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I Balcani dopo la cattura di Mladic
C’era
una volta
la Jugoslavia
testo di Matteo Tacconi foto di Ignacio
L
Coccia
Vent’anni fa, nelle regioni croate della Krajina,
della Lika e della Slavonia, serbi e croati iniziarono a farsi la guerra. Le conseguenze del conflitto pesano ancora su queste terre: villaggi
fantasma, rivoluzioni demografiche, profughi
mai rientrati e fabbriche abbandonate. Viaggio
oltre le linee del fronte della guerra che ha ucciso la Jugoslavia.
ungo la statale che conduce a Knin tagliando le
vallate carsiche della Krajina, marca arida e brulla della Croazia schiacciata tra il litorale dalmata e la Bosnia, si susseguono casolari diroccati, chiesette
che cadono a pezzi e borghi disabitati. La strada costeggia la ferrovia che portava un tempo a Belgrado, ora non
più in funzione. Nelle stazioni abbandonate, tra binari
arrugginiti e spiazzi polverosi, s’aggirano cani randagi.
Il cielo è plumbeo e il vento che arriva delle montagne
dinariche, le cui sagome tozze si stagliano prepotenti all’orizzonte, ulula a pieni polmoni scuotendo i rami spogli degli alberi. La Krajina ha tutto l’aspetto di una terra
di nessuno. L’impressione è che la vecchia linea del fronte serbo-croato, sebbene siano trascorsi vent’anni esatti
dallo scoppio della guerra tra Zagabria e Belgrado, passi
ancora di qui.
Il conflitto, la grande scossa che fece capitolare la Jugoslavia, fu inevitabile. Gli uomini forti dei due Paesi,
Franjo Tudjman e Slobodan Milosevic, la vedevano in
maniera opposta. Il primo puntava all’indipendenza dalla Jugoslavia, ormai divenuta una “Serboslavia”. Il secondo a creare una Grande Serbia federando tutti i territori
balcanici dove i propri connazionali costituivano lo zoccolo duro della popolazione. Krajina, Lika e Slavonia, le
tre regioni croate che contavano una significativa presen-
za serba, con punte più o meno forti, dovevano dunque
finire sotto il controllo di Belgrado.
Milosevic armò i serbo-croati, li ubriacò di propaganda e incoraggiò nel 1990 la nascita di un’entità autonoma in Krajina, a trazione ultranazionalista e con Knin,
capoluogo regionale, capitale. Piazzò al potere i più devoti lealisti e creò una milizia, guidata da Milan Martic.
La risposta di Tudjman fu la Costituzione del dicembre
1990, che revocò ai serbi una discreta manciata di diritti. L’anno dopo arrivò la dichiarazione d’indipendenza.
Knin proclamò la controsecessione e inglobò Lika e Slavonia (lo Stato fantoccio prese il nome di Repubblica serba di Krajina) con l’ausilio dei militari e dei paramilitari di Belgrado, che provarono a spostare il fronte in avanti, scatenando l’artiglieria su Dubrovnik, Zadar, Sisak,
Vinkovci, Karlovac e persino Zagabria. Tudjman mise in
piedi in fretta e furia un esercito, cercando di contenere
l’offensiva e giurando di riprendersi più avanti le terre
scippate. A ogni costo.
A confronto l’altra guerra che si combatté in quell’anno, tra Serbia e Slovenia, fu una bazzecola. Durò appena
dieci giorni e Milosevic, visto che da quelle parti i serbi
si contavano sulle dita di una mano, ci s’imbarcò soltanto a scopo dimostrativo. È che fingendo di impedire l’indipendenza di Lubiana volle mandare un messaggio preciso ai croati: scordatevi Krajina, Lika e Slavonia.
DOSSIER
ka come un rullo compressore (il 15 aprile il Tribunale
penale dell’Aja sull’ex Jugoslavia l’ha condannato a 24
anni di reclusione per crimini di guerra), queste terre si
svuotarono. Per almeno 200mila serbi scattò l’esodo. La
metà non ha più fatto rientro. Knin divenne una città fantasma e Zagabria, bramosa di croatizzarla e di farne il
simbolo della riscossa, la ripopolò mandandoci a vivere
i connazionali scappati dalla guerra di Bosnia e alcuni
coloni provenienti dalla stessa Croazia, ai quali diede casa e lavoro, riferisce Dragan Gligora, giornalista in forza
a Radio Knin.
