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Dal malessere all’anomalia: La sposa di Mauro Covacich
di Claudio Cherin
Basterebbe la storia che tratta della morte di un’artista contemporanea – alle prese con una
performance che la vede in mezza Europa in autostop, che dà il titolo alla raccolta –, quella in cui si
descrive il bisogno di rimanere figli in eterno per puro egoismo, o il bisogno di essere amati, o il
racconto\resoconto di un processo in cui una madre ha ucciso il proprio figlio, o la fine di una vita –
che corrispondono ai racconti La sposa, Sterilità, Carla, Cattive madri e Un cuore in viaggio – per
fare della raccolta di racconti1 La sposa di Mauro Cocavich non solo un lungo ‘romanzo a pannelli’
sul malessere di cui è intriso il mondo, ma anche il ‘luogo’ in cui la scrittura penetra il mondo
contemporaneo che, sotto la sua superficie, si rivela sempre più complicato e crudele. E, soprattutto,
senza via di fuga.
Perché è facile diventare preda di qualcuno che apparentemente è innocuo. Siano essi assassini di
cui non si sospetta o addirittura una bomber, come accade nel racconto che si intitola Angela del
Fabbro.
Scrivere racconti o un ‘romanzo a pannelli’ intorno al malessere, nel quale si vive, diventa
l’unico modo per raccontare storie di realtà che, spesso, rimangono ai margini e di cui si finisce per
non accorgersi. Quello che ha fatto Covacich è, dunque, raccontare da entomologo un malessere di
cui non ci si accorge, se non troppo tardi.
Le piccole storie, le sottili inquietudini, le confusioni di cui sono prede i protagonisti de La sposa
e la scrittura chiara di Covacich ricordano i temi e lo stile delle short story scritte dall’inglese James
Lasdun della raccolta Incomincia a far male2. Covacich, come James Lasdun, non ha la pretesa di
raccontare il male del mondo, quello di Gadda o di Dürrermat o di Renzo Rosso 3 . Preferisce
raccogliere il malessere diffuso quello che precede il dolore opaco, quello che si farà tensione
filosofica e diventerà, poi, nodo morale. Lo scrittore si è già confrontato con questo ”nodo”: nel
romanzo A mio nome4, ad esempio, che ha come tema l’eutanasia; in Storie di pazzi e di normali5,
dove riflette sull’integrazione dei malati mentali nella società o ne L'esperimento6 dove si interroga,
sul divario tra immaginazione e realtà.
In alcuni tratti questi racconti ricordano nella loro bellezza i romanzi neri del francese André
Héléna, degli americani Lawrence Block e David Goodis, dell’argentina Samanta Schweblin o del
1
M. Covacich, La sposa, Milano, Bompiani, 2014.
J. Lasdun, Incomincia a fa male, Roma, Fazi, 2011.
3
R. Rosso, L’adescamento, Milano, Feltrinelli, 1953.
4
M. Covacich, A mio nome, Torino, Einaudi, 2011.
5
M. Covacich, Storie di pazzi e di normali, Bari, Laterza, 2007.
6
M. Covacich, L’esperimento, Torino, Einaudi, 2013.
2
francese Pierre Lamaitre – quegli scrittori che hanno fatto, insomma, della follia umana materiale
per i loro libri –, ma Covacich si ferma un istante prima: racconta storie in cui i protagonisti
convivono con un malessere che non riconoscono ancora, da cui sono divorati, a cui non sanno
ancora dare un nome, sebbene stiano diventando o siano diventati vittime o carnefici.
Gli assassini de La sposa o di Cattive madri, ad esempio, si risveglieranno dal torpore che li ha
presi, solo una volta che verranno processati e condannati (forse). Nel momento in cui lo scrittore
triestino li descrive sono ancora sopiti, come storditi, avvolti dal torpore del malessere che li ha
invasi.
Covacich ha cercato di raggiungere una ‘scrittura di confine’, in cui non si riesca a comprendere
fino a che punto l’invenzione sia tale e dove, invece, nasca dalle storie di cronaca nera sentite o
tratte dai giornali. Ma ha anche tenuto fede alla letteratura triestina, che ha sempre avuto il bisogno
di raccogliere e raccontare storie su cui si staglia il malessere esistenziale. Svevo, Saba, Quarantotti
Gambini, Mattioni, Stuparich, come Covacich oggi, hanno scritto di turbamenti adolescenziali, di
fallimenti umani, di esistenze minate dalla nevrosi. La scrittura di Covacich dà ai lettori l’idea di
essere sospesi tra fiction, cronaca nera e invenzione acuta e cruda, sospensione che non accadeva
più di provare dai tempi della pubblicazione della raccolta di racconti i Buio di Dacia Maraini7.
Un discorso a parte lo merita il racconto intitolato La casa dei lupi, in cui si narra di un uomo
che vive nella solitudine più totale con due lupi, un maschio e una femmina che «per lui sono
parenti, compagni di classe. E lui per loro? Il lupo alfa»8. L’equilibrio, «la gerarchia del branco»9,
che si costruisce tra i tre viene turbato, prima, leggermente, poi, del tutto dalla presenza di una
donna, di nome Damiana, che entra nel cuore del solitario uomo, e che diventa «il nemico nel
piccolo cervello della lupa» 10 . L’arrivo della donna nella casa viene visto come una minaccia
dall’animale femmina che finisce per sbranarla.
