Istituto Comprensivo Statale 1

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Istituto Comprensivo Statale 1
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA
ISTITUTO COMPRENSIVO STATALE 1
SCUOLA DELL’INFANZIA – SCUOLA PRIMARIA – SCUOLA SECONDARIA DI 1^ GRADO
ARZIGNANO (VI) ITALIA
Corso Mazzini, 85 - 36071 ARZIGNANO (VI)
Tel. 0444/670061 - 451774 • Fax 0444/622049
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Cir. n. 59
Prot. n. 349/C41a
CG/ps
Arzignano, 19.01.2016
Ai docenti della scuola secondaria di
1° grado “G. Zanella”
Oggetto: Giornata della Memoria 27 gennaio 2016
Il 27 gennaio sarà celebrata la Giornata della Memoria, nel settantunesimo anniversario dalla
liberazione dei prigionieri di Auschwitz.
A distanza di tanti anni rimane il dovere di ricordare tutte quelle persone che morirono nei campi
di concentramento.
L’Italia ha istituito il Giorno della Memoria con la legge 20 luglio 2000 (n. 211). L’art. 1 definisce
le finalità del Giorno della Memoria: «ricordare la Shoah, le leggi razziali, la persecuzione italiana
dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché
coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a
rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati». L’art. 2 prevede che in
tale giorno vengano organizzati momenti di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo
particolare nelle scuole dei due cicli d’istruzione, «affinché simili eventi non possano mai più
accadere».
La nostra scuola anche quest’anno si impegna ad approfondire gli eventi ricollegabili con
l’Olocausto, con il tentativo di fare della Memoria non un semplice ritorno al passato, bensì un
momento di riflessione sulle azioni umane ed uno strumento di fiducia nel domani.
Attività proposte
Classi prime: lettura guidata della testimonianza di Liliana Segre, un’ebrea sopravvissuta allo
sterminio di Auschwitz. (vd. allegato)
Classi seconde: lettura guidata di una pagina del “Diario” di Anna Frank (vd. allegato)
Classi terze: lettura guidata di brani tratti dai “Pensieri” e dal “Diario” di Etty Hillesum (vd.
allegato).
Gli alunni di classe terza concluderanno il percorso incontrando la prof.ssa Mariagrazia Lovato,
nell’ambito del Progetto “I Giovani scelgono la Pace”.
Gli interventi in classe coinvolgeranno gli allievi in una lezione attiva, che parta dal fatto storico
per arrivare ad una riflessione di tipo educativo.
I docenti potranno sostituire e/o integrare le attività proposte, attraverso la visione di
documentari, film ed altro materiale attinente.
Prof.ssa Susanna Pontara
Visto LA DIRIGENTE SCOLASTICA
Dott.ssa Goretta Calearo
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059_GIORNATA_DELLA_MEMORIA.docx
Allegati
Classi prime. La testimonianza di Liliana Segre.
La deportazione
Liliana Segre, nata e cresciuta a Milano, deportata e sopravvissuta al campo di
sterminio di Auschwitz.
Avevo 13 anni nel 1913 e conoscevo da cinque la persecuzione, perché una sera
di fine estate del 1938, cinque anni prima, mio papà mi spiegò con dolcezza che
non avrei più potuto andare a scuola, in via Ruffini, poiché ero una bambina
ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare la mia vita
come prima. Eravamo diventati cittadini “di serie B”. cominciò una nuova vita,
una nuova scuola; sentivo crescere le preoccupazioni, vedevo i visi dei miei
familiari intristiti, a volte umiliati da situazioni che non venivano spiegate, ma che
io intuivo dolorosamente.
Dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale,
furono le leggi di Norimberga a condannarci. Mio papà decise di mettermi in
salvo: mi procurò documenti falsi e mi affidò ad amici eroici che rischiarono la
vita per nascondermi. Allora lasciai per sempre la mia casa e i miei nonni.
Dopo qualche tempo mio papà e io cercammo di fuggire in Svizzera. Eravamo in
balia di contrabbandieri esosi e senza scrupoli. Con grande fatica passammo il
confine sulle montagne dietro a Viggiù e arrivammo in Svizzera. Il sogno durò
poco: pochi passi in un bosco e ci imbattemmo in una sentinella che ci
accompagnò al vicino comando. Là un ufficiale svizzero-tedesco non volle sentire
né ragioni, né suppliche e ci rimandò indietro. A 13 anni entrai da sola nel
carcere di Varese, piangendo disperatamente. Poi fui a Como; poi a Milano, e a
San Vittore. Qui ero con mio papà. Il quinto raggio era destinato ai prigionieri
ebrei: tutti ammassati in attesa della deportazione annunciata. Guardavo piazza
Aquileia dietro finestroni schermati.
