In Circolo ottobre 2012 - Parrocchia di S. Antimo Martire
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In Circolo ottobre 2012 - Parrocchia di S. Antimo Martire
Anno XI n. 35 Periodico del Centro Culturale Sant’Antimo S. Cerbone 2012 Editoriale Testimoni della differenza cristiana di Pier Luigi Castelli Troppo frettolosamente si dà per scontato che il cristianesimo ormai abbia ben poco da dire agli “emancipati” uomini del nostro tempo. Che attraversi un profondo travaglio è indubitabile, specialmente nei luoghi di lunga tradizione, ma per ben altri motivi anche laddove vive la situazione di minoranza osteggiata, perseguitata, costretta alla fuga o all’insignificanza sociale. Se in questi luoghi la testimonianza cristiana affronta il rischio della perdita della vita, in quelli che molti definiscono un “mondo piuttosto decadente” e in cui è palpabile il declino, predomina l’indifferenza ovvero la irrilevanza dell’interrogativo religioso o, quando qualcuno se lo pone, individua talora altre strade desiderando sperimentare una qualche novità. Non manca poi chi ha assunto l’impegno esplicito di farsi “missionario di ateismo”. Al tempo stesso non mancano coloro che, dopo aver abbandonato la professione del credo cristiano, dopo aver militato nell’orizzonte ateo ed esercitato un forte impegno in politica e nella società, non certo per delusioni sofferte ma per nuove convinzioni maturate all’interno delle loro esperienze, riscoprono la bellezza e la significanza dell’essere cristiano, finalmente non per consuetudine – sempre meno giustificabile ed efficace – ma perché si è trovata o ritrovata un’acqua sorgiva fresca e feconda, capace di non bloccare il cammino, bensì di accompagnarlo con luce nuova in grado di far conoscere aspetti insospettabili. A ben vedere è proprio questa, io credo, una delle caratteristiche fondamentali della fede in quel Dio il cui volto si è disvelato in Gesù Cristo: accompagnare rispettosamente il cammino di ogni persona, valorizzare ogni sua esperienza, accogliere ogni sua perplessità e ogni suo interrogativo, realizzare una comunione non annullando le diversità, ma ricca di quelle. E’ vero, non è sempre stato così, ma è nel DNA del Immagine di S. Cerbone offerta al Vescovo di Massa e Populonia Giuseppe Morteo (1873 - 1891) dal Conte Curzio Desideri. cristianesimo portare quelle caratteristiche e ci se ne allontana se non le si vivono e non le si testimoniano. Mi ha sempre affascinato il racconto lucano della Pentecoste: non si è “una chiesa” perché si parla una sola lingua, ma perché si può ascoltare e comprendere l’unico annuncio nella propria lingua. Le persone, le storie, le esperienze si incontrano, si relazionano nella loro diversità, si accolgono e si sostengono. La “differenza” caratterizza la fede cristiana: una differenza che appartiene anche a Dio, del quale si afferma al contempo l’unicità nella triplicità; la differenza appartiene a Cristo, del quale si afferma la dualità della natura nella unicità della persona; la differenza e l’unità si affermano, certo in altra maniera rispetto a quanto detto pag. 2 sopra, nella maternità verginale di Maria. Si può sorridere, ma il sorriso può essere anche la spia di un rifiuto a scendere in profondità e a coglierne i significati: la consistenza e il valore della “persona” (del resto introdotti dal cristianesimo), la possibilità di una salvezza veramente “universale”, il rispetto di una identità “misteriosa” (cioè di grazia) valorizzata in un rapporto “Altro” e da questi totalmente “riempita”. Ebbe a dire e a scrivere il cardinale Carlo Maria Martini: “Il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero”. In effetti la fede in Cristo ci è data, ci si fa incontro e, se non sono cancellate le domande che sono corredo dell’uomo che non rinuncia a pensare, più forte ancora è la richiesta di farci noi interrogare da ciò che ci ha raggiunto: in Gesù l’Assoluto non è in attingibile ma vicino, coinvolto nella storia personale e di popolo, vindice dei poveri e degli oppressi, misericordioso e liberatore, Padre prima che giudice e, se giudice, lo è in quanto Padre, mostrando così che l’amore deve vincere sulla