vittima di decisioni altrui, spesso privato anche della
speranza. I personaggi “secondari” del Vangelo però –
donne, ciechi, zoppi, poveri, lebbrosi, peccatori… - riscoprono la dignità e la liberazione, si rimettono in piedi,
avanzano per strade nuove che solo loro riescono ad intravedere senza renderle “esclusive”, e da ciò che hanno
scoperto ed è fonte della loro gioia e del loro entusiasmo
sono resi liberi dalla paura della derisione, della persecuzione e della morte.
Nell’“Ecco l’uomo!” che sta dinanzi al potente di
turno, quanti milioni di uomini possono ancora oggi sentirsi rappresentati, e quando ne prendessero coscienza chi
risulterebbe il vero vincitore? Ma soltanto – questa è la
“differenza cristiana” – percorrendo quella strada e non
omologandosi, come non poche volte è avvenuto, a tal
punto da abbandonare la veste dell’agnello e rivestire la
pelle del lupo e della sopraffazione: queste sono le vie
percorse spesso nella storia, vecchie ed infeconde, ma
difficili da abbandonare perché è faticoso immaginare il
nuovo possibile solo nel rischio e nella fraterna attenzione e condivisione.
Indubitabilmente una luce si riaccese con il Concilio
Ecumenico Vaticano II: contrariamente a ciò che pensa
qualcuno non è certo la causa delle odierne difficoltà che
incontra la fede cristiana, semmai “profeticamente” è un
amichevole accompagnamento ad intravederne possibili
fecondi sbocchi riassaporando la freschezza della sorgente, liberata da tanti rivoli resisi via via limacciosi,
capace di ossigenare e rianimare pensieri stanchi e sfiduciati, di riammettere vita laddove rimane più facile progettare distruzione, solitudine e morte.
Cito ancora Daniel Marguerat: “il miracolo di Pasqua
è la rivelazione fatta alle donne e poi ai discepoli, che
Dio si mostra fino alla fine dei tempi nel corpo inchiodato di suo figlio”, non altrimenti che lì.
Perciò ritengo che dal Concilio un buon tratto di strada sia stato percorso, ma molto, e molto di più, resti ancora da percorrere perché si possa dire che si sta realizzando la “testimonianza della differenza cristiana”.
Dovremo tornarci sopra perché “il nostro compito è
condire un mondo piuttosto decadente con Cristo” (Walter Kasper).
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Lo Straniero nella Sacra Scrittura
di Anna Maria Giorgi
In un contesto di rinati sentimenti razzisti (basta ascoltare quello che viene detto nei negozi) anche presso
sedicenti cattolici, è particolarmente importante recuperare il senso profondo dell’accoglienza allo straniero che
pervade tutta la Bibbia e la teologia cristiana fin dai primi tempi. Il discorso sarebbe molto lungo, ma bisogna
sottolineare come la cultura della differenza costituisca il
punto di partenza della teologia biblica ed anche un punto di arrivo non ancora da noi raggiunto. Percepire l’estraneità non come minaccia o intrusione ma come sacralità, al cui centro non si erga più l’Io con i suoi bisogni e i suoi diritti pur legittimi ma l’altro come luogo
teologico in cui Dio si rivela, l’altro per il cui servizio
esistere, questo non è più solo sopportare di malavoglia
una necessità, ma accogliere, come vedremo, Dio stesso.