Alla fine di gennaio un implacabile appello scandì anche i nostri nomi. Caricati su
un camion, attraversammo Milano e fummo portati alla Stazione Centrale, dove
nel sotterraneo era pronto per noi un treno merci. Fummo fatti salire a calci e
pugni e piombati nei vagoni. Il viaggio durò una settimana. Eravamo ammassati
l’uno sull’altro; un secchio per gli escrementi e un po’ di paglia per terra, senza
né luce, né acqua.
All’alba del 6 febbraio il treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il rumore osceno e
assordante degli assassini intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo i comandi e
ricordo quando fui separata per sempre da mio papà. Con altre 30 ragazze
italiane, spaurite, stupite da questo destino, entrammo nel grande lager
femminile di Birkenau. Era una città fantasma: una distesa senza fine di baracche
spaventose.
Il primo giorno fummo denudate, rapate a zero e ci fu tatuato un numero sul
braccio. Questo numero sostituiva allora il nostro nome, ma è diventato negli
anni una parte di me; si identifica per me con il dolore puro, con il violento
cambiamento di ruolo che dovetti subire, da figlia a ragazzina disgraziata e sola
in un lager.
Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, botte, punizioni;
significava schiavitù, umiliazione, torture, esperimenti.
Fui mandata a lavorare in una fabbrica di munizioni che non si fermava mai,
perché lavorava per la guerra. Ci facevano marciare cantando fino alla fabbrica e
ritorno, al suono della orchestrina delle prigioniere violiniste. Sentivamo sulla
strada dei rumori familiari: suono di campane, di aerei di passaggio, ma eravamo
dimenticati dal mondo fuori dal campo. Se incrociavamo dei giovani della
Hitlerjugend, questi ci sputavano addosso e ci insultavano.
Le sorveglianti donne erano ancora più crudeli degli uomini; avevano potere di
vita e di morte sulle prigioniere e si scatenavano su di noi con ingiustificata
violenza. Vivevo con una incessante paura, mi chiudevo sempre di più in me
stessa, cercando di essere invisibile. Sul mio corpo da adolescente la pelle era
cascante e le ossa sporgevano da tutte le parti. Non sapevamo che giorno e che
ora fosse, non potevamo avere notizie di alcun genere. Vivevamo in assoluta
promiscuità, senza rimanere un attimo sole. Dormivamo in 5, 6 per giaciglio,
utilizzando i nostri zoccoli come cuscino. Ci servivamo dei gabinetti in 20, 30
contemporaneamente e, senza un cucchiaio, dovevamo inghiottire a sorsate,
come animali, la zuppa orrenda che ci veniva data una volta al giorno. La lotta
per la sopravvivenza era senza quartiere: le prigioniere affamate e disperate
avrebbero fatto qualunque cosa per un pezzo di pane. Passavano i mesi e noi
obbedivamo ciecamente agli ordini, poiché volevamo vivere. Cercavamo di non
perdere almeno il nostro cervello. Io tentavo di sdoppiarmi, immergendomi in un
mondo irreale e mi sforzavo di non vedere e di non sentire. Di non vedere i
cadaveri nudi e scheletriti, ammucchiati in attesa di essere bruciati; di non
vedere le punizioni, la fiamma del camino, la neve sporca, i fili spinati percorsi da
corrente elettrica. Di non sentire di notte le grida, i fischi, i comandi urlati; i
racconti delle altre prigioniere sulle atrocità viste o subite.
Alla fine di gennaio 1945, con l’avvicinarsi dei russi, il campo fu in parte distrutto
dai nazisti in fuga e tutti i prigionieri in grado di muoversi furono evacuati verso
altri campi. Fui avviata con altre disgraziate come me, a piedi, sulle strade della
Germania. Non mi voltavo a guardare le compagne che cadevano e che venivano
finite con una fucilata alla testa. Andavo avanti e comandavo alle mie gambe di
camminare. La strada era disseminata di morti senza tomba. Ci buttavamo sugli
immondezzai e ci riempivamo come pazzi di qualunque cosa. Arrivai al campo di
Ravensbrük e poi ancora altri campi, fino alla primavera del 1945.
