n°39 - Maggio 2010 - Liceo Statale Tito Lucrezio Caro
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n°39 - Maggio 2010 - Liceo Statale Tito Lucrezio Caro
Lyceum n. 39 - Maggio 2010 Editoriale Un nuovo modo di fare paideia La riforma della Scuola secondaria di secondo grado è ormai legge, per cui il prossimo primo settembre sarà al via e coinvolgerà tutte le istituzioni scolastiche. Il tempo della protesta e della resistenza è finito, tutti siamo impegnati, con entusiasmo, a lavorare secondo le indicazioni tracciate dalla riforma! Temporeggiare oltre, probabilmente, sarebbe stato peggio e avrebbe ridotto ulteriormente i tempi necessari per acquisire la coscienza del cambiamento, per lo studio delle opportunità di miglioramento e per un’organizzazione quanto più consapevole ed efficiente. Ora che la riforma è certa, ora che la riforma toccherà tutti noi il prossimo settembre, è nostra attenzione e nostro dovere affrontare, con il consueto impegno e l’abituale professionalità, le criticità che certamente sono presenti e quelle che si presenteranno nei prossimi anni. Le famiglie, gli allievi, la comunità tutta stiano tranquilli; noi, docenti del Tito Lucrezio Caro, siamo convinti che dobbiamo rimetterci in gioco per trasformare le criticità presenti in opportunità: un gruppo di noi sta già lavorando per predisporre tutto quanto è necessario ed opportuno per quella che sarà la nostra organizzazione il prossimo anno scolastico. I docenti, con impegno e grande passione, hanno cominciato a predisporre nuovi curricoli, metodologie e modalità più efficaci, criteri di valutazione quanto più chiari e coerenti con le nuove esigenze e rispondenti alle mutate finalità. Siamo però consapevoli che tutto questo non sarà sufficiente se non riusciremo a coinvolgere studenti, famiglie e comunità tutta. Il Tito Lucrezio Caro sta già lavorando per maturare e fare proprio il cambiamento; ora occorre che il vostro coinvolgimento sia più incisivo e proficuo rispetto al recente passato. Oggi, ad iscrizioni ormai chiuse, mi rivolgo, in particolare, a quelle famiglie che hanno iscritto i propri figli, e sono tante, presso il nostro liceo, senza avere notizie certe sull’offerta formativa del prossimo anno scolastico; ci hanno riconosciuto una fiducia che ci gratifica, ci inorgoglisce e ci onora, ma allo stesso tempo ci hanno affidato una Lyceum Maggio 2010 3 4 responsabilità che ci impegna, ancora di più, ad adoperarci in tutti i modi ed in ogni circostanza per far crescere ed arricchire i contenuti didattici del nostro istituto. In considerazione del vostro riconoscimento, quest’ufficio dirigenziale s’impegna, fin da ora, a consegnare in tempi rapidi la prima stesura di quanto intendiamo fare fin dal prossimo primo settembre, in modo che tutti possiate verificare, controllare e collaborare con noi per raggiungere il meglio per i vostri figli, per i nostri giovani! Tutto ciò oggi ha una valenza ancora più forte, in quanto la crisi economica sta colpendo soprattutto la nostra regione con una crescente e preoccupante disoccupazione e i giovani sono i più colpiti. Siamo ben consapevoli delle preoccupazioni di studenti e famiglie che, anche se non sentono un particolare bisogno di conoscere le ragioni di questa grande depressione, hanno sicuramente interesse per le soluzioni e le implicazioni personali che essa comporterà. Per poter reggere ed invertire questo stato di cose, la scuola deve tornare ad essere fra i soggetti principali in cui investire risorse e nuove progettualità. È per queste ragioni che stiamo considerando una serie di strumenti, metodologie e modalità di intervento didattico ed educativo che promuovano la consapevolezza e la maturazione di sensibilità e competenze personali, affinché ogni allievo possa pensare al proprio futuro, dal punto di vista umano, sociale e professionale, elaborando, esprimendo e argomentando un personale progetto di vita. Questo impegno ulteriore e straordinario, non ci allontana naturalmente dalla normale e quotidiana progettualità che ci ha caratterizzato negli ultimi anni. Le attività programmate per il corrente anno scolastico, infatti, si avviano alla loro conclusione, con soddisfacenti risultati. Tra le numerose iniziative, mi sia consentito citare l’interesse intorno al progetto “La scuola incontra l’autore”, arricchito dalla nuova sezione “La scuola incontra i suoi autori”, che prima del termine dell’anno scolastico vedrà la presentazione del primo volume de Il cattolicesimo politico napoletano dall’età giolittiana all’Italia repubblicana, scritto dall’ex alunno Giuseppe Palmisciano, oggi docente universitario. A fine aprile, dopo il riuscitissimo Convegno su Darwin, vi sarà il Convegno sulla figura di Giovanni Amendola, un uomo politico, eletto nel collegio di Sarno, uno dei tenaci oppositori al regime fascista di Mussolini, che riuscì a zittirlo solo ricorrendo alla brutalità. I relatori del Convegno arriveranno da tre Università: Napoli, Salerno e Viterbo. Noi lavoreremo sempre e di più, la comunità tutta può stare tranquilla, ma anche noi abbiamo bisogno di voi tutti, abbiamo bisogno di sostegno, di appoggio, di aiuto nella nostra richiesta incessante di avere materiale didattico aggiornato ed idoneo alle nuove esigenze di fare paideia. Vogliamo una scuola, quale che sia il luogo, al centro dell’attenzione e delle cure della comunità tutta. Se avremo questo, se chi può e siete in tanti, ci sarà vicino in questo impegno, noi con tutte le nostre forze cureremo, come sappiamo fare, lo spirito e la mente dei nostri giovani e Sarno continuerà ad essere un punto luminoso nel mondo scolastico e culturale del nostro Paese. Giuseppe Vastola Dirigente Scolastico Liceo Classico, Scientifico e Linguistico Maxisperimentale “T. L. Caro” - Sarno (Sa) Strumenti Come anticipato nel n. 38 di Lyceum, la Rivista di maggio 2010 si apre con alcune delle riflessioni del Prof. Aldo Masullo, eminente pensatore, docente di Filosofia Morale presso l’Università “Federico II” di Napoli, sul concetto di evoluzione al centro della ricerca filosofica e scientifica, assumendo come tema centrale la figura e il pensiero di Charles R. Darwin. Non meno accattivante ed interessante è il contributo in ambito letterario, su Giovanni Boccaccio, di Roberta Morosini, docente della prestigiosa Università americana “Wake Forrest”, così come gli interventi di vario genere sulla cultura umanistica. Estremamente interessante si presenta l’articolo su De Chirico in un itinerario che, a partire da note biografiche dell’artista, si snoda in modo da far emergere il nesso inscindibile tra arte e psicoanalisi in un gioco di luci ed ombre che assumono una valenza squisitamente simbolica. E cosa dire dell’intervento della Dott.ssa Giovanna Esposito? Ebbene, grazie ad esso, si ha la possibilità di acquisire conoscenze fondamentali in un ambito specifico: la medicina di genere. E un fascino particolare traspare dal lavoro interdisciplinare sulle Beatitudini, arricchito da esegesi testuali. Manifesto del Liminarismo Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno, ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia” (limen) e di “confine” (limes). In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i passaggi da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed analizzare: • il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che, pur se cangiante, non è relativistica; • il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di senso da dare alle cose; • i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base dell’identità di una nazione o di una comunità; • il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro; • la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura; • il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione; • il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari; • il ruolo della contaminatio fra culture diverse; • la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”; • il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico; • il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia; • il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo; • il superamento del limite come propensione verso la conoscenza; • il concetto matematico di limite come valore al quale tendere; • il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”. La Direzione e la Redazione di Lyceum Lyceum Maggio 2010 7 Strumenti/Liminarismo Manifesto of Liminarism 8 In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time is right to pay attention - at a methodological level - not only to the general concrete structure of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes). According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following: - the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision which, while certainly subject to change, is not merely relativist; - the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any meaning to give to things; - the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past and present) on which national or community identity is frequently based; - the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other; - the function of law within both democratic and dictatorial regimes; - the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas; - the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as repositories of traditional knowledge; - the role of contaminatio among differing cultures; - the line between normality and “ab-normality”; - the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield richer insights into a work of art than its macroscopic aspects; - the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness; - the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as “translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] - in a word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply original and unrepeatable form; - the crossing of boundaries as a movement towards knowledge; - the mathematical concept of limits as a value to be striven for; - the process of “trial and error” in scientific research. The Directors and Editors of Lyceum La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof. John McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora. 9 Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla Prof.ssa Maria Albano dell’Università di Macerata Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo 10 Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua polacca dal Dott. Gennaro Canfora, alto funzionario dell’Istituto Italiano di Cultura a Varsavia. Per credere, bisogna esser capaci di non credere IDEE LIMINARI Tra la fede e la scienza non c’è una grande differenza: c’è sempre la potenza della grandezza umana, che vuole “credere” nel senso di “avere fiducia”, ma è pronta a rigettare inganni, pregiudizi e falsi miti. E ssere vissuti e andare al di là della Vita. La Scienza è una sfera della realtà, nella quale l’uomo si accorge di stare come in un labirinto, ma non pretende, come Dedalo e Icaro, di mettere le ali e volare al di sopra di esso; anzi, si mette pazientemente a ripercorrere, metro per metro, ogni suo angolo, per ricostruirne la pianta e per muoversi, quanto più è possibile, senza correre il rischio di smarrirsi. L’atteggiamento dello scienziato è anche e soprattutto questo: quello di avere la pazienza di entrare, via via, in un accordo con la realtà, allo stesso modo di come le mie arterie non possono funzionare, se non secondo quella che è la legge della realtà e, nella fattispecie, della circolazione sanguigna. Ma, mentre io “sono vissuto” dalla mia natura, mentre io stesso sono un momento, un episodio nel lunghissimo processo dell’evoluzione, sono anche quello che si affaccia sulla propria natura. E noi, che cer- 11 chiamo di capire che cosa sia l’evoluzione, ci rendiamo conto del fatto che non ne siamo solo il risultato, ma ne siamo i provocatori. Vogliamo vederci chiaro, vogliamo in qualche modo cercare di andare al di là della nostra vita. Verità di scienza e verità di fede. Lo scienziato dice che la verità è ciò che io posso dimostrare fino a prova contraria, fino ad una falsificazione eventuale. La verità è indipendente dalla condizione, in cui ci si trova in un determinato momento, o dai materiali che si riescono ad acquisire e di cui si dispone, sia perché non si esclude che, se si arricchisce la dotazione di materiale o si combinano le condizioni in cui ci si muove, anche la verità cambia. Viceversa, il teologo dice: “La verità di Dio è immutabile. Io non Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo contesto il vostro diritto di ricercare una verità scientifica, perché io, dalla mia, ho un’altra cosa: la fede”. Ora, la fede è una categoria del rapporto intersoggettivo, prima di essere una categoria del rapporto tra uomo e Dio. Infatti, è pur vero, che anche Lui è un soggetto, ma la prima esperienza è quella che avviene tra di noi. Voi pensate a come sarebbe stata la società, se i primi uomini non avessero avuto fiducia l’uno dell’altro. Immaginiamo che un uomo avesse detto ad un altro: ”Costruiamo una capanna, perché in questo modo ci ripariamo dal freddo e dalla pioggia”. Da un lato, gli si poteva dar credito e ragione, anche se in quel momento non era facile capirlo. Ma, dall’altro, qualcuno avrebbe potuto dubitare, asserendo: ”Costui mi vuole imbrogliare”. Nessuno avrebbe costruito la capanna, e sarebbero stati male sia colui che l’aveva proposto, sia colui che non gli aveva 12 concesso fiducia. D’altra parte, la parola verità deriva da una radice iranica, persiana, antichissima, che significa proprio fiducia; fede, come fiducia. In fondo, le verità, sia quella dello scienziato che quella del teologo, da un punto di vista esistenziale, non sono diverse; lo scienziato svolge una serie di argomentazioni e, alla fine, non può fare a meno di credere nelle conclusioni che egli può ricavare da tutte le sue testimonianze, fino a prova contraria. In quel momento, non può fare a meno di credere, perché in tal caso negherebbe se stesso. Pertanto, la verità scientifica è fede: sarebbe bello se, dopo aver fatto una lunga ricerca, alla fine dicesse “Io non credo a quello che ricavo da ciò che ho cercato. Il risultato potrebbe anche essere falso; ma, fino a che io non abbia la dimostrazione che esso è falso, questa per me è la verità e io ci credo”. Tra la fede e la scienza non c’è una grande differenza, c’è sempre la potenza della grandezza umana, la quale non vuole scindere il proprio rapporto dell’una dimensione dall’altra. Una possibile età dei lumi. Io, per poter essere in rapporto con la realtà, per poter comunicare con la realtà, per poter essere intrinseco alla realtà, debbo in qualche modo aver fiducia in quello che essa mi dice e in quello che mi dicono gli altri. La ragione è nient’altro che lo spirito critico, attraverso il quale io evito di trasformare questa fiducia in volgarità. Se viene da me un ciarlatano che mi vuole convincere di alcune tesi, io metto in campo il mio senso critico e la mia ragione, che, appunto, consistono nello svelare la menzogna del ciarlatano, nel non credere a quello che egli dice. Purtroppo, spesso, gli si crede, ma penso che un principio fondamentale dell’uomo sia quello dell’abituarsi a non credere. È paradossale, ma, per credere au- Giuseppe Bezzuoli, Galileo dimostra la legge di caduta dei gravi - Affresco tenticamente, bisogna essere capace di non credere. Per riuscire a intravedere la verità, bisogna avere la capacità di respingere la falsità. Io sono convinto che l’evoluzione non sia affatto in contrasto con la religione. Per spiegare il rapporto tra l’evoluzione e il Padre Eterno, ricorrerei ad un paragone: il loro rapporto è simile a quello che esiste tra la madre gravida e il proprio figlio che sta nel suo grembo. La madre è sempre la stessa, è suo figlio che cresce, evolve, si sviluppa. È come se la ma- dre rimanesse identica a sé, ma a quella identità corrisponde un movimento, ed è il movimento di ciò che, via via, si va formando. Allora, se noi, anziché irrigidirci negli schemi, nei pregiudizi, cercassimo di ragionare con la nostra testa e, soprattutto, di capire le modalità con le quali noi pensiamo, sicuramente scomparirebbero molti equivoci e noi, raggiungeremmo davvero quella condizione dell’umana cultura, che Kant chiama età dei lumi. Aldo Masullo Filosofo e scrittore Università di Napoli 13 L’intervento qui pubblicato riporta alcune delle riflessioni, che il grande filosofo Aldo Masullo ha svolto, a braccio, nel corso del Convegno su Darwin organizzato dal Liceo “T. L. Caro” di Sarno. Il testo è stato registrato e trascritto da Elisena Franzese, Loredana Gaudino, Maria Vittoria Marzullo e Emanuela Rega Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo Una scrittrice di frontiera Animali umanizzati, uomini e donne nelle Favole di Maria di Francia La liminarità di una favolista che oscilla tra il desiderio di un’armonica intesa tra le classi sociali e l’auspicio altrettanto convinto di un’immobilità che conservi il sistema gerarchico del suo tempo. 14 C hi è Maria di Francia? “Marie ai num, si sui de France”. Mi chiamo Maria e sono della Francia, scrive nell’epilogo delle sue Favole una delle figure più enigmatiche del XII secolo: Maria di Francia, a cui si attribuiscono i Lais, le Favole e Il Purgatorio di San Patrizio. Nel corso dei secoli la poetessa si è vista riconoscere identità diverse: figlia illegittima di Goffredo IV d’Angiò e sorellastra di re Enrico II (11331189), Maria sarebbe stata, dal 1181 al 1215 circa, la badessa del convento di Shaftesbury fondato da un certo Alfredo, probabilmente l’omonimo re di cui parla Maria nell’epilogo delle Favole. L’altra ipotesi è che Maria sia stata badessa dell’abbazia di Reading, sempre in Inghilterra, o addirittura la contessa Marie de Champagne, come autorizzerebbe a credere un commento del poeta inglese Denis Piramus, autore nel 1170 circa di La vie de Seint Edmund le rei. Pertanto è impossibile stabilire con assoluta certezza l’identità e il periodo di attività della nostra favolista, ma il fatto che accanto al nome Maria si specifichi che è della “Francia”, e che il manoscritto Harley 978, unico a contenere le Favole e i Lais, sia stato probabilmente trascritto presso l’abbazia di Reading, lascia supporre che la scrittrice sia nata in Francia e si sia trasferita poi in Inghilterra. D’altro canto, se Maria non stesse scrivendo lontano dalla sua terra di origine, non avrebbe avuto bisogno di specificare di essere “della Francia”. I protagonisti delle favole: gli animali umanizzati. Come nella favola esopica, la favola di Maria va dai dieci ai cento versi, presenta un dialogo e si conclude con l’epimitio, la parte finale destinata alla morale. Sessanta sono gli apologhi in cui il valore esemplare allegorico attribuito alla favola è affidato agli animali. I racconti della favolista francese si contraddistinguono, nell’ambito del genere favolistico, per l’utilizzo di una terminologia prettamente feudale che si concretizza nella contrapposizione leial e felun, rendendo più umani i personaggi animali. Anche la frequenza dei verbi di pensiero (“pensò tra sé” / “dentro di sé”) e riflettere (purpenser) contribuisce ad evidenziare l’umanizzazione degli animali, a cui viene esplicitamente attribuita un’abilità riflessiva. La favola del lupo e dell’agnello si offre come un valido esempio: la personalità del lupo e il suo agire vengono annunciati sin dai primi versi, in cui si legge che “facilmente irritabile,/ si rivolse incollerito all’agnello”. A rendere, però, più verosimili le favole, lasciando scoprire sotto le mentite spoglie della finzione animale i vari aspetti della vita quotidiana dell’epoca di Maria, è la contestualizzazione degli apologhi in un mondo concreto che si pone in netto contrasto con la generale e astratta società esopica, rendendo la favola uno strumento di satira e protesta sociale. Maria di Francia, alla fine del XII secolo, decide di abbandonare l’aspetto e la genericità tipici della favola per farne un pamphlet satirico della società del suo tempo. Nell’epimitio della favola del lupo e della gru Fedro si esprime in termini morali e sostiene che non si guadagna nulla ad aiutare persone ingrate; Maria invece pone la morale in termini di pote re: il lupo rientra nella categoria dei “signori malvagi”, mentre la gru viene identificata con “l’uomo povero” al loro servizio. La terminologia feudale, che emerge soprattutto dalle morali finali, conferma il tentativo di Maria di adeguare l’apologo alla società del tempo: le categorie debole/ potente, rispettivamente assegnate ad animali mansueti e forti, vengono dalla favolista associate al signore e al vassallo, rappresentanti della gerarchia feudale. In generale, Maria rivendica i diritti dei più deboli e si pone contro i crimini perpetrati nei loro confronti; nella favola 32, L’agnello e la capra, (Una pecora aveva appena partorito;/ il pastore le tolse/ il suo agnellino e lo portò via con sé./ Lo diede a una capra/ che lo allevò col suo latte/ e lo portò a vivere con lei nel bosco./ Quando l’agnello era ormai cresciuto/ la capra lo chiamò a sé e gli disse:/ “Vattene dalla pecora, tua madre,/ e dal montone, tuo padre./ Io ti ho cresciuto abbastanza”./ E l’altro rispose con saggezza:/ “Ho l’impressione che mia madre/ sia quella che mi ha cresciuto/ e non quella che mi ha portato in grembo/ e che mi ha allontanato 15 da lei”) anche la maternità viene presentata in termini feudali di tutela e lealtà verso chi non può e non sa proteggersi. Le favole 21 (Il lupo e la scrofa) e 32 si rivolgono alle madri perché prendano atto della loro responsabilità: Maria, da una parte loda la saggezza della scrofa invitando le madri a mentire, pur di non lasciare morire i loro piccoli, e dall’altra difende i diritti dell’agnello abbandonato dalla propria madre. Allo stesso modo, la favolista non esita a protestare contro certi ingiusti processi dell’epoca e contro la corruzione dei giudici, perché a farne le spese erano sempre i più deboli, come la pecora ingiustamente accusata e condannata in un processo in cui è stato dichiarato il falso. E’ anche vero che, mentre la poetessa sembra auspicare un cambiamento sociale per il riconoscimento dei diritti dei più Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo deboli, il suo conservatorismo, legato ai pregiudizi dell’epoca, sembra confermare il contrario. Gli uomini e le donne. L’atteggiamento ambiguo di Maria verso le classi sociali più deboli si manifesta in tutta la sua complessità nelle favole con personaggi umani. Un pastore, un cacciatore, un cavaliere, un pescatore, un falegname, un medico, un ladro, un fabbro, una strega e poi un eremita, un mercante, un contadino, un prete sono i protagonisti di ben 29 favole. I personaggi umani, liberati dal travestimento animale, riflettono umori 16 e pregiudizi del XII secolo. Certo, Maria di Francia non è la prima ad affiancare agli animali degli esseri umani sia nella difficile gestione di una partnership o da soli, ma nelle sue favole, veri e propri drammi in miniatura, la poetessa rivela la sua abilità di narratrice, che, a differenza dei favolisti precedenti, non ha mai fretta di arrivare alla morale finale. A Maria sta a cuore lo sviluppo del racconto e privilegia il dettaglio significativo, l’epiteto che caratterizza i personaggi delle sue favole: il servo, il ricco, ma, soprattutto, il vilein, il contadino, tutti accuratamente caratterizzati psicologicamente. La favolista, inoltre, infrange una delle leggi fondamentali del canone favolistico, che esclude l’analisi della vita sentimentale dei personaggi affinché i sentimenti si esprimano attraverso l’azione. In una favola non si dovrebbe dire che un personaggio si innamora, ma lo si fa arrossire davanti a ciò che provoca il suo sentimento: la psicologia dovrebbe diventare in un certo senso “meccanica”. L’interesse di Maria per l’universo psicologico, entro cui si muovono le figure delle sue favole, si riscontra nel ricco repertorio di avverbi e aggettivi che denotano gli stati emotivi del personaggio, ma a determinare il loro comportamento è più che un segnale di tipo psicologico o caratteriale: la categoria alla quale Maria lo fa appartenere. Accanto a figure socialmente indeterminate come un uomo o una donna, Maria di Francia ne colloca altre che, a differenza dei favolisti precedenti, vengono designate col nome generico della loro categoria sociale: contadino, uomo ricco e prete. Il prete, oltre all’altra figura religiosa dell’eremita, non ha implicazioni sociali nel racconto. Tuttavia la sua presenza nel corpus di favole di Maria contribuisce a dare un quadro esaustivo e fedele dei principali gruppi sociali che costituiscono l’ordinamento feudale della fine del XII secolo e di quelli che stavano per affermarsi. Il termine “ricco” equivale nelle Favole al ceto cavalleresco e non corrisponde più al personaggio che si oppone al povero nella favola antica. Il personaggio dell’uomo ricco è protagonista solo di quattro favole, ma la sua presenza conferma che Maria, a differenza dei favolisti latini, vuole precisare il rango sociale dei suoi personaggi. Nella favola 64, L’uomo, il cavallo e il caprone, nelle vesti consone al suo personaggio il ricco è un affarista che vuole vendere il suo cavallo e un caprone per venti monete ciascuno. Quando sente che il compratore vuole solo il cavallo, perché il caprone non valeva niente, “l’uomo ricco, indispettito gli disse che doveva comprarli tutti e due o nessuno dei due”. Maria evidenzia l’ostinazione e l’arroganza del ricco e non esita ad attribuirgli un termine come “nunsavant”, uno sciocco che è talmente legato alle sue abitudini, buone e cattive, che non può rinunciare ai suoi stupidi desideri. Maria condanna il “mal us”, le cattive abitudini, che corrispondono al modo di agire di un villano. Si direbbe dunque che per la favolista villano e ricco si distinguano solo da un punto di vista comportamentale. Il contadino. Uno dei personaggi più popolari delle Favole è certamente il vilein. Sebbene non sia facile stabilire il vero significato attribuito da Maria al termine vilein, si può convenire che si tratta non tanto di un generico segnale di identificazione della provenienza sociale, quanto di un termine derogatorio associato alla categoria del contadino. Difatti, verso la fine del secolo XII, villano è colui che agisce in opposizione alla curteisie e nei Lais il termine indica un modo di agire nella società. Le occorrenze della parola vilein nelle Favole ci convincono che si tratta di un vero e proprio marchio sociale che serve a segnalare e introdurre un comportamento tipico da contadini, confermato dall’etimologia della parola: vilanie sta alla rusticitas come curteisie sta all’urbanitas. Ben sedici sono le favole di cui è protagonista il vilein e non sempre è chiaro il ruolo che gli viene assegnato nelle Favole poiché, come afferma Propp, i ruoli o le funzioni dei personaggi sono gli elementi stabili e costanti della favola, ma indipendenti dall’identità dell’esecutore o dal modo di esecuzione, per cui uno stesso personaggio può svolgere diversi ruoli. La favola 47, Il contadino e il suo cavallo, contrariamente ad ogni aspettativa, elogia il personaggio del contadino, che di solito viene schernito o umiliato, per la sua abilità oratoria: secondo Maria un’espressione del buon senso che salva dalle situazioni pericolose. Si tratta di un episodio isolato nel curriculum vitae di questo personaggio. L’immagine più ricorrente del contadino si riassume nel tipo dell’agroikos, la figura shakespeariana del clown, il personaggio rustico che fa ridere per la sua grossolanità. 17 Nel tentativo di ricostruire un primo identikit del contadino delle Favole emerge che sul piano coniugale è un beffato -come avverrà nei fabliaux, genere letterario posteriore alla favola- spesso tradito sotto i suoi occhi dalla moglie, di cui può considerarsi la vittima principale. Anche sul piano sociale è una vittima: della giustizia corrotta o della sua stessa ingenuità. In definitiva il contadino ha il cuore buono e crede in Dio, anche se gli si rivolge “devotamente” come dispensatore di beni materiali o perché protegga “sua moglie,/ i suoi figli e nessun altro”. Incapace di ogni forma di spiritualità, è fondamentalmente un pragmatico, come verrà poi tramandato dalla tradizione fabliolistica del contadino avaro. Oltre ad essere estremamente pragmatico, il contadino si contraddistingue per la sua avidità, che si esprime nelle Favole anche in termini di maliziosa curiosità. Tuttavia, il modo in cui Maria procede Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo nell’attribuzione delle colpe non corrisponde ad una semplicistica suddivisione dei buoni e dei cattivi, e la scelta degli aggettivi per l’uomo ricco e il contadino rivela che la ripartizione di qualità e difetti avviene secondo criteri sociali e non più esclusivamente morali, come succedeva invece nella favola antica. Ai termini generici di villano, servo e operario se ne affiancano altri come ignorante e sciocco che, pur essendo denigratori, avevano all’epoca una valenza semantica altrettanto generica. La dialettica follia/saggezza. Il termine fol/stupido fa sovente coppia con sage/saggio, suo polo dialettico, e coincide con la mancanza di buon senso. Il frequente ricorso nelle Favole della parola sage non è casuale. Il mo18 tivo della folie è assente nella favola latina e quello di sagesse non figura in nessun testo didattico o religioso prima della prima metà del XII secolo. Uno studio sull’uso del termine sage nei testi letterari del Medioevo evidenzia in che modo la parola, da un senso prettamente letterario nei romanzi antichi, assuma, già nei Lais di Maria, un registro morale e sociale, fino a coincidere negli anni 1180-1240, con la lealtà. Avendo Maria contestualizzato i suoi apologhi alla società del tempo, la contrapposizione saggio-folle perde il suo tradizionale significato per assumere una connotazione tutta feudale. E’ in questa chiave, pertanto, che va interpretato il termine fol, che segnala l’atteggiamento insensato e assurdo di colui che con le sue pretese impossibili, perché poco consone al suo rango sociale e al suo ruolo, infrange le regole stabilite per lui dalla società. La visione della donna liminare fra tradizione e innovazione. E, infine, la donna, una delle figure centrali delle favole con personaggi umani. Una prima caratteristica attribuibile alla donna di queste favole è l’improduttività economica, secondo la mentalità del tempo che vuole sia l’uomo a guadagnarsi il pane col sudore della fronte. Nella maggior parte dei casi, anche se mai esplicitamente ammesso nelle Favole, il posto della donna è a casa e il suo ruolo è del tutto improduttivo. Vedova, figlia, moglie, amante e strega, la donna che emerge dalle Favole, volendo ricorrere alla nomenclatura di Frye, incarna il tipo dell’Alazon, il personaggio pericoloso e maligno abile nell’inganno. Maria dimostra di essere molto severa nei confronti delle donne di cui le favole sembrano voler illustrare la perfidia. Nella favola che racconta dell’amicizia trasformata in odio tra l’uomo e il serpente, il tentativo di amicizia con il serpente fallisce a causa della cupidigia che, normalmente condannata dalla favolista, passa in secondo piano davanti alla responsabilità della moglie colpevole del malvagio consiglio di uccidere il serpente per appropriarsi del suo tesoro. Maria biasima il consiglio “stupido, perfido e sleale” della donna poiché il marito avrebbe “guadagnato tanti beni/ se lei non l’avesse mal consigliato” e, con tono polemico, suggerisce che “Un uomo di buon senso non deve stare a sentire una donna sciocca,/ né farsi consigliare da lei, come fece questo contadino con la moglie; ciò infatti gli procurò, in seguito, solo pena e sofferenza”. Se nelle Favole emerge che le donne sono la rovina degli uomini, è perché Maria si fa portavoce di certi pregiudizi e della misoginia del suo tempo. L’atteggiamento nei confronti dei personaggi femminili rimane determinato da sentimenti, umori e pregiudizi diffusi presso il popolo e il clero della società del XII secolo. La favolista ricorda alle mogli di rispettare la maritalis potestas in piena sintonia con la mentalità feudale che attribuisce addirittura a Dio l’ordine di porsi ai “comandi” del marito, ma si fa anche portavoce dello spirito del nuovo secolo proponendo l’immagine di una donna abile che cerca di sfuggire a quei vincoli che la società o la cultura le ha imposto. Maria opera così un taglio netto con le donne mitiche e divinizzate dei trovatori, le quali, già escluse dai romanzi di Chrétien de Troyes, non trovano posto nelle sue favole. All’orizzonte delle Favole si intravede già la donna protagonista del suo destino dei fabliaux. Una difficile sintesi: armonia sociale e immobilismo del sistema feudale. Un tema che emerge con insistenza nel corpus di favole “umane” è la lealtà che insieme al tradimento (felunie),), temi familiari al lettore/pubblico del XII secolo, sostituisce quelli della favola latina di tipo morale (con le sue opposizioni buono/cattivo e debole/forte). Nella favola del lupo e del battelliere Maria invita l’uomo leale a diffidare della compagnia dei traditori, ma il termine fa soprattutto riferimento alle relazioni interpersonali che regolano la gerarchia feudale. Il monito a essere leali si rivolge sia al signore che al vassallo; ma è soprattutto ai sottomessi, ai vassalli, che vengono presentate le funeste conseguenze di un agire individuale ed egoistico, deleterio per l’ideale di società che Maria vuole salvare e che prevede una ferrea solidarietà tra i membri che la compongono. E’ l’immobilità sociale a garantire la sopravvivenza della società pensata da Maria: l’infrazione al codice feudale da parte del vassallo non solo disonora il suo signore, ma rappresenta anche una disgrazia per l’individuo che si sottrae al proprio dovere sociale. Si spiega così la condanna di Maria dell’avidità e di ogni altra forma di ricerca di interessi personali e egoistici che si affermano a spese di quell’ideale di società 19 che la favolista vorrebbe conservare. Ma, come conciliare l’armonica intesa tra le parti, o classi, auspicata da Maria di Francia in varie circostanze con l’immobilità, altrettanto auspicata, volta a favorire e consolidare il vecchio sistema gerarchico e una subordinazione delle classi più deboli? Più che cercare di stabilire se Maria si schiera con le classi sociali più agiate o con i poveri e se le stanno a cuore le sorti dei più umili, vale la pena soffermarsi sul modello proposto dalla favolista in un momento di grandi trasformazioni sociali e politiche. Maria propone il modello comportamentale e sociale ( dell’uomo onesto (frans Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo huem), un individuo pronto ad assumere liberamente su di sé le proprie responsabilità sociali e invita il frans huem, e tutti gli individui del suo tempo, ad assumersi le proprie responsabilità per riciclare un sistema ormai datato e farlo funzionare secondo nuove direttive. Fustigatrice, anche se con qualche punta d’ironia, di certi aspetti del suo tempo, Maria 20 di Francia non ha mai accenti di parodia verso il mondo feudale, di cui anzi lei auspica un rinvigorimento per ovviare al suo storico e indeclinabile destino. Roberta Morosini Professore Associato Wake Forest University USA Roberta Morosini, ex vicepresidente dell’American Boccaccio Association e dal 2008 membro dell’esecutivo dell’Ente Nazionale G. Boccaccio. E’ professore associato presso la Wake Forest University, ex Fellow di Harvard University, “Villa I Tatti” (2003-2004), è attualmente borsista presso il “Centro studi Ligure” a