La testata trasmette dalla stessa palazzina dove fino al
1995 ha operato l’emittente di regime serba. L’edificio
ospita inoltre un’università, una biblioteca e una scuola
di musica. Gli sforzi profusi dal governo per fornire servizi ai nuovi abitanti di Knin sono stati notevoli. Ma più
che di servizi c’è bisogno di lavoro. Gli impieghi pubblici, infatti, non bastano a dare uno stipendio a tutti, l’eco-
I tassisti di Knin
rrivo a Knin. La guerra ha trasfigurato la città, a
livello demografico. Oggi la maggioranza è nettamente croata. In passato, invece, il 90% della
popolazione era composta dai discendenti dei serbi che,
esuli dalla Bosnia conquistata dagli ottomani, vennero
ingaggiati dagli Asburgo come gendarmi di frontiera, in
cambio di terre da coltivare. I miliziani di Martic, nel ’91,
fecero piazza pulita dei croati, stanandoli dalla loro case, esortandoli alla fuga o, peggio ancora, massacrandoli. Qualche sventurato rimase a lungo rinchiuso nel carcere della città vecchia, oggi un ammasso di edifici pencolanti, appollaiato ai piedi della rocca che domina Knin
dall’alto.
Dopo la riconquista da parte croata, avvenuta nell’agosto 1995 con l’Operazione Tempesta, orchestrata dal generale Ante Gotovina, che passò sulla Krajina e sulla Li-
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I Balcani dopo la cattura di Mladic
nomia privata non decolla e le fabbriche, dopo la guerra,
non hanno più riaperto. Fa eccezione la Tvik, storico produttore di materiali ferroviari. Ci sgobbano però appena
300 operai, rispetto ai 3mila dell’era prebellica.
I profughi serbi tornati dopo il ’95, circa il 20% dei
15mila residenti, faticano ancora di più a sbarcare il lunario. Anche se il loro diritto al ritorno è stato grosso modo garantito, scontano la croatizzazione e devono arrabattarsi alla meglio. «La vedi quella macchina?», mi dice Marko Kalat, la mia guida in città, indicando una vettura sgangherata che sfreccia sulla strada che porta in
centro. «Al volante c’è uno dei tassisti privati serbi di
Knin. Se qualcuno deve andare in Serbia salta su, si fa
accompagnare e poi si fa venire a riprendere». La prestazione è senza fattura, chiaro.
Gli affittacamere della Lika
a Knin a Korenica, nel cuore della Lika. Mi lascio
dietro una schiera di contrade, sia croate che serbe, piene di case vuote. L’unica oasi in questo deserto è Gracac, borgo devastato da Gotovina, ora rimesso
nuovo e frequentato da cacciatori. Italiani, in particola-
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re. S’acquartierano nelle riserve della zona e impallinano quaglie e beccacce, m’informa un tizio che ospita nel
suo casolare i cultori dell’arte venatoria.
Un’altra mezz’ora di tragitto e giungo a Korenica. Lungo la lama d’asfalto che seziona questo centro abitato di
2mila anime (prima del conflitto erano il doppio) spuntano numerosi cartelli multilingue che reclamizzano
stanze private in affitto: rooms, zimmer, camere, sobe,
chambres. L’ampia offerta di alloggi non deve sorprendere. Questa porzione di Lika è uno dei luoghi più turistici del Paese. I 16 specchi d’acqua, le foreste e le cascate del vicino parco naturale di Plitvice calamitano ogni
anno migliaia di visitatori. La gente del posto, mettendo
la propria dimora a disposizione dei vacanzieri, trova così modo di raggranellare qualche soldo.
Il turismo è una risorsa, ma anche, forse soprattutto,
una necessità. Perché in zona il lavoro è un’emergenza.
Qualcuno rimpiange i vecchi tempi della Jugoslavia,
quando a Korenica, racconta Milan Prica, affittacamere
serbo, c’erano cinque aziende statali che davano da mangiare a tutte le famiglie, si stava tranquilli e non mancava nulla. Il conflitto ha scombussolato tutto, annientan-
do le infrastrutture economiche, drenando la popolazione e rimescolando, come a Knin e come in tutti i vecchi
distretti serbi della Croazia, gli equilibri etnici.
Fu proprio nella Lika che ci s’iniziò a sparare addosso: il 31 marzo 1991, la domenica di Pasqua, davanti alla biglietteria di Plitvice. Quel giorno caddero il poliziotto croato Josip Jovic e quello serbo Rajko Vukadinovic, le
prime due vittime della guerra. Percorrendo il sentiero
ricoperto di foglie umide, che si srotola subito dopo l’ingresso del parco, s’arriva al memoriale, un massiccio cilindro di metallo luccicante, eretto in nome di Jovic. Non
c’è nulla, invece, a ricordare la morte di Vukadinovic. La
memoria, qui come nel resto dei Balcani, è ancora monopolio indiscusso dei vincitori.