paura. Se non ci convincerà l’amore, mai lo farà la paura. Daniel Marguerat può affermare che dire la fede nel mondo di oggi pone una sfida, che però è quella di sempre, fin dall’inizio: “nel linguaggio di tutti narrare un’esperienza di Dio diversa da tutte le altre, acquisita con Gesù, in una storia di vita e di morte” e in una predicazione che attinge dalla vita quotidiana ma aprendola ad ulteriori significati. Così, evangelicamente, l’esperienza della malattia, dell’impotenza, del dispiacere o della solitudine non è nell’orizzonte della sconfitta, ma in quello aperto dal miracolo della comunione e della condivisione che l’adesione all’annuncio e alle opere di Gesù produce: si rischiano vie nuove che la storia dei santi, testimoni tando diversi l’uno dall’altro, documenta nel tempo fino ad oggi. C’è uno sguardo nuovo sul reale perché si sa che “Dio ha visitato il suo popolo” (Lc 1,68). “Pensare che il cristianesimo non cambierà una situazione, significa privarlo della sua parte più importante” (Scheiter). Non si può, pertanto, non seminare fiducia. Il silenzio, piuttosto, riflessivo ed operoso e non il lamento, rintuzzato da Gesù sulla via del Calvario, deve accompagnare l’esperienza cristiana. Questa non può non dialogare con il mondo e deve farlo “opportunamente ed inopportunamente” direbbe San Paolo. E qui c’è l’idea di un rapporto che accetta lo scambio e l’arricchimento reciproco, non l’omologazione. C’è anche l’idea di prendere sul serio gli interlocutori, nella loro responsabilità verso se stessi e gli altri, con la consapevolezza che si è chiamati tutti a rispondere dei propri atti, mai insignificanti e privi di conseguenze. Al tempo stesso si riserva l’ultimo giudizio a Dio e al futuro, perché della Sua verità si è servitori e non possessori e ad essa si è condotti progressivamente dallo Spirito (cfr Gv 16,13). Dio non è un concetto, non viene al termine di un cammino che l’uomo percorre in attesa di risposte ai suoi bisogni, ai suoi desideri e alle sue sconfitte: non sarebbe che un dio piccolo piccolo, “con occhi che non vedono, orecchie che non odono” e mani inoperose. Dio si rivela e agisce nella storia e solo “nella storia” lo si afferma e lo si racconta, nelle opportunità che si offrono, non nelle porte che si chiudono. La Città di Dio, la nuova Gerusalemme del libro della Rivelazione dell’agire di Dio in Gesù Cristo e nella storia degli uomini di cui si è fatto compagno, non ha lati sbarrati: l’annuncio è per tutte le genti e da ogni dove le genti debbono poter essere accolte. E’ l’abbattimento di ogni “serra” che può certo salvaguardare, ma che isolerebbe. C’è chi sarebbe disposto ad accettare un cristianesimo che non si esponesse e non si compromettesse con le vicende della vita personale e sociale, che assumesse le caratteristiche di una “nicchia” e magari fosse una valvola di sfogo per gente rassegnata e sfiduciata. Ma non è questa la fede cristiana: i personaggi del Vangelo sono certamente secondari rispetto alle consuete narrazioni della “grande storia”, fatta da re e imperatori, da grossi eventi economici e politici, da guerre e rivoluzioni che designano vincitori e sconfitti e da quel perenne divario tra chi ha cultura, soldi e potere e chi invece è vittima di decisioni altrui, spesso privato anche della speranza. I personaggi “secondari” del Vangelo però – donne, ciechi, zoppi, poveri, lebbrosi, peccatori… - riscoprono la dignità e la liberazione, si rimettono in piedi, avanzano per strade nuove che solo loro riescono ad intravedere senza renderle “esclusive”, e da ciò che hanno scoperto ed è fonte della loro gioia e del loro entusiasmo sono resi liberi dalla paura della derisione, della persecuzione e della morte. Nell’“Ecco l’uomo!” che sta dinanzi al potente di turno, quanti milioni di uomini possono ancora oggi sentirsi rappresentati, e quando ne prendessero coscienza chi risulterebbe il vero vincitore? Ma soltanto – questa è la “differenza cristiana” – percorrendo quella strada e non omologandosi, come non poche volte è avvenuto, a tal punto da abbandonare la veste dell’agnello e rivestire la pelle del lupo e della sopraffazione: queste sono le vie percorse