Bogliasco. Ha pubblicato un libro su Boccaccio“Per difetto rintegrare. Una lettura del Filocolo di G. Boccaccio”, Ravenna, Longo 2004 e un volume su Boccaccio Geografo, Firenze, Polistampa, Marzo 2010, oltre diversi articoli sullo stesso autore. Tra i titoli più recenti: “ ‘Fu in Lunigiana’. La Lunigiana e l’epistola di frate Ilario (Codice 8, Pluteo XXIX, Zibaldone MediceoLaurenziano) nella geografia letteraria di Boccaccio,” The Italianist, 29, 1, 2009, pp. 50-68; “Secrets and lies. Utilitas, civanza and “recreantise” in Boccaccio’s Allegory of Good and Bad Government: Decameron III 4, in Lectura Boccacci, Day III, a cura di P. M. Forni, F. Ciabattoni (Toronto University Press, Toronto 2010); “‘Con segni e parole ornate’: il Calonaco da Siena o la Ruffianella”, LIA, Giugno 2010; “Penelopi in viaggio ‘fuori rotta’ nel Decameron e altrove. ‘Metamorfosi’ e scambi nel mediterraneo medievale, California Italian Studies Journal, 1-2 (2009). Roberta Morosini è anche traduttrice dall’anglo- normanno in italiano delle Fables di Marie de France (Carocci, 2006), co-autrice con A. Vitti di In search of...Italia ( Metauro, 2003) e con C. Perissinotto di Mediterranoesis. Voci dal Medioevo e Rinascimento Mediterraneo (Salerno editrice, 2007). I suoi recenti lavori sull’Italia nel Mediterraneo del XIV secolo vanno dallo studio della biografia leggendaria di Maometto alla traduzione in italiano del Roman de Mahomet di Alexandre Du Pont del 1258: Il Roman de Mahomet tra tradizione e riscrittura nei Commentari danteschi del XIV secolo e nella Cronica di Giovanni Villani, «LIA», 6, 2005, pp. 293-317; “Muhammad. The prophet of Islam in the cosmography of Fazio degli Uberti,” in Firenze alla vigilia del Rinascimento (Cadmo, 2006, pp.199-218); “Maometto profeta dell’Islam secondo Alexandre Du Pont : l’ascesa di un antieroe a corte” (Mediterranoesis, 2007).Ha appena concluso uno studio su “Medieval Alexander in Italy” (Leiden, Brill, 2010) a cura di D. Zuwiyya e lavora a due contributi su Boccaccio, uno per “Christian-Muslim Relations: A Bibliographical History (Leiden, Brill) a cura di J. Tolan e A. Miller che verrà incluso nel libro “Whispers of the Dove. Representations and Misrepresentations of Muhammad the Prophet of Islam in XIV Century Italy” (in preparazione) e l’altro sul “De Canaria” per un volume a cura di J. Smarr, V. Kirkham, M. Sherberg, University of Chicago Press. Con Francesca Dell’Acqua sta preparando un volume di saggi su Sindibad. Tra Oriente e Occidente. In viaggio con Sindibad tra spazio e tempo nel Mediterraneo (Atti del Colloquio, Wake Forest University Casa Artom, Venezia, Giugno 2008) con un saggio inedito di P. Matvejevic. L’opera d’arte come enigma L’EMICRANIA nell’opera di GIORGIO DE CHIRICO Giorgio de Chirico è cosciente della sua meravigliosa duplicità, espressa dalla grandezza dell’artista e dalla caducità dell’umana miseria e malattia, che sono imprescindibilmente e indissolubilmente legate. U na dolorante biografia: vivere tra nevrosi e fobie Giorgio de Chirico nasce a Volos in Grecia il 10 Luglio 1888, da una famiglia nobile di lingua italiana: il padre Evaristo, ingegnere delle ferrovie, costruisce reti ferroviarie in Bulgaria ed in Grecia, la madre Gemma Cervetto è una discendente della buona borghesia genovese. Nel 1891, dopo tre anni nasce ad Atene il fratello Andrea, che in seguito assumerà lo pseudonimo di Alberto Savinio, per la sua attività di musicista, letterato e pittore. “Giorgino” trascorre la maggior parte della sua infanzia nella ristretta cerchia della famiglia, anche per i continui spostamenti di residenza a cui il padre costringeva Lyceum Maggio 2010 21 Strumenti/Liminarismo i familiari, a causa della sua attività professionale. La sua permanenza in Grecia si protrae fino all’età di 18 anni; ciò costituisce per lui un’ esperienza formativa determinante: i ricordi infantili e la classicità greca, con i miti e l’arte, rappresenteranno due stelle polari nella sua arte. Nel 1906, dopo la morte del padre, la madre decide di trasferire la famiglia a Monaco di Baviera, dove Andrea inizia a sviluppare il suo istinto musicale e Giorgio quello pittorico. Prima di iniziare a considerare gli aspetti salienti dell’arte del Maestro in relazione alla malattia emicranica, voglio ricordare alcuni importanti eventi attraverso una breve 22 anamnesi, che potrebbero spiegare alcuni atteggiamenti su cui tornerò in seguito. • Il padre Evaristo è spesso in cattive condizioni di salute ed il Maestro lo ricordava pallido, emaciato, curvo, invecchiato anzitempo. Ricordo che il pallore facciale potrebbe essere il segnale di fenomeni vasocostrittivi di un attacco emicranico, fenomeno da alcuni definito emicrania bianca. Altra caratteristica del padre Evaristo è la Leucofobia, paura del bianco, che può essere considerata una varietà della tipica fotofobia dell’emicrania. A causa di questo fenomeno, de Chirico in Ebdomero riferisce che in famiglia venivano usate solo delle tovaglie colorate per imbandire la tavola. • Lo zio Gustavo è affetto da una cronica malattia intestinale, che potrebbe far sospettare una forma di Emicrania Addominale; inoltre, egli ha avuto dal medico il consiglio di mangiare carne tutti i giorni per contrastare i fenomeni dolorosi ed essendo molto religioso si fa rilasciare uno speciale “nulla osta” per espressa pronuncia dell’ Autorità Ecclesiastica: morbi intestinalis causa licet Gustavo de Chirico carnem in die veneris edere (a causa della malattia intestinale si autorizza Gustavo de Chirico a mangiare carne il Venerdì). • Lo zio Alberto soffre di una grave fobia dell’aria, per cui dall’età di trent’anni rimane praticamente chiuso in casa, con le finestre e ogni piccola fessura tappate, per paura che germi contaminanti possano entrare in casa. Oltre a ciò, egli affitta anche il sottostante appartamento, che lascia disabitato e sigillato, affinché l’aria non filtri nella propria casa. Presenta, inoltre, la fobia dell’abisso, per cui cammina per casa trascinando una sedia davanti a sé, in modo da evitare di sprofondare nel vuoto in caso di cedimento del pavimento. Tale ultima condizione, oggi, viene da qualcuno interpretata come la conseguenza di una momentanea emianopsia, dovuta ad un’ aura emicranica. • La zia Olimpia è probabilmente affetta da una nevrosi ossessiva che la costringe a strofinare il cranio su svariate superfici, al punto da distruggere la sua splendida chioma, fino a diventare calva. • Il fratello Andrea, Alberto Savinio, soffre della stessa patologia di Giorgio: nei suoi racconti vi sono riferimenti ad episodi di derealizzazione e trasformazione corporea e nei quadri compaiono zigzag ed immagini geometriche, da ricondurre ad aura emicranica. Una pittura enigmatica Possiamo distinguere tre periodi: metafisico, neoclassico e neometafisico. Il periodo metafisico dura circa un decennio, dal 1909 al 1919, ed è considerato universalmente quello migliore in quanto ad espressione artistica ed inizia con il primo quadro metafisico, Enigma di un pomeriggio di autunno. L’arte espressa in questo periodo contribuisce alla definizione di una scuola metafisica, invero assai poco numerosa, dal momento che annovera, oltre al Maestro, il fratello Andrea, alias Alberto Savinio, ed altri due esponenti, in realtà quasi due imitatori, molto lontani dai livelli artistici di de Chirico, quali Filippo De Pisis e Carlo Carrà (che condivide con il nostro un periodo di ricovero per malattie nervose nell’Ospedale militare a Ferrara, dove questi viene ricoverato, per disturbi neurologici, durante la prima guerra mondiale). Il periodo neoclassico inizia nel 1920, in seguito al terremoto critico che rappresenta la svolta in cui egli abiura le precedenti opere e l’arte contemporanea; in questo periodo egli studia antichi trattati, frequenta musei ed inizia la sperimentazione di materiali che possano ricondurlo a ripristinare l’olio emplastico, che sarebbe stato usato dagli antichi maestri dell’arte fiamminga per i loro capolavori e portato segretamente in Italia da Antonello da Messina. Egli parla del suo cambiamento artistico ed interiore in uno scritto a Breton, nel 1922 : “Questo magnifico romanticismo, che noi 23 abbiamo creato, mio caro amico, quei sogni e quelle visioni che ci sconvolgevano e che, senza controllo, senza sospetti, noi abbiamo gettato sulla tela e sulla carta, tutti quei mondi che noi abbiamo dipinto, disegnato, descritto a parole e che costituiscono la vostra poesia, quella di Apollinaire e qualche altro, i miei dipinti, quelli di Picasso, di Derain, e di qualche altro, sono sempre lì, mio caro amico, Lyceum Maggio 2010 Enigma di un pomeriggio di autunno A sua volta il Maestro ha un carattere difficile; è sovente malinconico, scontroso, suscettibile e meteoropatico; è inoltre egocentrico, vanitoso e narcisista, al punto da considerarsi il più grande pittore di tutti i tempi e firmare molte opere come Pictor optimus. È goloso, pedante e taccagno (un dì parlando con un amico gli riferisce di aver fatto un sogno bellissimo: si era addormentato su un materasso pieno di banconote da diecimila lire). Egli ha, inoltre, la fobia dell’acqua, forse condivisa con Picasso, al punto da rifiutare di lavarsi: durante la sua permanenza in America, i fotografi Vogue gli chiedono di posare nudo ed egli rifiuta per non mostrare i buchi nella biancheria intima. La sua opera artistica, pur se prevalentemente pittorica, si è realizzata anche in campo letterario; come scrittore ha composto tre opere di carattere sostanzialmente autobiografico: Ebdomero (1929), Dudron (1940) e Memorie della mia vita (1945). L’opera pittorica si svolge nell’arco di poco meno di 70 anni, a partire dal 1909 fin quasi alla sua morte, che avviene il 20 novembre del 1978 in Roma. Strumenti/Liminarismo Chirico si rende conto che, nonostante il valore della sua arte, sono le opere iniziali ad essere più apprezzate dalla critica e dal pubblico e meglio valutate economicamente. Dal momento che è molto attaccato al vile denaro inizia a ripercorrere la traccia metafisica, dipingendo quadri metafisici, spesso ripetendo temi precedenti: infatti produrrà svariate opere dal titolo Piazza d’Italia e ben 18 versioni de Le muse inquietanti. Questo ritorno all’arte metafisica è da qualcuno ritenuto conseguenza del suo desiderio di riscuotere altri successi, anche economici, come nel primo periodo metafisico. Nonostante ciò e malgrado egli consideri le sue opere attuali ancor più pregevoli per la maturità artistica raggiunta, non ottiene il successo sperato e le nuove opere non hanno un gran successo di critica e pubblico. Egli non accetta questo giudizio critico, né che un’ opera del periodo iniziale possa valere più di dieci volte rispetto ad una del periodo neometafisico. A questo punto, oltre a ricorrere alla riproduzione di molteplici versioni delle prime opere, più fortunate, egli inizia a falsificarne la data, per due probabili motivi. Un motivo meramente materiale: retrodatando la data può sperare che l’opera abbia una valutazione maggiore; l’altro con uno scopo polemico: prendersi gioco di quegli stessi critici d’arte che non hanno adeguatamente apprezzato le sue ultime opere, mettendoli in difficoltà sulla valutazione delle stesse. Le muse inquietanti e non è stata ancora detta l’ultima parola su di essi; il futuro li giudicherà molto meglio di quanto non facciano i nostri contemporanei e noi possiamo dormire tranquillamente. … mi sono accorto, sì, infine, mi sono accorto che cose terribili accadono oggi in pittura, e che se i pittori continuano su questa strada andiamo verso la fine…la malattia cronica e mortale della pittura oggi è l’olio, quell’olio che è ritenuto la base di tutta la buona pittura. Antonello da Messina che per la storia avrebbe portato il segreto della pittura ad olio in Italia dalle Fiandre, non fece mai questo.… Il mistero del colore, la luce, la brillantezza e tutta la magia della pittura…queste qualità della pittura aumentano prodigiosamente, come illuminate da una nuova luce, e pensai con tristezza agli impressionisti, ai Monet, ai Sisley, ai Pissarro e a tutti quei pittori che credettero di poter risolvere con la loro tecnica il problema della luce, quando sulla loro 24 tavolozza c’era già la sorgente stessa delle tenebre…”. Con la crisi economica degli anni trenta inizia un periodo difficile anche per de Chirico, dal momento che i suoi quadri non vengono venduti e lui stesso deve rinunciare al lusso della propria casa per un’ abitazione più modesta. Egli si iscrive al Partito fascista con la speranza, poi delusa, di ottenere un posto di insegnante; alla fine decide di trasferirsi in America, ove resta dal 1936 al 1938. Qui la sua arte riscuote grandi successi con numerose esposizioni; egli collabora anche con il mondo della moda (Vogue, Harper’s Bazar) e le sue opere (sia quelle realistiche che quelle metafisiche) influenzano anche la Pop Art americana. Dopo una parentesi in Francia il Maestro, nel 1944, torna definitivamente in Italia. Dal dopoguerra inizia il terzo periodo, quello neometafisico, che durerà fin quasi alla morte dell’artista. In questo periodo de La sua vena polemica lo porta, addirittura, a disconoscere la paternità di alcune sue opere, allo scopo di deridere i critici, incapaci, in tal modo, di riuscire a distinguere un vero da un falso. Le conseguenze di tale atteggiamento sono rilevanti perché il Maestro si trova impegolato in una serie di querelles giudiziarie. Infatti, da un lato egli intenta numerose cause per contraffazione allo scopo di disconoscere diverse opere; dall’altro deve comparire, come imputato di simulazione e falso ideologico, in numerosi processi intentatigli da critici, musei e singoli privati, allo scopo di veder riconosciuta la presunta paternità di tali creazioni. Naturalmente queste vicissitudini fanno sì che il suo carattere, già diffidente, peggiori ulteriormente, aggravando la sua tendenza ad isolarsi e rifiutare di parlare in pubblico, quasi per non tradirsi con affermazioni avventate. Nel ’74 viene nominato Accademico di Francia, nel ’76 Grande Ufficiale della Repubblica Democratica Tedesca e nel ’78, al novantesimo compleanno, viene commemorato in Campidoglio; muore a 90 anni, il 20 Novembre del ’78, dopo aver continuato la sua attività artistica fino a pochi mesi prima della morte. In un’intervista, all’intervistatore che gli chiede, per l’ennesima volta, la spiegazione della svolta, nel 1919, relativa allo stile prima metafisico e poi classico, un po’ infastidito, egli risponde: “Ho dipinto quadri metafisici ed ho dipinto quadri realisti. Nei quadri realisti non c’era bisogno che io mettessi della metafisica e nei quadri metafisici non c’era alcuna ragione che io mettessi del realismo. È come uno che lavora con due mani, la destra e la sinistra”. Arte e sintomatologia Nel 1988 il neurologo inglese Geraint S. Fuller ed il critico d’arte Matthew V. Gale, pubblicano su BMJ un breve scritto in cui ipotizzano che i sintomi presentati da de Chirico sono riconducibili ad una patologia emicranica e più specificamente ad una Emicrania con Aura ed Emicrania Addominale. Quest’ultima era stata definita da Paul Moebius, alla fine dell’Ottocento, Haemicrania sine Haemicrania; essa è anche considerata una sindrome periodica dell’infanzia, manifestandosi con algie gastriche o addominali, nausea, vomito, pallore, sudorazione, vertigini, e solo occasionalmente cefalea; colpisce per lo più bambini dai 3 ai 10 anni ed è osservabile in età scolare, meno frequentemente nell’adolescenza, occasionalmente nella maturità. Gli attacchi possono durare alcune ore; può essere compresente l’aura; è frequentemente ereditaria. Le manifestazioni algiche addominali sono considerate equivalenti emicranici. E il Maestro è affetto da dolori addominali 25 e crisi gastrointestinali di cui parla in Memorie come coliche saturnine, in riferimento alla teoria rinascimentale secondo cui il genio nasce sotto il segno di Saturno, è malinconico e soffre di disturbi epatici. Questi disturbi intestinali lo affliggono in età giovanile, soprattutto nel biennio 1910-1912. Lo stesso de Chirico ricorda quanto possano essere disturbanti tali manifestazioni, al punto che un suo viaggio giovanile verso Parigi deve essere fatto in più tappe, che si rendono necessarie per la gravità dei sintomi. Il maestro non è a conoscenza della propria malattia che sostanzialmente si caratterizza per i seguenti sintomi: dolori intestinali, chinetosi, vomito, cefalea, sintomi auratici visivi, “déjà vu” e “jamais vu”. Per lui i più disturbanti sono i dolori addominali; la cefalea è presente, anche se non necessariamente collegata alle aure visive, che risultano essere di gran lunga più frequenti. In Villeggiatura, un breve testo dedicato a Carlo Carrà, Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo de Chirico narra l’esperienza della cefalea, attraverso, forse, un sogno lucido: “Dormo. Porto l’elmo del palombaro. Il pulsare del mio cervello si spacca in tante bollicine sulla piattaforma laccata del mio settimo soffitto”. Gli effetti del complesso sintomatologico sulla sua arte sono le aure visive ed i disturbi di coscienza determinati da “déjà vu”, “déjà vecù” e “jamais vu”(dal francese, rispettivamente “già visto”, “già vissuto”, “mai visto”, che fanno riferimento ad una alterazione dello stato di coscienza che conduce ad un’ erronea percezione soggettiva della realtà, come se l’individuo avesse già visto o già vissuto una situazione per lui nuova o, viceversa, “mai visto” una situazione già nota). Il maestro, pur non conoscendo il significato clinico di tali fenomeni, percepisce comunque l’importanza di questi nella genesi della propria arte ed, a suo modo, definisce 26 “rivelazioni” le alterazioni di coscienza e “febbri spirituali” le manifestazioni auratiche . Relativamente a questi fenomeni auratici, ricordo, più in generale, che pur essendone possibili svariati tipi, a seconda dell’area cerebrale coinvolta, quelle visive sono le più frequenti; esse possono manifestarsi in forma semplice o complessa; nel primo caso si osservano nel campo visivo chiazze luminose, a forma di fulmini, sfarfallii, zigzag (detti Fosfèni dal greco ς (“luce”) e ανω (“faccio apparire”) ovvero come buchi di visione oscurata (detti scòtomi, dal greco σκτς, “ombra”, “buio”, “oscurità”); nel secondo caso si realizzano delle manifestazioni allucinatorie complesse, con visione di immagini o scene strutturate. Altro elemento caratteristico è rappresentato dalla tendenza di tali fenomeni all’ espansione centripeta; insomma gli scotomi tendono ad ingrandirsi, progredendo dalla periferia verso il centro, fino a raggiungere un punto di massima espansione, oltre il quale progressivamente si riducono fino a scomparire. Il margine degli scotomi rappresenta un fronte di espansione, che talvolta si mostra frastagliato, tremolante e scintillante a zigzag (in questo caso si parla di scotoma scintillante), così da assumere l’aspetto di una muraglia o fortificazione, vista dall’alto: tale fenomeno prende il nome di Spettro di fortificazione (o Teicopsia, letteralmente: visione di fortificazione, dalle parole greche τες, fortificazione, ed ψις, vista. Un’ altra distinzione riguarda gli Scotomi relativi o assoluti, a seconda se, rispettivamente, impediscano parzialmente o del tutto la visione degli oggetti sottostanti. De Chirico in preda a tali stupefacenti visioni, che si proiettano sugli oggetti reali come le immagini di una lanterna magica e, non conoscendone l’origine, definisce tali fenomeni febbri spirituali. In Ebdomero ne dà una descrizione: “…Nastri incantevoli, fiamme senza calore, avventate in alto come lingue lunghe, bolle inquietanti, linee tirate con maestria di cui credeva persino il ricordo già perduto da lungo tempo, onde tenerissime, ostinate ed isocrone, salivano e salivano senza fine verso il soffitto della camera. Tutto ciò se ne andava in spirali, in zigzag regolari, oppure dritto e lento o ancora perfettamente perpendicolare. Come le aste di una truppa istruita e disciplinata…”. È probabile che i primi lavori metafisici siano nati da annotazioni visive e schizzi fatti al momento, probabilmente durante un’aura emicranica; la rivelazione arriva all’ improvviso ed è una condizione di assoluta passività poiché il maestro non può sceglierne il tema ma solo subirla; in quel momento egli prende appunti e fa schizzi di ciò che potrà successivamente rielaborare; qualsiasi pezzo di carta può andar bene: una lettera, un invito ad una mostra o programma musicale o, persino, una partecipazione mortuaria. Comunque il Maestro ignora il nesso tra la sua malattia e le manifestazioni che si realizzano in modo ricorrente. Come interpretare quanto gli accade? Non essendo uomo di fede, al contrario di Ildegarda di Bingen, non considera le allucinazioni auratiche in maniera mistica né un’ espressione dello Spirito Santo discendente su di lui. De Chirico attribuisce ad esse un carattere gioioso, creativo, sorprendente, folle, inusuale ed incontrollabile, ma, purtroppo, piuttosto raro: “La porta sul mondo della Metafisica, non si apre che raramente!”. L’ignoranza dell’ origine dei fenomeni porta il Maestro ad interpretare come poteri ciò che noi, oggi, sappiamo essere dei sintomi e pensare che si tratti di sogni premonitori. In conseguenza di ciò sviluppa l’idea di avere facoltà superiori, di chiaroveggente, di custode della porta del Mondo Metafisico, ciò anche in relazione all’influenza su di lui esercitata dall’opera di Nietzsche (anch’egli emicranico), al punto da generare un’ autopercezione di Superuomo e Superpittore, definendosi Pictor optimus. L’enigma dell’ora Una lettura neurologica di alcune opere Passiamo ora ad analizzare alcune sue opere alla luce della Malattia Emicranica e del complesso sintomatologico precedentemente riportato. L’opera con la quale inizia praticamente il periodo metafisico è Enigma di un pomeriggio d’autunno, strettamente collegata con le Rivelazioni ( in particolare il “Jamais vu“); il Maestro, è reduce da una lunga e fastidiosa malattia intestinale che lo pone in uno stato di morbosa sensibilità; sta seduto, in un limpido pomeriggio autunnale, su una panca in piazza Santa Croce, a lui ben nota, in Firenze; egli riferisce (in Manoscritti parigini) che il marmo degli edifici e delle fontane gli sembra convalescente; il caldo sole autunnale illumina, “sans amour”(senza passione), la statua di Dante e la Chiesa. L’artista vive “l’impressione di guardare tutte le cose per la prima volta…”, “il momento è un enigma per me, in quanto esso è inesplicabile. Mi piace anche chiamare enigma l’opera da esso derivata”. Una rilettura neurologica ci evidenzia : • la lunga e morbosa malattia intestinale è una possibile emicrania 27 addominale • il coinvolgimento dello stato di coscienza (con “un etat de sensibiltè presque morbìde”) può essere una manifestazione emicranica • la luce del sole, definita “tiede e sans amour”, può avere un carattere fotofobico • il marmo degli edifici e delle fontane gli sembrava “convalescente”, a testimonianza di un’ ipersensibilità “emicranica” • “l’impressione di guardare tutte le cose per la prima volta…” ed il senso di estraneità nei riguardi di luoghi ed oggetti conosciuti rappresenta un “jamais vu”. Altro elemento significativo è costituito dalla dimensione temporale: infatti in diverse opere (L’enigma dell’ora, 1911, La conquista del filosofo, 1914) il Maestro inserisce un orologio. L’elemento enigmatico è proprio co- Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo stituito dalla fissità di questo momento, che è l’antitesi stessa del fluire inesorabile del tempo, poiché non vi è né passato né futuro se non per la mediazione del presente, rappresentato da questo nunc immobile. Oltre a questa interpretazione artistico-filosofica, occorre ricordare che l’elemento temporale ha un suo rilievo nel contesto della malattia emicranica. In primis, durante l’aura o la crisi stessa si può registrare un’ errata percezione dello scorrere del tempo (pazienti emicranici riferiscono sensazioni come se il tempo si fosse fermato o addirittura accelerato, con la difficoltà di percepire la nozione del tempo). D’altronde, l’elemento di immobilità costituito dall’orologio bloccato alla stessa ora costituisce una sorta di omaggio al bisogno di riposo e staticità che l’emicranico sperimenta su di sé, durante la crisi. 28 Ombra e fotofobia, melanconia ed emicrania In precedenza abbiamo indicato che un importante fenomeno emicranico è costituito dai fenomeni visivi chiamati Scotomi, che significano letteralmente ombre. Non a caso de Chirico è molto impressionato da ciò, al punto da affermare “Ci sono più enigmi nell’ombra di un uomo che cammina sotto il sole, che in tutte le religioni, passate, presenti e future” (Manoscritti) e da riportare questo elemento in molteplici opere, tra cui ricordo: L’enigma dell’ora, 1911, La partenza del poeta, 1914, La malinconia della partenza o La gare de Montparnasse, 1914, La torre rossa, 1913, Ariadne, 1913, Melanconia, 1912, Malinconia di una bella giornata, 1913, Mistero e malinconia di una strada, 1914, La partenza misteriosa, 1930, La piazza, 1914, Il destino del poeta, 1914. Questa ricorrenza del tema dell’ombra sembra richiamare il ripetersi di fenomeni di deficit visivo, nella vita del Maestro a seguito delle manifestazioni emicraniche; a tali disturbi ricorrenti si associa un senso di angoscia e di malinconia e molte delle opere del Maestro presentano questa caratteristica, e non solo nella definizione del titolo. La presenza delle ombre, sapientemente disegnate dall’inclinazione del sole su edifici, che limitano la visuale e sono per lo più squadrati, freddi, austeri, con una serie di arcate in ombra, come occhi senza luce, contribuisce a sottolineare l’atmosfera angosciosa e malinconica. Effetto analogo si realizza quando le ombre nascono da oggetti sconosciuti ed invisibili, come in La partenza del poeta, 1914, e Mistero e malinconia di una strada, 1914. Il fenomeno appare ancor più evidente quando le ombre originano da immote statue, quasi monumenti funerari Mistero e malinconia di una strada che sottolineano la sospensione del tempo, in una sorta di angosciosa attesa, come in Melanconia, 1912 o in Ariadne, 1913, o in Piazza, 1914. Un elemento ulteriore che possiamo ricondurre ai disturbi visivi presenti nell’emicrania, oltre agli scotomi, è quello degli occhiali scuri che compare in La nostalgia del poeta e Ritratto di Apollinaire, del 1914; esso può essere un riferimento al sintomo della fotofobia che quasi sempre accompagna l’emicrania. In alcune opere ricorre, in secondo piano, la presenza di un treno, talvolta appena visibile sullo sfondo (La conquista del filosofo, 1914, La malinconia della partenza o La gare sole e della luna e dai cordoni attraverso i quali avviene il trapasso, come specie di fili della corrente elettrica. Nella serie di opere definite Bagni Misteriosi compare il tema della tenda che ci riconduce alle Rivelazioni: è come se quella spessa tenda (o anche una porta) stesse a celare il mondo metafisico all’umanità ed il compito dell’artista fosse quello di svelare tale nascosto. In alcune di queste opere si vede chiaramente un personaggio con cappello (egli rappresenta il Maestro), nell’atto di aprire la porta che introduce al mondo metafisico. L’elemento più strano ed interessante è costituito dall’aspetto dell’acqua, dal colore marrone e con caratteristiche striature che ricordano un parquet. Si può sostenere che l’emicrania abbia avuto parte in questo elemento, dal momento che esso ricorda i zigzag tipici dell’aura. Nel periodo neometafisico si collocano 29 anche alcune opere con un tema nuovo: in Battaglia sul ponte e Ritorno al castello, del 1969, si osservano delle figure centrali, nere, con bordi frastagliati ed acuminati, come ritagliate con le forbici ed incollate sulla tela; chiaramente tali figure sono vestigia di scotomi in corso di aura. Analogamente, Il rimorso di Oreste del 1969, oltre a mostrare l’immagine-scotoma, nera, accanto alla figura uomo manichino, evidenzia il tema del doppio, con il contrasto tra una testa di manichino, priva di vita, ed un torace “vitale” di espressioni geometriche. Nell’opera, inoltre, si può Interno metafisico de Montparnasse, 1914, La partenza misteriosa, 1930, La piazza, 1914, L’angosciosa partenza, 1914); tale elemento potrebbe essere espressione di un fenomeno osservabile nell’Emicrania: l’autocinesi, che è un’ illusione percettiva visiva che consiste nell’impressione avuta dal soggetto che oggetti, altrimenti stabili e fissi, appaiano in movimento. Gli Interni Metafisici costituiscono un altro gruppo di opere, soprattutto del periodo Neometafisico, di interesse specifico. La predominante regolarità delle forme geometriche che in esse si osservano può riportare il nostro pensiero alle geometrie degli spettri di fortificazione, la teicopsia: Interno metafisico, 1926, Interno metafisico con biscotti, 1916 e 1968, Natura morta evangelica, 1956, La rivolta del saggio, 1916. Similmente, ne Il mistero di Manhattan del 1973, la chioma di Apollo e una specie di coperta sulla poltrona ricordano la macchia di uno scotoma in evoluzione, che sembra ripresentarsi nel luccichio dell’acqua ne Il ritorno di Ulisse del 1968; in esso l’eroe greco è rappresentato nell’atto di remare, su una barca, in un mare circoscritto, all’interno di una stanza (si osserva sullo sfondo che la porta della stanza è aperta, a testimoniare la possibilità di accedere al mondo metafisico); nel quadro il luccichìo del bordo dell’acqua ricorda chiaramente la chiazza di uno scotoma scintillante, che si allarga con il suo fronte di espansione. Ma l’immagine dello sfavillio dello scotoma scintillante dell’aura è ancor più evidente in opere quali Sole sul cavalletto del 1972 e 1973, Interno metafisico con sole spento del 1971 e Sole e luna sulla spiaggia del 1930; in esse si nota una caratteristica della dinamica allucinatoria dell’aura, quale è il passaggio dalla luminosità all’oscurità (dai fosfeni agli scotomi); tale transizione è espressa dalla coesistenza del Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo L’autoritratto come alter ego Una parte importante dell’attività di de Chirico si è incentrata sul tema dell’au30 toritratto. L’opera Autoritratto pietrificato, 1925, evidenzia un dinamico, progressivo processo di statuificazione del suo corpo, che inizia dalla mano destra, mentre il capo conserva un aspetto carneo, per estendersi a tutto il corpo. Ciò illustra in modo suggestivo alcuni caratteristici fenomeni parestesici centripeti tipici dell’aura, ovviamente causa di angoscia e sconforto in chi non conosce il fenomeno, mentre la serafica espressione dell’artista dimostra che egli, ormai, ne è perfettamente consapevole. La coesistenza di parti di natura diversa, carnee e marmoree, presente nell’opera suddetta, introduce un elemento di fondamentale importanza: il Doppio. Questo si ritrova in opere quali I due manichini,1920, I due manichini e la torre rosa, Le maschere, 1973, Le due sorelle, 1925, Archeologi, 1927, Archeologi IV, 1931, e soprattutto in Autoritratto, 1922, Autoritratto con ombra, 1920, e Autoritratto con busto di Euripide. Esaminando in dettaglio Autoritratto, 1922, e Autoritratto con ombra, 1920, si apprezza la presenza di un doppio sé stesso, fenomeno definibile con il nome di autoscopia o allucinazione autoscopica del proprio doppio, condizione questa descritta tra le manifestazioni auratiche. In queste due opere, il doppio appare come un fantasma, che sta lontano dal corpo, come un alter ego; nella prima si osservano le due immagini una in carne ed ossa e l’altra formata da un busto di pietra, l’una di fronte all’altra; nella seconda opera la figura reale sorregge e sembra indicare un libro o una stele di pietra, essendo rivolta verso l’osservatore; l’immagine doppia è messa di spalle, quasi appoggiata all’altra e guarda nell’opposta direzione. Questo secondo caso sembrerebbe evidenziare un esempio di esperienza extracorporea di derealizzazione con la percezione somestesica di un corpo parasomatico, fuori dal Sé fisico; infatti l’alter ego appare differente in grandezza e postura, Manichini in riva al mare osservare che l’ombra scotomica dalla sembianza umana ha dei rapporti sproporzionati e tale elemento può essere riferito al fenomeno, che si realizza, talvolta, nei soggetti emicranici, definito Sindrome di Alice nel paese delle meraviglie. Questa è caratterizzata da una distorsione allucinatoria della normale percezione somestesica del proprio corpo, per cui il soggetto percepisce alterato il corpo nel peso, nella statura, nella forma. Tale definizione sindromica risale al 1952, quando Caro W. Lippman descrive il fenomeno, notando la grande somiglianza tra le descrizioni che gli vengono offerte dai pazienti e l’opera di Lewis Carroll (al secolo reverendo Charles Lutwidge Dodgson, peraltro anche egli affetto da emicrania). con lo sguardo e la mano sinistra differentemente orientata rispetto all’immagine reale (al contrario di quanto accade nel doppio autoscopico). Nell’Autoritratto con busto di Euripide si osserva la giustapposizione della figura vivente dell’artista con il busto di pietra del filosofo greco. Il significato presumibile di queste figure doppie può essere interpretato come la metafora del contrasto vissuto nell’animo dal Maestro. Il doppio rappresenta l’antitesi e nel contempo l’unione tra la vita quotidiana e la vita “pietrificata” nella malattia emicranica; tra la vita reale e la malattia mentale. Da una parte c’è la freddezza e la durezza del vivere quotidiano e delle miserie della malattia e dall’altra la vivacità e la creatività dell’arte e della conoscenza, che, per esempio, l’artista simboleggia, rispettivamente, con la testa lignea e l’addome pieno di monumenti ed arte, nell’ opera Archeologi, 1927. Il doppio rappresenta il contrasto tra la colorata vita quotidiana e quella grigia ed immota dell’ombra, del fantasma, della malattia. È anche l’antitesi nella vita quotidiana, che è da un lato colorata e creativa e dall’altro condizionata dalla debolezza e dalla malattia (così come il ventre degli Archeologi è depositario della bellezza dell’arte e della sofferenza dell’emicrania addominale). D’altro canto la pietra dei busti dell’autoritratto e di Euripide rappresenta il contrasto tra la freddezza della malattia e la perfezione dell’arte, quasi che ognuna di queste espressioni, la vita e la pietra fredda, avessero in sé due opposti estremi. La sintesi di tutto ciò è nel contrasto tra la vita e la malattia (ed in questa tra la malattia fisica e quella mentale) e tra la gloria dell’arte e la tragedia della sofferenza, che sebbene contrapposte sono, per tutto ciò, legate indissolubilmente, al punto da non esistere l’una senza l’altra: “Nulla sine tragoedia gloria” (massima latina che compare sulla stele sorretta con una mano dall’artista nell’ Autoritratto con busto di Euripide. Ancora, le Rivelazioni sono l’espressione della creativa genialità e del fatto che il Maestro è uno dei pochi eletti ad accedere al mondo metafisico; del resto esse sono anche una espressione di diversità potenzialmente negativa, la follia. Ricordo, a tal proposito, che a lungo è circolata voce che, durante la guerra, egli sia stato esentato dal combattere al fronte, perché i suoi quadri sono considerati l’opera di un matto; inoltre, nella sua mente, sicuramente, ha avuto un ruolo la consapevolezza dell’esistenza del germe della follia nella sua famiglia. Anche a causa di ciò, probabilmente, il Maestro, è stato ossessionato da un’eterna duplicità. Duplicità è temere di avere una malattia fisica ed una tara mentale; duplicità 31 è avere una doppia esistenza: quella