L’esperienza medesima di Israele si costituisce e si
identifica con il tema dell’estraneità: il padre di tutti i
credenti Abramo, chiamato a lasciare le sicurezze umane
per intraprendere l’avventura della vita con il suo Dio, si
fa nomade e forestiero sulla terra, come nomadi saranno
tutti i patriarchi, e da forestieri i loro discendenti dimoreranno in Egitto, come forestieri ne saranno liberati e ne
usciranno. Raminga nel deserto sarà la vita dell’Israele
esodico, raminga è anche per molti anni la vita di Davide
prima di salire al trono e poi ancora nell’esilio cui lo
ridurrà il figlio ribelle Assalonne; esule tornerà Israele
nella cattività di Ninive e di Babilonia, migrante diverrà,
in gran parte, in una diaspora che dura tuttora. L’esperienza penosa dell’estraneità in terra altrui – che del resto
ha contraddistinto anche gli italiani emigrati fra fine Ottocento e seconda metà del Novecento, fino ad ammontare a ben 29 milioni di partenze prima dal Veneto, Friuli
e Piemonte, poi soprattutto dal meridione italiano – nel
caso di Israele ha segnato profondamente la sua spiritualità di popolo di Dio, facendone un dato paradigmatico e
trasponendosi in una sorta di “legge del taglione” alla
rovescia: “Non molesterai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel
paese d’Egitto” (Es 23,29).
Dio “ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate
dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel
paese d’Egitto” (Dt 10,18 s.).
Non solo sono vietati i maltrattamenti, ma si invita
anche ad un amore che dona tutto il necessario per vivere. E, si noti bene, lo straniero non è obbligato a seguire
la legge religiosa di Israele, ma può farlo; non ne ha il
dovere, ne ha il privilegio.
“Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia
egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno
nel tuo paese, nelle tue città… Non lederai il diritto dello
straniero o dell’orfano e non prenderai in pegno la veste
della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in
Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio…
Quando, facendo la mietitura del tuo campo, vi avrai
lasciato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova,
perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle
tue mani” (Dt 24,14.17-22).
Nella legislazione mosaica, avanzatissima dal punto
di vista sociale, oltre a quello della decima annuale per il
culto c’è anche l’obbligo di una decima triennale a beneficio del forestiero, dell’orfano e della vedova, le tre categorie esemplificative della debolezza e marginalità
sociali; e tutto questo non è elemosina o beneficenza, è
stretto dovere, è giustizia.
Il codice sacerdotale di santità arriva ben oltre:
“Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro
paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di
voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro
Dio” (Lv 19,33 s.). In qualche modo, tutto l’Antico Testamento identifica Israele con la categoria dell’estraneità; ma c’è di più: nel cap. 18 di Genesi, nel famoso episodio della ospitalità di Abramo verso i tre forestieri, si
giunge ad identificare il forestiero con Dio. Né questa
dimensione rimane estranea al Nuovo Testamento: non
solo la famosa parabola del buon samaritano (Lc 10,2527) e gli incontri di Gesù con gli stranieri (il centurione,
Mt 8,5-13; la cananea, Mc 7,24-30; la samaritana, Gv
4…) mettono al centro della dinamica della salvezza gli
indesiderabili pagani e samaritani, ma lo xénos, l’emarginato, assume addirittura una valenza cristologica.
“Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e
mi avete ospitato. Ogni volta che avete fatto queste cose
a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto
a me” (Mt 25,35-40).
Povero tra i poveri, lo xénos è l’alter Ego di Cristo, di
Colui che venendo dall’eternità si attendò fra gli uomini
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Angeli negri
di Mario Cignoni
(cfr. Gv 1,14) come forestiero che vive in precarietà con
gli altri forestieri: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha
dove posare il capo” (Lc 9,57 s.).
Lo stesso vale per i discepoli di Cristo: la loro vera
patria non è più uno stato terreno, anche se devono vivere da buoni cittadini, ma il cielo (cfr. ad esempio Eb.
11,13-16; 12,22 s.; 13,14). Esprime mirabilmente questa
dimensione un antico scritto cristiano, la Lettera a Diogneto, cui faccio riferimento con commozione perché
sempre citata, nelle sue omelie, dal compianto Mons.
Vivaldo: lettera il cui autore afferma che i cristiani
“abitano le loro patrie, ma come stranieri domiciliati,
partecipano a tutto come cittadini, ma sopportano tutto
come stranieri; ogni terra è loro patria e ogni patria è per
loro terra straniera… (5,5).