spesso nella storia, vecchie ed infeconde, ma difficili da abbandonare perché è faticoso immaginare il nuovo possibile solo nel rischio e nella fraterna attenzione e condivisione. Indubitabilmente una luce si riaccese con il Concilio Ecumenico Vaticano II: contrariamente a ciò che pensa qualcuno non è certo la causa delle odierne difficoltà che incontra la fede cristiana, semmai “profeticamente” è un amichevole accompagnamento ad intravederne possibili fecondi sbocchi riassaporando la freschezza della sorgente, liberata da tanti rivoli resisi via via limacciosi, capace di ossigenare e rianimare pensieri stanchi e sfiduciati, di riammettere vita laddove rimane più facile progettare distruzione, solitudine e morte. Cito ancora Daniel Marguerat: “il miracolo di Pasqua è la rivelazione fatta alle donne e poi ai discepoli, che Dio si mostra fino alla fine dei tempi nel corpo inchiodato di suo figlio”, non altrimenti che lì. Perciò ritengo che dal Concilio un buon tratto di strada sia stato percorso, ma molto, e molto di più, resti ancora da percorrere perché si possa dire che si sta realizzando la “testimonianza della differenza cristiana”. Dovremo tornarci sopra perché “il nostro compito è condire un mondo piuttosto decadente con Cristo” (Walter Kasper). pag. 3 Lo Straniero nella Sacra Scrittura di Anna Maria Giorgi In un contesto di rinati sentimenti razzisti (basta ascoltare quello che viene detto nei negozi) anche presso sedicenti cattolici, è particolarmente importante recuperare il senso profondo dell’accoglienza allo straniero che pervade tutta la Bibbia e la teologia cristiana fin dai primi tempi. Il discorso sarebbe molto lungo, ma bisogna sottolineare come la cultura della differenza costituisca il punto di partenza della teologia biblica ed anche un punto di arrivo non ancora da noi raggiunto. Percepire l’estraneità non come minaccia o intrusione ma come sacralità, al cui centro non si erga più l’Io con i suoi bisogni e i suoi diritti pur legittimi ma l’altro come luogo teologico in cui Dio si rivela, l’altro per il cui servizio esistere, questo non è più solo sopportare di malavoglia una necessità, ma accogliere, come vedremo, Dio stesso. L’esperienza medesima di Israele si costituisce e si identifica con il tema dell’estraneità: il padre di tutti i credenti Abramo, chiamato a lasciare le sicurezze umane per intraprendere l’avventura della vita con il suo Dio, si fa nomade e forestiero sulla terra, come nomadi saranno tutti i patriarchi, e da forestieri i loro discendenti dimoreranno in Egitto, come forestieri ne saranno liberati e ne usciranno. Raminga nel deserto sarà la vita dell’Israele esodico, raminga è anche per molti anni la vita di Davide prima di salire al trono e poi ancora nell’esilio cui lo ridurrà il figlio ribelle Assalonne; esule tornerà Israele nella cattività di Ninive e di Babilonia, migrante diverrà, in gran parte, in una diaspora che dura tuttora. L’esperienza penosa dell’estraneità in terra altrui – che del resto ha contraddistinto anche gli italiani emigrati fra fine Ottocento e seconda metà del Novecento, fino ad ammontare a ben 29 milioni di partenze prima dal Veneto, Friuli e Piemonte, poi soprattutto dal meridione italiano – nel caso di Israele ha segnato profondamente la sua spiritualità di popolo di Dio, facendone un dato paradigmatico e trasponendosi in una sorta di “legge del taglione” alla rovescia: “Non molesterai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (Es 23,29). Dio “ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto” (Dt 10,18 s.). Non solo sono vietati i maltrattamenti, ma si invita anche ad un amore che dona tutto il necessario per vivere. E, si noti bene, lo straniero non è obbligato a seguire la legge religiosa di Israele, ma può farlo; non ne ha il dovere, ne ha il privilegio. “Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città… Non lederai il diritto dello straniero o dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio… Quando, facendo la mietitura del tuo campo, vi avrai lasciato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova, perché il Signore tuo Dio ti benedica in ogni lavoro delle tue mani” (Dt 