della vita di tutti i giorni e quella scandita dalla successione delle crisi dolorose addominali e dalla cefalea. Analogamente, duplicità è costituita dalla compresenza della paura della follia e dall’orgoglio di essere una persona speciale per aver accesso al mondo metafisico. Egli forse considera sé stesso una sorta di novello oracolo e forse ciò è confermato da opere quali Il veggente, 1914, La ricompensa dell’indovino, 1913, L’enigma dell’oracolo, 1913. De Chirico, insomma, quale novello Tiresia. L’indovino della tradizione mitologica ellenica, una sorta di transessuale “ante litteram”per divina maledizione, è egli stesso simbolo di duplicità per il fatto di aver vissuto sia l’essere maschile che quello femminile, essendo stato tramutato in donna dagli dei, per aver ucciso un serpente femmina che copulava con un maschio; dopo sette anni, nella stessa situazione uccide il serpente Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo 32 maschio e torna egli stesso maschio. Successivamente, in una disputa tra Zeus ed Era, egli svela il segreto del piacere erotico della donna (che ha piacere nove volte superiore all’uomo) e per punizione Era lo priva della vista; ma, sempre per volontà di Zeus, egli ha il dono di vivere per sette generazioni e di predire il futuro. De Chirico, dal canto suo, rappresenta un Tiresia redivivo; così come l’oracolo greco ha avuto due maledizioni (quella della doppia vita sessuale e quella della cecità), analogamente il Maestro è costretto a subire due sofferenze (dunque in entrambi si osserva una simile duplicità): la sofferenza fisica (la malattia emicranica) e quella mentale (la follia nella sua famiglia e quella che una parte del pubblico attribuisce ai suoi quadri); nel contempo, entrambi hanno avuto il dono di essere speciali (guardare il futuro, per Tiresia, ed aprire la porta del mondo della metafisica, attraverso le Rivelazioni, che alimentano la sua arte, per de Chirico). Per de Chirico gli elementi apparentemente negativi, della malattia fisica (emicrania) e psichica (follia), costituiscono dunque un vantaggio, un’ opportunità, sono anzi indispensabili, per poter accedere all’ esperienza unica del mondo della creatività metafisica. Dunque “nulla sine tragoedia gloria”; egli è cosciente della sua meravigliosa duplicità, con la grandezza dell’artista e la caducità della umana miseria e della malattia, che sono imprescindibilmente ed indissolubilmente legate, senza che l’una possa esistere senza l’altra. Cosa questa che è meravigliosamente possibile ed analoga per ognuno di noi esseri umani, occorre solo rendersene conto ed…accettarlo. Giacomo Visco Psicoanalista e saggista MEDICINA & SOCIETà Il limite della parità in medicina: le differenze di genere Il fenomeno dell’emancipazione della donna, inteso come parità tra i sessi in tutti i campi, non può che definirsi una conquista sociale. Nell’ambito della medicina, la dialettica disuguaglianza-eguaglianza ha portato o a negare l’esistenza di alcune patologie nella donna o, superato il limite della disuguaglianza, a pensare di poterla curare come un uomo. Il risultato è che il concetto di parità porta in sé il limite di una generalizzazione delle cure, a discapito di una medicina personalizzata. V erso il limen della parità. Oggi possiamo affermare che la donna, con l’accesso a tutte le professioni e a tutti i ruoli della vita sociale e politica, ha finalmente raggiunto la parità con l’uomo. Un obiettivo conquistato a tappe, in tempi che in Italia non sono poi così lontani, se si pensa che solo nel 1874 è stato concesso alle donne l’accesso ai Licei e alle Università e solo nel 1877 sono state ammesse come testimoni negli atti di stato civile. Nel 1896 le prime donne laureate in medicina, nel 1907 la prima donna italiana con patente di guida; nel 1908 si tiene a Roma il primo Congresso delle Donne Italiane, e c’è il primo ingegnere donna. Nel 1912 c’è la prima donna avvocato iscritta all’ordine, e due donne vengono elette al Consiglio Superiore del Lavoro. Durante la prima guerra mondiale viene introdotta la manodopera femminile nelle industrie meccaniche e belliche (in certi casi fino all’80%), contravvenendo ad una legge del 1902 che ne impediva l’utilizzo, per essere poi di nuovo vietata alla fine della guerra con Lyceum Maggio 2010 33 Strumenti/Liminarismo Il limen irraggiungibile. Nel 1991, in un clima di “parità” ormai presente in molti dei Paesi occidentali, compresa l’Italia, Bernardine Healy, direttrice dell’Istituto di Salute Pubblica Americano, mette in evidenza, in un famoso editoriale, The Yentl syndrome, su New England Journal of Medicine, una penalizzazione della donna nei percorsi diagnostici e terapeutici. La Healy, attraverso l’analisi di due studi clinici, sottolinea che le donne ricoverate nelle Unità di Terapia Intensiva Cardiologica sono vittime di un rischio maggiore di errore diagnostico e terapeutico rispetto ai maschi ed hanno una minore probabilità di essere inviate a procedure di rivascolarizzazione, anche in presenza di una severa coronaropatia. Con tono pro vocatorio, la Direttrice afferma che questa disparità è frutto di una discriminazione culturale e non clinica dei cardiologi nei confronti del sesso femminile. La “questione femminile” per la prima volta entra in medicina e, più precisamente, in cardiologia, facendo cadere il “metodo bikini”, ossia la focalizzazione sulla patologia mammaria e del sistema riproduttivo, che per tanto tempo ha caratterizzato il tema della salute nella donna. Il “metodo bikini”, conseguenza del ruolo più importante che la donna ha nella procreazione rispetto all’uomo (formazione dei gameti, gestazione, parto e allattamento), ruolo che ne ha poi condizionato l’esclusione dalla vita sociale, porta in sé l’affermazione che la donna, eccezion fatta per la procreazione, è per le malattie degli altri apparati considerata uguale all’uomo o, addirittura, immune da alcune patologie come l’infarto del miocardio e il tumore del polmone. Tale Bernardine Healy la motivazione di sottrarre lavoro ai reduci. Nel 1919, con l’abolizione del diritto maritale, finalmente la donna ottiene l’emancipazione giuridica, e ha inizio il percorso per il diritto al voto. Nello stesso anno si costituisce la Medical Women International Association, un’organizzazione internazionale non governativa, cui partecipano donne medico appartenenti a 70 Paesi con l’obiettivo di migliorare lo stato di salute di donne e bambini. Con la marcia su Roma (1922), la donna viene riportata tra le mura domestiche, viene inasprito il codice di famiglia ed introdotto il “delitto d’onore”. Durante la seconda guerra mondiale le donne rappresentano più del 20% dei partigiani, vengono però tenute lontane dai combattimenti di prima linea. Il 1° febbraio 1945 viene concesso il voto alle donne, la Costituzione garantisce l’uguaglianza tra i due sessi (art. 3), pur rimanendo in vigore le discriminazioni sancite nel Codice di Famiglia 34 e nel Codice Penale. Nel 1951 c’è la prima donna al Governo nelle vesti di Sottosegretario all’Industria e al Commercio, nel 1958 l’abolizione dello sfruttamento statale della prostituzione (legge Merlin), nel 1959 l’istituzione del corpo di polizia femminile. Nel 1961 le donne sono ammesse alla carriera diplomatica ed in magistratura. Nel 1970 nasce il Movimento di Liberazione della Donna che conquista il divorzio, nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia si attua finalmente l’uguaglianza tra i coniugi ed infine, nel 1977, arriva la legalizzazione dell’aborto. Il 5 agosto 1981 vengono abrogate le disposizioni del delitto d’onore e il 15 febbraio 1996 cade l’ultima ingiustizia nei confronti della donna: lo stupro diventa reato contro la persona piuttosto che contro la morale. semplicistica e riduttiva visione, insieme alla necessità di proteggere le donne in età fertile e/o il prodotto del concepimento, insieme alle difficoltà culturali ed oggettive della donna di essere arruolata in uno studio clinico e di rimanervi, ha portato alla costruzione di una medicina maschile, per quanto riguarda l’eziologia, il decorso, la diagnosi e la terapia. Il limes invalicabile. Gli studi che seguono alla provocazione della Healy mettono in evidenza inaspettatamente diversità insuperabili nell’incidenza, nella presentazione, nel decorso, nella prognosi e nella risposta ai farmaci per molte malattie, a seconda che si manifestino nell’uomo o nella donna. Ad esempio, rimanendo nel campo della cardiopatia ischemica, oggi è ben noto che la donna, sotto l’ effetto dello scudo ormonale, si ammala in modo diverso ed in tempi diversi dall’uomo. Manifesta rispetto all’uomo placche diffuse lungo l’albero coronarico piuttosto che localizzate, sintomi diversi dal dolore opprimente in sede toracica, più frequentemente segni elettrocardiografici diversi dal sopraslivellamento del tratto ST, ed un tasso di mortalità più elevato per malattie cardiovascolari (53% versus 48%). Più precisamente la donna presenta: in età fertile rottura di cuore per dissecazione delle coronarie o trombosi su placca erosa; fino a 60 anni cardiopatia con disfunzione endoteliale e vascolare a coronarie indenni; a tutte le età, in seguito a stress, disfunzione ventricolare sinistra reversibile a coronarie indenni; a 75 anni malattia coronarica ostruttiva simile a quella dell’uomo. Nel campo della psichia tria/neurologia, le donne sono più La stiratrice colpite rispetto agli uomini dallo spettro dei disturbi ansioso-depressivi e dal disturbo del comportamento alimentare (7% versus 3%); sperimentano forme meno gravi di schizofrenia; manifestano una maggiore prevalenza della cefalea e dell’Alzheimer. Negli ultimi decenni la donna, passando dall’ambiente domestico a quello delle industrie e diventando fumatrice, muore più di cancro del polmone che della mammella (tasso di mortalità 25% versus 16%), con una incidenza del tumore polmonare che è aumentata del 200% nell’uomo e del 550% nelle donne negli ultimi cinquanta anni. Le stesse esposizioni portano la donna a soffrire come l’uomo di Bronco-Pneumopatia Cronica Ostruttiva, sebbene i sintomi della tosse e dell’espettorato siano meno eclatanti e siano vissuti con un senso di pudore (la prevalenza della BPCO mondiale è 9,4/1000 per gli uomini e 7,33/1000 per la 35 donna); d’altra parte, se si è attenti a vegliare sulla donna quando dorme, ci si accorge che soffre anche di apnee notturne, un tempo ritenute solo maschili come la BPCO. Il sistema immunitario, invece, è il punto debole delle donne: le malattie autoimmunitarie sono infatti appannaggio delle donne, insieme all’osteoporosi e alle malattie osteo-articolari (9% versus 1%). Le donne si ammalano complessivamente più degli uomini (8.3% versus 5.3%), anche se poi vivono più a lungo. Nel campo della diagnostica, l’aver considerato per anni la donna eguale all’uomo nella malattia ha portato ad Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo esempio in cardiologia alla costruzione di test diagnostici come l’ ECG da sforzo poco sensibili e specifici per la cardiopatia ischemica nella donna, o all’uso di device troppo grandi per le coronarie delle donne. Nel campo della psichiatria, si è ignorato che i disturbi dello stato di salute mentale della donna si verificano anche al di fuori di eventi biologici e affettivi come gravidanza, parto e menopausa, con la conseguenza di un mancato riconoscimento dei sintomi, soprattutto quando questi si manifestano in un’atmosfera di sottomissione e passività. In relazione all’uso dei farmaci, le donne sono percentualmente più numerose degli uomini (42% versus 32%), ma usano farmaci testati in trial da dove esse sono state escluse per effetto della medicina bikini. Il risultato è, nella donna, l’inefficacia dell’aspirina nella prevenzione primaria delle sindromi coronariche acute, un maggiore rischio 36 emorragico nella terapia trombolitica, una maggiore tossicità degli antiaritmici o l’aumento nella incidenza dell’osteoporosi nell’uso degli ipoglicemizzanti, solo per citare qualche esempio. L’eccentricità della medicina di genere. Gli studiosi hanno quindi ignorato, nella costruzione della medicina, che il sesso, dicotomico per definizione (nell’accezione più semplice), comporta necessariamente, attraverso i cromosomi, gli ormoni e l’anatomia, una diversità nella fisiologia e nella patologia che non può essere riferita soltanto a un unico apparato, quello riproduttivo. Il secondo errore, e non meno grave, in cui è incorsa la comunità scientifica è stato quello di non aver considerato il genere (gender) nell’analisi delle malattie. Il genere, che non deve essere mai confuso né con il sesso sopra definito, né con la sessualità, è un costrutto sociale che varia da società a società, ed in relazione al contesto storicoculturale. Esso è inteso come l’insieme dei tratti di personalità, delle attitudini, dei sentimenti, dei valori e delle attività che la società attribuisce ai due sessi; s’interseca con il sesso, e a sua volta influenza le prospettive lavorative, familiari, culturali e di salute. Dagli esempi fin qui illustrati, risulta chiaro che il gender ed il sesso diventano determinanti di salute, insieme a reddito, status sociale, supporto sociale, abitazione, cure personali, accesso ai servizi medici, etnia e stato di immigrato, in una visione moderna del concetto di salute inteso come «stato dinamico di totale benessere fisico, mentale, spirituale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità» (definizione dell’OMS del 1998). Di limes in limes. In un ottica liminaristica, sottolineiamo le tappe che hanno segnato il passaggio a questa nuova epoca della medicina, dove le differenze vanno individuate e valorizzate per il successo delle cure, attuando un mainstreaming di genere. Nel 1991 il Dipartimento della Salute Americano ha costituito l’Ufficio sulla Salute della Donna, The Office on Women’s Health, che lavora per ridurre le ineguaglianze nella ricerca, nei servizi educativi e di cura che hanno storicamente messo a rischio la salute della donna. Nel 1994, in America, per la prima volta il National Institute of Health ha elaborato le regole per l’inclusione del punto di vista di genere nella ricerca come prerequisito per accedere ai finanziamenti pubblici. Nel 1995, durante la Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne tenutasi a Pechino, le Nazioni Unite si sono impegnate a realizzare una prospettiva di genere nel campo della salute, partendo dal fatto che le donne e gli uomini sono diversi e devono essere valutati in base alle loro differenze. Nel 1997, alla Columbia University di New York, è stato organizzato un corso di Women’s Study su Gender-Speci fic Medicine. Nello stesso anno in Europa è stato pubblicato, a cura del Dipartimento Employment and Social Affairs, il rapporto sullo stato di salute delle donne in Europa (The State of Women’s Health in the European Community). Fin dal 1998 la Comunità Europea ha incluso, all’interno dei programmi di ricerca (IV e V Programma Quadro), un invito alle donne a partecipare e a presentare progetti; oggi vi è un settore della ricerca europea (Science Woman) con un focus sulle donne. Nel 1999 nasce in Italia il gruppo di lavoro “Medicina Donne Salute”. Nel 2002 la Medical Women’s International Association ha pubblicato un manuale di formazione per l’inserimento del punto di vista di genere nella salute: Training Manual for Gender Mainstreaming in Health. Nello stesso anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha costituito il Dipartimento per il Genere e la Salute della Donna (The Department of Gender and Women’s Health), riconoscendo che esistono differenze nei fattori che determinano la salute e nei fattori che determinano il carico di malattia per uomini e donne. Nel 2004 l’European Agency for Safety and Health at Work esamina le differenze legate al genere negli infortuni e nelle malattie sul luogo di lavoro e le relative implicazioni per la prevenzione, scoprendo che l’orientamento tradizionale di prevenzione sottovaluta i rischi sul lavoro per le donne. Nel 2007 nasce in Italia la Società per la Salute e la Medicina di Genere. Nello stesso anno presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” è stato istituito un master di Medicina di Genere. Nel 2009 c’è stato il primo congresso Italiano di Medicina di Genere. Nel 2009 nasce in Italia il 37 Gruppo Italiano Salute e Genere. Se nel corso della Storia l’uomo avesse avuto consapevolezza e sensibilità di fronte alle differenze, tanti errori ed orrori si sarebbero potuti evitare. Il concetto di genere che abbiamo portato all’attenzione del lettore dovrebbe invece orientare strategie ed azioni in tutti i campi. Giovanna Esposito Giovanna Esposito è Dirigente medico PS e MU ASL/SA, Coordinatrice Gruppo Medicina di Genere Comitato Pari Opportunità ASL/SA, Responsabile per la Cardiologia nell’ ambito dell’Osservatorio di Genere ASL/SA, Segretario Regionale Sindacato Professionisti Emergenza Sanitaria, Membro del Coordinamento Nazionale Federazione Italiana Medicina Emergenza Urgenza e Catastrofi. Riferimenti bibliografici B. Healy, The Yentl sindrome, NEJM 1991; 325: 274-275. K. W. Davidson, K. J. Trudeau, E . van Roosmalen et al., Gender as a Health Determinant and Implications for Health Education, Health Educ. Behav. 2006; 33(6): 731-743. G. Esposito, A. Baruffo. M. La Rocca et al., La cardiopatia ischemica femminile, Decidere in Medicina 2009; 2: 42-47. P. Sabatini, Gender un fattore di rischio per le malattie autoimmuni, Decidere in Medicina 2009; 3: 41-45. G. Salomone, F. Basile, C. Battipaglia et al., Gender e cervello: dati attuali sulle differenze di genere, Decidere in Medicina 2009; 4: 41-45. G. Esposito, R. Ferrante, L. Iovino et al., Malattie polmonari e gender,Decidere in Medicina 2009; 5: 41-45. Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo ANTROPOLOGIA CULTURALE 38 La liminarità frontiera tra del sagrato Una spazio sacro I l sagrato, ossia lo spazio antistante la chiesa cattolica, si presenta sopraelevato rispetto al piano stradale o come piazzuola in qualche modo delimitata. La sua diversità si percepisce con immediatezza: separato dallo spazio comune, introduce in quello sacro. Nella valenza etimologica è il vero spazio profano, parola che dal latino pro-fanum vuol dire davanti al tempio. L’attuale concezione del sacro ne fa un’area di rispetto, un luogo intermedio, il passaggio in cui matura il distacco del fedele dal male del mondo affinché si presenti per quanto possibile puro nella casa di Dio. Essendo collegato alla chiesa, anzi costituendone la e spazio d’uso soglia, partecipa del valore della sacralità; troviamo questo aspetto in Manzoni, che accentua il carattere di empietà di Bernardino Visconti (l’Innominato) citando tra i suoi numerosi delitti quello consumato sul sagrato di una chiesa. Molto diversa fu la concezione del sacro nel mondo antico, dove era l’uomo a doversene difendere non lasciandosi contaminare dalla sua diversità. Il teménos, interrompendo lo spazio profano davanti all’edificio di culto pagano, serviva a proteggere l’umano fermandolo fuori dal tempio. Il vocabolo sacro, infatti, negli antichi linguaggi (latino, greco, egiziano, paleosemitico) contiene una forte ambivalenza: il latino sacer vuol dire sia “sacro” sia “maledetto”; il greco aghios ha il significato sia di puro e sia di “contaminato”. La contrastata semantica di questo vocabolo deriva dalla sovrapposizione di due concezioni: l’idea primordiale immanentista e quella dell’ordine cosmico diffusa nell’antichità. Per i Greci arcaici il mondo era interamente divino: Tutto è pieno degli dei, affermava Talete. Ma poi si prese consapevolezza del fatto che l’organizzazione armonica dell’universo, seguita alla suddivisione degli elementi primordiali e delle sfere delle esistenze, aveva allontanato gli dei dalla terra dove erano stati collocati dalla religione immanentista. Luogo sacro per eccellenza, allora, divenne il cielo che, per la sua distanza dal pianeta, accolse gli dei senza rischio di commistione dei due ambiti, il terreno e il divino. L’aria, essendo la fascia d’avvolgimento del cielo, ne derivò il carattere sacro; perciò nell’antichità, specialmente gli etruschi e i romani, dal volo degli uccelli dedussero la volontà degli dei, considerandoli loro messaggeri. Pur essendo stata sofferta la separazione tra il divino e l’umano, con il consolidarsi della concezione ordinata dell’universo gli uomini ne compresero la necessità, quindi accettarono il vuoto lasciato dagli dei attorno a loro, relegandone la presenza in vaste estensioni di natura intatta, separate dai luoghi praticati dalla gente. I boschi carichi di mistero, le fonti incontaminate, le cime montane a contatto con il cielo, le rocce ricche di energia primordiale, le grotte che avevano ospitato l’umanità originaria ed erano state luoghi d’incontro e cappelle divennero spazio eterogeneo, distinto da quello antropizzato. Gli Ateniesi consacrarono agli dei la vetta collinare soprastante la città, dove con splendidi monumenti costituirono l’acropoli accentuando la sacralità già contenuta in quel sito per il suo slancio verso il cielo, per la netta separazione dalla base antropizzata, per l’armonia dell’habitat puro. 39 I cristiani hanno la loro montagna sacra nel Golgota. Salendo, il pellegrino si purifica, e quando, raggiunta l’altura, trascende lo spazio usuale, può penetrare in quello sacro. Tramite il rito, quindi, al cristiano si rende possibile superare il ristretto ambito dell’umano e immergersi nella dimensione in cui soddisfa il desiderio di paradiso. Per il carattere non integrato nello spazio dell’uomo e per il mistero in cui erano avvolti, boschi e foreste furono santuari. Le popolazioni del nord Europa recintarono boschetti sacri e verdi radure, dove era vietato l’accesso alle donne. I Pelasgi, gli Europei del settentrione, gli Italici antichi, i Druidi, i Latini avevano boschi sacri. Nell’Eneide si narra del re dei Laurenti, Latino che, allarmato dai ripetuti prodigi verificatisi nella sua casa all’arrivo di Enea sulle sponde del Tevere, si reca nel bosco sacro a Fauno per avere responsi sul futuro e, per compensare lo squilibrio creato dalla presenza umana Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo in quel sito interamente divino, sacrifica cento bidenti. Il pio Enea, pur avendo ricevuto dagli dei l’incarico di raggiungere la terra del Lazio, quando tocca luoghi eterogenei come l’area dell’Etna, si appresta a celebrare riti per le divinità autoctone. Ulisse, invece, che, spinto dal desiderio laico di conoscere, attraversa spazi intatti e, senza la dovuta preparazione rituale, s’addentra in isole abitate esclusivamente da esseri divini, subisce continui danni fino alla perdita di tutti i compagni di viaggio. La presenza del divino fu molto forte anche nella natura litica, specialmente nelle meteoriti che, cadendo dal cielo, ne derivavano la sacralità e furono giudicate anelli di congiunzione con la terra. I Greci, che le chiamarono con il nome semitico betili, ebbero nel betilo di Delfi il centro cosmico più famoso dell’antichità e consacrarono 40 tutta l’area circostante. Nella terra di Canaan, l’immanenza del divino nella natura litica generò la venerazione dei betili che venivano posti come testimoni delle ierofanie, finché il Dio biblico, condannando quel fenomeno, comandò a Mosè di distruggere tutte le pietre cultuali. Dall’intervento di Dio contro l’adorazione delle pietre, venne segnata la soglia tra divino e natura; da allora il popolo ebraico, abbandonata la concezione arcaica che identificava il segno con l’immanenza, pose il suo Dio all’interno del tempio in una zona irraggiungibile. Timorosi dell’alterazione cosmica, che sarebbe derivata dalla confusione delle due sfere con l’immissione di una nell’altra, gli uomini separarono gli spazi consacrati con recinzioni non oltrepassabili, nel cui interno sostava o risiedeva un dio, e solo chi fosse preparato ritualmente poteva accedervi. L’ambivalenza del sacro, afferma Mircea Eliade, è dovuta alla sua diversità rispetto alla natura comune. Il sacro non può essere avvicinato, perché possiede una forza non sostenibile dal non addetto al rito; con la sua ambivalenza, un luogo o oggetto sacro attira l’uomo che desidera stabilire un contatto con la ierofania e, nello stesso tempo, lo respinge inculcando il timore d’irretirlo in un ambito eterogeneo. I recinti sacri, presenti sia nelle civiltà proto-indiane sia in quelle egee, avevano lo scopo di tutelare dal pericolo del sacro chiunque non fosse preparato a sperimentarlo, cioè il profano che deve fermarsi sulla soglia del sacro. Nei tempi più remoti uno spazio recintato, con o senza un altare, era un tempio. Quando furono costruiti gli edifici templari, i limina del sacro si restrinsero. Greci e Romani chiusero nella parte più interna una cella accessibile al solo sacerdote, come il popolo d’Israele aveva il Sancta sanctorum nel tempio di Salomone. Per entrare nello spazio sacro sono necessari dei preliminari. Le popolazioni semitiche usano scalzarsi. Nell’Esodo leggiamo che Dio ferma Mosè ai confini del sacro dicendogli: Non avvicinarti più, scalzati: questo luogo è terra sacra. I cristiani, dopo avere attraversato il sagrato che separa i due spazi eterogenei, esterno - interno, trovano nell’ingresso il fonte dell’acqua santa con cui si segnano ma che non basta a renderli partecipi dell’intero spazio sacro: una balaustra o dei gradini sotto l’arco trionfale staccano l’area del presbiterio, riservato al solo officiante, dalle navate dove si radunano i fedeli. Nessun rituale, inoltre, nella chiesa cristiana può preparare l’uomo comune all’accesso in un esiguo spazio rimasto interamente divino, il tabernacolo, dove penetrano esclusivamente le mani del sacerdote. Vittoria Butera Scrittrice e saggista Falerna Marina (CZ) 41 Riferimenti bibliografici Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, 1992 Frazer, Il ramo d’oro, Newton, 1992 La Bibbia, l’ Odissea e l’Eneide. Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo LETTERATURA GRECA L’ALCESTI Di euripiDe: al limen di qa@natov 42 wù sch^ma do@mwn, pw^v eièse@lqw ; pw^v d’oièkh@sw metapi@ptontov dai@monov ; oiòmoi. Polu# ga#r to# me@son * to@te me#n peu@kaiv su#n Phlia@sin su@n q’ uémenai@oiv eòsteicon eòsw, fili@av aèlo@cou ce@ra basta@zwn, polua@chtov d’ eiçpeto kw^mov, th@n te qanou^san kaòm’ oèlbi@zwn, wév euèpatri@dai kai# aèp’ aèmfote@rwn oòntev aèri@stwn su@zugev eiùmen * nu^n d’ uémenai@wn go@ov aènti@palov leukw^n te pe@plwn me@lanev stolmoi# pe@mpousi@ m’ eòsw le@ktrwn koi@tav eèv eèrh@mouv. “oh vista della mia casa, come entrerò? Come abiterò là dentro, adesso che il destino è cambiato? oh, molto cambiato: allora entrai con le fiaccole del Pelio e con gli imenei, tenendo mia moglie per mano, e ci seguiva un corteo rumoroso, felicitando me e la morta, perché, nobili entrambi da ambedue le parti, ci eravamo uniti in matrimonio. ora, invece degli imenei il compianto funebre, e vesti nere anziché bianche mi portano a giacere su un letto deserto”. ( vv.912-925) In questi versi, pronunciati da Admeto subito dopo la morte di Alcesti, si condensa la difficile e, talora, antitetica “realtà del cambiamento” che percorre l’intera tragedia euripidea; il concetto di cambiamento, tra l’altro, si potrebbe configurare quale circuito complesso in cui agiscono e interagiscono forze dinamiche capaci di operare passaggi a più livelli. La tragedia, infatti, è fortemente caratterizzata da “momenti e riti di passaggio” che interessano non solo la realtà esterna e oggettiva in cui si muovono i personaggi, ma anche la sfera emotiva di questi ultimi i quali, superando i limina della propria condizione, percepiscono col tempo gli affectus derivanti dalle loro scelte. Dai versi considerati, infatti, emerge un “rito di vita”, il matrimonio, e un “rito di morte”, accompagnato dal compianto funebre; entrambe le dimensioni si configurano, dunque, come riti di passaggio definiti da Van Gennep “meccanismi cerimoniali con la funzione di guidare, controllare e regolamentare i cambiamenti di ogni tipo degli individui e dei gruppi”. L’Alcesti di Euripide è, in tal senso, il “dramma del divenire”, dove il termine “dramma” è da intendersi nel pieno significa- to etimologico di “azione”, e che si risolve in un perenne movimento di entrate e uscite, di separazioni e aggregazioni, e in un continuo alternarsi di vita e morte, di egoismo e altruismo, di “luce ed ombra”. La tragedia, non a caso, si apre con il dialogo tra Apollo, dio del sole, e Thanatos, personificazione della morte, che conclude la discussione con un preciso riferimento alla ritualità vigente nell’Oltretomba: Qa. stei@cw d’ eèp’ auèth@n, wév kata@rxwmai xi@fei * ié e ro@ v ga# r ou§ t ov tw^ n kata# cqono# v qew^n oçtou to@d’ eògcov krato#v aégni@shj tri@ca. “ora vado da lei a compiere il rito della spada: è sacra alle divinità di sottoterra la persona a cui recide un capello”. (vv.74-76) Siamo appena all’inizio della tragedia, e già si percepisce in che modo Alcesti oltrepasserà il limen della vita per donarsi ad una dimensione oscura. È costante, nel corso dell’opera, il riferimento alla luce del sole, che farà da sfondo all’orizzonte interiore della protagonista e che, prima della sua entrata in scena, sarà invocato dal Coro nella figura del dio Apollo: Co. wùnax Paia@n, eòxeure mhcana@n tin’ èAdmh@twj kakw^n. “Signore Apollo, trova tu un rimedio alla disgrazia di Admeto”. (vv.220-221) Ai vv. 244-245, comparendo per la prima volta, Alcesti a sua volta cercherà il sole, la luce, consapevole che di lì a poco si prefigurerà per lei una realtà buia: Al. çAlie kai# fa@ov aéme@rav, ouèra@niai@ te di^nai nefe@lav dromai@ou. “o sole, o luce del giorno, vortici rapidi di nuvole nel cielo”. (vv.244-245) Al verso successivo, tra l’altro, lo stesso Admeto, confidando in una dimensione superiore, chiama il sole quale ma@rtuv del triste destino che aspetta lui e la sua compagna: Ad. oéra^j se# kaème@, du@o kakw^v peprago@tav, ouède#n qeou#v dra@santav aènq’ oçtou qanh^j. “Il sole vede te e me, due infelici che niente hanno fatto agli dei perché tu debba morire”. (vv. 246-247) Il tema della “luce” abbraccia, dunque, con soluzione di continuità i versi più pregnanti della tragedia euripidea, raggiungen43 do la sua aèkmh@ quando, quasi avvertendo un senso di disorientamento sintomatico p e r l ’i m m i nenza della propria fine, Alcesti, percepisce che “una notte buia” le si sta insinuando negli occhi, ed augura perciò ai propri figli di “vedere con letizia la luce del sole”; evidente risulta in questi versi l’antitesi tra la nu@x skoti@a, la “notte buia”, del v. 269, e il riferimento al fw^v, alla “luce”, del v. 272. Gli stessi figli, tra l’altro, costituiranno l’ “oggetto” di un ulteriore passaggio, nella misura in cui, superando il proprio limen materno, Alcesti li “donerà” al suo parakoi@ thv, chiedendo a quest’ultimo di “far loro anche da madre”. Non dimentichiamo che già precedente- Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo mente la donna aveva avanzato ad Admeto delle richieste circa il rispetto che questi avrebbe dovuto accordarle anche dopo la morte; dalle parole di Alcesti si evince quanto dolorosa e importante sia stata la sua scelta di morire al posto del marito: 44 A ò dmhq’, oéra^vj ga#r taèma# pra@gmaq’ wév eòcei, le@xai qe@lw soi pri#n qanei^n a° bou@lomai. eègw@ se presbeu@ousa kaènti# th^v eèmh^v yuch^v katasth@sasa fw^v to@d’ eièsora^n, qnhjs @ kw, paro#n moi mh# qanei^n, uépe#r se@qen, aè l l’ aò n dra te scei^ n Qessalw^ n o° n hòqelon, kai# dw^ma nai@ein oòlbion turanni@di. Ouèk hèqe@lhsa zh^n aèpospasqei^sa@ sou su#n paisi#n oèrfanoi^sin, ouèd’ eèfeisa@mhn hçbhv, eòcous’ eèn oi§v eèterpo@mhn eègw@. kai@toi s’oé fu@sav chè tekou^sa prou@dosan, kalw^v me#n auètoi^v katqanei^n h§kon bi@ou, kalw^v de# sw^sai pai^da keuèklew^v qanei^n. mo@nov ga#r auètoi^v hùsqa, kouòtiv eèlpi#v hùn sou^ katqano@ntov aòlla fitu@sein te@kna. Kaègw@ t’ aàn eòzwn kai# su# to#n loipo#n cro@non, kouèk aàn monwqei#v sh^v da@martov eòstenev kai# pai^dav wèrfa@neuev. A è lla# tau^ta me#n qew^n tiv eèxe@praxen wçsq’ouçtwv eòcein. Eiùen * su# nu^n moi tw^nd’ aèpo@mnhsai ca@rin * aièth@somai ga@r s’ aèxi@an me#n ouòpote * yuch^v ga#r ouède@n eèsti timiw@teron di@kaia d’, wév fh@seiv su@ * tou@sde ga#r filei^v ouèc h§sson hà gè w# pai^dav, eiòper euù fronei^v * tou@touv, aèna@scou despo@tav eèmw^n do@mwn, kai# mh# pè igh@mhjv toi^sde mhtruia#n te@knoiv, hçtiv kaki@wn ouùs’ eèmou^ gunh# fqo@nwj toi^v soi^si kaèmoi^v paisi# cei^ra prosbalei^. “Admeto, tu vedi qual è la mia condizione; prima di morire voglio dirti le mie volontà. Io ti ho reso onore fino al punto di farti vivere a prezzo della mia vita, e muoio per te, pur potendo non morire e prendere per marito un altro Tessalo, chi volevo, e abitare una casa prospera e regale. Non ho voluto vivere senza te con figli orfani, e non ho risparmiato la mia giovinezza, pur avendo la possibilità di trascorrerla in letizia. Ma tuo padre e tua madre sì ti hanno abbandonato, quando erano arrivati a un punto della vita in cui sarebbe stato bello per loro morire, bello salvare un figlio e morire gloriosamente. Avevano te solo, e dopo la tua morte non avevano speranza di generare un altro figlio. E io sarei vissuta e tu con me per il tempo che ci restava, e non saresti rimasto senza la tua donna, a piangere e ad allevare figli orfani. Ma qualcuno degli dei ha voluto che così fosse, e sia. Tu però ricordati quello che mi devi: sì, ti farò una richiesta, non dello stesso valore, perché niente vale quanto la vita, ma giusta; lo riconoscerai anche tu che non ami meno di me i nostri figli, saggio come sei. Lascia che siano loro i padroni della mia casa, non sposare un’altra donna, una matrigna che, peggiore di me, per invidia metterà le mani addosso ai miei e ai tuoi figli.”(vv. 280-307) Si è visto che quando Alcesti compare sulla scena è in preda a una forte tensione emotiva; ella invoca il sole e la luce del giorno, la terra, la casa e il letto della patria Iolco. A questo stato d’animo, permeato di una fragilità tutta femminile, segue - come si evince dai versi riportati - una Alcesti totalmente padrona di sé, a cui l’idea della morte non suscita più il rimpianto per la perdita della felicità coniugale e nemmeno il terrore per il viaggio nell’Ade che l’aspetta. La donna, infatti, accetta con realismo e consapevolezza, quasi con un’apparente razionalità, quanto le sta per accadere, ma insiste sulla grandezza eroica del proprio sacrificio, sottolineando il vile comporta- mento dei genitori di Admeto che, già vecchi e prossimi ad una fine naturale, non hanno accettato di sacrificarsi. L’eccezionalità del suo comportamento e la dedizione incondizionata mostrata nei confronti del marito, inducono però la donna a formulare una richiesta che definisce di@kaia: “…non sposare un’altra donna, una matrigna che, peggiore di me, per invidia metterà le mani addosso ai miei e ai tuoi figli…”(vv. 305-307) Non si dimentichi, tra l’altro, che all’inizio del suo discorso Alcesti afferma che avrebbe potuto non morire per Admeto e “scei^n Qessalw^n o°n hòqelon”; tale riferimento, pertanto, trova la sua evidente spiegazione proprio in ciò che ella chiede al marito. Alcesti è consapevole della propria scelta e questa lucidità la rende una figura generosa ed altruista ma, al tempo stesso, tale “eroico altruismo” sfocia in una sorta di egocentrismo; siamo dunque in presenza di una realtà soggettiva in cui convivono due piani piuttosto antitetici, la generosità al limen dell’egocentrismo, e in cui la “soglia” del passaggio dall’una all’altro è insita in un circuito verbale caratterizzato da un’emotività particolarmente umana. Tutta la réh^siv è impregnata di un marcato egocentrismo che raggiunge toni più sommessi e pacati solo quando, alla fine, nonostante l’apparente accettazione dell’imminente morte,la donna lascia trapelare la sua rassegnazione: dei^ ga#r qanei^n me * kai# to@d’ ouèk eèv auòrion ouèd’ eèv tri@thn moi mhno#v eòrcetai kako@n, aèll’auèti@k’ eèn toi^v ouèke@t’ ouùsi le@xomai. “Devo morire, e questo succederà non domani o dopodomani, ma subito sarò tra quelli che non sono più”. I limina che emergono dall’Alcesti di Euripide sono perciò armonicamente incastonati non solo in un mosaico di stati d’animo e di identità soggettive, ma si impiantano con soluzione di continuità nello sfondo stesso della tragedia che, come si è visto all’inizio, è costantemente caratterizzato dall’alternanza di luce e buio, di vita e morte. Tale “intermittenza”, pertanto, si riflette nelle dinamiche rituali descritte nel testo che, sottolineando con 45 particolare pathos il passaggio di Alcesti dalla vita alla morte, renderanno ancor più realistico il suo ritorno alla vita e alla “luce del giorno”. Alcesti appare sulla scena agonizzante e dice di vedere Caronte, non a caso il “traghettatore” dei morti, colui che è preposto al fatale passaggio “della soglia”; l’agonia di Alcesti termina ai vv.385-390 e, poco dopo, la sua morte sarà concretizzata da un rituale ordinato dallo stesso Admeto: aèll’, eèkfora#n ga#r tou^de qh@somai nekrou^, pa@reste kai# me@nontev aènthch@sate paia^na twj^ ka@twqen aèspo@ndwj qewj^. Pa^sin de# Qessaloi^sin w§n eègw# kratw^ pe@nqouv gunaiko#v th^sde koinou^sqai le@gw koura^j xurh@kei kai# melampe@plwj stolhj^ * te@qrippa@ q’ oi° zeu@gnusqe kai# mona@mpukav pw@louv, sidh@rwj te@mnet’ auèce@nwn fo@bhn. Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo “Ma poiché bisogna fare il trasporto di questa salma, restate e intonate il peana all’inflessibile dio degli Inferi. A tutti i Tessali che mi sono sottoposti ordino di partecipare al lutto per questa donna tagliandosi i capelli e indossando abiti neri; e voi che aggiogate i tiri a quattro e montate i cavalli, recidete col ferro le loro criniere”. (vv.422-429) Al v.422 ricorre il sostantivo eèkfora@, “trasporto”, che ha un logico legame col verbo eèkfe@rw, “portare fuori da”, “trasportare”; la preposizione eèk, “fuori da”, amplifica ulteriormente l’immagine di “uscita” della protagonista, di passaggio non solo dall’abitazione alla sepoltura ma, metaforicamente, da bi@ov a qa@natov: attraverso l’ eèkfora@ Alcesti supera il limen vitale. A tale uscita corrisponde, com’é noto, la nuova “entrata” di Alcesti, il suo no@stov dalla morte alla vita: dopo aver appreso da un ser46 vo che il palazzo è in lutto per la scomparsa della regina, Eracle decide di attendere al varco Qa@natov vicino alla tomba destinata alla donna, per strapparle Alcesti. Essendo riuscito nell’intento, l’eroe ritorna con una donna silenziosa e velata, dichiara di averla avuta come premio di una vittoria in gare atletiche e chiede al re di custodirgliela in casa, anzi addirittura di accompagnarla dentro per tenerla con sé definitivamente, nel caso che la lotta tra Eracle e Diomede non si concluda bene per lo sfidante. Inizialmente Admeto è reticente ma poi accetta: Ad. komi@zet’, eiè crh# th@nde de@xasqai do@moiv. Hr. ouèk aàn meqei@hn th#n gunai^ka prospo@loiv. Ad. su# d’ auèto#v auèth#n eiòsag’, eiè bou@lhj, do@mouv. Hr. eèv sa#v me#n ouùn eògwge qh@somai ce@rav. Ad. ouèk aàn qi@goimi *dw^ma d’ eièselqein^ pa@ra. Ad.Conducetela dentro, se si deve riceverla. Er. Non affiderei mai questa donna ai servi. Ad.E allora tu stesso, se vuoi, introducila in casa. Er. Io stesso la porrò nelle tue mani. Ad.Non la voglio toccare, però può entrare in casa. (vv. 1110-1114). Dopo aver chiesto ad Eracle di eiè s a@ gein th#n gunai^ka do@mouv e averne ricevuto un rifiuto, Admeto concede ad “Alcesti” di eièselqei^n; i due verbi adoperati da Euripide si compongono, come si vede, della preposizione eièv che, non a caso, esprime un concetto di movimento e, spesso, di un movimento verso l’interno. Alcesti, dunque, è rientrata non solo nella sua casa e, di conseguenza, nella propria comunità di appartenenza, ma nella luce stessa della vita; tuttavia, per reinserirsi totalmente nella dimensione del quotidiano, la donna deve purificarsi dalla sua consacrazione agli Inferi e rimanere tre giorni in silenzio: Hr. ouòpw qe@miv soi th^sde prosfwnhma@twn klu@ein, pri#n aàn qeoi^si toi^si nerte@roiv aèfagni@shtai kai# tri@ton mo@lhj fa@ov. Er. “Non ti è lecito sentire la sua voce prima che sia stata sconsacrata agli Inferi, il terzo giorno”. (vv.1144-1146). Un altro rito, dunque, che suggella e descrive circolarmente l’“iter liminare” di Alcesti. L’intera tragedia è percorsa da una conti- pollai# morfai# tw^n daimoni@wn, polla# d’ aèe@lptwv krai@nousi qeoi@ * kai# ta# dokhqe@nt’ ouèk eètele@sqh, tw^n d’ aèdokh@twn po@ron hu§re qeo@v. toio@nd’ aèpe@bh to@de pra^gma. nua ricerca dell’equilibrio che garantisce nel finale, mediante il meccanismo dell’agnizione, un ritorno alla realtà di partenza; le due parti di cui si compone il testo, la prima più dolorosa e la seconda in cui si sviluppa il lieto fine, si bilanciano perché funzionali al senso generale ed empatico della tragedia; la macrostruttura dell’opera è la proiezione esteriore del contenuto stesso di quest’ultima, nella misura in cui, come si evince dalle parole finali del Coro: “Molte sono le forme del divino; molte le cose che gli dei compiono contro le nostre speranze; e quello che si aspettava non si verificò, a quello che non ci si aspettava diede compimento il dio. Così terminò questo fatto.” (vv.1159-1163) Luce ed ombra, vita e morte, altruismo ed egocentrismo, andata e ritorno, entrata e uscita, illusione e speranza, non sono altro che i “due” volti dello stesso limen. Ilenia D'Orio Docente di Latino e Greco Liceo Classico Kennedy Salerno Lyceum Maggio 2010 47 Strumenti/Liminarismo LETTERATURA ITALIANA 48 Il “visibile parlare”: liminarismo nel X una sinestesia Il del Purgatorio lunga un canto L a rete di rimandi che attraversa la Commedia è stata spesso sottolineata dagli studiosi, a cominciare dai sesti canti delle tre cantiche; talvolta, però, vi sono dei collegamenti più sotterranei, ma non per questo meno significativi. Con il decimo canto ha inizio il Purgatorio vero e proprio perché Dante ha passato la porta del Purgatorio dopo che l’angelo gli ha segnato 7 “P” sulla fronte; analogamente nel X dell’Inferno i due pellegrini entrano nella città di Dite, da cui ha inizio il basso Inferno. Anche qui i due poeti si inoltrano in un luogo deserto. Anche qui il motivo dominante è quello della pietra. Queste osservazioni non risultano particolarmente originali. Tuttavia vi sono altri motivi che accomunano i due canti e che non sono stati sufficientemente sottolineati: il peccato di superbia e il senso della vista. È evidente che il tratto distintivo dei due eretici, Farinata e Cavalcanti, è l’orgoglio proprio dei nobili e degli scomunicati. Basti considerare l’atteggiamento di Farinata durante tutto l’incontro con Dante: dalla postura del dannato , all’esordio del suo colloquio con Dante2, all’eufemismo con cui allude alla sua pena3. Altezzosa appare anche la domanda drammatica che Cavalcante rivolge a Dante a proposito del figlio4. Farinata è stato processato per eresia e condannato “post mortem”. Che il vizio degli scomunicati sia la superbia ci è suggerito dallo stesso Dante attraverso le parole di Manfredi che nel III del Purgatorio definisce “presunzion” il suo peccato. Nel canto degli epicurei il riferimento alla vista ricorre più volte, associato soprattutto alla figura di Cavalcante Cavalcanti. Si inizia con “vista scoperchiata” per indicare l’apertura della tomba, si continua con “cieco carcere” per designare il luogo infernale, e si arriva a trattare l’”antivedere” (la preveggenza) e a utilizzare la similitudine della “mala luce”: i dannati sono come i presbiti che vedono bene solo le cose lontane. Il decimo del Purgatorio ha come motivo conduttore il senso della vista: emerge dalle occorrenze di “occhi”5, del verbo “parere”che ritorna sei volte e di vocaboli che appartengono comunque all’area semantica del vedere. L’intervento d’autore iniziale, in cui si afferma che sarebbe stata una grave colpa volgersi indietro al suono della porta del Purgatorio che si chiudeva, rinvia sia all’episodio biblico di Sara, sia al mito di Orfeo, ma soprattutto crea un altro collegamento con la città di Dite: nel IX canto i diavoli avevano esposto la testa della Medusa che pietrifica chi la guardi; da qui la raccomandazione di Virgilio (IX, vv.55-57): “Volgiti ‘n dietro e tien lo viso chiuso; / che se ‘l Gorgón si mostra e tu ‘l vedessi, / nulla sarebbe di tornar mai suso”. Dante deve tenere gli occhi chiusi altrimenti non potrebbe mai più tornare nel mondo dei vivi. Il mostro mitologico ci riporta al tema della pietra, che è palese nel canto X dell’Inferno soprattutto per la presenza delle arche, ma viene riproposto più suggestivamente nel Purgatorio a cominciare dalla pietra fessa sulla quale bisogna passare per giungere a contemplare gli altorilievi che sembrano vivi al punto da confondere i sensi, mentre le anime appaiono come sculture tanto da essere paragonate a delle cariatidi. Non è la prima volta che il pellegrino è vittima di questo inganno dei sensi; anche nel XXXI dell’Inferno Dante crede che i giganti che si trovano nel pozzo siano delle “alte torri”. Il canto decimo non ha solo funzione di cerniera, tra l’Antipurgatorio e il Purgatorio vero e proprio, come i canti decimi dell’Inferno e del Paradiso. La sua è anche una funzione prolettica: anticipa il grande tema dell’arte, della superbia che scaturisce dalla creazione artistica che avrà il suo massimo sviluppo nell’undicesimo. La creazione artistica divina realizza la sintesi, la sinestesia tra vista e udito, tra arte scultorea o figurativa e letteratura. La sinestesia ha importanti precedenti nel poema: basti ricordare la prima apparizione di Virgilio (chi per lungo silenzio parea 49 fioco6), e la definizione dell’Inferno come loco d’ogni luce muto7. La confusione e fusione dei sensi si realizza durante la contemplazione di altorilievi che raffigurano esempi di umiltà riguardanti l’Annunciazione, la danza di Davide davanti all’Arca dell’Alleanza, Traiano e la vedovella; sono, quindi, tratti rispettivamente dal repertorio mariano, dal Vecchio Testamento, dalla storia classica: la vita della Vergine, la storia sacra e profana si inseriscono in un unico disegno provvidenziale. I tre pannelli non coinvolgono solo la vista, ma anche altre impressioni sensoriali con un procedimento sinestetico che annulla le divisioni tra scultura e pittura, la distinzione tra i sensi della vista, dell’udito e dell’olfatto. Nel primo esempio, l’Annunciazione, il carattere miracoloso dell’immagine che parla è compiutamente espresso dai vv. 40-45: Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo “giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave!’; / perché iv’era imaginata quella / ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave; / e avea in atto impressa esta favella / ‘Ecce ancilla Dei’, propriamente / come figura in cera si suggella. Assistiamo qui al primo straniamento dei sensi da parte di Dante, anche se per il momento la sensazione è ancora indefinita: le parole s’imprimono nell’atto della Vergine come una figura s’imprime nella cera. Il secondo esempio, quello di Davide, segna un progresso rispetto al primo e ha ispirato molti artisti medievali. In realtà Dante opera una “contaminatio” di due episodi distinti, anche se vicini e concernenti entrambi il trasferimento dell’Arca: 1) Davide che si umilia davanti all’Arca e suscita l’ira sprezzante della moglie Micol, che sarà punita con la sterilità per la sua alterigia; 2) la punizione tragica ed esemplare di Oza per aver 50 toccato l’Arca, pur non essendo sacerdote. Pertanto un esempio di umiltà racchiude in sé due esempi di superbia punita. Tutto questo episodio appare ispirato a un certo gusto teatrale, come evidenziano in primo piano la danza del re, sullo sfondo la finestra alla quale è affacciata Micol e il gran palazzo, reggia superba che si oppone spazialmente alla mortificazione del sovrano. Tra i due esempi di superbia punita si inserisce una descrizione della confusione dei sensi in Dante pellegrino (vv. 58-63): “Dinanzi parea gente, e tutta quanta, / partita in sette cori, a’ due mie’ sensi / facea dir l’un “No”, l’altro “Sì, canta”. Similemente al fummo de li ‘ncensi / che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso / e al sì e al no discordi fensi.” Rispetto all’esempio precedente qui entra in gioco anche il senso dell’olfatto: l’episodio oltre a confondere l’udito di Dante, che crede di sentire cantare, inganna anche l’olfatto del poeta, che crede di percepire l’odore di incenso. Le tre storie sono disposte secondo un climax ascendente che ha la sua acmé nell’episodio di Traiano e della vedovella. Il divino artefice ha prodotto un “visibile parlare”, espressione che sinesteticamente sintetizza la confusione tra vista e udito, prodigio che non solo provoca una confusione sensoriale, ma suscita anche l’impressione di un succedersi dei fatti e, conseguentemente, anche degli stati d’animo. L’autore libera l’esempio da tutti i particolari che considera superflui rispetto al dialogo. Dà l’indicazione che il terzo esempio “biancheggiava”, spiccava, quindi, tanto da attirare la sua attenzione al punto da farlo spostare per poterlo contemplare (vv. 70-72): “I’ mossi i piè del loco dov’io stava, / per avvisar da presso un’altra istoria, / che di dietro mi biancheggiava”. Si tacciono i sentimenti dei due personaggi nel dialogo che suscita anche l ’i m p re s s i o n e d e l tempo, di proiettare nella quarta dimensione; d’altra parte già dall’inizio del canto la dimensione spaziale e quella temporale risultavano poco chiare. La pittura e la scultura raffigurano solo il momento; qui, invece, Dante rappresenta la successione dei fatti in un solo gruppo scultoreo. Subito dopo il dialogo il poeta commenta (vv. 94-96): “Colui che mai non vide cosa nuova / produsse esto visibile parlare, / novello a noi perché qui non si trova”. Dio, per il quale non vi è nulla di nuovo, produsse quest’opera che supera i limiti imposti all’arte umana. La vista e l’udito sono sinesteticamente confusi: le parole non si percepiscono con l’udito, ma sono diventate immagine. L’arte divina può superare il modello naturale in quanto è figlia diretta di Dio, non una semplice imitazione della natura, e il canto decimo si configura come una lunga “amplificatio” della figura retorica della sinestesia. Carlo Pica Docente di Lettere Liceo Scientifico “Ugo Morin” Mestre 51 ed el s’ergea col petto e con la fronte / com’avesse l’inferno a gran dispitto (Inf. X, vv. 35-36) “Chi fuor li maggior tui” (Inf. X, v. 42) 3 “S’elli han quell’arte” disse “male appresa, / ciò mi tormenta più che questo letto” (Inf. X, vv. 77-78 4 “Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? E perché non è teco” (Inf. X, vv. 58-60) 5 e s’io avesse li occhi vòlti ad essa / qual fora stata al fallo degna scusa (vv. 5-6) (Dante spiega che se si fosse volto a guardare la porta del Purgatorio che si era appena richiusa avrebbe commesso una grave colpa); e quanto l’occhio mio potea trar d’ale (quanto l’occhio di Dante poteva arrivare a vedere) (v. 25); perch’io varcai Virgilio, e fe’mi presso, / acciò che fosse a li occhi miei disposta (Dante oltrepassa Virgilio e si avvicina, per poterla vedere) (vv. 53-54); Similmente al fummo de li ‘ncensi / che v’era imaginato, li occhi e ‘l naso / e al sì e al no discordi fensi (la vista e l’olfatto si fecero discordi sul sì e il no di fronte al fumo dell’ncenso che era rappresentato nell’episodio di Davide che danza precedendo l’arca). (vv. 61-63); Li occhi miei, ch’a mirare eran contenti / per veder novitadi ond’e’ son vaghi, / volgendosi ver’ lui non furon lenti (i miei occhi che erano soddisfatti di osservare cose nuove di cui essi sono bramosi furono pronti a volgersi verso Virgilio). 6 Inf. I, v. 63. 7 Inf. V, v. 28 1 2 Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo LATINO E GRECO Il messaggio di frontiera delle Beatitudini nell’immaginario dell’Occidente I testi evangelici di Matteo e Luca sulle Beatitudini si pongono come “luogo” di confine fra culture e autori diversi, da omero a Virgilio a Dante, riscrivendo e transcodificando topoi canonici dell’immaginario universale. 52 T ra i messaggi profondamente incisi nell’immaginario collettivo dell’Occidente sicuramente vanno annoverate le due pericopi (o “estratti”) delle Beatitudini evangeliche1 (Matteo 5, 3-12 e Luca 6, 20-23): due testi esemplari e canonici, che, per la loro pregnanza semantica, si configurano come una grande Utopia2 o come un Decalogo progettuale3. Le modalità della loro formulazione (sono da considerarsi “beati” coloro che soffrono) attraversano tutta la storia dell’Occidente, ponendosi come segni di confine e di frontiera fra culture e autori diversi. Il carattere plurimo del concetto di beatitudine. Plurimo e cangiante è già il termine stesso che indica “il considerare beata una persona”: µακαρισµς (“macarismo”). Nato nella cultura greca, esso ricorre nella Repubblica di Platone4 e nelle Egloghe di Stobeo5, il quale lo collega alla condizione di beatitudine dovuta alla buona sorte. Nell’Antico Testamento la condizione di beatitudine è invece collegata a una dimensione spirituale. L’incipit del Salmo I (XI sec. a. C.) recita così: “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti”. Il Salmista si avvale di precise categorie: la moralità (l’errore degli “empi”), la religione (la caduta nel “peccato”) e la mancanza di razionalità (empietà e peccato affondano le loro radici nella “stoltezza”). Ma significativo è anche un passo del libro di Tobia (V-III sec.). In esso si canta la rinascita del Tempio di Gerusalemme dopo la sua distruzione ad opera di Nabucodonosor (605-587 a. C.) “Beati coloro che avranno pianto per le tue sventure: gioiranno per te e vedranno tutta la tua gioia per sempre”6. Questo testo sembra anticipare i macarismi delle Beatitudini, non solo per la prospettiva escatologica (fondata sulla felicità futura), ma soprattutto per il presente di sofferenza (intesa come “prova”) da cui il giusto sarà salvato. La dialettica beatitudine vs maledizione. Anche il Nuovo Testamento è ricco di macarismi. È interessante citare quello contenuto nella Lettera di Giacomo, che così inveisce contro i ricchi: “Orsù, voi ricchi, piangete e lamentatevi per le sciagure che si abbatteranno su di voi […]. Il salario da voi trattenuto, dei lavoratori che hanno mietuto i vostri campi, grida”7. Alla maledizione nei confronti dei ricchi, la Lettera di Giacomo affianca e contrappone un interessante macarismo: “Beato l’uomo che sopporta la prova, poiché, divenuto comprovato, riceverà la corona della vita, che Dio promise a quanti lo amano”8. Nel testo greco compare, oltre che il nostro aggettivo-chiave µακρις, un termine emblematico: il sostantivo pειρασµς, che, derivando dal verbo pειρω (“sperimentare” e “provare”), significa “prova”: è un lessema peculiare dell’idioletto dei Settanta, che per la prima volta viene usato -al di fuori del greco classico- nel senso cristiano di “ten53 tazione” (quella “prova” che appare come sottesa al testo stesso delle Beatitudini). La felicità, concetto di frontiera. I l sostantivo “macarismo” richiama evidentemente l’aggettivo µακρις (che presenta anche una forma arcaica: µκαρ, attestata in Omero e in Esiodo). In realtà, i Greci avevano altri tre aggettivi per indicare “felice”: λ ι ς (“splendido” per possesso di beni), εδαµων (“che gode dei favori dei δαµνες”) e ετυς (“favorito dalla fortuna”) 9. Singolare è l’espressione di Teognide, in sua Elegia 10 , in cui descrive la beatitudine di colui che, senza aver Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo sofferto, scende nella nera dimora di Ade. Il poeta, infatti, lo chiama µκαρ, εδαµων τε κα λις. La beatitudine piena è data appunto da µακρις, che etimologicamente forse deriva da una radice greca µκ (presente anche in µγας, “grande”) o dall’egiziano m c hr (mcr = “giustificato a voce”), che era un appellativo riferito al morto quando veniva identificato con il dio Osiride. Nella versione latina delle Vulgatae µακρις viene tradotto con beatus, che è il participio passato del verbo beare (“riempire”) e perciò in origine significava “riempito”, “che non manca di nulla che possa contribuire alla felicità”. Cicerone nelle Tusculanae disputationes11 chiarisce la simbiosi fra beatus e felix: quest’ultimo aggettivo deriva da un arcaico verbo latino feo (“generare”), il quale a sua volta richiama il corrispondente greco ω. 54 Egli scrive: “Come si definisce produttiva un’aratura, non solo se è immune da ogni calamità naturale, ma se le circostanze favorevoli (felicitas) sono predominanti, così può essere chiamata giustamente beata la vita, non solo se da ogni parte è colma di beni, ma anche se i beni vi assumono un ruolo importante e produttivo”. I Latini dunque inscrivevano il concetto di beatitudo in una prospettiva concreta derivante da una cultura rurale. Virgilio stesso ampliò il concetto di felix, chiamando beato chi sa elevarsi oltre la mentalità ed i pregiu- dizi del volgo, spaziando in un’atmosfera superiore. Celebre è il suo macarismo: Felix qui potuit rerum cognoscere causas12 (“Felice colui che ha potuto penetrare nell’essenza delle cose”). Il concetto di Beatitudine, per Virgilio, acquista una pregnante sfumatura filosofico-morale-esistenziale. Intertestualità tematica fra le Beatitudini di Matteo e Luca. Con Virgilio siamo ormai prossimi all’era cristiana, in cui si accampano come pietre miliari appunto i testi evangelici delle Beatitudini di Matteo e di Luca. La tradizione sostiene che Matteo scrisse il primo Vangelo, originariamente in aramaico, che fu pubblicato negli anni fra il 40 e il 50. Matteo è uno scrittore colto, che prende in considerazione la traduzione greca antica della Bibbia, usando parole che non esistono in aramaico, come ad esempio pαρυσα e pαλιγγενεσα. Passiamo a Luca che è considerato il terzo evangelista (il suo Vangelo risale al 65-70): di stirpe siriana, medico di professione, si convertì verso il 43 a C. La profonda conoscenza del messaggio di Cristo è dovuta anche al fatto che fu discepolo di Paolo, il quale lo chiama suo “collaboratore” che non lo ha mai abbandonato. Luca, come Matteo, utilizza Marco: egli è scrittore coltissimo13; sicuramente è l’evangelista più raffinato nell’uso della lingua greca e nel ricorso alle fonti. Molte sono le analogie fra le due pericopi, ma soprattutto molte le differenze. Cominciamo con le differenze contenutistiche. Innanzitutto, il numero delle Beatitudini. Matteo ne enuncia nove, mentre Luca quattro, a cui fa seguire quattro maledizioni (gli α, in latino vae). In secondo luogo, mentre il Discorso in Luca si svolge “in un luogo pianeggiante”, in Matteo invece è ambientato su un monte (da Agostino in poi è, perciò, chiamato “Discorso della montagna”). Il monte rivela tutta la sua importanza sacrale, in quanto è collegato all’Alto e al Celeste e richiama alla memoria del lettore (sia ebreo che cristiano) il Sinai, su cui Mosè ricevette da Dio le Tavole della Legge. Intertestualità semantica fra le Beatitudini di Matteo e Luca. Ma vediamo, ora alcune differenze testuali a livello esegetico-filologico. Ne scegliamo due. La prima differenza consiste nella presenza nel testo matteano (accanto a pτω) dell’espressione τ pνεµατι (“in spirito”), assente in Luca. Sicuramente, la formula matteana (che potrebbe essere la traduzione dei Settanta rispetto all’originale ebraico dakk’éj-rûah, cioè “spezzati nello spirito”) rivela un retroterra semitico, visto che nel rotolo qumraniano14 della Guerra dei figli della luce si ritrova l’espressione ‘anwéy rûah (letteralmente “piegati di spirito”). Essa ha dato luogo a diverse interpretazioni da parte dei padri della Chiesa. Una parte autorevole di essi ritiene che essa significa “gli umili”15, un’altra parte la traduce nel senso letterale di “distacco dalle ricchezze”16 (l’assenza nel testo lucano di questa aggiunta fa pensare che Luca alluda alla povertà reale). La seconda differenza riguarda, nella nona beatitudine di Matteo e nella quarta beatitudine di Luca, i cambiamenti apportati da quest’ultimo. I due testi sono concettualmente simili, ma semanticamente diversi. 55 In realtà, l’unico verbo usato da entrambi è νειδω (“ingiuriare”), un termine aulico del greco classico, adoperato da Omero, Sofocle e Platone ed è la spia della profonda cultura dei due evangelisti. L’altra versione di Luca. Notevole è, invece, il cambiamento apportato da Luca riguardo i due imperativi presenti (αρετε e γαλλισθε) usati da Matteo. Matteo, avvalendosi del presente, vuole suggerire un valore continuativo dell’azione. Ma può sembrare un po’ contraddittorio il fatto che egli, dopo aver elenca- Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo to le sofferenze a cui andranno incontro i credenti in Cristo, inviti a “continuare a rallegrarsi”. Luca, invece, pur mantenendo lo stesso verbo αρω e lo stesso modo (imperativo), lo usa al tempo aoristo (ρητε), che, in questo caso, acquista una sfumatura incoativa. Perciò il significato dell’azione risulta essere: “Cominciate, preparatevi, disponetevi con l’animo a rallegrarvi, proprio dopo avere ascoltato le tribolazioni a cui andrete incontro”. Luca ribadisce così l’importanza della “preparazione” al µαρτριν (“testimo56 nianza e sofferenza”) della κκλησα. Per quanto riguarda l’altro verbo γαλλισθε17 (il quale, peraltro, rivela un riuso sapiente di un termine omerico, che esprime l’orgoglio regale e militare), esso è sostituito da Luca con il verbo σκιρτω (nella sua forma dell’aoristo imperativo), che significa “saltellare” e “tripudiare”, ma anche “essere sfrenato”: lo troviamo, in Eschilo18, per indicare la potente azione del soffio del vento e poi, in Euripide, riferito alle Baccanti19. Pertanto all’orecchio di coloro, che conoscevano il greco, l’uso di questo verbo poteva risultare sorprendente; ma l’intento di Luca è quello di transcodificare, riscrivere, personalizzare il linguaggio classico e pagano, per reinventare un codice linguistico nuovo, che si avvalesse di tutte le componenti semantiche del mondo orientale e di quello greco classico. I macarismi: l’altro messaggio nella Divina Commedia. A testimonianza della vitalità universale delle Beatitudini matteane e lucane sicuramente può essere addotto il fatto che i macarismi non sono presenti solo nella Bibbia, ma anche in grandi capolavori della letteratura italiana, come ad esempio nella Divina Commedia, in cui è possibile rintracciare ben sette beatitudini. Innanzitutto va notato che nell’intero Poema l’aggettivo beato ricorre 42 volte (7 volte nell’Inferno, 14 volte nel Purgatorio e 21 nel Paradiso). Che il numero 7 sia considerato il numero sacro per eccellenza, è confermato dalla forte valenza simbolica conferitagli nelle Sacre Scritture20. Le prime sei Beatitudini dantesche vengono proclamate nel Purgatorio e riguardano i poveri in spirito, i misericordiosi, i pacifici, coloro che piangono e gli aventi fame e sete di giustizia. La settima Beatitudine consiste in un nuovo macarismo, che, proposto da Dante stesso, condensa uno dei messaggi più profondi del Cristianesimo: il perdono divino. L’espressione di Dante “Beati coloro ai quali i peccati sono coperti dal perdono” riprende il Salmo XXXI: “Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato”. Grazie alle Beatitudini, Dante delinea, così, un percorso culturale, che, passando dalle Sacre Scritture alla Letteratura, trasmette un messaggio, che resterà inciso a lettere di fuoco nell’immaginario collettivo. Melissa Chantal Salerno L’autrice di questo saggio, che ha conseguito la Laurea Specialistica in Studi Classici, ha collaborato a “Millennio”, la nuova Storia della Letteratura italiana della casa Editrice Simone. 1 Per una panoramica completa sui temi e sull’esegesi delle Beatitudini, cfr. J. Dupont, Le Beatitudini, 1969, ed. it. Milano, 1992, vol. I-II e III. 2 Giustino nel suo Dialogo con Trifone (cap. 10) testimonia l’opposizione degli Ebrei a un Vangelo che contenesse precetti inattuabili per le sole virtù umane. 3 Sant’Agostino, De sermone Domini in monte, I, 1. 4 Platone, Repubblica, 591. 5 Stobeo, Ecloga III, 57. 6 Tobia, 13, 15-16. 7 Lettera di Giacomo, 5, 1, 4 e 6. 8 Ivi, 1, 12. 9 Per il significato dei quattro termini λις, εδαµων, ετυς e µακρις cfr. F. Hauck, Grande Lessico del Nuovo Testamento, VI, 977, Brescia, 1965 e C. De Heer, λις, εδαµων, ετυς, µακρις. A study of the semantic field denoting appiness in ancient greek to the 5th century B. C., Amsterdam, 1968. 10 Teognide, Elegie, vv. 1013-1014. 11 Cicerone, Tusculanae disputationes, V, 30, 85 e 31, 86. 12 Virgilio, Georgiche, II, 490. 13 Lucas eruditissimus fuit (San Girolamo, Epistulae, 20, 4). 14 Qumran è una località sulla riva occidentale del Mar Morto, in Palestina. Il sito, costruito tra il 150 a.C. e il 130 a.C., fu distrutto, nell’estate del 68, dalla X legione dell’imperatore Tito. Qui, tra il 1947 e il 1956, furono scoperti, oltre ai resti di un monastero dove si ritiene vivesse una comunità di Esseni, i cosiddetti Manoscritti del Mar Morto o di Qumran. L’opera di gran lunga più nota è il Rotolo della Guerra dei figli della luce (110 a.C.-25 d.C.), il quale descrive la guerra di quaranta anni, che avverrà tra i “figli della luce” e i “figli delle tenebre”, con il concorso delle schiere angeliche. 15 Cfr. San Girolamo, Prefazione al Commento di Matteo, 26, 34; Giovanni Crisostomo In Matthaeum, Homil., XV, 1-2 e Sant'Agostino, De sermone Domini in monte, I, 1, 3. 16 Cfr. Gregorio di Nissa, Patrologia Graeca, 44, 1193-1208 e Leone Magno, Sermo XCV, Homilia de gradibus ascensionis ad beatitudinem, in Patrologia Latina, 54, 460-466. 17 Il verbo γαλλιω, peraltro usato da Matteo solo in questo passo, innanzitutto, esprime il carattere intenso del “rallegrarsi”, perché contiene la radice αγα, che ben rende tale intensità: si vedano -per contiguità semanticaanche l’avverbio γαν (“troppo”) e il verbo γαµαι (“guardare attonito”). In secondo luogo, il verbo γαλλιω ricorre solo nella traduzione greca dei Settanta, mentre nella lingua greca classica si presenta in una variante e nella forma media γλλµαι che ricorre in grandi scrittori, come Omero. Si veda, ad esempio, l’espressione omerica ppισιν γαλλµενς (Iliade, XII, 114), che significa “superbo per i cavalli”. È evidente, però, il processo di transcodificazione operato dal colto Matteo, che, pur avvalendosi di questo verbo del sotto-codice epico, lo priva del suo originario significato di “esaltazione e orgoglio regale e militare”, per conferirgli il senso di una “gioia interiore e spirituale”. 18 Eschilo, Prometeo, 1085. 19 Euripide, Baccanti, 446. 20 Nella Bibbia Dio impiegò sette giorni per realizzare la sua creazione. Nell’Apocalisse si dice che sette furono le Chiese del tempo e che la fine del mondo sarà annunciata dalla rottura dei sette Sigilli. Lyceum Maggio 2010 57 Strumenti/Liminarismo LETTERATURA & PSICOANALISI Leonardo liminare Il mostro e la follia, il Labirinto e l’Apocalisse: questi i poli dilacerati e inconsci di un Viaggio geniale -tra Arte e Letteraturain una terra di frontiera tra Scienza e Mistero. 