Il discepolo di Cristo, quindi, dovrebbe ben conoscere e comprendere la condizione dello straniero, estraneo
alla città e lontano dalla sua patria, fino ad immedesimarsi in lui. Chi accoglie lo straniero accoglie Cristo:
l’ospitalità verso il forestiero rimarrà una caratteristica
forte della Chiesa (basti per tutte la regola di S. Benedetto: “in hospitibus enim Christus adoratur et suscipitur”).
Indubbiamente, accoglienza e carità a tutto tondo non
significano ingenuità e incoscienza: anche la prudenza è
una virtù regale. Lo stato deve legiferare e anche noi
dobbiamo essere capaci di discernere; ma ingiustificati
cristianamente sono l’ostilità generalizzata e il rifiuto
indiscriminato di chi è diverso da noi, perché è persona
umana, e non un cliché. Mi piace perciò concludere con
un intervento del card. Martini, cui rinvio:
“Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la
morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa
membri di un'umanità che trova la sua unità in Cristo. E
lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma
della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da
questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta. Abbiamo
tanti motivi, umani e civili, per accogliere lo straniero,
motivi a cui forse pensiamo poco e che sono certamente
molto esigenti e radicali”.
(http://www.ristretti.it/areastudio/territorio/opera/
documenti/immigrazione/martini.htm).
Diversi anni fa - primi anni settanta - un cantante sudamericano di nome Don Marino Barreto, portò al successo una canzone di Fausto Leali dal titolo “Angeli Negri”. In essa un bambino di colore si rivolgeva ad un
pittore che stava dipingendo una pala d’altare, pregandolo di raffigurare, insieme alla “Vergine bianca”, anche
un angioletto negro, perché “tutti i bimbi vanno in cielo
anche se sono negri”. Ne consegue che in paradiso vi è
certamente una buona rappresentanza di angioletti con la
pelle scura. Poi un rimprovero strappa lacrime: “Perché
disprezzi il mio color? Se vede bimbi negri Iddio sorride
a loro”.
In Italia, in quegli anni, non esisteva ancora il fenomeno del flusso migratorio dai paesi africani per cui gli
unici negri che si erano visti fino ad allora erano quelli
che avevano fatto parte dell’esercito americano di liberazione che aveva operato sul nostro territorio durante la
seconda guerra mondiale.
Inoltre era ancora diffusa, anche se in maniera larvata,
una certa mentalità razzista retaggio del passato regime,
per cui i negri venivano considerati quasi esseri inferiori.
Tuttavia, pur persistendo forti pregiudizi per le citate
ragioni, ancora non si manifestavano fenomeni apprezzabili di intolleranza e di xenofobia; anzi i pochi africani
che si vedevano in giro venivano osservati con una certa
curiosità ed accolti benevolmente.
La richiesta, apparentemente ingenua, del bambino
della canzone aveva così anticipato nel nostro paese il
serio problema della uguaglianza e della pari dignità di
tutti gli uomini, indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione professata e dalla cultura del paese di
origine.
Dopo quasi mezzo secolo, la questione ha avuto gli
sviluppi che conosciamo anche dalla cronaca di tutti i
giorni, per fortuna senza episodi eclatanti di intolleranza
e di razzismo. La nostra cultura che deriva da una storia
millenaria impregnata dei principi cristiani, ancora riesce
a suscitare nella maggior parte delle persone il senso
della accoglienza e del rispetto dell’altro anche se diverso.
Invece violenti fenomeni di intolleranza e di fanatismo religioso si manifestano oggi in molte parti del
mondo e minacciano anche i cosiddetti civili paesi occidentali. Occorre fare ricorso al senso di responsabilità di
tutti evitando sciocche provocazioni, promuovendo anzi
iniziative di distensione e di pacificazione. Benedetto
XVI docet.