24,14.17-22). Nella legislazione mosaica, avanzatissima dal punto di vista sociale, oltre a quello della decima annuale per il culto c’è anche l’obbligo di una decima triennale a beneficio del forestiero, dell’orfano e della vedova, le tre categorie esemplificative della debolezza e marginalità sociali; e tutto questo non è elemosina o beneficenza, è stretto dovere, è giustizia. Il codice sacerdotale di santità arriva ben oltre: “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio” (Lv 19,33 s.). In qualche modo, tutto l’Antico Testamento identifica Israele con la categoria dell’estraneità; ma c’è di più: nel cap. 18 di Genesi, nel famoso episodio della ospitalità di Abramo verso i tre forestieri, si giunge ad identificare il forestiero con Dio. Né questa dimensione rimane estranea al Nuovo Testamento: non solo la famosa parabola del buon samaritano (Lc 10,2527) e gli incontri di Gesù con gli stranieri (il centurione, Mt 8,5-13; la cananea, Mc 7,24-30; la samaritana, Gv 4…) mettono al centro della dinamica della salvezza gli indesiderabili pagani e samaritani, ma lo xénos, l’emarginato, assume addirittura una valenza cristologica. “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato. Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35-40). Povero tra i poveri, lo xénos è l’alter Ego di Cristo, di Colui che venendo dall’eternità si attendò fra gli uomini pag. 4 Angeli negri di Mario Cignoni (cfr. Gv 1,14) come forestiero che vive in precarietà con gli altri forestieri: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,57 s.). Lo stesso vale per i discepoli di Cristo: la loro vera patria non è più uno stato terreno, anche se devono vivere da buoni cittadini, ma il cielo (cfr. ad esempio Eb. 11,13-16; 12,22 s.; 13,14). Esprime mirabilmente questa dimensione un antico scritto cristiano, la Lettera a Diogneto, cui faccio riferimento con commozione perché sempre citata, nelle sue omelie, dal compianto Mons. Vivaldo: lettera il cui autore afferma che i cristiani “abitano le loro patrie, ma come stranieri domiciliati, partecipano a tutto come cittadini, ma sopportano tutto come stranieri; ogni terra è loro patria e ogni patria è per loro terra straniera… (5,5). Il discepolo di Cristo, quindi, dovrebbe ben conoscere e comprendere la condizione dello straniero, estraneo alla città e lontano dalla sua patria, fino ad immedesimarsi in lui. Chi accoglie lo straniero accoglie Cristo: l’ospitalità verso il forestiero rimarrà una caratteristica forte della Chiesa (basti per tutte la regola di S. Benedetto: “in hospitibus enim Christus adoratur et suscipitur”). Indubbiamente, accoglienza e carità a tutto tondo non significano ingenuità e incoscienza: anche la prudenza è una virtù regale. Lo stato deve legiferare e anche noi dobbiamo essere capaci di discernere; ma ingiustificati cristianamente sono l’ostilità generalizzata e il rifiuto indiscriminato di chi è diverso da noi, perché è persona umana, e non un cliché. Mi piace perciò concludere con un intervento del card. Martini, cui rinvio: “Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di un'umanità che trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta. Abbiamo tanti motivi, umani e civili, per accogliere lo straniero, motivi a cui forse pensiamo poco e che sono certamente molto esigenti e radicali”. (http://www.ristretti.it/areastudio/territorio/opera/ documenti/immigrazione/martini.htm). Diversi anni fa - primi anni settanta - un cantante sudamericano di nome Don Marino Barreto, portò al successo una canzone di Fausto Leali dal titolo “Angeli Negri”. In essa un bambino di colore si rivolgeva ad un pittore che stava dipingendo una pala d’altare, pregandolo di raffigurare, insieme alla “Vergine bianca”, anche un angioletto negro, perché “tutti i bimbi vanno in cielo anche se sono negri”. Ne consegue che in paradiso vi è certamente una buona rappresentanza di angioletti con la pelle scura. Poi un rimprovero strappa lacrime: “Perché disprezzi il mio color? Se vede bimbi negri Iddio sorride a loro”. In Italia, in quegli anni, non esisteva ancora il fenomeno del flusso migratorio dai paesi africani per cui gli unici negri che si