58 “U sciranno dalla terra animali vestiti di tenebre, i quali con maravigliosi assalti, assaliranno l’umana generazione e quella da feroci morsi fia, con fusion di sangue, da essi divorata. Ancora; scorrerà per l’aria la nefanda spezie volatile, la quale assalirà li omini e li animali, e di quelli si ciberanno con gran gridore: empieranno i loro ventri di vermiglio sangue”. Espressioni terribili da far tremare le vene e i polsi, quelle che abbiamo appena lette. Uscite -penseranno i lettori- dalla penna nera e cupa di uno dei Maestri del brivido e tali da ben figurare accanto alle immortali pagine dell’Apocalisse. E, invece, sono solo un esempio fra i tanti, tratti dai frammenti apocalittici degli Scritti letterari di Leonardo da Vinci (1452-1519), canone indiscusso della cultura mondiale, perennemente liminare fra due strade opposte eppur complementari: quella della Scienza rigorosa e sperimentalista e quella del Mistero, condizionato da conturbanti pulsioni psicologiche. Di certo frasi come quelle citate ci consentono di ripercorrere il complesso cammino con cui Leonardo si addentrò nei labirinti del Fantastico, delineando suggestivi e apocalittici scenari, partoriti dal suo genio irregolare e visionario. Il Mostro, la Caverna e Thanatos. Il nostro viaggio nelle raffigurazioni leonardesche sulla “fine del mondo” parte da un concetto, che è emblematico nella ricerca del genio di Vinci: quello di “natura artificiosa”, che figura nel frammento Il mostro marino, il quale risale agli anni 1478-80, quindi al soggiorno fiorentino. In esso lo scrittore immagina di vedere un animale mostruoso arenato sulla riva del mare, formato da “cavernose e ritorte interiora”. Questa frase è illuminante, perché ci introduce in una metafora cara al Leonardo misterioso: la caverna. L’avventura del grande artista continua infatti con un frammento, intitolato dagli studiosi appunto La caverna e risalente agli ultimi anni del soggiorno fiorentino, cioè al 1480-82. Nell’esplorare una grande immaginaria caverna, lo scrittore viene colto da due spinte contrapposte: paura e desiderio (“paura per la minacciante e scura spilonca, desidero per vedere se là entro fusse alcuna miracolosa cosa”). Paura dunque di affrontare le prove del Viaggio nelle viscere della Verità e desiderio comunque di squarciare il velo che la ammanta e la nasconde agli occhi di chi vuol sapere. Nella caverna della Verità, che si dispiega nella sua potenza nell’imminenza della fine del mondo, Leonardo scopre che i mostri abitano in noi. È la rivelazione (questo significa del resto il termine greco apokalypsis) della “fine dei tempi” a segnare il dispiegarsi dell’Anomalo, dell’Indicibile, del Perturbante (termine freudiano che significa il vedere dinanzi a noi concretizzato il movente delle nostre angosce). In linea con tale processo, anche molte operazioni della vita quotidiana vengono rovesciate fino a rivelare la loro intima pulsione di morte. Così, l’uccidere qualcosa (presumi- bilmente un animale), prima di mangiarla, suggerisce a Leonardo il fatto che l’uomo “uccide il suo nutritore”; oppure l’esistenza del manico della scure appare come un oggetto, che si pone come una contraddizione vivente, in quanto serve per abbattere, quindi uccidere, proprio quelle selve da cui esso è nato. La morte, dominatrice sovrana della fine del mondo, dunque permea l’esistenza stessa fino a penetrare nella dimensione del 59 gioco: i dadi sembrano a Leonardo ossa di morti, che “con veloce moto” determinano “la fortuna del suo motore”. Sul rosso lettino di Sigmund: Leonardo e i suoi doppi. A questo punto ci siamo inevitabilmente immessi nella strada aperta da Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, il quale scrisse nel 1910 uno dei suoi saggi più illuminanti proprio sul grande scienziato rinascimentale, intitolato Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, che qui è il caso di riassumere brevemente. Il Grande Viennese parte dal richiamo alla misteriosa situazione familiare di Leonardo, figlio illegittimo del notaio ser Piero da Vinci e di Caterina, probabilmente una contadina, che poi sparirà, almeno Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo Leonardo, Sant'Anna con la Vergine e il Bambino come presenza fisica, senza il maschio: la madre gli ha dalla vita di Leonardo. dato la vita e il piccolo Leonardo la Quest’ultimo infatti va “ricambia” con un viscerale amore a vivere all’età di cinque edipico. anni in casa del padre, Diverso è l’atteggiamento anche perché la moverso il padre. Per un verso, egli glie di Ser Piero, Donna lo imita sia attraverso il gusto per Albiera, non ha avuto il lusso e lo sfarzo, sia attraverso figli. Il tema delle “due l’identificazione con lui (in quanto madri” si evince da alcuegli non si cura più dei suoi dipinti ni dipinti leonardeschi dopo averli creati, come il padre (incentrati sullo schema non si è curato più di lui dopo di “Sant’Anna con altri averlo generato). Per l’altro verso, Due”) in cui da una sola egli accusa, all’indomani della sua figura femminile sembrano diramarsi le parti morte, Ludovico il Moro -che secondo Freud superiori di “due” corpi. sarebbe un doppio del padre- di un comIn tali condizioni il piccolo Leonardo portamento che in realtà ha caratterizzato trascorre la sua primissima infanzia, alme- l’attività artistica di Leonardo stesso: cioè no fino a che vive con la madre vera, nella quello di non aver portato a compimento le ricerca ossessiva della spiegazione della sua sue opere. Opere, peraltro segnate da due misteriosa condizione: quella di essere un elementi spiazzanti: il pensiero labirintico e 60 bambino senza padre. A tale proposito, la regressione. Freud analizza un ricordo d’infanzia di Leonardo, al quale sembrò, come egli stesso Il sangue e il labirinto. Il pensiero labiscrisse, che un nibrintico affonda le sue radici bio venisse nella sua in un inconscio desiderio di culla e, apertagli la disordine, che poi si tramuta bocca con la coda, invece nella capovolta osseslo percuotesse con sione per l’ordine. Ciò si verifiessa dall’interno delca puntualmente nelle annole labbra. Per Freud tazioni private di Leonardo, il nibbio-avvoltoio nelle quali l’artista registrava (il cui disegno appaminuziosamente anche le più re chiaramente nel insignificanti spese quotidiacartone loninese per ne, tralasciando magari fatti il dipinto “Sant’Anna o elementi più importanti. con la Vergine e il Leonardo, infatti, si disperde Bambino”) è la main una serie di particolari dre. Questo volatile non sempre determinanti e appare nel sogno a spesso ripetuti. Leonardo come l’uniPer avere una prova sico animale-femmina gnificativa del suo “pensiero Leonardo, Cartone londinese per capace di partorire labirintico” e ossessivamente “Sant'Anna con la Vergine e il Bambino" ripetitivo, possiamo prendere in considerazione il frammento che meglio descrive la sua paura per la fine del mondo, che egli immagina causata da un Diluvio universale. Il brano, costituito da appunti sicuramente da collocare nell’ultima parte della vita di Leonardo, suole esser indicato con il titolo Il Diluvio e sua dimostrazione in pittura. In essi lo scrittore dà le sue indicazioni per raffigurare l’immane catastrofe, suggerendo una miriade di particolari, ossessivamente legati all’idea del “cader precipitosamente”, indicato con il concetto di ruina: “La cima d’un monte... ruvinosa discenda; ...i piedi delle montagne sieno rincalzati e vestiti delle ruine delli arbusti precipitati... Ruinino le mura della città... Vedevasi le ruine dei monti ruinare sopra i medesimi fiumi”. Ritorno allo stadio precedente alla Vita. Il secondo aspetto, la regressione, esplode nell’imminenza della catastrofe e della morte, che si pone come un momento duplice e imprevedibile. Proprio quando la stirpe umana infatti è minacciata nella sua esistenza, la vita celebra il suo trionfo, con l’affermazione della sua virtù sociale più alta: la solidarietà. “Se non fussi per certi popoli che ci hanno soccorso di vettovaglia -scrive Leonardo nel frammento apocalittico Lettera al Diodaro di Soria- tutti saremmo morti di fame... I vicini per pietà ci hanno soccorso di vettovaglie, i quali prima erano i nostri nimici”. L’istinto di aggressione cambia in tal modo la sua forza dirompente e la convoglia -ma solo apparentemente ed esteriormente- ad un fine altruistico. Resta in sottofondo la pulsione di morte, che comunque assume un’altra forma: quella della “invidia” verso il Regno della Non-esistenza (“Sono stato in tanti affanni, che avam d’avere invidia ai morti”). Il processo di regressione è ormai definitivamente innescato: Leonardo aspira a ritornare alla condizione di quando egli e il mondo non esistevano. 61 Illuminante è l’aforisma leonardesco, che si può porre a suggello della vicenda di Leonardo: “I’ son colui che nacqui innanzi al patre: la terza parte delli omini uccisi; po’ tornai nel ventre alla mia madre”. Come un novello Edipo, il Genio di Vinci profetizza il suo congedo dal mondo e dalla fatica dell’esistere, in un’atmosfera di miracolo rarefatto, che gli fa sperimentare prima il superamento dell’Apocalisse, che per lui diviene un “rinnovamento del Mondo” e poi la scoperta di un’altra dimensione, quella immediatamente prima della nascita, che nessuno ricorda ma che tutti vorrebbero rivivere. Franco Salerno Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo TEORIE LIMINARI Il paradosso del compleanno S e consideriamo una classe di 23 alunni la probabilità che due di essi siano nati lo stesso giorno dell’anno è di circa il 50%. Se la classe è abbastanza numerosa (30 alunni) questa probabilità supera il 70%. Il fatto che queste probabilità siano così alte sembra strano, perché l’intuito comune ci porta a sostenere che 23 persone siano poche perché, su 365 giorni disponibili in un anno, si verifichi una coincidenza di compleanni. Un modo per rendere tale paradosso più accettabile al senso comune è che in realtà dobbiamo pensare che 23 persone 62 significano un numero di combinazioni pari a C23,2=253, ossia 253 coppie differenti. Inoltre noi non ci stiamo chiedendo se una di queste coppie sia nata in un determinato giorno (per esempio il 25 Aprile) poiché questa probabilità sarebbe realmente bassa; noi stiamo considerando il fatto che la coppia possa essere nata in uno qualsiasi dei 365 giorni dell’anno. Questo accresce di gran lunga la probabilità. Proviamo a scrivere la probabilità che in un gruppo di n persone nessuna sia nata nello stesso giorno di un’altra persona del gruppo. Notiamo che questa probabilità può essere espressa in termini delle sole disposizioni e delle disposizioni con ripetizione. Abbiamo 365 giorni di nascita da distribuire ad n persone. Tutti i casi possibili sono le disposizioni con ripetizione D(r)365,n dei 365 giorni alle n persone (nelle disposizioni con ripetizione qualcuno può condividere il compleanno). I casi favorevoli, quelli in cui i compleanni non sono condivisi, sono le disposizioni D365,n (senza ripetizione) dei 365 giorni alle n persone. Da cui: (0.1) P1 (n)= nf = D365,n np D(r)365,n Che possiamo scrivere in termini di fattoriali: D 365! = P1 (n)= 365,n D(r)365,n [365-n]! · 365n Questa è la probabilità che nessuno sia nato nel giorno in cui è nato uno degli altri individui del gruppo. La probabilità che ci siano due individui nati lo stesso giorno è quindi: D365,n (0.2) P(n)=1 – P1(n)=1 – (r) D 365,n In Figura 1 è mostrato un diagramma di questa probabilità al variare del numero di persone. Il grafico ci ripropone valori indicati all’inizio della trattazione. Per 23 persone siamo intorno al 50% e per 30 intorno al 70%. Notiamo inoltre che intorno alle 40 persone tale probabilità raggiunge il 90%. Ad 80 persone siamo ormai al 99,99%. Ovviamente arrivati a 366 persone avremo P(366)=100% infatti, essendo i giorni dell’anno pari a 365, su un gruppo di 366 persone sicuramente avremo la sovrapposizione di almeno due compleanni. Vediamo qualche esempio di utilizzo delle formule (0.1) e (0.2). Figura 1: La probabilità che due persone abbiano il compleanno lo stesso giorno cresce all’aumentare del numero di persone prese in considerazione. La raccolta di figurine Per completare una raccolta di figurine si cerca in generale di scambiare con gli amici delle figurine di cui abbiamo delle copie (i doppioni) con altre che ci mancano per completare la nostra raccolta. Alla base di tutto questo vi è però l’acquisto di pacchetti di figurine per cercare di acquisire nuove figurine mancanti o, nell’ipotesi più sfortunata, delle copie da scambiare con gli amici. Le moderne catene di produzione delle figurine sono predisposte in modo che nel singolo pacchetto non possano capitare due figurine identiche (o almeno cercano di minimizzare questa eventualità). Tale ipotesi resterebbe ancora probabile se le figurine fossero impacchettate casualmente. Vogliamo pertanto chiederci quale sia l’eventualità sfortunata che in un pacchetto possano esserci due figurine uguali. Questa probabilità dipende dal numero totale di figurine della raccolta e dal numero di figurine che si trova nel singolo pacchetto. Si noti come questo problema sia identico a quello del paradosso del compleanno, sebbene in un contesto diverso: ai 365 giorni possibili va sostituito il numero totale di figurine della raccolta, mentre il numero di individui è sostituito dal numero di figurine in un pacchetto. Per fissare le idee consideriamo una raccolta di 400 figurine con pacchetti da 6. Sappiamo che la probabilità che, in un pacchetto, vi siano 6 figurine diverse è pari a: D400,6 ≈ 0,963 → 96,3% D(r)400,6 Di riflesso la probabilità che in un pacchetto possano esserci 2 figurine uguali è pari a: Lyceum Maggio 2010 63 Strumenti/Liminarismo P=1– D400,6 D (r) 400,6 ≈ 0,037 → 3,7% Che è quasi il 4%, questo significa che dovremmo trovare due figurine uguali in un singolo pacchetto, quasi una volta su 25. Distributori automatici di caramelle Quando si introducono delle monete in un distributore automatico di quelli mostrati in Figura 2, in generale, si spera di poter collezionare con il minor numero possibile di mo64 nete la maggior Figura 2: Un distributore varietà di oggetti automatico di caramelle (siano essi caramelle, giocattoli a sorpresa, pupazzetti o altre amenità). Fissiamo il numero totale di oggetti diversi che il distributore può erogare, ad esempio, caramelle di 8 gusti diversi. Nell’ipotesi che ogni caramella sia erogata con una singola moneta, vogliamo investigare quale sia la possibilità che con un numero di monete pari a 5 possiamo assaggiare 5 caramelle diverse. Anche questo problema è identico a quello del paradosso del compleanno, ovviamente visto sotto una prospettiva diversa. Questa volta i 365 giorni possibili vanno sostituiti con gli 8 gusti possibili della caramella, mentre il numero di individui è sostituito dal numero di monete n=5. La probabilità di avere due caramelle allo stesso gusto tra le 5 erogate dal distributore è: D8,5 P=1– ≈ 1– 0,205 → 79,5% D(r)8,5 Una probabilità considerevole: sembra proprio che non dobbiamo considerarci sfortunati quando non riusciamo a collezionare tutti gli oggetti differenti erogati da un distributore. Emiliano Barbuto Emiliano Barbuto è autore di Teoria dei giochi. Modelli e strategie per massimizzare le probabilità di vincita e minimizzare i rischi, Edises - Napoli, 2007. POéSIE Entrevue avec la poètesse syrienne L Maram Al-Masri iminality par excellence est l’intellectuel qui vit loin de sa patrie et se sent citoyen du monde. Ce qui est ressorti de l’entrevue avec la poètesse syrienne Maram Al-Masri que nous avons rencontrée à l’occasion d’un projet arabe “Voyage au Maghreb et au Moyen-Orient”, qui s’est tenue à Cava et organisé par le Professeur Maria Albano de l’Université de Macerata. Née à Latakia (Syrie), d’une riche famille musulmane, a été formée sur la poésie de Hikmet, Gibran et Tagore. À l’âge de seize ans, elle commença à écrire les premières poésies “Renaissantes et rythmées”, sentimentales et patriotiques. En 1982, elle s’installe à Paris, où une vie vide, enfermée dans une banlieue malsaine, n’a pas permis de donner libre cours à sa nostalgie pour ses liens affectifs en Syrie. Pour cela, elle recommença à écrire dans sa langue maternelle et à raconter son monde et les souvenirs de sa patrie. Le texte qui suit est l’entrevieu qu’elle a gentilment, bien voulue nous accorder en français. Je suis habitante de la Terre la France c’est quand même un très beau pays qui m’a donné des droits. Avez vous quelques difficultés? 65 Oui il y a quelques difficultés au niveau national, continental mais malgré tout ce pays m’a offert un dieu de droit, de dignité que certains pays ne donnent pas. Quel est votre concept de l’amour? Mon concept de l’amour est très realiste, lié a l’experience de vie, qui entraîne toutes les paroles inutiles, les tabous de l’amour qui nous ont emprisonnés pendant des siècles et des siècles. Selon vous, quels sont les éléments communs entre Orient et Occident et egalement les différences? Certainement il y a des différences importantes entre les deux continents. Bien que les cultures, les traditions et de la tolérance, je pense que les pays pourraient se rapprocher. Et pourtant les méditerraneens habitent sur la même rive, partagent le meme soleil, donc les difficultés sont liées à la religion. Je repète qu’avec un peu de tolérance, d’humanité, d’amour il pourrait y avoir une communication. Comment vivez vous votre condition de syrienne à Paris? Je vie des fois cela un peu mal, mais Paris, Entre Occident et Orient ou vous sentez vous d’appartenir le plus? Mon enfance je l’ai vécue en Arabie Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo mais je suis habitante de la Terre, je suis universelle, je me sens cosmopolite, parce que maintenant on ne vit plus seulemement dans notre pays, tous les pays sont liés par un destin commun, le destin de la terre. Y a-t-il quelqu’un en particulier qui vous a inspirée? Quand j’etais petite et quand j’ai commencé à écrire, je me suis inspirée de poète arabe comme Hikmet et Gibran; néanmoins je ne fais pas partie d’une école en particulier. J’appartiens à la modernité de la poésie arabe. Malgré tout où vous sentez vous le plus à l’aise? Vous avez été identifiée comDes fois je m’étonne, me poetesse de la naïveté, de la je me sens très orientale “J’appartiens simplicité: vous croyez apparteet d’autres je me trouve à la nir a ce mouvement littéraire? vraiment très occidenmodernité de Simplicité oui, je pense que la tale selon les circonsimplicité est la meilleure méthode la poésie arabe” stances, si maintenant je de faire approcher la poesie à la vais en Syrie je me trouve vie! Moi je veux donner ma poesie étrangère et maintenant dans la plus simple forme possible, a moi les en France... complications ne m’intéressent pas. Votre style n’est pas facile à encadrer, avez vous des modèles d’inspiration du66 rant votre formation littéraire? Je n’ai vraiment pas d’exemple à part celui de la Liberté, l’exemple que l’on a suivi à l’école classique: les rimes, les strophes... mais moi à un moment de ma vie, j’avais un frère qui m’a poussé à me libérer de cette chaine. Parce que il y a fait beaucoup de sacrifices, d’experiences pour transmettre l’émotion à travers les rimes, moi je me suis libérée du style et de la forme. Quels sont les éléments essentiels de votre poésie? C’est la vie! La vie? Oui: le sentiment, l’observation, les êtres humains, c’est moi, c’est toi, tout le monde, c’est tout ce qui passe à travers les hommes. Salvatore Falanga III B - Liceo Classico Il testo in italiano di questa intervista è stato pubblicato nel numero 38 di Lyceum. Due liriche di Maram al-Masri 67 Lyceum Maggio 2010 Strumenti/Liminarismo ANALISI TESTUALE LIMINARISTICA Uccidere il rivale? I L'alter ego ne La coscienza di Zeno l capitolo de La coscienza di Zeno di Italo Svevo presenta come sequenza apicale l’episodio, in cui il debole Zeno, oscillante fra la malattia e la inettitudine, manifesta in maniera sorprendente la sua rivalità con Guido Speier. Già precedentemente lo aveva colto un problema fisico, precisamente un forte dolore alla gamba (lo stesso che per la prima volta ha provato in casa Malfenti di fronte alla superiorità del rivale). Poi un errore, compiuto durante la seduta spirituale, lo incastra nella relazione con Augusta (l’anti-Ada). Infine, la rabbia -scaturita dall’in68 feriorità rispetto al commerciante toscanoraggiunge la sua “acmè” quando si presenta a Zeno un’occasione di eliminare il rivale, capovolgendo la situazione: la posizione liminare di Guido, a livello fisico ed ontologico (egli è pendulo sul muricciolo fra la vita e la morte), offre a Zeno lo spunto per partorire pensieri in bilico fra l’odio e la rivalità, che sfociano in un desiderio omicida. Ma il Super-io, in contrasto con l’emergente Es, e la sua iperbolica necessità di una protezione, di un “nido” pascoliano, in cui la moglie possa dare sicurezza, lo inibiscono nella sua pulsione di odio: di nuovo la malattia strappa al suo odio per Guido la colpa delle sue azioni. L’inettitudine di Zeno è responsabile della sua paralisi di fronte ad un eventuale annullamento del suo rivale e il dolore alla gamba ne è la testimonianza. Un anti-eroe pendulo fra lotta e contemplazione. Zeno è presentato ancora una volta come un malato, che esterna la sua malattia fino a renderla psico-somatica ed altalenante fra atteggiamenti ossessivi e nevrotici (come la riflessione sull’eventuale omicidio di Guido). La sua incapacità di portare a termine gli studi o di smettere di fumare, la sua inferiorità nei confronti del padre (rimarcata dall’ultimo schiaffo), che confluiscono nell’inettitudine, lo trasformano in un anti-eroe, liminare fra “quell’uomo occhialuto” e l’essere umano rimasto contemplatore che schiaccerà il “lottatore” Guido e si farà beffa della sua morte, non partecipando al suo funerale. In questo suo antagonista, che paradossalmente è un eroe rispetto ai canoni letterari, Zeno vede riflesso il rapporto edipico con suo padre. Il suo “compiacimento” nei confronti dell’alter-ego deriva da un latente desiderio di emulazione della figura che, riprendendo la fase positiva del rapporto edipico con il padre, incarna tutto ciò che Zeno non è. Il suo accento toscano, la maestria nel suonare il violino, uniti al nobile nome che porta, sono in netto contrasto con il triestino, in bilico fra il suo aspro nome e il dialetto che parla, che cerca di aggrapparsi alle sue nozioni scarse di musica per contrastare il suo alter-ego. Le qualità che l’inetto non potrà mai avere accendono fra i due una rivalità, che porta all’esplosione in Zeno delle pulsioni di “Thanatos”. L’odio prevale nel momento in cui Zeno medita l’uccisione del suo rivale, facilitato dalla posizione liminare sul muricciolo. L’Io cerca di giustificare le azioni dell’Es, trovando un movente nel carattere indifferente di Guido nei confronti della sua vittoria su Zeno in campo sentimentale. La vera rivale: la malattia. Zeno è costretto a vedere la bellezza di Ada, che per contrappasso sarà distrutta dal morbo di Basedow, trascurata dall’atteggiamento misogino di un marito, che è ora distante dalla superiore autorità del padre di Zeno. L’Io è complice dell’Es per aver sollevato il “coperchio” che contiene le pulsioni di morte, ma il Super-Io riesce a richiuderlo perché facilitato dall’aspirazione di Zeno a “dormire” quella notte con la sana Augusta. La colpa, in cui l’inetto “contemplatore” è immerso, non deriva tanto dal prevalere del Super-Io, che blocca il gesto omicida: esso, esploso dalla rivalità sentimentale fra i due, che solo nella mente di Zeno si contendono Ada (perché è già promessa a Guido), è spento proprio dalla figura di Augusta, altalenante fra essere l’alterego della madre e il sostituto del padre (per alcuni atteggiamenti oppressivi), simbolo della sanità e della protezione, che Zeno non vuole violare. La vera colpa ha un carattere universale per Zeno, che, pur avendo agito correttamente, si scaglia contro la sua vera rivale, la malattia. La realtà plurima: un topos della Modernità. L’inconscio, protagonista della vita di Zeno, che si articola in comportamenti da esso dettati, crea all’interno del malato una 69 parte che non cambia mai: la sua inettitudine, il suo vittimismo, il rapporto edipico con i rivali, l’aspirazione ad un “tetto” in cui domini la tranquillità della vita quotidiana sono costanti negli episodi della sua storia. Come il “fanciullino” di Pascoli, che, nascondendosi in un “angolo di anima”, è l’unico che può svelare la verità di una realtà mistificata, così il “ragazzo” che si cela dietro Zeno, è l’unico che, secondo la dialettica di Schopenhauer, da “lottatore” può salvarsi. E, allo stesso modo, l’arte per gli Espressionisti come Munch è l’unico mezzo per esprimere questo ed altri lati della personalità, che per Pirandello è “una, nessuna e centomila”. Antonio Boccia III B - Liceo Classico Questo scritto è la trascrizione fedele di un compito in classe, assegnato in base alle consegne tipiche della Prima Prova scritta di Italiano (Tipologia A – analisi del testo) Lyceum Maggio 2010 Percorso La Sezione si apre con una riflessione sulle condizioni indispensabili per garantire la pace politica e sociale nell’Italia di oggi ed evitare il rischio di oltrepassare il limite tra democrazia reale e democrazia apparente. Problema attualissimo ma che sembra richiamare il senso dell’Orazione sulla pace di Isocrate, senso identificabile con la forte esigenza di garantismo democratico atto a salvaguardare un bene inestimabile quale la pace, così come invocato da tanti altri autori del mondo greco: infatti, cambiano le epoche ma lui, l’uomo, si presenta di volta in volta con le sembianze della preda o del cacciatore. Pertanto, pur essendo la pace un concetto metafisico universale, si avverte in certi momenti ed in certi luoghi la chiara percezione della sua mancanza e della sua fragilità, tanto che la Dichiarazione per una cultura della pace dell’ONU prevede un grande disegno in cui rientrano valori quali libertà, giustizia, solidarietà, tolleranza, in nome di quel sentimento di fratellanza che pervade l’Inno alla Gioia del genio di Bonn, inno che simboleggia l’Unione Europea. Impegniamoci, dunque, sempre più fiduciosi, in un progetto di educazione alla pace, forti del monito di un grande filosofo, I. Kant, che ha precorso i tempi con un testo che apre la strada al pacifismo politico, e memori delle pennellate rapide, fulminanti ed uniche con cui Emily Dikinson ha toccato temi universali come la pace, aspettando il giorno in cui cessi ogni conflitto e la vita riprenda lasciando libero sfogo alle mani intrecciate di milioni di persone. L’argomento del prossimo Percorso è Speciale: Giovanni Amendola Il tema sarà dibattuto in un Convegno di Studi, organizzato dal Liceo “T. L. Caro” e dall'Università degli Studi di Salerno, con il patrocinio della Provincia di Salerno e del Comune di Sarno. Il programma è pubblicato a p. 116. STORIA DELLE IDEE L’esperienza storica mostra come la libertà e il benessere dei cittadini dipendano essenzialmente dalla capacità con cui i governi sono in grado di decidere, in un lavoro congiunto di maggioranza ed opposizione, se e come migliorare e rettificare le scelte politiche, le tecniche amministrative, ma soprattutto il modo di guardare al paese reale. Così da garantire la pace sociale. T ra emancipazione ed insidie L’età moderna si è orientata, in modo sempre più deciso, verso un’idea-forza inarrestabile, destinata a penetrare gradualmente in vaste aree delle relazioni umane, da quelle civili, politiche e sociali a quelle morali e giuridiche, determinando così il passaggio all’età contemporanea, volta a garantire e valorizzare una condizione all’insegna dell’emancipazione fondata su diritti-doveri indiscutibili, a partire dal rispetto della dignità umana e dell’autonomia delle singole istituzioni. Ma il corso della storia, negli ultimi decenni, ha spesso minato questo equilibrio, a tal punto da rendere sempre più corrosa ed invivibile la realtà politica, economica, sociale e culturale. Infatti, il passaggio verso una società fondata sugli ideali democratici, che costituisce il segno Pax eST Tocqueville tranquilla libertas distintivo e la prova più decisiva di un’epoca nuova, liminare, nel senso di posta a mo’ di confine tra un ideale di comunità ed il reale affermarsi dello stesso grazie ad esperienze umane e sociali significative, non è esente da gravi pericoli che possono compromettere proprio il valore dell’uomo come persona e 73 della società come polo aggregante. Tanto, soprattutto quando ci si concede a mode del momento o a motivi contingenti di Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace schieramento, distogliendo lo sguardo dai problemi più urgenti del paese che meriterebbero, invece, costante attenzione da parte della sfera politica nelle sue molteplici sfaccettature. Le strade dell’emancipazione, anche quando questa è un dato di fatto, sono insidiate da pericoli che nascono quando la democrazia assolutizza i suoi miti e si affida senza garanzia alla loro logica illogica, che impedisce di addentrarsi a fondo nei meccanismi della società odierna la quale, se da un lato gode di un grande benessere tecnologico e materiale, dall’altro è segnata da grosse sperequazioni e da laceranti squilibri, e sulla quale incombono rischi permanenti di conflitti sociali di fronte alla crisi di progetti alternativi e correttivi di una realtà che non offre sufficienti garanzie ad una pacifica convivenza. I pericoli sono, da un lato, l’eccessivo spi74 rito individualistico ed edonistico, dall’altro, il piacere di uniformarsi a pseudo-regole, che generano fatalmente forme latenti di accentramento del potere e che ripropongono tutti i rapporti politici e sociali in termini di dipendenza dalla volontà indiscussa di uno o più soggetti, di una o più istituzioni. Queste due minacce sono congiunte: sono estremismi che si rincorrono di continuo, purtroppo anche in democrazia. Perciò, l’interesse di ognuno deve essere finalizzato alla ricerca di strumenti atti a potenziare e, laddove necessario, a ri-fondare garanzie reali, capaci di prevenire e/o arginare processi degenerativi e, soprattutto, capaci di restaurare fra lo Stato, le istituzioni e la società civile, ovvero fra le varie componenti della vita associata, una regola di diritto, un sistema di controlli reciproci e di reciproche esigibilità. Quando parliamo di democrazia, non ci riferiamo soltanto a un insieme di istituzioni, ma indichiamo anche una generale concezione della vita. Nella democrazia siamo impegnati non solo come cittadini aventi certi diritti e certi doveri, ma anche come uomini che debbono ispirarsi ad un certo modo di vivere e di comportarsi con se stessi e con gli altri (Gustavo Zagrebelsky, la Repubblica, 8 gennaio 2008). Modo di vivere e di comportarsi all’insegna del rigore morale per tutti, e soprattutto per coloro che operano a livello politico, amministrativo e finanziario. Un valido insegnamento Bisognerebbe, per questo, trarre insegnamento da pensatori quali J. Locke, (1632-1704), che, nei Saggi sulla legge naturale, redatti fra il 1661 e il 1664, afferma che il mondo è guidato da leggi che fondano armonia e ordine, cioè la legge naturale, e l’uomo, in quanto parte di quest’ordine, è sottomesso e vincolato moralmente a questa legge naturale lungo il cammino che lo porterà allo stato di diritto; ma anche Charles Louis de Secondat Montesquieu, (16891755), il quale, ne Lo spirito delle leggi, ovvero il rapporto che le leggi devono avere con la costituzione di ogni governo, con i costumi, il clima, la religione, il commercio ecc., redatto fra il 1735 e il 1747, afferma che la libertà di cui i cittadini godono in uno Stato dipende dalla limitazione c h e l’ordinamento dello stato garantisce; e, sicuramente, Benjamin Henri Constant de Rebecque, (1767-1830), che, in Corso di politica costituzionale, re d a t to n e l 1819, sostiene che la libertà positiva si esprime come libertà di contribuire alle decisioni collettive che la vita sociale richiede, e come esercizio di controllo sull’operato dei pubblici poteri. Insegnamento da rivivere, oggi, con una più profonda e consapevole preoccupazione morale e con una più spiccata sensibilità civile e civica; consapevolezza e sensibilità operanti in tutte le direzioni, ad evitare il rischio che si possano manifestare processi di disgregazione e di accumulo di potere arbitrario cui la democrazia è continuamente esposta. Bisogna essere sempre vigilanti, non rassegnarsi, ma neppure abbandonarsi alle sorti fatalmente progressiste dell’umanità: è questa, secondo Norberto Bobbio, una sintesi efficace delle dieci regole da osservare se si vuole tutelare un bene inestimabile quale la democrazia e, di conseguenza, salvaguardare la pace politica e sociale. Nella conciliazione tra i diritti razionali dell’uomo e i doveri in essi implicitamente racchiusi, tra l’espansione individuale e il valore della comunità, tra la logica dell’eterogeneità e la logica dell’integrazione vanno rintracciati i presupposti di una filosofia pubblica che, contro ogni forma di populismo, impedisca alla democrazia di degenerare sia in atomismo sociale, sia in monismo statualistico: è questo il chiaro convincimento che è possibile rintracciare anche nell’opera di Alexis de Tocqueville, (1805-1859), La democrazia in America; opera che, sfrondata di quelle idee che sono condivisibili solo se contestualizzate, andrebbe rispolverata per il suo essere sempre attuale soprattutto per il problema del rapporto maggioranzaopposizione. In quest’opera, la cui prima parte fu pubblicata a Parigi nel 1835, dopo un lungo viaggio in America, mentre la seconda, ispi- rata da un soggiorno in Inghilterra, apparve nel 1840, Tocqueville studia il sistema politico e sociale di un paese che gode dei frutti della Rivoluzione democratica che ha avuto luogo in Francia, senza avere attraversato tale rivoluzione. L’analisi dettagliata delle più importanti istituzioni statuali (dall’ordinamento dei comuni fino alla corte suprema di giustizia) è legata all’esigenza di capire quale sia lo specifico atteggiamento culturale che assicura il funzionamento della democrazia americana, ma anche quali siano gli effetti negativi dell’onnipotenza della maggioranza, che ormai nel nostro paese si fregia di un record che non ha precedenti: ben ventotto decreti sui quali è stata posta la fiducia del governo; e, sempre guardando alla nostra realtà politica, potremmo aggiungere, di un’opposizione poco compatta per orientamenti e schieramenti dalle radici storiche troppo diverse che ne snaturano la funzione 75 primaria e, quindi, non sempre coesa e determinata a livello propositivo. È facile comprendere come lo studio condotto dall’autore non sia fine a se stesso ma serva alla fondazione di una nuova scienza della politica, avente la funzione di aiutare la democrazia a purificare i propri costumi e a sostituire i ciechi moti dell’animo con la conoscenza del vero vantaggio per tutti, contribuendo in tal modo ad evitare che la libertà politica rischi di soccombere ad interessi particolari. Il ripiegamento, la chiusura partoriscono interiori conflitti e lacerazioni difficilmente ricomponibili se non si interviene in modo tempestivo e con serietà d’intenti, soprattutto in ragione di continui tentativi di svuotamento dello Stato sociale, con il conseguente prevalere del privato sul pubblico e, ciò che preoccupa maggiormente, annullando secoli di lotte finalizzate proprio allo stato di benessere! Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace Un monito che non va sottovalutato Pe rc h é, t r a le tante opere del passato, più o meno recente, rispolverare proprio questa? Guardiamoci intorno, sembra di vivere in uno stato di guerra perenne: uomini politici che, calpestando ogni forma di pluralismo, impiegano gran parte del loro tempo ad attaccarsi, rimbeccarsi, offendersi, dimentichi che hanno un mandato da rispettare e che tra le 76 loro dispute eternamente irrisolte l’opinione pubblica è disorientata, ancor più perché, intanto, il paese va a rotoli, come nave senza nocchiero in gran tempesta (Dante Alighieri, Purgatorio, Canto VI, v. 77). Esiste ancora il Parlamento, con tutta la forza del potere sancito dalla Costituzione? Quali le leggi varate per risollevare le sorti del paese? Quale la politica per salvaguardare l’occupazione? (proviamo ad immaginare come si sentono i milioni di lavoratori che dall’oggi al domani vengono licenziati: la loro tranquillità economica e morale lascia il posto alla disperazione, alla frustrazione e, in moltissimi casi, alla solitudine per la conseguente rottura della pace familiare). Quali i provvedimenti per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e per il sociale in genere?...Quali le riforme del sistema? O meglio, quali i contenuti convincenti laddo- ve riforme ci siano? È difficile tentare di colmare questo grande buco nero con conoscenze certe in merito a progetti di intervento ponderato nei pochi ambiti menzionati. Una cosa però è certa: è arrivato il momento di dire basta. Basta con la politica urlata, basta con gli insulti, basta con la demagogia! Si faccia Politica! Quella che non ha bisogno di aggettivi per essere connotata. La Politica è tale quando non ricorre a orpelli e belletti, a ridondanze ed ornamenti, a lusinghe e false promesse. Ecco perché l’opera di cui sopra andrebbe rispolverata: essa può essere estremamente utile ancora oggi in quanto, oltre che acuta indagine sociologica, è monito affinché non si oltrepassi il confine tra democrazia reale e democrazia apparente. Affinché si sia sempre pronti non solo a mettere in discussione, ma anche e soprattutto a mettersi in discussione, in un confronto pacato, rispettoso, costruttivo. In un clima all’insegna della fecondità dell’antagonismo, in cui poter affermare che Pax est tranquilla libertas (Cicerone, Filippiche, 2, 44, 113), appropriandoci in tal modo di un motto che riteniamo essere sempre valido a livello concettuale, ovvero oltre ogni coordinata spazio-temporale e, naturalmente, al di là della situazione contingente in cui è maturato. Ma che è anche L’armonia delle armonie che placa la turbolenza distruttiva e completa la civiltà, ovvero, una società civile che si adorna delle cinque qualità di verità, bellezza, avventura, arte e pace (Whitehead, Adventures of Ideas, XX, 2). Angelina Rainone LETTERATURA GRECA L’orazione Sulla Pace di Isocrate: êthos e politéia éOrÈ ga#r tou#v me#n th#n aèdiki@an protimÈntav kai# to# labei^n ti tÈn aèllotri@ wn me@giston aègaqo#n nomi@zontav oçmoia pa@scontav toi^v deleazome@noiv tÈn zw©@ wn, kai# kat è aèrca#v me#n aèpolau@ontav w§n aòn la@bwsin, oèli@gw© d èuçsteron eèn toi^v megi@stoiv kakoi^v oòntav, tou#v de# met è euèsebei@av kai# dikaiosu@nhv zÈntav eòn te toi^v parou^sin cro@noiv aèsfalÈv dia@ gontav kai# peri# tou^ su@mpantov aièÈnov hédi@ouv ta#v eèlpi@dav eòcontav. Kai# tau^t è e ié mh# kata# pa@ n twn ouç t wv eiò q istai sumbai@nein, aèlla# to@ g è wév eèpi# to# polu# tou^ton gi@gnetai to#n tro@pon. Crh# de# tou#v euù fronou^ntav, eèpeidh# to# me@llon aèei# sunoi@sein ouè kaqorÈmen, to# polla@kiv wèfelou^n, tou^to fai@nesqai proairoume@ nouv. Pa@ntwn d è aèlogw@taton pepo@nqasin, oçsoi ka@llion me#n eèpith@deuma nomi@ zousin eiùnai kai# qeofile@steron th#n dikaiosu@nhn th^v aèdiki@av, cei^ron d èoiòontai biw@sesqai tou#v tau@th© crwme@nouv tÈn th#n ponhri@an proh©rhme@nwn. Lo squarcio del finissimo e longevo retore ateniese affronta il dilemma etico dell’‘utile’ e del ‘giusto’ sullo sfondo di una proposta politica allettante e rivoluzionaria: sulla base dei principi stabiliti dalla pace di Antalcida, Isocrate invita l’Ecclesia e i giovani (in realtà un’Ecclesia fittizia che adombra i discepoli del maestro, ossia i filo@sofoi precursori 77 del più alto modello paideutico dell’Umanesimo occidentale) a stipulare la pace con gli alleati. La pace deve scaturire da una profonda riforma morale: la talassocrazia imperialistica di Atene non è giusta (66-68), non è realizzabile (69), non è utile (70-89). La serrata argomentazione della nocività dell’Impero, che si dipana dal paragrafo 64 al paragrafo 105, è dialetticamente sostenuta dal confronto tra la generazione delle guerre persiane e l’attuale classe dirigente, che impiega sconsideratamente truppe mercenarie. Il rifiuto del relativismo utilitaristico di marca sofistica equivale al biasimo di radicalismi e di demagogie: la norma etica presiede alla norma istituzionale, il dialogo pacifico diventa nostalgica utopia della pa@ triov politei@a nell’architettura coreutica di una prosa ritmica trascinante, sia per isocolie sintattiche sia per salienze lessicali etico-politiche. La pace è, dunque, per Isocrate garan- Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace tismo democratico da non confondere con clientelismo demagogico-radicale; la pace si realizza solo in una forma di governo democratico ben organizzato, che vede l’onestà degli uomini al potere. Una democrazia ben organizzata è da Isocrate associata alla pa@ triov politei@a prepericlea: si tratta di una democrazia che, in maniera sorprendente diremmo, coincide per molti versi con il modello dell’organizzazione statale spartana (Areopagitico 61), ma, data la sostanziale impossibilità di restaurare il glorioso archetipo pericleo, si può ipotizzare che il modello di democrazia ‘ben organizzata’ per Isocrate coincida con la breve parentesi moderata di Teramene nel 411. Vero è che, dopo i rivolgimenti oligarchici del 411 e del 404, la democrazia istituzionalmente intesa non può più essere messa in discussione: i nuovi moderati utilizzano il lemma in maniera ambigua, per mascherare la necessità di una 78 riforma istituzionale di grossa portata. La riforma ‘pacifica’ diventa in realtà l’aspirazione a una democrazia oligarchica: nel Panatenaico (131, 153) la democrazia viene riformulata come «dhmokrati@a aèristokrati@ a© memigme@nh», ossia come forma di governo che, pur riconoscendo al popolo la facoltà di assegnare le magistrature, ne riduce le responsabilità dirette, demandando la gestione della res publica agli eletti per doti morali e culturali, oltre che per il censo. L’abolizione della misqofori@a e del sorteggio, vagheggiata nell’Areopagitico per ampliare l’elettorato passivo, viene eufemisticamente ridefinita nel Panatenaico, alla luce delle implicazioni meritocratiche e classiste di un’ ièsonomi@a che è ièshgori@a e non demagogica parrhsi@a. La conclusione, ancora più classista, è che non tutti possano indiscriminatamente partecipare al governo: è necessario possedere dei meriti, ma soprattutto una paidei@a calibrata sul lo@gov. Gli unici, allora, a poter sostenere la causa pubblica sarebbero platonicamente i saggi, i filosofi, ma per Isocrate anche questo è mera utopia: lontano dalla politica attiva, come sappiamo, Isocrate fondò una scuola di eloquenza nel 392 a. C., i cui insegnamenti non erano spendibili in un’aula di tribunale o in un’assemblea, ma solo nella vita privata. La retorica, quale discorso mirante all’ aèlh@qeia, è una scienza autonoma, non instrumentum regni, perché non può prescindere da fini etici. Il retore-politico, ibridazione talora demagogicamente emergente dalla crisi della po@liv, è già in declino con Isocrate, tramonta definitivamente con Aristotele: il retore non può essere né un filosofo né un politico, è solo colui che possiede gli strumenti della persuasione in maniera trasversale e apolitica. Il discorso etico-pragmatico dei paragrafi 34-35 rinvia al tema dell’orazione, ossia l’imperialismo ateniese, causa di decadenza morale: ma a quale imperialismo Isocrate allude? A quello pericleo o a quello dell’ultima fase, rappresentata dalla II Lega navale? In realtà, a differenza degli altri discorsi deliberativi, impostati sulla cogenza delle dimostrazioni entimematiche aristoteliche (Panegirico, 2122, Panatenaico, 35), la tessitura argomentativa del discorso Sulla Pace non è sempre simmetrica, anche perché il retore non si accontenta di impostare il suo discorso sulla contrapposizione dei topoi tipici del discorso epidittico (ossia il possibile e l’impossibile in prospettiva futura, luogo ‘comune’ che pure si riscontra nell’orazione al paragrafo 69). Risulta allora arduo stabilire a quale periodo della storia politica ateniese Isocrate faccia riferimento, anche perché, se da un lato l’impero del V sec. è elogiato come migliore di quello voluto dalla recente democrazia radicale, lo stesso Pericle è collocato sullo sfondo di una decadenza già inoltrata. Per quanto le strategie comunicative di questo discorso rientrino nella prassi epidittica, non possiamo non considerare la sua destinazione e il suo uditorio, nonché tutti gli elementi di devianza rispetto alle caratteristiche del discorso persuasorio ed alle sue singole parti, delineate da Aristotele (Retorica II, 1, 1377b1378a). Isocrate non si sta rivolgendo alla città, ma ai suoi allievi: ed è per questo che avverte la necessità di parlare della pace politica in termini etici, per sostanziare i contenuti e il lessico della sua paidei@a. Come sappiamo, lo spazio privilegiato dei lo@goi isocratei non è di certo l’orizzonte politico coevo, né tanto meno quello logografico-deliberativoassembleare: il discorso che Isocrate finge di indirizzare alle panhgu@reiv panelleniche si presta, a converso, ad una lettura elitaria e lontana dalla scena politica, in quanto frutto di un’altissima elaborazione formale. La rinuncia alla dimensione cittadina, che spalanca orizzonti panellenici sul piano ideologico – Isocrate vagheggia un’integrazione fra tutti i popoli della Grecia – sfocia invece nell’adozione di un angolo prospettico molto più ristretto, il pubblico della scuola, una scuola aperta a tutti i discepoli della Grecia e che accoglie i personaggi più eminenti. Il modello formale-pedagogico isocrateo, nel clima culturale di perdita d’identità della po@liv e nell’aspirazione al recupero dell’individualità, s’impone al mondo romano, all’Umanesimo ed a tutta la cultura odierna di matrice classica, che privilegi l’humanitas, le virtù dello spirito e i più alti valori morali. Un modello che trova perfetta corrispondenza nel periodare ampio e complesso dello stile isocrateo: l’architettura sintattica del paragrafo 34 è tutta giocata sull’accumulazione, per omoteleuto, di participi (gli stessi sono epifore, se disposti iconicamente in clausole ritmiche), incastonati nella cornice più ampia della correlazione antitetica. All’alta incidenza dei participi esti- mativi e sentiendi, che delimitano il campo semantico dell’ingiustizia, del sommo bene utilitaristico e delle lusinghe dell’ingiustizia (la metafora dei pesci adescati è, in tal senso, molto pregnante) subentrano, nella terna correlativa dei participi, le strutture modali della concretezza, a circoscrivere il polo semantico della pietas, della giustizia e della speranza dei giusti per la vita eterna, con esplicita allusione orfica alla ricompensa degli iniziati ai misteri eleusini. La prassi dell’utile paideutico e non sofistico è veicolata da icone verbali che ribadiscono l’urgenza pragmatica del vivere secondo giustizia e in vista del futuro. Il paragrafo 35, che nella prima parte viola l’amplificazione, tipicamente isocratea, mediante antitesi ed epistrofi (ma che presenta comunque una certa simmetria nella doppia prolessi del dimostrativo e nella sovrapposizione concettuale, oltre 79 che fonica, tra il perfetto risultativo di consuetudine e il presente copulativo), aggancia l’utile paideutico all’utopistica gestione politica di una classe di filosofi: la scelta dell’utile da parte dei ‘benpensanti’, ossia dei ‘saggi’, circoscrive, sul piano della disposizione iconica dei sintagmi, ciò che è vantaggioso in senso lato, in una fantasiosa figurazione chiastica (euù fronou^ntav […] sunoi@sein […] to# polla@kiv wèfelou^n […] proairoume@nouv). La gnw@mh finale veicola la norma isocratea del bello, del buono e del giusto, mediante due nessi antitetici scanditi dagli stilemi comparativi del ‘meglio’ e del ‘peggio’: ricercare l’utile, inteso come bene interiore, non significa rientrare nelle grazie degli dei, solo perché chi pratica la giustizia ‘è più caro agli dei’ di chi pratica l’ingiustizia; né chi segue la giustizia vive necessariamente peggio di chi ha scelto la slealtà di vita e di comportamenti. Se è vero che sono pochi i virtuosi, per cui corrono il rischio di essere Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace isolati e giudicati male, è pur vero che non bisogna scoraggiarsi: allora, adoperarsi per il bene comune e per la pace, in un contesto più ampio e politicamente connotato, può sempre risultare ‘vantaggioso’ e non per ottenere ricompense o meriti divini (polemica antisofistica), ma solo ed esclusivamente per operare bene e con misura, liberi da condizionamenti e da meschini opportunismi. Potranno sembrarci concetti scontati, ma il lettore attento e colto coglierà di certo la portata rivoluzionaria dell’umanesimo di Isocrate: l’uomo di Isocrate è l’uomo nella sua 80 totalità di cittadino, di filosofo (secondo la particolare accezione di filosofia isocratea), di retore-politico, e non valgono ideologie e partiti a farne un modello concreto di virtù, ma una solida formazione, un magistero trasversale, un approccio completo all’arte e alla vita, un’interculturalità panellenica. Gabriella Carrano Liceo Classico ‘M. Galdi’ Cava de’ Tirreni e Università degli Studi di Salerno (Dipartimento di Letteratura, Arte e Spettacolo) LA CASA DELLA PACE L e radici di un problema Che la pace sia un concetto (metafisico) universale della cui presenza si senta assoluta necessità in ogni tempo e a tutte le latitudini, è un fatto scontato. Ma, altresì, è acclarato che la percezione della sua mancanza, l’inquietudine per la sua fragilità, almeno in occidente, sia correlata alla conflittualità tra l’occidente di tradizione giudaico-cristiana e il mondo orientale e islamico, almeno per quanto riguarda i nostri travagliatissimi tempi. Eppure, ebrei, musulmani e cristiani sono oramai, anche in termini “nazional-popolari” -come si dice in linguaggio televisivo-, i “Popoli del Libro”, le Nazioni della Bibbia, nell’immaginario di tutti. Qual è, dunque, la radice comune a questi tre grandi rami dell’unica famiglia vetero e neo-testamentaria? Se è indubbio che Abramo (in quanto padre di Isacco e nonno di Giacobbe) era il STORIA Si va alla ricerca della “Causa” della Pace. Della sua negoziazione, dei suoi simboli: ma è possibile individuarne anche una “casa”, “abitazione” materiale? Una semplice (e velleitaria) riflessione a margine di un problema secolare. capostipite del popolo ebraico, è altrettanto vero che lo fosse anche di quello arabo. Sua moglie Sarah, infatti, incapace di dargli un erede maschio, acconsentì a che suo marito giacesse con la sua schiava egiziana Agar, dalla cui unione nacque Ismaele (diffusissimo tra i mussulmani il nome Ismail), 81 capostipite del popolo arabo e per questo, detto anche “ismaelita”: ad Agar disse ancora l’Angelo del Signore: “Moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla per la sua moltitudine”. Soggiunse poi l’Angelo del Signore: “Ecco sei incinta: partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele” (Genesi 16, 10-11). Gerusalemme d’oro, di rame e di luce Quale gioia quando mi dissero “andiamo alla casa del Signore” e ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme (Salmo 122, 1-3). Sarebbe banale cercare nella casa del Signore anche la Casa della Pace: Gerusalemme non può essere così; è la città distrutta dagli Assiri, conquistata dai babilonesi, rasa al suolo dai Romani; è la città del Muro del Pianto, della Cupola della Roccia, del Santo Sepolcro, “d’oro, di rame, di luce”. È la città di Davide, del monte di Sion, del Tempio di Sa- Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace lomone, di quella Moschea di Omar, della Cupola della Roccia, pietra su cui Abramo preparò il sacrificio non consumato di Isacco ma anche lo stesso sasso da cui il profeta Maometto salì al cielo. E poi è la città della via dolorosa, del Golgota, della Croce, della Passione, del sepolcro, della Resurrezione di Gesù Cristo. Quattordici generazioni dopo Abramo, Davide fa grande Gerusalemme, nel fasto e nel sangue. Quattordici generazioni dopo Davide, i babilonesi la distruggono; quattordici generazioni ancora dopo arriva l’uomo-Dio (Matteo 1, 1-17). E poi, ancora, la distruzione romana. Città santa per cristiani, ebrei e mus82 sulmani, Gerusalemme è segno di contraddizione e non luogo di pace, che ci piaccia o no. Qui la pace può avere solo l’apparenza della convivenza, ma non la sua abitazione. Sulla tomba dei Patriarchi I tre popoli della Bibbia, però, hanno in comune il riconoscimento della loro origine e identità religiosa nel retaggio dei Grandi Patriarchi che, da Abramo in poi, sono seppelliti ad Hebron (Genesi 23, 1-20). Oggi Hebron è un piccolo borgo della Cisgiordania palestinese, in cui la convivenza pacifica fra i diversi elementi etnici e religiosi è garantita da un non eccessivamente folto contingente dell’ONU, cui partecipano anche i nostri carabinieri. Raramente si sono consumati in esso atti di violenza terroristica o settaria, almeno recentemente. È possibile, davvero, che il riconoscimento comune dei “Padri”, sul luogo del loro riposo definitivo possa, in qualche modo, avere almeno parzialmente preservato questa cittadina dal dramma globale del medio oriente? Non è possibile dirlo. Ma se la tanto agognata Pace avesse scelto la sua abitazione fisica, credo che Hebron ne sarebbe il giusto e naturale indirizzo. Si facciano qui i negoziati, si cerchino qui le soluzioni perché si dia una possibilità al futuro. Le menti e i cuori devono essere disponibili, ma per mettere nero su bianco occorre un luogo fisico che, però, significhi molto. Ripartiamo da qui: Hebron è un simbolo. Da sempre. Guido Iorio Università degli Studi di Salerno Dipartimento di Latinità e Medioevo STORIA GRECA A Gabriele Eirene e il piccolo Pluto, statua votiva, ca. 370 a.C. La pace nel mondo greco È molto difficile proporre un’etimologia per il greco Εἰρήνη (pace), in quanto la parola ci si presenta in quantità davvero sorprendente di forme diverse per le quali è impossibile presupporre una forma originaria: ionico-attico e omerico εερώνη; dorico, beotico e arcadico ἐράνα; cretese ἑράνα; tessalo ἐρείνα. Da ciò l’impossibilità di sovrapporre le varie forme dialettali: sembra quindi da accettare l’ipotesi di una serie di imprestiti dalle varie aree dialettali, e, benché non dimostrabile, non è da escludere, in mancanza di una credibile base indoeuropea a cui risalire, la provenienza del termine da una lingua di substrato. La mancanza di un’etimologia credibile impedisce anche di definire l’esatta appartenenza del termine a un determinato ambito semantico originario: possiamo soltanto dire che certo non appartiene originariamente né al lessico politico né al lessico diplomatico. In Omero il tema della pace ha uno spazio relativamente esiguo: il carattere stesso dei poemi impedisce che lo si affronti in modo profondo. Nell’Odissea la parola compare solo in un passo (Od. XXIV 486 ), mentre nell’Iliade la parola compare nell’espressione “in tempo di pace” (Il. II 797; IX 403; XXII 156). Di qualche rilievo sono solamente i versi che, all’interno della descrizione dello scudo di Achille, raffigurano una città in 83 pace e una città in guerra, e si insiste con un certo compiacimento nella descrizione delle opere della pace. L’importanza assunta successivamente dalla parola è mostrata dalla sua divinizzazione in Esiodo (Th. 902), ove Eirene è ricordata tra le figlie di Zeus e Temi. La superiorità della pace rispetto alla guerra è presente nelle tragedie di Eschilo: nei Persiani si ricorda con nostalgia il vecchio sovrano Dario, che “procurò pace a tutti gli amici”, ed è chiaro che, essendo in questo contesto l’opposizione non tanto con l’idea della guerra quanto con quella del disastro e del lutto, nuovamente alla parola si collegano nella coscienza del parlante le idee di serenità e di benessere. Questo motivo viene poi ulteriormente sviluppato nelle opere composte durante gli anni angosciosi della guerra del Peloponneso: intere opere di Euripide e Aristofane tendono a esaltare la pace o a descrivere in modo cupo e tor- Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace mentato gli orrori della guerra. Ma vi è un passo di Erodoto che vorremmo richiamare come particolarmente significativo. Sono le parole con cui Creso risponde a Ciro, che gli domanda quale follia lo abbia spinto a muovere guerra a lui e al suo impero, così più potente da non permettere nessuna illusione circa l’esito del conflitto: “Nessuno è così stupido da preferire la guerra alla pace: nella pace i figli seppelliscono i padri, invece in guerra i padri seppelliscono i figli”. Dunque, la pace come situazione di normalità, contrapposta alla guerra, che è invece situazione in cui si ha un rovesciamento dell’ordine naturale. Nell’età elleni84 stica poi la speculazione filosofica, sia epicurea sia stoica, mettendo sempre più in ombra il valore politico e sociale della parola, le conferisce un valore soprattutto spirituale, e la considera come una conquista dell’individuo: è la condizione del sapiente che ritrova nel profondo di sé le condizioni per raggiungere la serenità o l’imperturbabilità. Se non che il mondo greco del periodo arcaico e classico era dominato dalla guerra. E la statistica conferma tale affermazione: nello spazio di tempo fra la rivolta ionica e l’affermarsi dell’egemonia macedone sono attestati circa 56 conflitti armati; la sola Atene nel corso di questo tempestoso secolo e mezzo fu impegnata in una qualche attività militare in media ogni due anni su tre: di modo che la città più importante della Grecia continentale dal punto di vista sia politico che culturale non visse nemmeno un periodo di pace che durasse anche solo 10 anni. Tuttavia quanto onnipresente era la guerra come possibilità e pericolo, tanto diffuse e molteplici erano le lagnanze intorno alle sue conseguenze, e l’idea di pace è continuamente svolta negli stessi generi letterari in cui la guerra appare così in primo piano. Naturalmente anche le orazioni “ sulla pace “ di Andocide e Isocrate, per quanto diverse e problematiche possano risultare, possono essere lette in questo senso, ossia come arringhe contro la guerra in quanto male e in favore della pace. Per Platone e Aristotele, poi, la guerra è sì una realtà, ma anche nei loro scritti si trovano ovunque considerazioni sulla pace come obiettivo e ideale. Al desiderio di pace, diffuso già molto presto, corrispondevano molteplici regole, procedure e istituzioni politiche e diplomatiche, intese appunto a instaurare e quindi ad assicurare la pace. Già in epoca arcaica sono continuamente attestati tentativi di comporre i conflitti fra poleis attraverso il giudizio di arbitri neutrali, in modo da porre fine per questa via alle guerre oppure evitarle. Di norma una guerra veniva in primo luogo interrotta da una tregua che poteva essere di durata molto differente: le pause del conflitto, assicurate immediatamente dopo la battaglia su richiesta dell’araldo della parte sconfitta, duravano talvolta solo poche ore. Altre tregue duravano giorni oppure settimane e talvolta anche anni. Nella cosiddetta “pace del Re” del 386, per la prima volta si stabilì concretamente che la pace doveva regnare fra tutti i Greci e dunque non solo fra le parti che firmavano il trattato. Ma proprio qui, cioè nell’imporre e realizzare nella realtà dei fatti un ordinamento di pace tanto complesso e generalizzato, stava il problema. La stipulazione con giuramento solenne di questi trattati, infatti, in nulla modificava la realtà sul piano dei rapporti di forza politici e militari: la “pace comune” non era un dato di fatto politico quanto piuttosto una proclamazione di una condizione ideale, in cui si esprimeva, già a partire dal concetto stesso, una programmatica proposizione d’intenti, proposizione che però, almeno fino al 338, non ebbe alcuna possibilità di realizzazione effettiva e duratura. Solo l’avvento dell’egemonia macedone e la fondazione della lega corinzia, dotata per la prima volta di un organo deliberativo generale e di un comandante supremo, dischiusero una speranza in questo senso (ma, appunto, sotto la guida macedone). Quanto l’idea della “pace comune” fosse inizialmente lontana dalla realtà è dimostrato già dai frequenti rinnovi della pace del Re. In modo paradossale fu proprio la mancanza di una vera e propria potenza garante, e cioè di una potenza egemonica con una volontà di affermazione e il corrispondente potenziale necessario, non solo a rendere impossibile fino al 338 ogni duraturo ordinamento di pace ma, addirittura, a generare una particolare instabilità e turbolenza dei rapporti fra poleis: causando, dunque, in ultima analisi sempre nuove guerre. In primo luogo, tuttavia, la nascita e la successiva elaborazione di questa idea nei trattati di pace costituì una reazione a quell’instabilità. Il concetto di “pace comune” si presenta infatti né più né meno come un tentativo, certo serio, se pur anche inizialmente vano, di dominare tale instabilità eliminando le radici del male. Il fatto che fino al 338 simili tentativi rimanessero inutili o risultassero addirittura controproducenti non ha a che fare con la concezione della pace in sé, ma con la realtà sul piano delle forze politiche, e in particolare con le rivendicazioni e con l’ininterrotto interventismo delle potenze egemoniche di volta in volta 85 protagoniste. Casomai, proprio questa idea attesta invece il fatto che il bisogno di pace, stabilità e sicurezza, all’interno come all’esterno, era molto diffuso: anche se la guerra nel IV secolo divenne più che mai la condizione normale -o forse proprio per questo-, essa non rappresentava comunque certamente (più) la condizione ideale. Francesco Sarno Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace musica e poesia Un inno moderno alla pace: il War Requiem di Britten B enjamin Britten, compositore e pianista inglese (1913-1976), fu “fanciullo prodigio”: iniziò a comporre a 5 anni e a 19 era già famoso in tutta l’Inghilterra per l’elegantissima Sinfonietta per orchestra da camera. Tra il 1935 e il ’39 si dedicò soprattutto al cinema, scrivendo musica per 19 documentari e lungometraggi. Dal 1939 si fece poi conoscere in Canada e a New York. Nel ’42 tornò in Inghilterra e si dedicò alla 86 composizione del “dramma marino” Peter Grimes, rappresentato a Londra nel giugno 1945. È considerato la migliore opera tragica del teatro inglese moderno, con molti richiami allo stile di Berg. Negli anni successivi Britten compì numerosi viaggi all’estero e creò un grande numero di composizioni, sia da camera sia per orchestra, con il frequente e originalissimo impiego delle voci soliste e del coro. Da ricordare l’opera Il giro di vite (1954) tratta da Henry James e Morte a Venezia (1973) da Thomas Mann, composte con uno stile eclettico (ma, volutamente, mai apertamente sperimentale), teso tra il recupero di echi musicali del passato (Purcell, Dowland) e la sintonia con i grandi “moderni” (Mussorgski, Berg, Stravinski). Nel 1948 Britten aveva fondato, per diffondere le opere dei musicisti inglesi contemporanei, il festival annuale di Aldeburgh; da varie università inglesi (Londra, Oxford e Cambridge) ottenne il prestigioso titolo di “Doctor of Music” e nel ’64 la Royal Philharmonich Society lo premiò con la medaglia d’oro. Nel 1976 Elisabetta II lo nominò Pari d’Inghilterra. La fama di Britten è sicuramente legata al Peter Grimes e ad altre opere in cui il compositore, molto sensibile al dolore esistenziale dell’uomo, tratta la tematica a lui molto cara della compassione e della pietà, opere come Albert Herring , Billy Budd, la già citata Giro di vite e i grandi affreschi sinfonicocorali della Cantata Misericordium e del War Requiem (requiem di guerra). Quest’ultima composizione, composta per soli coro e orchestra, e rappresentata per la prima volta nella cattedrale di Coventry il 30 maggio 1962, è uno dei migliori lavori di Britten, forte testimonianza, nei suoi passaggi ora lirici ora drammatici, della profonda fede pacifista del musicista inglese. L’immagine atroce della guerra e dei suoi orrori viene contrapposta a passaggi di grande dolcezza. Il testo liturgico della Missa pro defunctis del rito cattolico latino, che esplode con un linguaggio musicale potente e terribile nella sequenza del Dies irae (risalente a Tommaso da Celano, XIII secolo), è intercalato con liriche del poeta-soldato Wilfred Owen, caduto giovanissimo nel ’18 sul fronte francese, una settimana prima dell’armistizio. La composizione si snoda su tre differenti piani: un’orchestra da camera con il tenore e il baritono solisti, riservati alle poesie di Owen; la grande orchestra con il coro e il soprano solista, per l’esecuzione dei brani in latino della Messa; infine un coro di voci bianche e un organo, per esprimere l’innocenza attraverso quel timbro di voci infantili ai quali Britten è ricorso spesso per esprimere contemporaneamente turbamento e “atmosfere angeliche”. Può sembrare strano che un pacifista che non voleva avere niente a che fare (neanche indossandone la divisa) con il militarismo, scegliesse le poesie di Owen, che trattano delle esperienze nelle trincee così come l’autore stesso le aveva vissute fino alla sua morte in combattimento. Ed è ancora più strano che Britten le abbia descritte così vivamente attraverso i “suoni della guerra”: il sibilo dei proiettili (con le note acute dei fiati), i colpi dei fucili e dei cannoni (con le frequenti e ossessive percussioni), i richiami delle trombe e il suono delle campane a morto (con l’impiego “funebre” delle campane tubolari). Ma egli era prima di tutto un musicista e sapeva che mettere in musica quelle poesie era ciò che gli era necessario per rendere più comprensibile il suo messaggio. Si appropriò delle parole di Owen, scrivendole già nell’intestazione della partitura, per trasformarle nel motto del War Requiem: “ Il mio tema è la guerra e la pietà della guerra. La poesia è nella pietà. Tutto quello che un poeta può fare oggi è ammonire”. Vale la pena di ricordare anche e soprattutto qualche passo di “commento” alla liturgia latina del Requiem espresso proprio dall’uso cameristico-musicale delle poesie di Owen. Dopo l’introduzione corale Requiem aeternam si ascoltano i versi di Anthem: “Quali campane a morto per costoro che muoiono come bestie? / Solo la furia orrenda dei cannoni, / Solo il rapido balbettio crepitante dei fucili / Possono biascicare in fretta le preghiere”. Dopo l’esplosivo coro del Dies irae è ancora Owen che commenta il Giudizio universale: “Le trombe 87 hanno suonato, rattristando l’aria della sera, / Hanno risposto le trombe, con suono doloroso. / Sulla riva del fiume si udivano voci di ragazzi, / Il sonno li copriva lasciando triste il crepuscolo. / Sugli uomini pesava l’ombra del domani. / Voci del vecchio sconforto tacevano, / Piegate dall’ombra del domani, dormivano”. E, successivamente, dalla poesia The next war ascoltiamo: “Da buoni amici siamo andati là, verso la morte, / Ci siamo seduti a tavola con lei, fredda e cortese, / Scusandola per averci versato la gavetta sulle mani. / Abbiamo annusato lo stesso odore verde del suo alito, / Gli occhi ci lacrimavano ma non mancava il coraggio”. Dopo il Sanctus ascoltiamo ancora i versi di The end che ci interrogano sul senso della vita e della morte: ” Dopo il balenare del lampo da oriente, / La squillante fanfara delle nuvole, il Trono del Carro, / Dopo il rullo e il Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace silenzio dei tamburi del tempo, / Quando a lungo gli ottoni d’occidente avranno suonato la ritirata, / La vita rianimerà questi corpi? Davvero / Egli sconfiggerà la morte, asciugherà tutte le lacrime?”. Anche alla fine del Libera me il compositore sottolinea la profonda crudeltà e inutilità della guerra, usando i versi di Strange Meeting. La lirica parla dell’assurdità di essere nemici. È la descrizione della morte che nella struggente musica di Britten accompagna i versi dolorosi e rassegnati di Owen: “Io sono il nemico che tu hai ucciso, amico mio. / In questo buio ti ho riconosciuto perché anche ieri / Mi squadravi così accigliato, mentre mi colpivi e mi uccidevi. / 88 Mi sono difeso, ma le mani erano fredde e riluttanti. / Ora dormiamo”. L’opera si conclude con il coro latino Requiescant in pace che fa ancora una volta eco al verso “Ora dormiamo”. Il War Requiem è un’opera potente e originale, intrisa di spiritualità e fonte di profonda commozione. È soprattutto un inno contemporaneo alla pace, contro l’eterna stupidità dell’umanità in guerra. Ruggero Prospero Stipendium Bayreuth 1992 Docente di Filosofia e Storia Liceo “G. Bruno” Mestre - Venezia MUSICA L’ultimo messaggio di BEETHOVEN Solitario, sognatore, per alcuni misantropo, Beethoven è senza dubbio una delle personalità della musica che hanno lasciato un notevole segno nella memoria collettiva. Ma questa fama gli deriva da una grandezza d’animo comprensibile solo grazie alla sua musica. R icordo quando, da bambino, vidi per la prima volta il ritratto di Beethoven. Il celebre dipinto (di J. K. Stieler) raffigurava un uomo dai capelli scarmigliati, sguardo possente e profondo, un’espressione seria e di leggero disgusto per ciò che è volgarmente comune. Allora pensai che dietro quel volto non potesse nascondersi altro che un grande animo. Confesso che ne rimasi profondamente colpito. Per l’impressione che mi fece quel dipinto e, lo ammetto, per l’alone di mistero che ancora oggi circonda la figura del musicista, la sua biografia fu, tra quelle dei compositori, la prima che andai a studiare. La trovai incredibilmente interessante. La sua vita fu piena di intoppi ed imprevisti del destino: un padre troppo autoritario, il pessimo carattere, una salute precaria e una sordità famosa almeno quanto lui stesso. Eppure Beethoven, sebbene fosse stato vicino al suicidio, riuscì a trovare una pace 89 Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace interiore. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile. Ma andiamo con ordine, e per farlo dobbiamo chiamare in causa la sua musica. Non è un’operazione indolore, perché tra i musicisti travisati da uomini di cultura Beethoven è certamente il primo, tanto da far affermare in pieno XX sec. al compositore russo Igor Stravinskij: Ciò che conta è solo la musica. […] È ora che ci si renda conto di questo. Si deve salvare Beethoven dalla tirannia ingiustificata degli “intellettuali”. Purtuttavia, la figura del compositore si presta assai bene, per le sue caratteristiche innovative di uomo intriso di cultura, ad interpretazioni extramusicali, soprattutto delle sue sinfonie. D’altronde a tali interpretazioni allude egli stesso, come fa notare Paul Mies, nell’Eroica e nella Pastorale. A queste due aggiungerei la Nona: l’uso del coro, e quindi di un testo (il famoso Inno alla gioia di Schiller), non può 90 non rimandare ad un contesto extramusicale. Di tali lavori, dunque, ci serviremo per capire la personalità del compositore tedesco. La Terza sinfonia è, indubbiamente, il capolavoro orchestrale dell’età giovanile di Beethoven (giovanile rispetto all’esperienza sinfonica del musicista, che si accostò a questo genere solo a trent’anni). Il titolo di Eroica deriva dalla grandezza della sua musica. Non a caso il compositore usa un terzo corno, che serve a dare maggiore sostegno armonico al suono dell’orchestra. In essa è descritta la guerra nelle sue titaniche proporzioni. Ma qui guerra è intesa in senso lato, come scontro derivato da materiali opposti. Questo è un processo di forma molto utilizzato da Beethoven. Per meglio far comprendere al lettore, basti dire che in un certo senso le composizioni beethoveniane possono essere paragonate alla dialettica hegeliana: la tesi e l’antitesi sono i due temi esposti, di carattere contrastante come prevedeva la forma-sonata, e la ripresa ne è la sintesi. Lo sviluppo, invece, rappresenta il momento dialettico per eccellenza. Esso, tuttavia, è tale che il tema riproposto alla fine del pezzo non è mai percepito dall’ascoltatore uguale all’inizio, come se fosse del tutto originale. Il materiale è lo stesso, ma l’effetto completamente diverso. In questo modo Beethoven ci rappresenta un universo musicale in continuo divenire, esattamente come fece Hegel con il suo sistema filosofico. Per questo l’artista crea un mondo – e questa volta possiamo dire anche extramusicale – fatto di idee eroiche che generano idee eroiche, laddove tale termine sta ad indicare senza compromessi, e questo bene si adatta alla personalità del musicista, che in quest’età giovanile vedeva un mondo senza vie di mezzo. Dalle vicende personali del compositore, caratterizzate da conflitti titanici tra lui e il destino, nasce la Sesta Sinfonia, detta Pastorale, l’unico esempio di musica a programma lasciatoci da Beethoven. Il lavoro orchestrale descrive i ritmi e i suoni della natura (non a caso è scritto in Fa maggiore, la tonalità della terra). Comprendere tale lavoro ci è indispensabile per analizzare la Nona, la summa degli ideali musicali e non del genio di Bonn. È il rifugio nella natura, infatti, che permette a Beethoven di astrarsi da un mondo pieno di quella guerra da lui descritta nella Terza sinfonia. Sono quegli gli anni in cui iniziava a manifestarsi la sordità del musicista, forse il peggiore dei malanni che il destino abbia stabilito per lui. È quindi chiaro quanto fosse necessaria la creazione di un mondo parallelo al reale, e cioè quello della natura. Si noti l’estasi contemplativa del primo movimento, la piacevolezza del canto degli uccelli imitati nel secondo movimento dai flauti, dagli oboi e dai clarinetti, o invece l’impotenza dell’uomo di fronte alla tempesta del quarto movimento. Non è un caso che questa musica sia stata scelta da Walt Disney per il film d’animazione Fantasia. Beethoven, però, non voleva che il suo lavoro descrivesse soltanto la natura in genere, quanto la sua natura, le emozioni che lui provava dal contatto con la stessa. Questo è un dato molto importante per la comprensione dell’animo del compositore. Egli, infatti, a causa della sordità e del pessimo carattere, fu costretto ad isolarsi sempre più dal mondo, tanto da essere additato come misantropo. Gli effetti più sorprendenti di questo cambiamento sono riscontrabili nell’ultimo lavoro sinfonico di Beethoven, la Nona Sinfonia. Composta esattamente dieci anni dopo l’Ottava Sinfonia, l’ultima composizione per orchestra di Beethoven è uno dei capolavori indiscussi del genere sinfonico per il suo sperimentalismo. La sinfonia si apre con un movimento in forma-sonata, titanico e maestoso, com’è scritto in partitura. È il legame che Beethoven ha con la sua prima musica e con la sua prima personalità. Subito dopo il primo movimento, scritto nel suo stile eroico, segue lo Scherzo, che nelle sinfonie precedenti, invece, è sempre stato il terzo movimento, a cui segue un Adagio. L’inversione genera confusione nell’ascoltatore, abituato, nel genere sinfonico, alla successione allegroadagio- scherzo- allegro. Il quarto movimento, invece, l’ultimo della sinfonia, inizia con una sorta di recitativo tra orchestra e bassi (violoncelli e contrabbassi). I temi che esegue l’orchestra sono spezzati dai bassi, come se essi si rifiutassero di suonarli. L’orchestra allora propone tutti i precedenti temi della sinfonia, senza successo. L’insieme si ricompone solo quando viene suonato il celeberrimo