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Crisi sociale, disagio, vulnerabilità
e nuovi germi di speranza
di Leonello Ridi *
Preoccupazione, incertezza, senso di impotenza sembrano le condizioni che vivono molte persone italiane e
straniere, famiglie, più che singoli, minori ed anziani in
maniera più intensa. Lo scenario internazionale e locale
lascia a detta di molti, pochi spazi per una visione ottimistica del momento. Eppure, se pensiamo da credenti, la
preoccupazione del Cristo dei Vangeli non è la situazione economica del povero, ma semmai la condizione morale del ricco; solo se i ricchi saranno generosi, sapranno
mettere in discussione la loro ricchezza, sapranno equamente condividerla, la logica “giustizia di restituzione”
potrà fare il suo vero corso. In “Beati i poveri in spirito”
c’è rappresentata tutta quella povertà in cui la ricchezza
morale in primis, ridefinisce il rapporto con Dio e con
tutto il creato. I problemi umani non sono né esattamente
definibili, né lontanamente risolvibili se non agendo sulle cause che li hanno provocati, li hanno causati all’origine e l’origine è quella dell’egoismo umano. Don Tonino
Bello, già Vescovo di Molfetta e presidente nazionale di
Pax Christi, a proposito di questo nella profonda verità
delle sue intuizioni non lasciava mai nulla al caso. Sul
malessere delle città, sulle difficoltà ad entrare in dialogo
con un mondo frastagliato, complesso, e “impaurito” già
allora diceva: “Siamo di fronte ad un malessere che, in
modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale facciamo fatica a prendere
atto, forse perché troppo fieri del prestigio del nostro
passato. Un malessere che si costruisce su impercettibili
detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati
nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della
prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale.”
C’è in questa sua denuncia profetica la richiesta di
assunzione di maggiore responsabilità che coinvolge il
singolo e l’intera comunità perché si interroghi e si ridesti verso “una vigilanza attiva”. E’ la richiesta ancora
oggi di un modo “altro” di fare politica, di impostare
vere politiche sociali quale “maniera esigente di vivere
l’impegno umano e cristiano al servizio degli altri”.
La speranza risiede allora nell’esprimere una “politica
vera” che finalmente possa aprire le vie di un impegno
costante e costruttivo al bene comune, quella politica che
La Pira definiva “l’attività religiosa più alta dopo quella
dell’unione intima con Dio”. Il servizio al bene comune
che è poi la politica, la più alta forma di carità secondo
quanto affermava Paolo VI: “La politica significhi fino
in fondo, provare a rimuovere le vere cause che attanagliano l’umanità, fare davvero opera di carità fraterna”.
In questo senso non sono solo più necessarie buone
“finanziarie” finché si continuerà a valutare la qualità
della vita dei singoli come quella delle comunità solo da
un punto di vista economico. Dovremmo indignarci di
fronte alla spudoratezza con la quale si misura il processo di ridefinizione della cosa pubblica sul massimo pro-
fitto, (PIL per esempio) piuttosto che sulla capacità di
riequilibrio nella distribuzione delle risorse. L’ultimo
rapporto annuale Istat presentato ad inizio estate ci fornisce questa preoccupante situazione.