erano visti fino ad allora erano quelli che avevano fatto parte dell’esercito americano di liberazione che aveva operato sul nostro territorio durante la seconda guerra mondiale. Inoltre era ancora diffusa, anche se in maniera larvata, una certa mentalità razzista retaggio del passato regime, per cui i negri venivano considerati quasi esseri inferiori. Tuttavia, pur persistendo forti pregiudizi per le citate ragioni, ancora non si manifestavano fenomeni apprezzabili di intolleranza e di xenofobia; anzi i pochi africani che si vedevano in giro venivano osservati con una certa curiosità ed accolti benevolmente. La richiesta, apparentemente ingenua, del bambino della canzone aveva così anticipato nel nostro paese il serio problema della uguaglianza e della pari dignità di tutti gli uomini, indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione professata e dalla cultura del paese di origine. Dopo quasi mezzo secolo, la questione ha avuto gli sviluppi che conosciamo anche dalla cronaca di tutti i giorni, per fortuna senza episodi eclatanti di intolleranza e di razzismo. La nostra cultura che deriva da una storia millenaria impregnata dei principi cristiani, ancora riesce a suscitare nella maggior parte delle persone il senso della accoglienza e del rispetto dell’altro anche se diverso. Invece violenti fenomeni di intolleranza e di fanatismo religioso si manifestano oggi in molte parti del mondo e minacciano anche i cosiddetti civili paesi occidentali. Occorre fare ricorso al senso di responsabilità di tutti evitando sciocche provocazioni, promuovendo anzi iniziative di distensione e di pacificazione. Benedetto XVI docet. pag. 5 Crisi sociale, disagio, vulnerabilità e nuovi germi di speranza di Leonello Ridi * Preoccupazione, incertezza, senso di impotenza sembrano le condizioni che vivono molte persone italiane e straniere, famiglie, più che singoli, minori ed anziani in maniera più intensa. Lo scenario internazionale e locale lascia a detta di molti, pochi spazi per una visione ottimistica del momento. Eppure, se pensiamo da credenti, la preoccupazione del Cristo dei Vangeli non è la situazione economica del povero, ma semmai la condizione morale del ricco; solo se i ricchi saranno generosi, sapranno mettere in discussione la loro ricchezza, sapranno equamente condividerla, la logica “giustizia di restituzione” potrà fare il suo vero corso. In “Beati i poveri in spirito” c’è rappresentata tutta quella povertà in cui la ricchezza morale in primis, ridefinisce il rapporto con Dio e con tutto il creato. I problemi umani non sono né esattamente definibili, né lontanamente risolvibili se non agendo sulle cause che li hanno provocati, li hanno causati all’origine e l’origine è quella dell’egoismo umano. Don Tonino Bello, già Vescovo di Molfetta e presidente nazionale di Pax Christi, a proposito di questo nella profonda verità delle sue intuizioni non lasciava mai nulla al caso. Sul malessere delle città, sulle difficoltà ad entrare in dialogo con un mondo frastagliato, complesso, e “impaurito” già allora diceva: “Siamo di fronte ad un malessere che, in modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale facciamo fatica a prendere atto, forse perché troppo fieri del prestigio del nostro passato. Un malessere che si costruisce su impercettibili detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale.” C’è in questa sua denuncia profetica la richiesta di assunzione di maggiore responsabilità che coinvolge il singolo e l’intera comunità perché si interroghi e si ridesti verso “una vigilanza attiva”. E’ la richiesta ancora oggi di un modo “altro” di fare politica, di impostare vere politiche sociali quale “maniera esigente di vivere l’impegno umano e cristiano al servizio degli altri”. La speranza risiede allora nell’esprimere una “politica vera” che finalmente possa aprire le vie di un impegno costante e costruttivo al bene comune, quella politica che La Pira definiva “l’attività religiosa più alta dopo quella dell’unione intima con Dio”. Il servizio al bene comune che è poi la politica, la più alta forma di carità secondo quanto affermava Paolo VI: “La politica significhi fino in