tema dell’Inno alla Gioia, esposto dalla compagine strumentale e poi (per la prima volta nel genere sinfonico), sviluppato anche da un coro e quattro solisti. Il testo usato è una poesia di Schiller, che invita alla fratellanza tra gli uomini. È chiaro che questo è un lavoro monumentale, soprattutto per le proporzioni dell’organico. Ma questa non è monumentalità fine a se stessa: essa rappresenta 91 infatti l’universalità del messaggio del compositore e la sua grandezza. Nella Nona sono riassunti tutti i temi di Beethoven come uomo e come artista: essa si apre con un movimento di proporzioni classiche e si chiude addirittura con la denaturazione del canonico organico sinfonico. Questo, naturalmente, perché il compositore non si accontenta più dell’orchestra, ma la supera per esplicitare a tutti il messaggio di fratellanza, quasi fosse un inno globale. Non a caso l’Inno alla Gioia è l’inno dell’Unione Europea. Il pezzo è scritto in Re maggiore, la tonalità del trionfo e degli Alleluia. È la vittoria che l’artista ha riportato nelle guerre celebrate nei lavori sinfonici precedenti, l’affermazione di una necessità di pace. Pace che l’artista raggiunge in un suo mondo ideale, nel suo distacco dal reale (ed è qui il legame più pro- Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace fondo con la Sesta Sinfonia). Non a caso il testo dell’Ode di Schiller, e in molti punti anche la musica, hanno un che di trascendente, di qualcosa che va al di là di questo mondo (si pensi all’accordo quasi mistico prima della sezione Alla Marcia alla parola Gott [Dio]). È questo l’ultimo messaggio che Beethoven vuole mandare al mondo per accomiatarsi da esso. D’altronde, il compositore era cresciuto nel clima illuminista, e l’anno della prima della Nona (il 1824) si era in piena Restaurazione. L’universo all’insegna degli ideali della rivoluzione francese che l’artista (ma soprattutto l’uomo) aveva sognato si era frantumato per sempre. Le testimonianze dell’epoca ci dicono che la Nona fu un incredibile successo, e che Beethoven, sordo, fu costretto a vedere il pubblico in tripudio per capirne la portata. Probabilmente anche le persone presenti in sala condividevano il messaggio universale dell’artista. Fatto sta che dopo la prima esecuzione della sua ultima sinfonia, il genio di Bonn fu dimenticato; sarà ricordato solo il giorno dei suoi funerali, quando le strade di Vienna erano affollate da più di ventimila persone che salutavano un grande artista e un grande uomo. Quell’uomo si era spento tre giorni prima trovando la pace che in vita aveva sempre cercato. Pasquale Occhinegro II C - Liceo classico 92 Si ringrazia il M° Michele Salerno per la consulenza musicale Consigli per l’ascolto: Non posso fare a meno di citare l’interpretazione di H. von Karajan con i Berliner Philarmoniker (edito da Deutsche Grammophon in un cofanetto) di tutte le sinfonie di Beethoven, considerate pietre miliari per chiunque voglia accostarsi ai lavori orchestrali del compositore. Interessanti spunti sono forniti anche dalle versioni di C. Abbado (sempre con i Berliner Philarmoniker, anch’esse in un cofanetto di Deutsche Grammophon), di sir G. Solti per la terza sinfonia (con i Wiener Philarmoniker, edito da Decca Records), di A. Toscanini per la sesta sinfonia (con la NBC orchestra, di RCA) e di W. Furtwangler per la Nona sinfonia (con l’Orchester der Bayeuther Festspiele, edito da EMI classics). Si trovano ottime interpretazioni (oltre a quelle citate) anche su Youtube. LA POESIA La vita deve riprendere… Un vento gelido accarezza il profilo indefinito di quel che resta Gli ultimi boati in lontananza colorano di rosso l’orizzonte I volti tumefatti dei superstiti affondano tra le mani insanguinate La disperazione si disperde nell’urlo soffocato del silenzio Il sudore asseconda le rughe sulla fronte del dottore di frontiera Che si accinge ad estrarre l’ennesimo proiettile dalla carne tenera Il sangue si raggela nel ricordo quotidiano delle amputazioni Le mani tremano mentre stendono un altro lenzuolo bianco Un’aria statica opprime le anime esterrefatte incapaci di respirare A piè polmoni senza avvertire l’aspro sapore della polvere da sparo Le lacrime si sono asciugate nella conta impazzita dei morti innocenti Macchiati da un unico peccato: l’appartenenza ad un territorio La luna non risplende, è opaca, malinconica, disperata e sola 93 Sommessamente si ritira nascondendo con poca convinzione le lacrime Il sole con un sorriso forzato inizia ad emanare gelidi raggi in bianco e nero La vita deve riprendere… …per chi ha deciso che con la guerra si sarebbero risolti i problemi Ai poveri innocenti è stata tolta O restituita con ricordi eterni di brutture indicibili Che ti segnano come la lama affilata che affonda sfregiando… Un bambino piange disperato alla ricerca della mamma Una mamma disperata piange mentre cerca il proprio piccolo Le mani si uniscono mentre con fatica si incamminano verso l’orizzonte Una fragile speranza… … lo sfondo si colora di immacolato Anime palpitanti guardano oltre Infuocate di rabbia di vita. Lo scettro del potere in giacca e cravatta Che si arroga il diritto di giocare con le vite altrui Deve farsi da parte e lasciare libero sfogo Alle mani intrecciate dei milioni di persone Amanti del vero senso della vita Che ansima respiri di pace… Lyceum Maggio 2010 Nello Agovino Percorso/La cultura della Pace LETTERATURA AMERICANA The concept of peace according to Emily Dickinson 94 E mily Dickinson is considered one of the most original 19th Century American poets, and one of the most important female writers of all times. She was a deeply sensitive and unconventional woman who questioned the puritanical background of her Calvinist family and soulfully explored her own spirituality, often in poignant, deeply personal poetry. She showed a contradictory and complex nature, tinged with an unyielding pride. There has been much speculation and controversy over details of Dickinson’s life including her sexual orientation, romantic attachments, her later reclusive years, and the editing and publication of various volumes of her poems. “I many times thought Peace had come When Peace was far away - As Wrecked Men - deem they sight the Land - At Centre of the Sea – And struggle slacker - but to prove As hopelessly as I - How many the fictitious Shores - Or any Harbor be –“ Dickinson, an enigmatic artist, is remembered today for her undeniable talent, her unconventional life decisions and her extraordinary uniquely ability to touch universal themes, such as peace, with rapid and fulminating strokes. In these lines she analyzes the concept of peace, its importance for human beings, her desire for quietness. The poem, written in unconventional broken rhyming metres, is tinged with a deep pessimism. The fourth verse is the beginning of a letter written to Susan during the Emily Dickinson sojourn in Cambridge to cure her eyes problems. In the manuscript there is an alternative to the last verse: “Before the Harbor be” - that seems to significantly modify the meaning of the final poem. The substitution of “The illusory the Rive - / O ports are any -” with “The illusory the Rive - / Before the doors are -” could in fact transform the overall pessimism of the first draft (the banks are illusory and there is no port to welcome) in a journey with many illusions / delusions, but also with a final destination, and maybe a success. But if we interpret that the “Port” as a metaphor for the landing end of life or death, the apparent flicker of hope fades. Life sometimes seems to give us peace, serenity, but then we realize that is just an illusion, like the drowning man, far from his own land, who seems to see everywhere the banks that exist only in his imagination. Shaken by empty hopes, he sees the collapse of his illusions. In the same way, man desperately looks for peace in every place, because he does not find it in himself. Luisiana Levi III B - Liceo Classico E Il concetto di pace secondo Emily Dickinson mily Dickinson è considerata tra i più originali poeti americani del 19° secolo, e una delle scrittrici più importanti di tutti i tempi. Donna profondamente sensibile e fuori dagli schemi, mise in discussione il contesto puritano della sua famiglia calvinista ed esplorò la propria spiritualità in maniera profonda, commovente, ed assolutamente poetica e personale. Dimostrò un carattere contraddittorio e complesso, venato da un orgoglio inflessibile. Ci sono state molte speculazioni e polemiche sui dettagli della vita della Dickinson, tra cui il suo orientamento sessuale, i legami romantici, i suoi ultimi anni in solitudine e reclusione, la redazione e pubblicazione dei vari volumi delle sue poesie. “Molte volte pensai che la Pace fosse arrivata Quando la Pace era tanto lontana - Come i Naufraghi - che credono di avvistare la Terra - Al Centro del Mare - E lottano stremati - solo per scoprire Tanto disperatamente come me Quanto illusorie le Rive - O un qualsiasi Porto siano –“ Artista dal fascino enigmatico, Emily Dickinson, è oggi ricordata per il suo talento indiscutibile, le sue decisioni di vita alquanto particolari e per la straordinaria capacità di toccare temi universali, come la pace, con pennellate rapide, fulminanti ed uniche. In questi versi è analizzato il concetto di pace, la sua importanza per l’intero genere umano, il desiderio di tranquillità della scrittrice. Scritto in rime non convenzionali con metro spezzato, la poesia è costellata da un profondo pessimismo. Il quarto verso è all’inizio di una lettera a Susan scritta durante il soggiorno di Emily Dickinson a Cambridge per curare i suoi disturbi agli occhi. Nel manoscritto c’è un’alternativa per l’ultimo verso: “Before the Harbor be -” che sembra modificare sensibilmente il senso del finale della poesia. La so95 stituzione di “Quanto illusorie le Rive - / O un qualsiasi Porto siano -” con “Quanto illusorie le Rive - / Prima del Porto siano -” potrebbe infatti trasformare il totale pessimismo della prima stesura (le rive sono illusorie e non c’è nessun porto ad accoglierci) in una sorta di viaggio con molte illusioni/delusioni, ma anche con un arrivo e un successo finale. Se però interpretiamo quel “Porto” come metafora dell’approdo ultimo della vita, ovvero la morte, l’apparente guizzo di speranza svanisce. La vita sembra donarci talvolta la pace, la serenità, ma poi ci accorgiamo sempre che questo non è altro che un’ulteriore illusione, come quella del naufrago, lontano dalla sua terra, che sembra scorgere ovunque rive che esistono soltanto nella sua immaginazione. Agitato da vuote speranze assiste inerme al collasso delle sue illusioni. Nello stesso modo, l’uomo cerca disperatamente la pace in ogni luogo, non trovandola dentro di sé. Luisiana Levi III B - Liceo Classico Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace R IDEE aggiungere una condizione all’insegna della Pace è cosa tutt’altro che semplice, ma, nonostante ciò, è indiscusso il bisogno di molti uomini di lottare perché tanto avvenga. Questo perché la Pace è un valore universale e, forse, uno dei pochi che, a ragione, viene definito tale. Molti di noi, da bambini, vengono sommersi da bellissime massime propinate dai familiari, atte a farci credere che la vita sia fatta di rose e fiori, e che tutti amino la Pace. Ma crescendo e confrontandoci con la vita reale, ci basta poco per capire che non è tutto così semplice: esiste il dolore, esiste la guerra, e ci sono persone immerse in questo in96 ferno senza via di uscita. Perfino in famiglia si vive al limite del conflitto intestino. Così viene spontaneo pensare che, se non si riesce a essere in pace con i propri parenti, è quasi impossibile esserlo con gli altri, emeriti sconosciuti. Eppure quale condizione, per realizzarsi individualmente e nella società, è migliore di quella all’insegna della libertà, della giustizia, della solidarietà, della tolleranza, del rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza? In fondo, sono proprio questi i valori universali che rientrano in quel grande disegno definito cultura della pace. Questa espressione, nata nel 1989 in seno al Congresso Internazionale sulla Pace in Costa d’Avorio, è l’emblema della necessità di moltissime persone di poter condurre la propria esistenza lontano dalla violenza, e nel rispetto di individui diversi per razza, religione o ideologie. Non a caso, il 13 settembre 1999, l’Assemblea Generale dell’ONU adottò la Pacem te poscimus omnes Dichiarazione per una Cultura della Pace, nella quale erano sanciti i principi sui quali essa si basava, tra cui: il rispetto per la vita, la cessazione della violenza e la promozione e la pratica della non violenza tramite l’educazione, il dialogo e la cooperazione; il rispetto e la promozione del diritto di ognuno alla libertà di espressione, di opinione e di informazione; il rispetto della pluralità, della diversità culturale, all’insegna del dialogo e della comprensione a tutti i livelli della società. Sicuramente bellissime parole, ma che tali sono rimaste. Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes (“Nessun bene dalla guerra: tutti agogniamo la pace”). Così scrive Virgilio nell’XI libro dell’Eneide, e questa frase è un chiaro segnale di come l’animo umano, in qualunque periodo storico ci si trovi, sopporta a fatica il dolore perpetrato da un conflitto. Eppure la guerra è un dato di fatto, così diventa altrettanto evidente che essa è, in qualche modo, insita in ogni individuo. Guerra e Pace diventano due facce di una stessa moneta, e, una volta lanciata, nessuna persona può sapere quale delle due prenderà il sopravvento. D’altra parte, sarebbe bello pensare che in gioco entri esclusivamente l’istinto di sopravvivenza. Ma guardando i modelli politici che hanno dominato la storia, ed anche quelli del nostro secolo, capiamo che, a determinare la guerra, sono fattori ben più materialistici: la brama di ricchezze, di potere, di dominio. E a tal proposito mi torna alla mente una frase di Paul Lèautaud (scrittore francese 1872-1956): Tutti i popoli sono per la pace, nessun governo lo è, e la spiegazione è molto semplice. Non sono i capi di Stato ad andare in guerra, a vivere in condizioni miserevoli e precarie. E’ il popolo, è la povera gente a sentire tutto questo sulla sua pelle, indurita dal troppo strazio e dalla troppa paura. Così capiamo che è facile parlare quando si è in una posizione privilegiata, e riempirsi la bocca con belle parole illusorie e meschine. La pace come valore universale Tanti dicono di volere la pace, ma dichiarano guerra. Perché allora? Nell’Etica nicomachea Aristotele affermava che facciamo la guerra per poter vivere in pace. Il filosofo mi trova in pieno disaccordo, per il semplice motivo che nessuna guerra può essere definita giusta. E’ risaputo che la violenza genera altra violenza, ed entrati in questo circolo vizioso, le alternative sono due: la distruzione totale dell’altro o la distruzione totale di se stessi. Questo perché la pace non è soltanto una condizione sociale o relazionale. La pace è anche una condizione psicologica. Se non si sta bene con se stessi, non si può stare bene con gli altri, e si inizia a morire dentro. D’altra parte questi concetti non sono affatto nuovi. Già ai tempi dei filosofi antichi nacque la cosiddetta pace interiore, seppur chiamata da ognuno con un nome diverso: eutimìa per Democrito (460 a.C.- 360 a.C.), aponìa per Epicuro (341 a.C.-271 a.C.), o atarassia per gli Stoici. Per nessuno di loro il raggiungimento di questo stato era cosa semplice, ma per tutti, una volta raggiunto, la vita poteva essere definita tale. Tanti secoli li separano da noi, eppure possiamo vedere quanto attuale sia il loro pensiero. Non a caso, si sa, la filosofia, per poter servire davvero e aprire la mente, deve farsi portatrice di valori universali e sempre attualizzabili. La Pace è proprio uno di questi, e, tra le altre cose, anche il più 97 discusso e di difficile interpretazione. Sicuramente, oggi se ne parla più che in passato, ma credo che questo sia anche il frutto di convenzioni sociali e politiche. In quasi tutte le campagne elettorali è presente il proposito di cessare ogni tipo di guerra. E il popolo, stanco di lottare, quasi sempre ci crede, e sempre rimane deluso e deve dirsi che si è fatto ingannare, ancora. La Pace, purtroppo, è una condizione temporanea, ed è estremamente difficile, come proponeva anche Immanuel Kant ((Königsberg, 1724 –1804) in Progetto per una pace perpetua e duratura del 1795, creare un Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace patto di pace che ponga fine per sempre ai conflitti. Arriverà un momento in cui qualcuno, scioccamente, inizierà a rivendicare la sua superiorità rispetto ad altri. Infatti non basta essere un Paese avanzato e ricco per dirsi felice e pacifico, anzi. Spesso sono proprio questi a dichiarare guerra ai paesi più deboli, etichettandola come giusta per dare senso alle proprie azioni. Potremmo fare tanti esempi, come l’America, che si giustifica asserendo di voler portare la democrazia nei Paesi orientali. Non entriamo in quelli che potrebbero essere i veri motivi, ma, senza dubbio, il sangue di troppi soldati e civili ha bagnato e bagna tuttora queste nobili intenzioni. Così 98 si dovrebbe fare un passo indietro, a partire dal governo, che deve far chiarezza una volta per tutte sulle proprie intenzioni e non nascondersi più dietro menzogne. In fondo, l’uomo è artefice del proprio destino, e se è vero, come sosteneva Giambattista Vico (1668-1744), che egli può conoscere (nel senso di prendere consapevolezza) ciò di cui è artefice, ovvero la storia, basterebbe poco per cambiare le cose. Infatti, oggigiorno, i mezzi e i propositi per godere della Pace ci sarebbero, bisognerebbe solo metterli in pratica. E che questa sia la cosa più difficile, è tutta un’altra faccenda. Loredana Gaudino II C - Liceo Classico LETTERATURA ITALIANA L’ideale di Pace per Petrarca F Pace vo cercando rancesco Petrarca è ge neralmente considerato poeta intimista e personaggio dilacerato, scrittore sublime e raffinato, anticipatore dell’Umanesimo. In questi aspetti egli è sicuramente moderno, anzi universale per la sua disperata tensione verso un’armonia mai raggiunta. Ma altrettanto disperata, e dunque struggente, è la sua ricerca della Pace. Vediamone innanzitutto l’aspetto ideologico-politico. Egli fu vicino a Cola di Rienzo, il quale tentò di instaurare una repubblica a Roma ispirata al modello antico. Il progetto politico di Petrarca era, come quello di Dante, uno Stato unitario. Questo, però, si presentava come un progetto utopistico, in quanto legato ad una realtà ormai passata. A tale proposito Petrarca scrive la canzone All’Italia, indirizzata ai signori dell’epoca, in cui denuncia la disgregazione della realtà italiana, umiliata e lacerata dall’assenza di un governo effettivo. Petrarca in essa indirizza un chiaro messaggio ai Signori: essi devono deporre le armi affinché la pace possa essere realizzata. Per rendere più icastico il suo messaggio l’Italia viene personificata, prendendo le sembianze di una donna la cui bellezza si è smaterializzata a causa delle ferite mortali. In tal modo Petrarca assegnava a sé stesso, come intellettuale, ed alla letteratura la funzione di una guida sociale, pubblica ed istituzionale, che potesse esortare alla pace. Tale fine parenetico non solo non escludeva la cultura dalla vita dello Stato, ma la proclamava addirittura come valore superiore, capace di incidere sul contesto politico- sociale. Perciò egli grida accoratamente nella sphraghìs della Canzone All’Italia: “Pace, pace, pace”. La pace interiore. E’ questo a cui 99 Petrarca, come tutti noi, ambisce: essere in pace con il suo Io interiore. Durante la sua vita egli non fa altro che andar gridando ciò. “Qualcosa” dentro di lui lo placa e lo agita, lo tormenta e lo rende felice: non è altro che un’altalena di passioni. Allora, dove cercare le risposte, dove il giusto modo di vivere? La risposta è difficile, ma forse riesce a trovarla nella gnome di Sant’Agostino In interiore homine habitat veritas: il secretum è questo. Per questo Petrarca comincia un lungo cammino verso l’Amore, che potrebbe renderlo felice, che potrebbe fargli trovare la pace. Ma l’iter è tortuoso. I suoi passi tardi e lenti lo tradiscono: il passato diventa simbolo dell’errore e il presente il suo incubo più grande, la derisione. Per questo capisce che ciò che desidera lui e tutti gli altri è solo breve sogno; mentre è solo et pensoso, ecco che viene trascinato, come smemorato, come “diviso” dalla realtà, lì, in quel luogo felice dove ha Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace incontrato Laura. Lei, giovane donna con i capelli a l’aura sparsi, è lì, seduta vicino ad un ruscello. Quelle acque chiare e dolci e fresche rendono l’aria sacra, serena e allora Petrarca sogna di tornare lì, in quel locus amoenus, il suo sogno. Improvvisamente tutto svanisce ed è di nuovo solo, solo. A questo punto l’angoscia diventa paura e si rivolge alla Vergine, la Vergine bella, la Vergine saggia, la Vergine 100 pura, perché sia il tramite tra lui e Dio, gli faccia ottenere il perdono e la pace interiore. Ma per quanto provi a sfuggire, lui, l’Amore è sempre lì: è il perturbante che incarna le sue angosce. L’unica soluzione è cristallizzare la paura, imparare a convivere con essa e continuare il proprio viaggio alla ricerca della Pace. Elisa Miranda Marika Manna I B - Liceo Classico Un piccolo testo che apre la strada al pacifismo politico del XX secolo FILOSOFIA Il progetto per la “pace perpetua” Nelle pagine di Immanuel Kant la possibilità giuridica della conclusione di ogni conflitto tra gli uomini e la definizione della “universale ospitalità”. “Così come noi consideriamo con profondo disprezzo l’attaccamento dei selvaggi alla loro sfrenata libertà, che consiste nell’essere continuamente in lotta tra loro invece che sottoporsi a una costrizione legale stabilita da loro stessi, e a preferire quindi una libertà folle a una libertà ragionevole […] verrebbe spontaneo di pensare che i popoli civili dovrebbero affrettarsi per uscire al più presto da una condizione così abbietta”. Sono parole tratte dal “Per la pace perpetua” di Immanuel Kant, un testo del 1795, che a più di duecento anni dalla sua pubblicazione conserva la sua straordinaria validità, anche se ci sembra che, ancora oggi, 101 la sua conoscenza sia scarsa quanto la sua applicazione. Con questo scritto cosa si proponeva il grande filosofo tedesco? Di indicare la strada che avrebbe dovuto condurre l’umanità alla “pace perpetua”, ossia alla cessazione dello stato di belligeranza, che il filosofo tedesco riteneva essere connaturato all’uomo. Egli, infatti, scrive che “lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni di fianco agli altri, non è uno stato naturale”. Hobbesianamente, infatti, Kant credeva che lo stato naturale degli uomini sia una sorta di guerra di tutti contro tutti, una belligeranza generale, dichiaratamente aperta o meno. Gli accordi di pace, che vengono stipulati dagli Stati, si riducono a semplici e temporanee tregue, dato che in essi sono già impliciti i germi di futuri conflitti. Poiché, dunque, la pace deve essere indotta e quindi deve basarsi su principi morali, i politici devono agire moralmente. Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace Kant parte dalla necessità della negazione dei tre elementi su cui si fondava usualmente l’azione politica: “Divide et impera” (dividi i tuoi nemici e comanda più agevolmente); “Fac et excusa” (prima agisci e poi trova una giustificazione); “Si fecisti nega” (se hai fatto qualcosa di negativo, negane la responsabilità). In seguito individua tre grandi prerequisiti fondamentali per l’attuazione di una pace duratura: - che tutti gli Stati del mondo siano repubblicani; - che accettino di entrare in una federazione tra di loro; - che accettino gli stranieri sul loro territorio. Per l’applicazione della prima condizione Kant sembra decisamente ottimista: una volta nato uno Stato repubblicano, tutti gli altri 102 si renderanno conto della sua superiorità e diverranno a loro volta repubblicani. Attenzione però alla definizione che Kant dà dello Stato repubblicano: egli intende infatti uno Stato in cui vi siano: a) libertà determinata e limitata da leggi (e non la libertà sfrenata e folle di cui accennato prima), b) uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, c) rappresentanza dei cittadini negli organi di governo d) divisione dei poteri (già teorizzata da Montesquieu nel suo “Esprit des lois”), mentre poco importa se a reggere il potere sia il popolo, un gruppo di poche persone scelte o un singolo individuo; anzi, Kant sembra disprezzare la democrazia, in quanto secondo lui costituisce una dittatura della maggioranza sulla minoranza, implicando così che venga annullato il principio su cui essa si basa, ossia il governo di tutti. Ma perché l’istituzione repubblicana è quella che favorisce la pace? Per Kant, in una repubblica è di fondamentale importanza il consenso dei cittadini, che difficilmente sceglierebbero la guerra, portatrice di morte e distruzione a loro in primis. In uno stato dispotico, invece, a decidere di muovere guerra è il despota, che non sarà mai impegnato direttamente nella guerra, ma si servirà, per perseguirla, dei suoi sudditi. Il secondo presupposto, la federazione di Stati, è, forse, il punto più debole della trattazione, nonché la parte su cui più si è discusso. Infatti con il termine “Federazione di liberi Stati” Kant non intende un organismo sovranazionale a cui tutti gli Stati devono subordinarsi, bensì una sorta di “grande fratellanza”, garantita da accordi inviolabili. Per il pensatore tedesco lo “Stato dei Popoli” (così egli chiama l’ipotetico ente sovranazionale) non è una realtà a cui si possa giungere; non si può, infatti, paragonando gli Stati ai singoli individui, pretendere che questi rinuncino alle loro libertà per il bene comune, costituendo contrattualmente un organo superiore di controllo, come invece hanno fatto gli individui istituendo la società civile e gli Stati. Hegel, in seguito, ribatterà a Kant che, non essendoci un organo superiore agli Stati, una sorta di giudice che possa vigilare sull’osservanza dei trattati e che possa punire chi vi contravviene, i concordati sono inutili. Nel paragrafo 333 dei “Lineamenti di filosofia del diritto” di Hegel si legge infatti: “Il principio del diritto internazionale […] è che i trattati, come quelli dai quali dipendono le obbligazioni degli Stati fra loro, devono essere osservati. Ma poiché il rapporto tra essi ha per loro principio la loro sovranità […] i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costruita a potere al di sopra di essi, bensì in una loro volontà particolare.” La federazione degli Stati kantiana presuppone quindi “l’umanità degli Stati, che dipende da ragioni e riguardi morali, religiosi o di qualsiasi natura; in generale, sempre da una volontà sovrana particolare, e quindi resta affetta da accidentalità”. Ciò vuol dire che il rispetto degli accordi presi dagli Stati riuniti in federazione, in mancanza di un ente che distribuisca pene a chi vi contravviene, è legata alla volontà accidentale (ovvero alla volontà che può esserci o meno) degli Stati stessi di far avvenire la pace. Il terzo presupposto necessario, il diritto di ospitalità, esiste, per Kant, “in virtù del diritto al possesso comunitario della superficie della terra, sulla quale, in quanto sferica, essi [gli uomini] non possono disperdersi nell’infinito, ma alla fine devono pur tollerarsi a vicenda, mentre di essere in un luogo della terra nessuno originariamente ha più diritto dell’altro.” Il piccolo testo del filosofo settecentesco 103 è ancora di straordinaria attualità: secondo Kant la pace tra i popoli non è un’utopia ma un progetto concretamente realizzabile attraverso istituzioni giuridiche; alla sua luce nessuna guerra è necessaria e giustificabile. Straordinariamente attuale ci è sembrata, poi, anche la politica dell’accoglienza Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace degli stranieri. Leggiamo, infatti, che lo Stato “può mandarlo via, [il cittadino straniero] se ciò non mette a repentaglio la sua vita, (ma ben sappiamo che mandare indietro un extracomunitario, che fugge la povertà, la guerra, facendolo tornare nel suo paese, spesso equivale a morte sicura) ma fino a quando questo sta pacificamente al suo posto non si deve agire verso di lui in senso ostile.” 104 La dura politica dei respingimenti del governo italiano, l’approvazione della legge Bossi-Fini, contravviene a quanto il filosofo di Konisberg scrive nella sua opera. All ’ottimismo settecentesco e illuministico di Kant, al suo cosmopolitismo e pacifismo è subentrato un radicale pessimismo, venato da egoismi irrazionali. Ersilia Fiore Carmine Secondulfo II A - Liceo Classico Educare alla FILOSOFIA E PEDAGOGIA pace «Forse non è lontano il giorno in cui tutti i popoli, dimenticando gli antichi rancori, si riuniranno sotto la bandiera della fraternità universale e, cessando ogni disputa, coltiveranno tra loro relazioni assolutamente pacifiche, quali il commercio e le attività industriali, stringendo solidi legami. Noi aspettiamo quel giorno» “D Ernesto Teodoro Moneta entro ognuno di noi, la pace è come un seme che nel deserto aspetta di poter germogliare”. Ecco come Prem Pal Singh Rawat, pacifista e leader spirituale indiano nato nel 1957 e tuttora vivente, definisce il termine PACE. Ma che cos’è davvero la pace? Proviamo a chiedercelo e sicuramente leggeremo l’incertezza chiara sui volti di ognuno di noi. Si sa che il termine pace derivi dal latino pax e che è il contrario di bellum (guerra), ed è davvero strano pensare che una parola indicata come astratta sul vocabolario possa avere un valore tanto grande. Anche se non sappiamo dare una chiara definizione di tale termine, pensandoci, è una parola che conosciamo fin da piccoli, quando ancora incapaci di parlare per bene, se litighiamo con un amico pronunciamo quella fatidica frase “Facciamo la pace?” Solitamente, con questo termine, vogliamo indicare la pace tra individui ma con il tempo questa parola ha assunto anche altri significati, come quello di pace interiore. La pace è un qualcosa 105 che tutti dovrebbero assaporare, indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione, dallo stato sociale o per meglio dire dal conto in banca. E’ un qualcosa che dovrebbe essere garantito dallo Stato, dalla Chiesa, dalla famiglia, dalla scuola; tuttavia, non tutti riescono a trovare la propria pace anche se per qualcuno spesso si identifica come il fine ultimo della vita. Peace in inglese, Bakè in spagnolo, Fridn in tedesco, He Ping An Ping in cinese, Pais in francese e, infine Pace in italiano: il termine muta, ma il significato è sempre lo stesso, la voglia di raggiungere questo traguardo non muta da paese a paese, da persona a persona. Ma se tutti amano la pace, se tutti la vorrebbero, allora perché si fa la guerra? Perchè esistono le guerre per la pace? Perchè la guerra, secondo alcuni uomini, ha i suoi vantaggi : 1) è un atto volontario; 2) la guerra è facile da avviare; 3) la responsabilità della guerra può essere attribuita ad altri (al ne- Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace mico); 4) la guerra crea coesione interna; 5) la guerra sospende molte regole. Molti popoli hanno provato a cercare la pace, come possiamo capire dagli insegnamenti di Toda Josuei: egli insisteva sulla necessità di fondare una nuova filosofia universale della pace. Infatti, voleva estendere il buddismo dal campo religioso al campo sociale. La parola ai filosofi La ricerca della pace è un problema senza tempo. Infatti, affonda le sue radici nel passato. Non a caso molti filosofi, teologi e giuristi si sono espressi sul concetto di pace. Tra i filosofi spiccano maggiormente Kant, Fichte, Shelling e Hegel. Secondo Fichte si può arrivare alla pace solo attraverso l’autarchia. Ovvero, lo stato deve organizzarsi autonomamente in tutto e per tutto e non deve assolutamente avere contatti con altri paesi. Ficthe proponeva la divisione dell’uni106 verso in tanti piccoli mondi, ognuno a se stante. Quindi egli, nella sua opera Discorsi alla nazione tedesca, individua un’identità tra autarchia e pace o meglio un rapporto di causa-effetto tra queste due condizioni di contro a quanto sostenuto dagli illuministi. Questi pensavano che la pace si potesse ottenere attraverso l’apertura degli scambi commerciali internazionali. Kant si distacca dal livello economico e afferma che la pace deve essere garantita da un organismo sopranazionale anticipando l’idea di ONU. Lo stesso Kant nel suo Progetto per una pace perpetua afferma che come siamo soliti considerare irragionevole l’attaccamento dei barbari alla loro cultura senza legge, così dovremmo affrettarci ad uscire da una situazione tanto degradante. La ragione, strumento essenziale per Kant, condanna la guerra come procedimento giuridico ed eleva lo stato di pace. Per questo motivo, diviene necessaria una particolare lega foedus pacificum che va distinta dal pactum pacis (patto di pace): mentre il pactum pacis cerca di mettere fine ad una guerra, il foedus pacificum si propone di mettere fine a tutte le guerre. Molto vicino al pensiero kantiano, è l’idealista tedesco Shelling, il quale considera la pace per l’umanità garantita da una federazione planetaria. Hegel si oppone a tutti i filosofi sopraccitati. Infatti, in lui non prevale il concetto di pace ma quello di guerra. Nella loro opera, Abbagnano e Fornero, scrivono “Hegel dichiara che non esiste alcun giudice o pretore che possa esaminare le pretese degli stati. Il solo giudice è ..… la storia, la quale ha come suo momento strutturale la guerra.