Da Caritas Italiana, come consuetudine, è venuto il
tentativo di lettura sull’esistente, a partire dal suo occhio
particolare sul mondo della fragilità, diventa quindi necessario ad ogni livello fare una riflessione su quanto
proposto dal rapporto, così che ne esca una significativa
apprensione per quel che sta succedendo, ma ancor di
più per quello che sarà il domani se non ci si misurerà su
di un alto senso di responsabilità per un futuro davvero
sostenibile. “Una grande criticità si avverte nel paese
sia sul versante economico ma anche su quello sociale. I
bisogni di famiglie, giovani, anziani soli e fragili, stranieri e nel frattempo i servizi si ritraggono … E allora la
fotografia di famiglia si ingiallisce dei connotati di maggior impoverimento e drammatica disaffezione verso le
aree più fragili: sempre meno lavoro stabile; aumento
della disoccupazione tra gli stessi stranieri; giovani
sempre più “neet” che vuol dire cioè, non in educazione,
impiego o allenamento; chiusura tra maternità e lavoro
per quel che riguarda le giovani donne; carichi familiari
non equilibrati; mamme del sud poco aiutate; anziani
fragili sempre più soli; grande divario nell’offerta dei
servizi … eppure si coglie un senso profondo di speranza
oltre la crisi anche se chi si muove tra le pieghe del sistema produttivo ed economico italiano percepisce una
maggiore vulnerabilità di qualche anno fa”. Nel nostro
territorio le cose non sono diverse: Negli ultimi due anni
abbiamo avuto un incremento del 30% delle richieste di
sostegno al reddito, generi alimentari, vestiario, bollette
e affitti da pagare; sono pervenute richieste di aperture
per microcredito e assistenza domestica. Alle due mense
presenti a Piombino e Follonica siamo arrivati a fornire
oltre 120 pasti al giorno e vengono distribuiti 150 pacchi
viveri alla settimana!!
Ci è chiesto come chiesa attraverso la sua organizza-
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zione capillare nelle parrocchie, nei centri di ascolto e
caritas parrocchiali, nelle sue opere caritative, di attivare
una maggiore “vigilanza”, una comprensione e cura a
partire dalle relazioni corte e dalle opportunità che queste consentono di intercettare i fenomeni di nuova marginalità. E’ questa la sfida nella speranza, sfida che si deve trovare nell’impegno: «A tracciare nuove mappe, far
emergere opportunità e rischi, valutare progressi e regressi, sostenere con informazioni “affidabili” la discussione nei vari ambiti di interesse, nazionale come in
quello nostro locale. “La paura, l’insicurezza, la sfiducia e l’abbandono” si vincono guardando a mete grandi,
ardue ma possibili. Occorrono testimoni capaci di dono
e di speranza». Suggerisce Caritas Italiana.
Nella cultura giapponese, con altri mezzi e filosofie di
analisi, la precarietà e la “crisi” assumono significati
diversi: “il carattere che indica la crisi è una combinazione dei caratteri che indicano «il pericolo e l’opportunità, o la promessa». Così la crisi non è l’esaurimento
delle circostanze favorevoli, ma solo l’inizio, il punto in
cui si incontrano pericolo e opportunità, in cui il futuro
è ancora in bilico e gli eventi possono orientarsi in un
modo o nell’altro (…) Oltre l’urgenza del ricostruire,
del ripartire, oltre l’urgenza della ricostruzione materiale occorre saper accompagnare i pur timidi passi di
una vera ricostruzione interiore”. Così ricorda B. Salvarani direttore del CEM Mondialità di Brescia.
Tutta la nostra società sembra si dibatta in questo contesto, tra povertà, precarietà ed indignazione, e proprio
in questa realtà, in questa società della frammentazione e
dell’incertezza “non in un’altra abusivamente idealizzata”, in questi tempi confusi, è richiesto di rifarsi convinti
alla Parola di Dio, che l’amore prevarrà sempre sulla
nostra debolezza, e che occorre essere vigili, attenti, mai
aggrappati alle nostre “precarie certezze”, pronti a ricominciare in un processo di conversione quotidiana. Domenico Rosati, scrittore e saggista ricorda: “in modo
misterioso stanno fermentando i germi di un mondo nuovo che sarà scoperto e costruito con grande fatica. Un
mondo di giustizia nuova dove con la speranza cristiana
possa interagire il valore della solidarietà e della condivisione dei beni”.
I germi di un mondo nuovo anche per chi opera nella
carità diviene richiesta personale e comunitaria, tappa
necessaria per passare da una caritas, spesso
“interventista”, ad una carità “contempl-attiva”, nella
quale è la preghiera a Dio che richiama necessariamente
un’attenzione particolare ai fratelli e sorelle più deboli.