fondo, provare a rimuovere le vere cause che attanagliano l’umanità, fare davvero opera di carità fraterna”. In questo senso non sono solo più necessarie buone “finanziarie” finché si continuerà a valutare la qualità della vita dei singoli come quella delle comunità solo da un punto di vista economico. Dovremmo indignarci di fronte alla spudoratezza con la quale si misura il processo di ridefinizione della cosa pubblica sul massimo pro- fitto, (PIL per esempio) piuttosto che sulla capacità di riequilibrio nella distribuzione delle risorse. L’ultimo rapporto annuale Istat presentato ad inizio estate ci fornisce questa preoccupante situazione. Da Caritas Italiana, come consuetudine, è venuto il tentativo di lettura sull’esistente, a partire dal suo occhio particolare sul mondo della fragilità, diventa quindi necessario ad ogni livello fare una riflessione su quanto proposto dal rapporto, così che ne esca una significativa apprensione per quel che sta succedendo, ma ancor di più per quello che sarà il domani se non ci si misurerà su di un alto senso di responsabilità per un futuro davvero sostenibile. “Una grande criticità si avverte nel paese sia sul versante economico ma anche su quello sociale. I bisogni di famiglie, giovani, anziani soli e fragili, stranieri e nel frattempo i servizi si ritraggono … E allora la fotografia di famiglia si ingiallisce dei connotati di maggior impoverimento e drammatica disaffezione verso le aree più fragili: sempre meno lavoro stabile; aumento della disoccupazione tra gli stessi stranieri; giovani sempre più “neet” che vuol dire cioè, non in educazione, impiego o allenamento; chiusura tra maternità e lavoro per quel che riguarda le giovani donne; carichi familiari non equilibrati; mamme del sud poco aiutate; anziani fragili sempre più soli; grande divario nell’offerta dei servizi … eppure si coglie un senso profondo di speranza oltre la crisi anche se chi si muove tra le pieghe del sistema produttivo ed economico italiano percepisce una maggiore vulnerabilità di qualche anno fa”. Nel nostro territorio le cose non sono diverse: Negli ultimi due anni abbiamo avuto un incremento del 30% delle richieste di sostegno al reddito, generi alimentari, vestiario, bollette e affitti da pagare; sono pervenute richieste di aperture per microcredito e assistenza domestica. Alle due mense presenti a Piombino e Follonica siamo arrivati a fornire oltre 120 pasti al giorno e vengono distribuiti 150 pacchi viveri alla settimana!! Ci è chiesto come chiesa attraverso la sua organizza- pag. 6 zione capillare nelle parrocchie, nei centri di ascolto e caritas parrocchiali, nelle sue opere caritative, di attivare una maggiore “vigilanza”, una comprensione e cura a partire dalle relazioni corte e dalle opportunità che queste consentono di intercettare i fenomeni di nuova marginalità. E’ questa la sfida nella speranza, sfida che si deve trovare nell’impegno: «A tracciare nuove mappe, far emergere opportunità e rischi, valutare progressi e regressi, sostenere con informazioni “affidabili” la discussione nei vari ambiti di interesse, nazionale come in quello nostro locale. “La paura, l’insicurezza, la sfiducia e l’abbandono” si vincono guardando a mete grandi, ardue ma possibili. Occorrono testimoni capaci di dono e di speranza». Suggerisce Caritas Italiana. Nella cultura giapponese, con altri mezzi e filosofie di analisi, la precarietà e la “crisi” assumono significati diversi: “il carattere che indica la crisi è una combinazione dei caratteri che indicano «il pericolo e l’opportunità, o la promessa». Così la crisi non è l’esaurimento delle circostanze favorevoli, ma solo l’inizio, il punto in cui si incontrano pericolo e opportunità, in cui il futuro è ancora in bilico e gli eventi possono orientarsi in un modo o nell’altro (…) Oltre l’urgenza del ricostruire, del ripartire, oltre l’urgenza della ricostruzione materiale occorre saper accompagnare i pur timidi passi di una vera ricostruzione interiore”. Così ricorda B. Salvarani direttore del CEM Mondialità di Brescia. Tutta la nostra società sembra si dibatta in questo contesto, tra povertà, precarietà ed indignazione, e proprio in questa