L’Hiroshima croata
unga tirata fino alla Slavonia, passando da Zagabria e percorrendo tutto il fianco orientale della
Croazia, spianato dal fiume Sava. Dopo sei ore
ecco Vukovar, città bagnata dal Danubio al confine con
la Serbia. I segni della guerra sono ancora visibili, molto
più che altrove. Il tessuto urbano è disseminato di rude-
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ri e le pareti delle case che non sono state rase al suolo
sono ancora sfregiate dalle crepe causate dalle granate.
Negli ultimi tempi sono stati ricostruiti alcuni edifici, tali e quali a com’erano una volta, in stile barocco. Emergono, posticci, in mezzo a una selva di caseggiati sbrindellati.
Il conflitto toccò a Vukovar il suo apice. Il 25 agosto
1991, 50mila militari serbi strinsero d’assedio la città,
presidiata da una sparuta guarnigione croata composta
da appena 1800 uomini. Malgrado la netta inferiorità numerica, resistettero fino al 18 novembre. Quasi tre mesi.
Incredibile. «La difesa di Vukovar è oggetto di studi persino all’accademia militare americana di West Point», mi
spiega Cristian, guida del memoriale che sorge nella vicina frazione di Ovcara, dove i serbi, nei cortili di un’ex
azienda agricola, giustiziarono 264 civili. Qui i presidenti croato e serbo, Ivo Josipovic e Boris Tadic, si sono incontrati nell’aprile 2010, in uno dei più bei gesti riconciliatori del dopoguerra balcanico.
Serbia e Croazia hanno fatto passi da gigante, da questo punto di vista. A stimolarli è stata la comune causa
europea, con Zagabria pronta a entrare nell’Ue nel 2013
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e Belgrado sempre più sulla giusta carreggiata.
Il bilancio dell’assedio di Vukovar fu spaventoso:
22mila profughi, 50mila case distrutte, tre miliardi di
dollari di danni e almeno 1700 morti, molti dei quali riposano nel cimitero monumentale di guerra, una radura
piena di filari di croci bianche situata ai margini del centro abitato. Lo visito e m’imbatto in una comitiva di pellegrini-patrioti venuti da Zagabria, che depongono corone di fiori sui sepolcri di Ivo, Mato, Mijo e Niko Soljic,
quattro fratelli, martiri della causa croata, che morirono
in difesa di Vukovar.
Con la caduta della città si chiuse la prima fase della
guerra. Zagabria e Belgrado stipularono un cessate il fuoco sponsorizzato dall’Onu, che all’inizio del ‘92 inviò nei
territori in mano ai serbi un contingente incaricato di garantire lo status quo. Nei tre anni successivi il campo di
battaglia si spostò in Bosnia, dove Tudjman e Milosevic
continuarono a farsi la guerra, salvo poi accordarsi, in segreto, per spartirsi il Paese e ghettizzare la maggioranza
musulmana. La guerra in Croazia riprese con la vittoriosa campagna di Gotovina nella Krajina e nella Lika. La
Slavonia, invece, rimase sotto amministrazione Onu fino al 1998, quando venne riassegnata a Zagabria.
Tutti, a Vukovar, hanno una storia da narrare. Zeljko
Diberto, nella cui locanda pianto le tende, afferma che in
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quei tre mesi d’assedio Vukovar «era ridotta come Hiroshima» e rammenta gli anni trascorsi come profugo a Norimberga, dove ha lavorato nei capannoni della Siemens.
Mirjana Dermadi, direttrice di Radio Vukovar, ricorda di
come riuscì miracolosamente a tagliare la corda, incinta, prima della resa del 18 novembre. Andrika Mikic, presidentessa del Center for Peace, rievoca la Vukovar jugoslava, «città modello dove convivevano decine di etnie
– croati, serbi, bosniaci, cechi, ucraini, austriaci, ungheresi, albanesi, ebrei – e il 60% dei matrimoni erano misti». Quel mosaico di popoli è un ricordo lontano.
Anche da queste parti, solita storia: spopolamento,
croatizzazione e rientro limitato dei profughi serbi. Consola, comunque, il fatto che tra maggioranza e minoranza i rapporti siano cordiali. Non consola, invece, lo stato dell’economia, che non va. In quest’ottica la vicenda
della Borovo, il più grande complesso calzaturiero della
Jugoslavia, dice tutto.
Nel 1991 sfornava 23 milioni di paia di scarpe e impiegava 23mila operai. Adesso l’output è di cento volte inferiore e le maestranze ammontano a poco più di mille
unità, barricate all’interno dell’unica officina tornata a
produrre. Le altre, reperti giurassici scarnificati dalle
bombe, giacciono silenziose in quell’immenso ossario industriale che è il perimetro della Borovo.
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