Saper contemplare significa allora “mettersi seduti”,
abbassarsi, per avere la “posizione” di chi chiede aiuto,
posizione giusta per osservare, per riconoscere il volto
del Cristo in tutte quelle persone che siamo chiamati a
servire quotidianamente. La “frettolosità” il nostro “stare
in piedi”, con la quale facciamo sovente carità, non ci
permette di scendere e “di sedersi”, e trovare l’intimità
della relazione, che ci consentono ulteriormente di approfondire il rapporto e superare la condizione tra la mano che da e quella che riceve. Insieme ci abbassiamo,
insieme dobbiamo rialzarci. Ma ancor di più siamo chiamati, in questa prospettiva, a considerare la nostra azione
solo e comunque in relazione al gesto dell’altro, della
comunità che accoglie e accompagna.
E' questo il cammino faticoso e allo stesso bello ed
educativo, che si apre ogni volta che preghiamo insieme,
ascoltiamo insieme, progettiamo insieme, agiamo insieme, costruiamo insieme relazioni, amicizie segni di amore reciproco. La carità diviene allora, espressione della
comunione tra i credenti, segno tangibile prima di tutto
di unità. Carità nell'unità o, meglio ancora, unità nella
carità. Essere uniti ricercare con tutto noi stessi “che ciò
che fa stare insieme gli uomini è più importante di ciò
che li divide”; ritrovarsi nella fede in Cristo ed esprimerla comunitariamente nel servizio ai fratelli e sorelle.
In questi momenti così difficili diviene sempre più
facile disperdersi, ecco che allora le parole del profetico
Cardinal Martini recentemente scomparso, sono segno
della stessa volontà di Dio a esortare gli uomini a camminare insieme, a ritrovarsi veri, autentici compagni di
viaggio capaci di affrontare il futuro: “I problemi più
difficili vanno affidati alla comunione”.
* Direttore Caritas Diocesi Massa Marittima - Piombino
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Storie di immigrazione
di Annamaria D’Antonio
Olga, Anastasia, Caterina,
Alina, Svetlana… nomi che
eravamo abituati a leggere nei
capolavori degli scrittori russi e
che da qualche anno ci sono
diventati abbastanza familiari.
Sono i nomi delle donne,
prevalentemente ucraine, che
sono gli angeli custodi dei nostri “vecchietti”.
Nell’immaginario collettivo
e non solo l’emigrazione negli
altri paesi è sempre stata appannaggio degli uomini che anche
in Italia, soprattutto nel ventesimo secolo, hanno varcato i nostri confini per cercare un lavoro migliore; lasciavano qui tutti
gli affetti per trasferirsi spesso
definitivamente lontano migliaia di chilometri, rifacendosi
magari una famiglia parallela là
dove erano arrivati.
In questi ultimi anni invece assistiamo ad un fenomeno completamente opposto: siamo diventati noi italiani
datori di lavoro a persone, in maggior numero donne,
che lasciano il loro paese sperando di migliorare le loro
condizioni di vita.
Anche a Piombino sono un piccolo esercito che popola le nostre strade principali ad orari fissi soprattutto
nel primo pomeriggio quando hanno le loro ore di libertà, allora si ritrovano in piccoli gruppi, parlando nella
loro lingua e raccontandosi le loro storie passate e le
esperienze che stanno attualmente vivendo.
Da due anni attraverso l’associazione Guanella è stato attivato un corso d’ italiano per persone extra comunitarie che vogliano approcciarsi o approfondire la nostra
lingua, ed io mi sono offerta di dare una mano.
Due ore la settimana che passano velocemente e che
danno una gran soddisfazione a queste persone, tutte
ucraine e tutte donne.
Sono donne che in generale hanno varcato la quarantina ed anche più, che lasciano a casa figli, raramente
mariti, dai quali si separano dopo pochi anni di convivenza; ma non solo, lasciano anche i loro usi, le loro
abitudini, la loro lingua ed in molti casi mettono nel cassetto diplomi di studio raggiunti nel loro paese ma non
spendibili nel nostro ed arrivano spesso tramite passaparola o perché parenti od amiche di persone che già sono
approdate qui.