Ogni scrittore dovrebbe avere un bestiario «rintracciabile nelle sue opere o nascosto nel proprio
immaginario», ha scritto Raffaele La Capria11, e Covacich con questo racconto – forse il migliore
della raccolta –, non solo parla di animali, come prima di lui hanno fatto altri (Apuleio, Virginia
Woolf, Kafka, Bulgakov, Doris Lessing, Veza Canetti, Pia Piera, 12 Parise, La Capria, Wajdi
Mouawad, per citarne alcuni), ma fa comprendere come questi siano né più né meno come gli esseri
umani: condannati a vivere nel torpore di un malessere esistenziale. Sono lo specchio degli umani
come accade spesso anche in Kafka, che, come sostiene Irene Kajon, «identifica immediatamente la
7
D. Maraini, Buio, Milano, Rizzoli, 1999.
M. Covacich, op. cit., pag.127.
9
M. Covacich, op. cit., pag.127.
10
M. Covacich, op. cit., pag.131.
11
R. La Capria, Guappo e altri animali, Milano, Mondadori, 2007, pag. 9.
12
P. Piera, La bellezza dell’asino, Padova, Marsilio, 1992.
8
vita degli animali con la vita dell’uomo»13. Muti e incattiviti dalla vita ristretta che sono costretti a
vivere, forse consapevoli, anche loro, di essere in un luogo complesso, come quello della terra
brulla del Friuli. Animali che rispecchiano il sociale, quindi? Forse. I lupi di Covacich sono molto
diversi dagli animali satirici di Bulgakov, critico del sistema dell’Unione sovietica, dall’ironico
cane Flush della Woolf, dal simbolismo della fragilità umana propria del pavone di Lawrence14,
molto meno affabili e umani degli animali della Lessing 15, molto lontani dallo sguardo candido di
Pia Piera, molto meno fragili di quelli del bonario (nei Sillabari) Parise, molto meno espressione di
un «concentrato di vita allo stato puro» di La Capria16.
Difficilmente i lupi di Covacich porteranno gli uomini a confrontarsi con la Storia, come accade
nel romanzo di Veza Canetti, ambientato poco prima della Seconda guerra Mondiale, in Austria,
quando stanno per entrare in vigore le leggi contro gli ebrei e i tedeschi hanno occupato la città,
intitolato Le tartarughe17, in cui queste sono il simbolo non solo della progressiva segregazione
degli ebrei da parte dei nazisti, ma anche animali designati sui cui gusci alcuni tedeschi ariani
vorranno tatuare le croci uncinate in onore di Hitler). O come accade nel romanzo, Anima, di Wajdi
Mouawad 18 , in cui un delitto (una donna incinta uccisa brutalmente da uno sconosciuto) viene
“narrato” dagli animali che diventano il ‘luogo’ attraverso il quale gli uomini si confrontano con la
maledizione della Storia (nel romanzo, che nasce come un giallo, il protagonista scopre che l’uomo
che crede suo padre non solo ha fatto parte dell’armata cristiana che, durante la guerra del Libano
del 1982, hanno ucciso la popolazione araba, ma ha ucciso e stuprato prima di adottarlo i suoi
genitori e i suoi fratelli).
Nei lupi di Covacich l’assenza di linguaggio rimanda alla «condanna al silenzio perpetuo», come
ha scritto Jacqueline Risset, riferendosi alle metamorfosi di Ovidio
19
. Ma è anche la
rappresentazione della parte più istintuale che li contraddistingue, e che difficilmente gli uomini
possono illudersi di estirpare, addomesticandoli. I toni cupi della vicenda avvicina molto lo scrittore
non solo alla scrittura ferma e ossessiva di Patricia Highsmith20 (il suo Delitti bestiali può essere
stato una lettura di riferimento per l’autore), ma anche a quella spietata di Dafne Du Maurier in
Uccelli e altri racconti21, oltre che all’omonimo film di Alfred Hitchcock o a quello intitolato La
vita di Pi di Ang Lee. È la profondità dell’istinto e della brutalità, del branco, dell’idea ancestrale
del maschio alfa, che fa di questo un testo spietato e il luogo di invenzione stilistica e di inventiva.
13
F. Kafka, Josephine la cantante. Cinque storie di animali, Roma, Donzelli, 2000,
H. D. Lawrence, Romanzi, Milano, Mondadori, 1986.
15
D. Lessing, Gatti molto speciali, Milano, Feltrinelli editore, 2013.
16
R. La Capria, op. cit., pag. 9
17
V. Canetti, Le tartarughe, Padova, Marsilio editore, 2000.
18
W. Mouawad, Anima, Roma, Fazi editore, 2015.
19
M. Aymé, Le storie del gatto sornione, Roma, Donzelli editore, 2005, pag. IX.
20
P. Highsmith, Delitti bestiali, Milano, Bompiani, 2000.
21
D. Du Maurier, Uccelli e altri racconti, Milano, Il Saggiatore, 2008.
14
Sembra far riaffiorare quell’istinto di sopravvivenza e di paura propria dei nostri antichi e
lontanissimi progenitori, come si racconta in un bellissimo saggio di David Quammen, Alla ricerca
del predatore alfa. Il mangiatore di uomini nelle giungle della storia e della mente 22. Davvero lo
scrittore arriva ad afferrare e a descrivere non solo il malessere, ma anche lo scricchiolio della
mente, l’anomalia, quel qualcosa che si percepisce come distorto o deformante preludio di una
“vera” follia.
22
D. Quammen, Alla ricerca del predatore alfa. Il mangiatore di uomini nelle giungle della storia e della mente,
Milano, Adelphi Editore, 2005.