realtà, in questa società della frammentazione e dell’incertezza “non in un’altra abusivamente idealizzata”, in questi tempi confusi, è richiesto di rifarsi convinti alla Parola di Dio, che l’amore prevarrà sempre sulla nostra debolezza, e che occorre essere vigili, attenti, mai aggrappati alle nostre “precarie certezze”, pronti a ricominciare in un processo di conversione quotidiana. Domenico Rosati, scrittore e saggista ricorda: “in modo misterioso stanno fermentando i germi di un mondo nuovo che sarà scoperto e costruito con grande fatica. Un mondo di giustizia nuova dove con la speranza cristiana possa interagire il valore della solidarietà e della condivisione dei beni”. I germi di un mondo nuovo anche per chi opera nella carità diviene richiesta personale e comunitaria, tappa necessaria per passare da una caritas, spesso “interventista”, ad una carità “contempl-attiva”, nella quale è la preghiera a Dio che richiama necessariamente un’attenzione particolare ai fratelli e sorelle più deboli. Saper contemplare significa allora “mettersi seduti”, abbassarsi, per avere la “posizione” di chi chiede aiuto, posizione giusta per osservare, per riconoscere il volto del Cristo in tutte quelle persone che siamo chiamati a servire quotidianamente. La “frettolosità” il nostro “stare in piedi”, con la quale facciamo sovente carità, non ci permette di scendere e “di sedersi”, e trovare l’intimità della relazione, che ci consentono ulteriormente di approfondire il rapporto e superare la condizione tra la mano che da e quella che riceve. Insieme ci abbassiamo, insieme dobbiamo rialzarci. Ma ancor di più siamo chiamati, in questa prospettiva, a considerare la nostra azione solo e comunque in relazione al gesto dell’altro, della comunità che accoglie e accompagna. E' questo il cammino faticoso e allo stesso bello ed educativo, che si apre ogni volta che preghiamo insieme, ascoltiamo insieme, progettiamo insieme, agiamo insieme, costruiamo insieme relazioni, amicizie segni di amore reciproco. La carità diviene allora, espressione della comunione tra i credenti, segno tangibile prima di tutto di unità. Carità nell'unità o, meglio ancora, unità nella carità. Essere uniti ricercare con tutto noi stessi “che ciò che fa stare insieme gli uomini è più importante di ciò che li divide”; ritrovarsi nella fede in Cristo ed esprimerla comunitariamente nel servizio ai fratelli e sorelle. In questi momenti così difficili diviene sempre più facile disperdersi, ecco che allora le parole del profetico Cardinal Martini recentemente scomparso, sono segno della stessa volontà di Dio a esortare gli uomini a camminare insieme, a ritrovarsi veri, autentici compagni di viaggio capaci di affrontare il futuro: “I problemi più difficili vanno affidati alla comunione”. * Direttore Caritas Diocesi Massa Marittima - Piombino pag. 7 Storie di immigrazione di Annamaria D’Antonio Olga, Anastasia, Caterina, Alina, Svetlana… nomi che eravamo abituati a leggere nei capolavori degli scrittori russi e che da qualche anno ci sono diventati abbastanza familiari. Sono i nomi delle donne, prevalentemente ucraine, che sono gli angeli custodi dei nostri “vecchietti”. Nell’immaginario collettivo e non solo l’emigrazione negli altri paesi è sempre stata appannaggio degli uomini che anche in Italia, soprattutto nel ventesimo secolo, hanno varcato i nostri confini per cercare un lavoro migliore; lasciavano qui tutti gli affetti per trasferirsi spesso definitivamente lontano migliaia di chilometri, rifacendosi magari una famiglia parallela là dove erano arrivati. In questi ultimi anni invece assistiamo ad un fenomeno completamente opposto: siamo diventati noi italiani datori di lavoro a persone, in maggior numero donne, che lasciano il loro paese sperando di migliorare le loro condizioni di vita. Anche a Piombino sono un piccolo esercito che popola le nostre strade principali ad orari fissi soprattutto nel primo pomeriggio quando hanno le loro ore di libertà, allora si ritrovano in piccoli gruppi, parlando nella loro lingua e raccontandosi le loro storie passate e le esperienze che stanno attualmente vivendo. Da due anni attraverso l’associazione