Soprattutto la prima volta è un salto nel buio, in un
paese di cui non conoscono la lingua e le usanze, ma
imparano abbastanza presto, sempre che si dia loro la
possibilità.
Mi raccontano che spesso passano ore ed ore con
persone allettate e che non parlano e quindi nel silenzio
più assoluto od in mezzo ad urli e strepiti quando la ma-
lattia prende il sopravvento.
Vengono a fare un lavoro duro e che non dà speranza
di miglioramento, di cui qualche anno fa non si sentiva
l’esigenza vista la struttura patriarcale della famiglia; i
figli si sposavano e restavano in casa e quindi le persone
anziane venivano accudite dalle persone più giovani che
ruotavano intorno.
Oggi il nucleo familiare si sta assottigliando sempre
più e le persone anziane, una volta che i figli sono usciti
di casa, si ritrovano tra le loro quattro mura soli, soprattutto se in seguito hanno la disgrazia di perdere il compagno o la compagna di vita.
Ecco che è diventato indispensabile il ruolo della
“badante” che a tempo pieno si occupa della persona
anziana.
Frequentano i corsi d’italiano con assiduità e tenacia,
vogliono conoscere e sapere, hanno tanto timore di sbagliare, ma sollecitate dalle insegnanti piano piano si fanno coraggio e parlano nella nostra lingua, ottenendo progressi veramente notevoli.
Le loro storie sono le più varie, dalla giovane mamma che ha lasciato a casa due figli adolescenti con il marito ed è venuta a lavorare qui sperando, con i soldi guadagnati di poter garantire un percorso di studio ai figli
fino all’università, cosa che a lei invece è stato impossibile.
C’è anche la ragazza di 24 anni che ha un lavoro nel
suo paese e che ha preso un anno di aspettativa, venendo
in Italia al seguito della nonna per lavorare come badante
e potersi comprare un’automobile da poter riportare in
patria, evitando così i mezzi pubblici che dice essere
affollatissimi e covi di microcriminalità.
Il corso continuerà per il terzo anno e come per i
bambini all’inizio dell’anno scolastico la gioia e l’emozione del ritrovarsi prenderà il sopravvento.
RECENSIONI
pag. 8
«Viviamo in una società di orfani,
e in una scuola della vita nella
quale i maestri sono rari quando
non assenti. Ci sentiremmo più soli
e disorientati, ancora più orfani e
sperduti, se non avessimo trovato
lungo il nostro cammino - io, Aldo
Maria Valli, cui si deve questo
viaggio così profondo e partecipato, e tanti altri - la luce intensa di
un padre spirituale, dal rigore pari
alla dolcezza, di Carlo Maria Martini».
(dalla prefazione di Ferruccio de Bortoli)
ALDO MARIA VALLI, Storia di un uomo, Ritratto di
Carlo Maria Martini, Ed. Ancora, Milano 2011.
€ 16,00
«Abbiamo bisogno di un’alleanza, o di
una grande sinergia, per affrontare la
nostra crisi demografica. Per essere efficace, questa sinergia deve rendere consapevoli e coinvolgere ciascuna delle
componenti della nostra società, arrivando fino alle persone e alle famiglie.
Solo così sarà possibile far entrare, finalmente e sul serio, la questione demografica nell’agenda politica. Lo scopo di
questo Rapporto-proposta, al quale hanno lavorato alcuni dei maggiori demografi italiani di varie matrici culturali
insieme a studiosi di altre discipline, è
far penetrare nell’intero corpo sociale
la consapevolezza della sfida demografica con cui l’Italia deve inevitabilmente
misurarsi».
Camillo Ruini
AA. VV., Il cambiamento demografico, Ed. Laterza, Roma 2011. € 14,00