Vive per miracolo, scheletri senza parvenza di femminilità, vedemmo fuggire i
nostri aguzzini e giungere gli americani da una parte e i russi dall’altra. Eravamo
testimoni della Storia che cambiava sotto i nostri occhi, sconvolte, stanchissime
ed emozionate.
Tornai a Milano dopo sei mesi, quando gli americani riuscirono ad organizzare il
rientro, dopo averci diviso per nazionalità. Nell’agosto del 1945 arrivai, in un
camion americano, in piazza Cadorna. Mi avviai alla mia casa di corso Magenta
per vedere se c’era qualcuno dei miei, ma le finestre rimasero chiuse per sempre.
Liliana Segre
Classi seconde. Dal Diario di Anna Frank
Spero che ti potrò confidare tutto, come non ho mai potuto fare con nessuno,
e spero che sarai per me un grande sostegno.
Anna Frank, 12 giugno 1942.
Così inizia il diario di Anna Frank il 12 giugno 1942. È il giorno del suo
tredicesimo compleanno e il diario è un regalo, che lei chiama Kitty, perché non
ha una vera amica e ha l’esigenza di confidare i suoi pensieri a qualcuno che
l’ascolti. La famiglia, ebrea, è costretta ad emigrare dalla Germania fino in
Olanda, ad Amsterdam, per sfuggire alle persecuzioni scatenate dalle leggi
razziali di Hitler.
Dopo l’invasione tedesca dell’Olanda, il 6 luglio 1942 la famiglia Frank, composta
da quattro persone, la famiglia Van Daan, di tre persone, e il signor Dussel,
decidono di nascondersi all’interno di un alloggio segreto, situato nella casa dove
il padre di Anna Frank aveva l’ufficio. Nei due anni seguenti nessuno di loro uscirà
più all’aria aperta. All’alloggio segreto si può accedere attraverso un armadio
girevole, insospettabile. Gli otto "segregati" sono aiutati da altre quattro persone
non ebree, indispensabili in quanto sono loro che portano da mangiare, i libri ed
altro, sono loro che proteggono i fuggiaschi. Lungo il corso di questa clausura,
tremeranno ai bombardamenti, trasaliranno a ogni minimo rumore, avranno
momenti di speranza alternati a momenti di tristezza. Anna è molto intelligente,
sembra già adulta, è costretta ad abbandonare la scuola, gli amici, il vivere
"agiato", a sacrificare la sua gioventù fra gli stenti e la paura. Anna possiede,
però, quell’ironia e quella semplicità che le permetteranno di sostenere i duri
momenti che l’attendono con grande coraggio.
Anna scrive, il 15 luglio 1944:
« "la gioventù, in fondo, è più solitaria della vecchiaia."
Questa massima che, ho letto in qualche libro mi è
rimasta in mente e l’ho trovata vera; è vero che qui gli
adulti trovano maggiori difficoltà che i giovani? No, non
è affatto vero. Gli anziani hanno un’opinione su tutto, e
nella vita non esitano più prima di agire. A noi giovani
costa doppia fatica mantenere le nostre opinioni in un
tempo in cui ogni idealismo è annientato e distrutto, in
cui gli uomini si mostrano dal loro lato peggiore, in cui
si dubita della verità, della giustizia e di Dio. Chi ancora
afferma che qui nell’alloggio segreto gli adulti hanno
una vita più difficile, non si rende certamente conto
della gravità e del numero di problemi che ci assillano,
problemi per i quali forse noi siamo troppo giovani, ma
ci incalzano di continuo sino a che, dopo lungo tempo,
noi crediamo di aver trovato una soluzione; ma è una
soluzione che non sembra capace di resistere ai fatti,
che la annullano. Ecco la difficoltà di questi tempi: gli
ideali, i sogni, le splendide speranze non sono ancora
sorti in noi che già sono colpiti e completamente
distrutti dalla crudele realtà. È un gran miracolo che io
non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché
esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo
ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere
nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire
tutto sulla base della morte, della miseria, della
confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un
deserto, odo sempre più forte il rombo l’avvicinarsi del
rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di
milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso
che tutto volgerà nuovamente al bene, che anche
questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno
l’ordine, la pace e la serenità. Intanto debbo
conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui
forse saranno ancora attuabili.»