… Hegel attribuisce alla guerra non solo un carattere di necessità e di inevitabilità ma anche un alto valore morale : “come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine… così la guerra preserva i popoli dalla fossilizzazione alla quale li ridurrebbe una pace durevole e perfetta” (Hegel – Lineamenti di filosofia del diritto). La parola ai pedagogisti Tra gli educatori alla pace più noti vanno ricordati: Maria Montessori, pedagogista, filosofa, medico, scienziato ed educatrice, ha compreso come l’educazione possa essere un’ arma per la pace. Solo il sapere, infatti, ci aiuta ad uscire da uno stato di minorità e a comprendere meglio l’importanza di quest’arma; Aldo Capitini, pedagogista e divulgatore del pensiero di Gandhi in Italia ha affermato la connessione tra azione sociale e politica ed educazione come una sorta di impulso che può far emergere il senso di insoddisfazione per la realtà attuale e che quindi può far nascere in ognuno il desiderio di cambiamento attraverso una cultura della pace. Secondo Capitini, i principi dell’educa- zione della pace nelle scuole sono: educare alla diversità attraverso il dialogo, educare alla disobbedienza, ovvero allo sviluppo dello spirito critico ed educare alla non violenza; Danilo Dolci, sociologo, educatore, poeta e attivista della non violenza, in Sicilia ha attuato un percorso di educazione alla pace globale come autoliberazione dalla violenza che interessa gli schemi psicologici e le strutture socio-politiche per contrapporvi un’azione educativa non violenta e costruttiva. Tale percorso si adatta benissimo al problema del fenomeno mafioso. Tutto ciò a partire dalla famosa maieutica socratica, che si serve del dialogo per portare alla luce le verità sedimentate nella coscienza dei singoli per far superare il senso di isolamento dell’individuo attraverso lo sviluppo di un senso di responsabilità collettiva; Don Lorenzo Milani, invece, cercava di collegare il senso di responsabilità del singolo con l’azione sociale portando a combattere ogni autoritarismo e conformismo (Lettera ad una professoressa). E’ proprio su questi esempi che gli insegnanti potrebbero attuare nelle scuole un programma di educazione alla pace in un intreccio naturale con i programmi curriculari. Come abbiamo già detto, la scuola è una delle istituzioni che dovrebbe garantire la pace e, invece, sappiamo, attraverso numerosi fatti di cronaca, che spesso nelle scuole si manifestano atti di violenza. È necessario allora che la scuola offra ai giovani l’immagine coerente di luogo dove i diritti e le libertà di tutti trovano spazio di realizzazione, dove le aspettative dei ragazzi ad un equilibrato sviluppo culturale e civile non vengono frustrate. Il testamento di Nobel Il Premio Nobel per la pace è stato previsto nel testamento di Alfred Nobel del 1885 ed è stato assegnato per la prima volta nel 1901 a Jean Henri Dunant, fondatore della Croce Rossa e ideatore della Convenzione di Ginevra per i diritti umani. Il Premio Nobel per la pace non è mai stato assegnato ad un italiano dal 1907 ad oggi. Nel 1907 ad aggiudicarselo fu Ernesto Teodoro Moneta, giornalista e patriota italiano. Tra coloro che hanno ricevuto questo premio vogliamo 107 ricordare: Theodore Roosveelt (1906), Presidente degli Stati Uniti; Louis Renault (1907), professore di diritto internazionale alla Sorbona; Ferdinand Buisson (1927), fondatore e presidente della Lega per i diritti umani; Martin Luther King (1964), Capo della Southern Christian Leadership; Tenzin Gyatso (1989), XIV Dalai Lama capo del Governo tibetano in esilio. Non solo singole persone hanno ricevuto il Premio Nobel per la Pace ma anche organizzazioni come le Nazioni Unite, in particolare: il fondo per l’infanzia (1965), le forze di peace-keeping (1988), l’Alto Commissariato per i rifugiati ( 1954 e 1981) e nel 2001 il segretario generale Kofi Annan. Anche il presidente Barak Obama ha recentemente rivenuto il premio Nobel per la Pace. Ciò ha suscitato numerose di- Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace scussioni e la domanda principale è stata: ma che cosa ha fatto finora per meritarsi tale riconoscimento? La critica si divide in sostenitori e scettici. I primi affermano che sia stato giusto premiare Obama perché questi ha mutato completamente la politica imperante con Bush, il dialogo con tutte le nazioni per cercare di risolvere i conflitti ancora in atto (a testimonianza di ciò valgono i mutati rapporti con la Russia). Gli scettici sottolineano come la politica di Obama finora sia stata perlopiù teorica 108 e non pratica. Inoltre gli Usa hanno ancora due sanguinosi fronti aperti: in Iraq e in Afghanistan. In effetti, è stato prematuro assegnare ad un presidente di fresca nomina un premio così importante. Bastava aspettare qualche tempo e valutare il reale merito di Obama e, soprattutto, il mantenimento delle sue promesse. Solo il tempo darà ragione agli uni o agli altri, a noi non resta che aspettare e sperare… Marika Ambrosio II C - Liceo Classico La pace secondo la fede cattolica “L a carità nella verità, di cui Gesù Cristo si è fatto testimone” è “la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera”. Questo è l’incipit dell’Enciclica Caritas in veritate. Parole semplici ma di grande spessore, indirizzate al mondo cattolico e “a tutti gli uomini di buona volontà”. Già nell’introduzione il Papa, Benedetto XVI, ricorda che “l’amore-caritas è una forza straordinaria che spinge le persone a impe- VISIONI DEL MONDO gnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace”. Secondo la fede cristiana, la pace è il dono offerto agli uomini dal Signore risorto ed è il frutto della vita nuova inaugurata dalla sua resurrezione. Pertanto la pace si configura come un profondo rinnovamento del cuore dell’uomo. È un dono da accogliere con generosità, da custodire con cura, e da far fruttificare con maturità e responsabilità. Per quanto travagliate siano le situazioni e forti le tensioni e i conflitti, nulla può resistere all’efficace rinnovamento portato dal Cristo risorto. Cristo è la pace di tutti gli uomini. Con la sua morte in croce, Cristo ha riconciliato l’umanità con Dio e ha posto le basi nel mondo di una fraterna convivenza fra tutti. Paolo VI nella sua Enciclica, Populorum Progressio, aveva già sottolineato che la pace è stretta109 mente legata alla giustizia, quindi bisogna “promuovere il progresso dei popoli più poveri” e “favorire la giustizia sociale tra le nazioni” per “offrire a quelle che sono meno sviluppate un aiuto tale che le metta in grado di provvedere esse stesse e per se stesse al loro progresso”, solo così si potrà raggiungere la pax Christi. La stessa Enciclica aggiunge più avanti un altro importante elemento: “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Infatti essa non si riduce all’assenza di guerra, ma si costruisce giorno per giorno nel perseguimento Lyceum Maggio 2010 Percorso/La cultura della Pace dell’ordine voluto da Dio, che è la perfetta giustizia tra tutti gli uomini. Pertanto ogni buon credente deve promuovere il progresso umano e spirituale, dunque il bene dell’intera umanità. Partendo dal messaggio di Paolo VI, Benedetto XVI dichiara che la Carità, Amore ricevuto e donato, è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni cristiano è chiamato alla caritas anche attraverso una “via istituzionale” che incida nella società. Infatti il Papa si sofferma sulla giustizia e sul bene comune. La giustizia (Ubi societas, ibi ius) induce a donare all’altro ciò “che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Chi ama con carità gli altri è innanzitutto giusto verso di loro”. Accanto al bene personale vi è il bene comune, che non è il bene ricercato per se stesso, ma per tutti coloro che fanno parte della società. Quindi impegnarsi per il bene comune significa anche “avvalersi delle 110 istituzioni che strutturano politicamente, civilmente e giuridicamente il vivere sociale”. Ritorna più volte, nella lettera enciclica Caritas in veritate, l’attenzione al creato, alla responsabilità verso la natura e il mondo. “La creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio” e la sua salvaguardia permetterebbe anche la pace dei popoli e tra i popoli. “La desertificazione e l’impoverimento produttivo … sono anche frutto dell’impoverimento delle popolazioni … e della loro arretratezza”. Per tale motivo la Chiesa deve rinnovare e rafforzare quell’alleanza tra l’ umanità e l’ambiente, specchio dell’amore di Dio, che move il sole e l’altre stelle, verso il quale siamo sempre in cammino. Inoltre la misericordia divina apre il cuore al perdono verso i fratelli ed è anche e soprattutto con il perdono offerto e ricevuto che si costruisce la pace nella piccola comunità della famiglia e in ogni altro ambiente di vita. Giovanni Paolo II diceva: “La Chiesa non cessa mai di proclamare la verità che la pace nel mondo affonda le sue radici nel cuore degli uomini, nella coscienza di ogni uomo e di ogni donna. La pace può essere soltanto il frutto di un cambiamento spirituale, che inizia nel cuore di ogni essere umano e che si diffonde attraverso le comunità. La prima di queste comunità è la famiglia. È la famiglia la prima comunità ad essere chiamata alla pace, e la prima comunità a ricercare la pace – pace e amicizia fra gli individui e i popoli”. Valeria Fortuna Gigi Marialuisa Guidone II B - Liceo Classico Orientamento La sezione “Orientamento” si apre con un interessante intervento sulla professione del docente, che si muove tra l’Amarcord e la proiezione nella realtà presente e futura, e continua con una panoramica sulla progettualità che è ormai il tratto peculiare del Liceo “Tito Lucrezio Caro”. Due sono le iniziative: la prima è il Convegno di studi sulla prestigiosa figura di Giovanni Amendola “tra politica e storia”, organizzato in collaborazione con l’Università degli studi di Salerno; la seconda è costituita dall’intera attività dei PON, tra cui segnaliamo quella della “Scuola di Giornalismo”, che nell’arco delle 50 ore previste ha preparato gli allievi alla stesura di vari e articolati “pezzi giornalistici”, confluiti poi nell’esperimento della realizzazione di un numero speciale della testata “Soci@l medium”, ospitata come inserto del qualificato e diffuso periodico Eventi. PROFESSIONE DOCENTE Categorie di ieri, categorie di oggi L’insegnante è come un profumo A ll’età di quattordici anni, quando frequentavo il ginnasio alla vecchia sede in corso Giovanni Amendola, mi sembrava, al mattino, di entrare in un tempio: al suono della prima campanella, che annunciava l’inizio delle lezioni, regnava il silenzio e nei corridoi si camminava come in chiesa, dinanzi agli occhi vigili del preside-sacerdotestregone. Le ore trascorrevano a ritmi lentissimi, perché i professori, quelli di un tempo, amavano prima interrogare e poi spiegare, e le interrogazioni erano un qualcosa da tramandare alle generazioni future: si rimaneva fermi e ritti davanti alla cattedra, e le domande che venivano rivolte erano formule di “giuramento”, in quanto ti assumevi tutta la responsabilità di ciò che affermavi, sapendo che, in caso di risposte errate, al tre canonico seguiva anche il rimprovero, quello che veramente ti procurava una grande sofferenza interiore. L’insegnante (alludo a quello degli anni ’80) era rispettato e temuto, anzi nessuno mai di noi alunni osava mettere in di- scussione ciò che diceva: se una professoressa avesse parlato di un Dante torinese, noi poveri disgraziati, avremmo corretto il testo, togliendo Firenze e aggiungendo Torino (sul mio vecchio manuale di filosofia ho ancora un Socrate nato a Sparta!). È ovvio che non erano infallibili! Non nascondo che viaggia- Lyceum Maggio 2010 113 Orientamento 114 no ancora nei sogni notturni a distanza di tanti anni. Vivono in noi, infatti auguravamo loro di tutto: il sottoscritto aveva come insegnanti al liceo una “triade maledetta” (non riporto i nomi in quanto alcuni sono ancora in cattedra), per la quale si era anche fatto ricorso alla poesia epigrammatica (epigramma nell’accezione greca!) per poter esprimere tutte le nostre opinioni e molti ritornelli erano noti agli stessi docenti. Tuttavia, alla mia età, posso testimoniare concretamente che ho avuto davvero degli “insegnanti”, senza demagogia alcuna, perché hanno lasciato un’impronta nella mia vita e nel carattere, mi hanno fatto sviluppare un’idea di una cultura mai in vendita, ma oggetto di ricerca assoluta per migliorare e migliorarsi. La loro studiata cattiveria, paragonata alla vita, è stata un vero oracolo di Delfi, mentre la cultura posseduta da alcuni di essi è e rimarrà una chimera per molti. Ora, però, chi percorre gli stessi corridoi? Chi entra in quelle aule, un tempo “altari”? Oggi la classe insegnante può essere suddivisa in tre categorie: alla prima appartiene il docente che parte dalla convinzione di essere messaggero di Dio o di Zeus, per cui tutto ciò che afferma è “rivelazione” (probabilmente è vero!); della seconda fa parte il vip, ossia il signore alternativo e anticonvenzionale che veste come gli alunni e dei quali si dichiara amico, quello che quando spiega non sta facendo lezione frontale ma un concerto, durante il quale vengono dette cose condivisibili quasi da tutti i convenuti, così non ci saranno nemici alla fine dell’ora (anche questo è un rispettabilissimo metodo d’insegnamento per attirare l’attenzione dei discenti delle nuove generazioni!); nella terza categoria rientra il docente che ritiene la lezione quotidiana un vero banco di prova, per cui bisogna agire per non procurare danni e dare indicazioni chiare ai discenti, magari alternando bastone e carota (questo modus operandi è tradizionale, ma efficace). Quale delle tre sia la migliore o la peggiore è difficile da dire, perciò, servendoci dell’amato Manzoni, lasciamo “ai posteri l’ardua sentenza”. Un suggerimento, tuttavia, è d’uopo, altrimenti si rischia di essere o dei qualunquisti o degli imbonitori: un alunno non deve giudicare mai un insegnante nel corso dell’anno né in modo positivo né negativo, ma aspettare che termini il cursus studiorum. Quando nel quotidiano ritroverà i “messaggi” di certi insegnamenti, allora potrà vantarsi di avere avuto un ottimo educatore. È ovvio che qualche mia alunna un po’ maliziosa sorriderà nel sentir ripetere anche in questa sede un mio aforisma, ma ritengo appropriato concludere il ragionamento intrapreso con una riflessione: “I professori sono come la fragranza di un profumo: per alcuni l’odore è splendido per altri insopportabile. Tuttavia c’è una certezza: alcuni quell’odore lo avranno sempre sulla pelle, altri, dopo un po’ di tempo e una doccia, ricorderanno semplicemente che era sgradevole”. Giuseppe Robustelli 115 Lyceum Maggio 2010 Orientamento Università Di Salerno Facoltà di Scienze Politiche Liceo Classico, Scientifico e Linguistico Maxisperimentale “T. L. Caro” – Sarno (Sa) Provincia di Salerno Comune di Sarno Convegno di studi 116 Giovanni Amendola Tra politica e storia 29 aprile - 30 aprile 2010 Centro Sociale – Sarno Giovedì 29 aprile 2010 – ore 16.30 Venerdì 30 aprile 2010 – ore 9.00 Presiede Presiede Prof. Elio D’auria Prof. Luigi Rossi Università della Tuscia – Viterbo Preside della Facoltà di Scienze Politiche Università di Salerno Introduzione Saluti dell’Amministrazione Provinciale Prof. Giuseppe Vastola Dirigente Scolastico del Liceo “T. L. Caro” Relazioni Saluti «Giovanni Amendola e il suo epistolario» Prof. Elio D’auria Avv. Amilcare Mancusi Università della Tuscia - Viterbo Sindaco di Sarno «Democrazia, liberalismo, socialismo nel pensiero di Giovanni Amendola» Prof. Giuseppe Cacciatore Relazioni «L’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti italiani “G. Amendola”» Dott. Ermanno Corsi Editorialista de “IL DENARO” «L’attualità dell’Amendola liminare» Prof. Franco Salerno Liceo “T.L.Caro”- Docente a contratto Università di Salerno «Amendola tra etica e politica» Prof. Aldo Trione Università di Napoli “Federico II” Università di Napoli “Federico II” «Giovanni Amendola e la rivista ‘Il Saggiatore’» Prof. Giuseppe Palmisciano Università di Salerno «Giovanni Amendola e l’idealismo di Benedetto Croce» Prof. Alfonso Musci Università di Pisa «Le fonti archivistiche nella Sarno del primo Dopoguerra» Dott.ssa Raffaella Buonaiuto Archivio storico del Comune di Sarno Il Convegno fruirà anche delle riprese televisive di METROPOLIS TV e dei servizi giornalistici di Metropolis/Quotidiano Segreteria organizzativa: Liceo Classico “T. L. Caro” - Liceo Scientifico “G. Galilei” Liceo Maxisperimentale ad indirizzo Classico-Scientifico-Linguistico C.so G. Amendola, 86 – 84087 Sarno (SA) – Tel. 081/5137321 Fax. 081/5137317 http:www.licei.org - e-mail: [email protected] Prof.ssa Adriana Buonaiuto Comitato tecnico: Prof.ssa Patrizia Trapanese – Prof. Guglielmo Caiazza – Prof.ssa Elsa Franco – Prof.ssa Angelina Rainone Addetto stampa: Dott.ssa Viridiana Myriam Salerno Lyceum Maggio 2010 117 Orientamento I CORSI PON I Le capacità progettuali del Liceo Classico “T. L. Caro” l Liceo Classico “T. L. Caro”, da ormai un decennio conferma di anno in anno le sue capacità progettuali, ottenendo l’autorizzazione dall’Autorità di gestione per dare vita al Piano Integrato FSE 2009, brillantemente coordinato dal Prof. Egidio Mazza. Una Scuola proiettata verso il futuro, 118 una Scuola che conserva i “valori” di un insegnamento tradizionale, ma che respira la Cultura completa e moderna. Che l’Europa “impone” e che serve per rispondere alle sollecitazioni previste nella “Raccomandazione Europea” del 18 dicembre 2006. Con L’Europa investiamo nel nostro futuro! Il Piano Integrato di Istituto è, infatti, cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo nell’ambito del Programma Operativo Nazionale “Competenze per lo Sviluppo 2007- 2013”, a titolarità del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e Ricerca – Direzione Generale. Per offrire una formazione completa ai nostri studenti. Per formarli nel migliore dei modi possibili. Per confermare il ruolo del Liceo Classico “T.L.Caro” come punto di educazione e di aggregazione della zona vesuviana e dell’Agro sarnese-nocerino. Il Collegio dei Docenti ha, pertanto, deli- Unione Europea 2007-IT 161PO 004 Codice Identificativo B-1-F.E.S.R. 2007/2228 Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Dipartimento per la Programmazione D.G. per gli Affari Internazionali - Ufficio IV Programmazione e gestione dei fondi strutturali europei e nazionali per lo sviluppo e la coesione sociale berato di indirizzare il Piano verso l’“Obiettivo C” che consta di due tipi di “Azione”: - Azione 1: “Interventi per lo sviluppo delle competenze chiave” (comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere, competenza matematica e competenza di base in scienza e tecnologia, competenza digitale, imparare ad apprendere, competenze sociali e civiche, spirito d’iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale); - Azione 4: “Interventi individualizzati per promuovere l’eccellenza” e per indirizzare le risorse economiche sia verso il recupero e l’innalzamento dei livelli di conoscenze, di capacità e di competenze degli alunni nelle aree di competenze (conoscenze in lingue, in matematica, in scienze e tecnologia, problem solving, competenza digitale, educazione alla convivenza civile e democratica ed alla cittadinanza attiva), sia verso la promozione delle eccellenze. Nell’ambito dell’Obiettivo C – Azione 1 sono stati previsti i seguenti Progetti: Parlare e scrivere correttamente; Scuola di giornalismo; Matematica: pensiero trasversale; Imparare a tradurre; Laboratorio di fisica; Le scienze, patrimonio per il futuro; ECDL corel; ECDl advanced; Improving my English; Français pour tous. Nell’ambito dell’Obiettivo C – Azione 1 sono stati previsti i seguenti Progetti: Cogito ergo sum: la scuola in gara per l’eccellenza in filosofia; Olimpiadi della matematica; Discere ad Certamen. Noi abbiamo discusso di questo e di tanto altro con il Dirigente Scolastico del Liceo, Prof. Giuseppe Vastola che, molto preparato, preciso e puntuale, ci ha parlato in modo appassionato e manageriale della sua Scuola: “Oltre alla vastissima offerta di P.O.N. che ci proietta in una dimensione europea di Scuola, mettendoci al passo con le grandi aree didattiche non solo italiane, il nostro Liceo ha anche un’interessantissima carta d’identità costituita dal P.O.F., vale a dire il Piano, in cui vengono illustrate le linee distintive dell’istituto, l’ispirazione culturale-pedagogica che lo muove, la progettazione curricolare, extracurricolare, didattica ed organizzativa delle sue attività. Noi vogliamo far affermare una visione 119 diversa di Scuola, che diventa ambiente in cui vivere, crescere, confrontarsi e imparare al di là delle ore prettamente didattiche. La Scuola deve essere vissuta a pieno dai nostri studenti: per tutti questi motivi, è importante un lavoro di sinergia costante con le famiglie e con le Autorità che devono mettere al servizio della Scuola tutte le loro forze in modo totale.” Viridiana Myriam Salerno Lyceum Maggio 2010 Orientamento PON/SCUOLA DI GIORNALISMO Entusiasmante viaggio tra le parole L Un’esperienza sorprendente e altamente formativa a Scuola di Giornalismo, promossa dai proff. Franco Salerno (come Esperto), Giuseppina Di Filippo e Michele D’Alessandro (entrambi Tutor), si è rivelata un sorprendente successo. La semplice iniziale curiosità che ci ha spinto a partecipare si è trasformata in una vera e propria determinazione. Il merito naturalmente ai professori che, con il loro supporto, ci hanno spronato e aiutato a diventare davvero dei piccoli giornalisti. Noi alunni 120 abbiamo profuso il nostro impegno, sì che ci siamo rivelati, a nostra meraviglia, capaci di una creatività nella formulazione delle idee e nella stesura dei testi. La creatività, in particolar modo, è sempre stata premiata nelle gare di gruppo, gare in cui il podio ha visto come protagonisti tutti, nessuno escluso. Tra divertenti competizioni e “struggenti” rompicapo, noi ragazzi abbiamo imparato quanto sia piacevole scrivere. Le parole non sono mai state così divertenti, persino durante i test, i quali, insieme alle numerose lezioni, hanno contribuito ad ampliare il nostro bagaglio culturale. Esperienza alquanto gradevole è stata, senza dubbio, l’incontro con Maria Buono, giornalista della RAI, la quale ci ha permesso di entrare nel suo mondo, mostrandoci le meraviglie che si celano dietro un giornale. Altrettanto formativa e rivelatrice la visita alla Redazione del quotidiano “Metropolis”, effettuata il 4 maggio. L’assidua frequenza e la collaborazione sono state due componenti fondamentali, che hanno cooperato alla realizzazione (con la guida anche della Dott.ssa Viridiana Myriam Salerno) del capolavoro finale: Soci@l Medium, un giornale, il nostro giornale, il mezzo tramite cui abbiamo potuto veicolare sensazioni, visioni, idee, e dare una nuova interpretazione del mondo. Per questo, siamo molto grati al Direttore del Periodico Eventi, Livio Pastore, che lo ospita come inserto nell’ambito di una testata, molto letta ed autorevole. La Manifestazione conclusiva, infine, a cui parteciperanno giornalisti e studiosi dei media, avrà come suo clou la performance “Come si fa un TG”: una Giuria di esperti assegnerà Premi e stage ai vincitori. Disse il grande Emilio Salgari: “Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”; e noi abbiamo affrontato questo viaggio a mani vuote, una penna per compagno, per dar vita alle nostre creazioni, a volte apprezzate, a volte criticate, ma pur sempre speciali che ci hanno fatto sentire anche solo per quell’attimo veri “scrittori”. Cinque mesi sotto esame, ora tocca a noi dare un giudizio. “La Scuola di giornalismo: promossa a pieni voti!”. Si spera anche noi! Melania Dolgetta Marika Manna Cristina Pastore Morena Vastola I B – Liceo Classico Itinerari Vari sono i progetti POF realizzati nell’anno scolastico 2009-10. Tra quelli che hanno continuità negli anni vi presentiamo il Progetto relativo all’Arte (teso a pervenire a veri e propri prodotti artistici) e i due Progetti svolti dalle due Compagnie teatrali (L’Allegra Brigata del Liceo Scientifico e la Nave dei Folli del Liceo Classico e Scientifico), impegnati nell’allestimento di due nuove produzioni teatrali, con le quali la Scuola – con risultati eccellenti – si apre al territorio e al mondo della cultura e dello spettacolo. IN MEMORIA In memoriam, al profesor Gennaro Rispoli Antonio Quartucci, alumno del profesor Gennaro Rispoli, colaboradorde esta revista, informa que ha fallecido el 10 de abril de 2010. En su honor, se publica de manera extraordinaria un problema Quincena del 1 al 16 de Abril de 2010. Sevilla 12 de Abril de 2010. EXTRA Problema 559 Sea P un punto del interior del triángulo ABC. Sean D, E y F los pies de las perpendiculares desde P a BC, CA y AB, respectivamente. Si los tres cuadriláteros AEPF, BFPD y CDPE tienen incírculos tangentes a los cuatro lados, demostrar que P es el incentro de ABC. Rabinowitz, S. (2004): Crux Mathematicorum, Problem 2902. 30.1, (p.38) Lyceum Maggio 2010 123 Itinerari 124 Fernando Palladino (IV MSB), Nefertari Progetto Arte I labirinti della bellezza DIARIO DI BORDO S embra incredibile essere già arrivati alla tanto attesa mostra che sarà allestita nel plesso del Liceo classico al Corso Vittorio Emanuele. Saranno esposte al pubblico le nostre “piccole opere” per l’evento che rappresenta la chiusura di un progetto che è stato tanto a cuore al prof. Ernesto Terlizzi e alla prof.ssa Adriana Buonaiuto e che ha coinvolto ed emozionato noi ragazzi nell’arco di dieci incontri. Prima di incamminarmi in questa nuova esperienza, l’idea di dovermi confrontare con persone a cui l’arte scorre nelle vene mi terrorizzava. C’è ora, invece, qualcosa di diverso nel mio modo di vedere. Probabilmente, se nulla fosse cambiato, non avrei mai avuto il coraggio di scrivere questo trafiletto. Il corso, presentato dal professore Terlizzi nel precedente numero di “Lyceum”, ha voluto ripercorrere le diverse idee e forme di bellezza che si sono affermate nel corso dei secoli. Ognuno di noi, affrontando le varie tematiche, ha rielaborato ed espresso la propria idea di bellezza ed è stato emotivamente coinvolto in quei modi così diversi di concepire l’Arte: la semplicità di qualcuno si è rispecchiata nell’immediatezza del linguaggio primitivo; il tumulto interiore di qualcun altro ha trovato espressione nella rappresentazione della maestosa forza della natura del Sublime. Tutti abbiamo scoperto aspetti di noi che meno conoscevamo, come la nostra originalità per esempio. La timidezza di certi (la mia in primis) nel mostrare ai compagni i propri lavori è via via scomparsa. Ci siamo 125 ritrovati a consigliarci a vicenda o a stupirci per il talento di alcuni. Abbiamo scoperto che, al di là di ciò che si vede con gli occhi, esiste qualcosa che si sente con le emozioni, che ciò che conta non è l’apparenza, ma la forza e l’efficacia del messaggio. I nostri disegni, se non tutti dai valori artistici inestimabili, rappresentano ciò che siamo e, da quello che ho appreso frequentando il corso, la bellezza sta proprio in questo: nell’esprimere sé stessi senza paura. Realizzare la vera bellezza significa riuscire ad emozionare l’osservatore, trasmettergli le stesse emozioni che noi stessi abbiamo provato nel comporre l’opera e trasfondere in questa il nostro essere, la nostra personalità. Luisa Marano - II MS Lyceum Maggio 2010 Progetto Arte Mario Vastola (V MSA), Figura Emanuela Cratere (II MS), Laocoonte morente Emanuela Cratere (II MS), Burqa Mariassunta Robustelli (V MSA), Oriente Progetto Arte Salvatore Giordano (IV MSB), La canzone di Bacco Itinerari Progetto Arte 128 TEATRO/1 Le maree dell’animo femminile R ipercorrendo il testo La casa di Bernarda Alba del drammaturgo spagnolo Federico Garcia Lorca, l’“Allegra Brigata” ha voluto trattare un tema antico e moderno delle società contemporanee: “la donna e la propria emancipazione”. La compagnia teatrale, cresciuta grazie all’assiduo lavoro dei docenti referenti Antonella Esposito e Grazia Celentano e al valido contributo dell’attore e regista Antonio Avigliano, è riuscita a mettere così in scena una tematica così attuale tratta da un testo quasi centennale, creando le premesse per un’attualizzazione dei temi e dei modi della rappresentazione stessa. In una cornice di severità e di lutto rigoroso imposto da Bernarda alle sue cinque figlie, alle due serve e alla vecchia madre pazza, emerge la figura di Adela, simbolo del desiderio della libertà della donna, che Il nuovo Spettacolo teatrale dell’Allegra Brigata del Liceo Scientifico evade, seguendo la fiamma dell’amore, più 129 forte di qualsiasi forma di oppressione. La figura dell’uomo, invece, risulta marginale nella trama, ma non per questo meno significativa nell’intreccio. Il gruppo composto da ragazzi con una fascia di età compresa tra i quattordici e i diciannove anni, stimolato dalla forte tematica, ha mostrato un grande senso di coesione e tanta voglia di cimentarsi in questa nuova esperienza. Questa nuova faccia dell’Allegra brigata ha appreso ciò che il progetto desidera raggiungere nelle sue finalità e nei suoi obiettivi, vale a dire che il teatro non è solo il “ridere di pancia” ma soprattutto un intenso percorso culturale e psico-educativo (mettersi in discussione), volto a valorizzare quelli che sono i valori morali della società. Un altro scopo del laboratorio teatrale è quello di mettere in scena non più la solita “commedia scolastica”, ma uno spettacolo di carattere che vuole l’attore vivo, che parla e Lyceum Maggio 2010 Itinerari che agisce scaldandosi al fiato del pubblico, che ogni volta rinasce o rimuore fortificato dal suo consenso o dalla sua ostilità, un teatro che sia un luogo di corpi in vita. Come in tutte le attività di gruppo non sono mancati né momenti di tensione, che hanno scosso la compagnia, né momenti di discussione 130 collettiva che hanno rafforzato i rapporti interpersonali e l’obiettivo finale. La scuola ha mostrato grande interesse verso questo progetto promuovendo ancora una volta tale attività formativa, dando all’Allegra Brigata la possibilità di trascinare tutti nel suo mondo fatto di battute, attori, passione e amore... teatro. A questi piccoli “dilettanti allo sbaraglio” il compito di dominare la paura e soddisfare le attese. Vi aspettiamo l’11 giugno del 2010 per questa nuova e originale sfida, anche se quest’anno l’allegria cede il passo al dramma e alla riflessione. Christian Crescenzo - III F Alfonso Dolgetta - III C Liceo Scientifico Antigone non può morire TEATRO/2 Il nuovo Spettacolo de La Nave dei Folli si configura come un mélange tra mito e storia, tra letteratura greca e teatro tedesco, tra musica classica e incursioni nei ritmi moderni. S ullo sfondo di un mito greco, la Compagnia teatrale La Nave dei Folli si calerà quest’anno in una vicenda particolarmente entusiasmante e coinvolgente. In un mix tra richiamo al mondo classico e prospettiva moderna, lo Spettacolo Antigone non può morire si colorirà di vicende misteriose. Gli uomini nella loro positività errano per natura e da ciò scaturiscono i più gravi contrasti. Anche se questa affermazione può sembrare pessimistica, essa -nel corso del nostro lavoro- diviene estremamente attuale, in quanto spinge a superare difficoltà e ostacoli. Eros e Thanatos, tradimenti e superstizioni sono alla base del dramma di Antigone, in cui si dibatte l’antinomia fra Legge scritta sulla carta e Legge scolpita nel cuore di ognuno. Il testo dell’opera, che si inserisce nel solco del “musical classico” (arricchito dalle danze), è stato scritto dal prof. Franco 131 Salerno; la regia è stata curata dai proff. Fulvio Montuori e Franco Salerno (aiuto regia: Francesco Mancuso e Viridiana Myriam Salerno); l’arrangiamento e la direzione delle musiche sono state realizzate dal prof. Ciro Ruggiero che ha magistralmente ”contaminato” melodie artistiche e ritmi moderni. Il duello all’interno dello Spettacolo sarà simbolo della drammaticità delle guerre moderne, con l’eccezione che per il teatro sarà lo spunto per la creazione di una commedia, vista come prefigurazione della Speranza. Re e regine si dimostreranno, sulla scena, deboli e quasi inetti nei confronti dei veri problemi della vita. Così alla prepotenza regale verranno contrapposti lo smascheramento del Potere e la viltà dei potenti. Il concetto di teatro come arte pura e rara è difficilmente riscontrabile in una società che affonda le radici nella violazione di tutte le regole morali. Il teatro nella sua Lyceum Maggio 2010 Itinerari 132 totale integrità, rappresenta il connubio esatto per chi, oltre al divertimento, vuole aggiungere l’approccio a varie tradizioni culturali: il plot dello Spettacolo, infatti, risulta dal mélange personalizzato fra vari tradizioni autorali (Sofocle, Seneca, Alfieri, Brecht). Oscar Welles scrisse: ”Il teatro resiste come un divino anacronismo: come l’opera lirica e il balletto classico. Un’arte che è fonte di gioia e di meraviglia”. La realizzazione di questa pièce è stata, perciò, anche il modo più simpatico di far vedere come noi studenti, oltre al regolare studio didattico, siamo in grado di far emergere anche doti e creatività artistiche. Così noi attori semi-professionisti portiamo in scena la caducità della vita avvolta in un’ironia e in un mistero, la cui verità resta celata e quindi difficilmente percepibile a causa dell’omologazione massmediologica moderna. Sofia Squillante III B - Liceo Classico EVENTI CULTURALI Incontro con la scrittrice Anilda Hibrahimi Una giornata particolare, non è il titolo di un film ma un’esperienza unica di vita, arte e letteratura N ell’ambito del progetto “Incontro con l’autore”, in collaborazione con la casa editrice Enaudi, il Liceo scientifico “G. Galilei” di Sarno, l’11 aprile, ha avuto il piacere di ospitare la giovane scrittrice di origine albanese Anilda Hibrahimi. L’incontro è stato tenuto nell’Aula magna del plesso, sottoposta, per l’occasione, ad una preparazione acustico-visiva e ornata da addobbi floreali, con tanto di 100 posti a sedere. Hanno partecipato il responsabile di zona dell’Enaudi dott. Claudio Bartiromo, il Dirigente Scolastico prof. Giuseppe Vastola e la Prof. Antonella Esposito, che ha moderato il dibattito e condotto la mattinata spiegando il senso e l’obiettivo di un progetto che vive nella nostra scuola da ben dieci anni, proponendo almeno tre volte all’anno un confronto dialettico e concreto con uno scrittore contemporaneo. Quest’anno è toccato alla scrittrice Anhilda Hibrahimi, una delle voci narrative più coinvolgenti degli ultimi anni, ma che rivela all’interno della sua capacità di scrittura romanzata 133 anche una preparazione giornalistica che le consente un mixage perfetto tra cronaca e invenzione narrativa “Sono molto emozionata”, queste sono state le prime parole della scrittrice che hanno scatenato un caloroso applauso degli alunni. Hanilda però si è subito messa a suo agio di fronte all’entusiasmo degli uditori ed ha iniziato a presentare il suo libro intitolato “L’amore e gli stracci del tempo”, un racconto di amori e di passioni frastagliati da un soffio di malinconia e di tristezza che è piaciuto molto a noi giovani lettori. L’autrice vive ormai a Roma con il marito e la figlia, ma dalle sue parole si evince il proprio coinvolgimento emotivo negli eventi che hanno travagliato la sua terra d’origine, e, proprio su questi, costruisce lo sfondo su cui si impiantano i parametri della narrazione. Illustrati i punti cardini della vicenda, ha poi cortesemente risposto alle domande poste dagli alunni, soddisfacendo pienamente Lyceum Maggio 2010 Itinerari la loro curiosità riguardo le tematiche della narrazione e sui motivi degli accadimenti che la caratterizzano. L’attenta organizzazione ha curato ogni dettaglio e non è mancata, alla fine, una sorpresa per la stimabile ospite. Le è stato consegnato un apprezzato omaggio floreale insieme ad un astuccio contenente tre segnalibro che costituiscono non solo il logo della nostra Scuola, ma anche una testimonianza concreta della volontà di tornare al vecchio libro che può essere sempre il compagno ideale di ogni momento di piacevole ozio nelle nostre giornate, ma è anche la lettura il modo più efficace per tracciare la rotta delle nostre scelte e dei nostri progetti, in quanto un libro può cambiarti la vita e fare 134 delle cose di ogni giorno una meravigliosa e nuova scoperta. Il modo di ringraziare i ragazzi è stato dolcissimo e professionale perché cortesemente si è resa disponibile a porre il suo autografo sui libri e sui segnalibri degli studenti. Sia la scrittrice che gli alunni sono rimasti estasiati dal risultato dell’iniziativa. Per Anhilda Hibrahimi è stata un’occasione per constatare quanto è stato recepito dai lettori, mentre i ragazzi hanno avuto la possibilità di calarsi nel pensiero dell’autore del racconto e capire la motivazione di determinate scelte di percorso o di conoscere a fondo le peculiarità dei personaggi. I responsabili dell’iniziativa si augurano che questo progetto possa avere seguito, in tempi in cui la lettura è messa molto in discussione ed è un settore sempre più soppiantato dalla tecnologia. I dati sono molto preoccupanti. Si parla addirittura di 4 italiani su 10 che leggono libri. E questi incontri mirano proprio a risvegliare il piacere di una sana lettura, soprattutto tra i giovani, la fascia che più si discosta da questa attività e ignora i benefici che da essa possono trarre. Un libro in fondo deve appartenere più a chi lo legge che a chi lo scrive. Antonio Fiore III D - Liceo Scientifico