Guanella è stato attivato un corso d’ italiano per persone extra comunitarie che vogliano approcciarsi o approfondire la nostra lingua, ed io mi sono offerta di dare una mano. Due ore la settimana che passano velocemente e che danno una gran soddisfazione a queste persone, tutte ucraine e tutte donne. Sono donne che in generale hanno varcato la quarantina ed anche più, che lasciano a casa figli, raramente mariti, dai quali si separano dopo pochi anni di convivenza; ma non solo, lasciano anche i loro usi, le loro abitudini, la loro lingua ed in molti casi mettono nel cassetto diplomi di studio raggiunti nel loro paese ma non spendibili nel nostro ed arrivano spesso tramite passaparola o perché parenti od amiche di persone che già sono approdate qui. Soprattutto la prima volta è un salto nel buio, in un paese di cui non conoscono la lingua e le usanze, ma imparano abbastanza presto, sempre che si dia loro la possibilità. Mi raccontano che spesso passano ore ed ore con persone allettate e che non parlano e quindi nel silenzio più assoluto od in mezzo ad urli e strepiti quando la ma- lattia prende il sopravvento. Vengono a fare un lavoro duro e che non dà speranza di miglioramento, di cui qualche anno fa non si sentiva l’esigenza vista la struttura patriarcale della famiglia; i figli si sposavano e restavano in casa e quindi le persone anziane venivano accudite dalle persone più giovani che ruotavano intorno. Oggi il nucleo familiare si sta assottigliando sempre più e le persone anziane, una volta che i figli sono usciti di casa, si ritrovano tra le loro quattro mura soli, soprattutto se in seguito hanno la disgrazia di perdere il compagno o la compagna di vita. Ecco che è diventato indispensabile il ruolo della “badante” che a tempo pieno si occupa della persona anziana. Frequentano i corsi d’italiano con assiduità e tenacia, vogliono conoscere e sapere, hanno tanto timore di sbagliare, ma sollecitate dalle insegnanti piano piano si fanno coraggio e parlano nella nostra lingua, ottenendo progressi veramente notevoli. Le loro storie sono le più varie, dalla giovane mamma che ha lasciato a casa due figli adolescenti con il marito ed è venuta a lavorare qui sperando, con i soldi guadagnati di poter garantire un percorso di studio ai figli fino all’università, cosa che a lei invece è stato impossibile. C’è anche la ragazza di 24 anni che ha un lavoro nel suo paese e che ha preso un anno di aspettativa, venendo in Italia al seguito della nonna per lavorare come badante e potersi comprare un’automobile da poter riportare in patria, evitando così i mezzi pubblici che dice essere affollatissimi e covi di microcriminalità. Il corso continuerà per il terzo anno e come per i bambini all’inizio dell’anno scolastico la gioia e l’emozione del ritrovarsi prenderà il sopravvento. RECENSIONI pag. 8 «Viviamo in una società di orfani, e in una scuola della vita nella quale i maestri sono rari quando non assenti. Ci sentiremmo più soli e disorientati, ancora più orfani e sperduti, se non avessimo trovato lungo il nostro cammino - io, Aldo Maria Valli, cui si deve questo viaggio così profondo e partecipato, e tanti altri - la luce intensa di un padre spirituale, dal rigore pari alla dolcezza, di Carlo Maria Martini». (dalla prefazione di Ferruccio de Bortoli) ALDO MARIA VALLI, Storia di un uomo, Ritratto di Carlo Maria Martini, Ed. Ancora, Milano 2011. € 16,00 «Abbiamo bisogno di un’alleanza, o di una grande sinergia, per affrontare la nostra crisi demografica. Per essere efficace, questa sinergia deve rendere consapevoli e coinvolgere ciascuna delle componenti della nostra società, arrivando fino alle persone e alle famiglie. Solo così sarà possibile far entrare, finalmente e sul serio, la questione demografica nell’agenda politica. Lo scopo di questo Rapporto-proposta, al quale hanno lavorato alcuni dei maggiori demografi italiani di varie matrici culturali insieme a studiosi di altre discipline, è far penetrare nell’intero corpo sociale la consapevolezza della sfida demografica con cui l’Italia deve inevitabilmente misurarsi». Camillo Ruini AA. VV., Il cambiamento demografico, Ed. Laterza, Roma 2011. € 14,00