Anna Frank, op. cit. , 15 luglio 1944
Così scrive Anna, pochi giorni prima che i tedeschi irrompano nell’alloggio
segreto, dopo due anni di "semi-prigionia", dal 9 luglio ’42 al 4 agosto ’44. È una
riflessione che contrappone i giovani agli adulti e mette in evidenza la maturità
raggiunta dalla quindicenne Anna, consapevole di quanto sia terribile, per chi è
giovane, vivere in un tempo in cui ogni idealismo è annientato e distrutto, dover
rinunciare agli ideali e ai sogni proprio nell’età in cui cominciano a delinearsi.
Classi terze. Dal Diario e dai Pensieri di Etty Hillesum.
Etty Hillesum nasce il 15 Gennaio 1914 a Middelburg in Olanda, da una famiglia
ebraica.
A fine luglio del 1942 Etty giunge al campo di Westwrbork, un campo di transito,
situato in prossimità della frontiera tedesca, dal quale parte ogni settimana un
convoglio per Auschwitz.Anche se non è riuscita a sopravvivere all’inferno di
Auschwitz, la sua voce continua oggi a risuonare alta e forte grazie al Diario e ai
Pensieri, le opere che ci ha lasciato e che rappresentano la testimonianza del suo
percorso interiore per resistere a quella situazione estrema e per non farsi
travolgere dall’odio.
Il “cuore pensante della baracca”: dal Diario e dai Pensieri di Etty
Hillesum.
«La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure, alla sera tardi, quando il
giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo
lungo il filo spinato e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce – non ci
posso fare niente, è così, è di una forza elementare – e questa voce dice: la vita
è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo
completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo
pezzetto d’amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo
soffrire, ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo
tempo, corpo e anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto
di dire la nostra parola a guerra finita». 1
«Il lamento dei neonati si gonfia, riempie tutti gli angoli e le fessure della baracca
illuminata in modo spettrale, è quasi insopportabile. Nella mia mente affiora un
nome: Erode». 2
«La miseria che regna qui è davvero indescrivibile. Nelle grandi baracche si vive
come topi in una fogna. Si vedono languire molti bambini. Ma si vedono anche
molti bambini sani. Una notte della settimana scorsa è transitato qui un convoglio
di prigionieri. Visi diafani e pallidi come la cera. Non ho mai visto tanta
stanchezza e sfinimento su un volto. A Westerbork dovevano passare “attraverso
la chiusa”: registrazione e ancora registrazione, perquisizione, quarantena, una
piccola via crucis di ore e ore. Al mattino presto sono stati ammassati in vagoni
merci vuoti. Il loro treno è stato ancora sigillato con tavole di legno qui in
Olanda: altro ritardo. Poi tre giorni di viaggio a est. Materassi di carta per terra,
per i malati. Per gli altri, vagoni completamente spogli con un barile nel mezzo e
circa settanta persone in un vagone chiuso. Ci si può portare solo un tascapane.
Mi chiedo quanti di loro arriveranno vivi». 3
«Sono salita un momento su una cassa che si trova fra i cespugli per contare il
numero dei vagoni merci, erano trentacinque, preceduti da alcuni vagoni di
seconda classe con la scorta. I vagoni merci erano completamente chiusi, ma qua
1
E. Hillesum, Diario (1941-1943), Adelphi, Milano 1996, p.245
E. Hillesum, Lettere (1942-1943), Adelphi, Milano 2001, p.133-134
3
Ibid., pp.85-86
2
e là mancavano delle assi, e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio
come le mani di chi affoga». 4
«La gente si smarrisce dietro a mille dettagli che qui vengono quotidianamente
addosso e in questi dettagli si perde e annega. Certo, non tiene più d’occhio le
grandi linee, smarrisce la rotta e trova assurda la vita. Le poche cose grandi che
contano devono essere tenute d’occhio, il resto si può tranquillamente lasciare
cadere. E quelle poche cose grandi si trovano dappertutto, dobbiamo riscoprirle
ogni volta in noi stessi per poterci rinnovare alla loro sorgente. E malgrado tutto,
si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona, non sarà colpa di
dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia
convinzione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con tutta la mia
famiglia». 5
4
5
Ibid., p.65
E. Hillesum, Lettere (1942-1943), Adelphi, Milano 2001, p.75