Il sorriso di Urbano Calcaterra si spinge fiducioso oltre

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Il sorriso di Urbano Calcaterra si spinge fiducioso oltre
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Il sorriso di Urbano Calcaterra si spinge fiducioso oltre l’obiettivo verso cui sta guardando. Attorno ai quarant’anni si
può ancora essere fiduciosi nei confronti della vita. Urbano
Calcaterra non guarda l’obiettivo, guarda oltre. La camicia
che indossa ha il colletto con le punte lunghe, come si usava
in quel periodo. A circa quarant’anni esibisce ancora una folta
chioma appena brizzolata, nella quale sembra di intravedere il vento di una giornata estiva al mare. Perché è il mare
quell’ombra grigioazzurra, sfocata, alle sue spalle. Forse è il
mare della Calabria, della Puglia, del Molise… No, non c’è il
mare in Molise, è una regione minuscola racchiusa tra altre
regioni più grandi: a sud la Campania, a ovest il Lazio… Ma
forse un lembo di Molise è affacciato sul mare… Vuoto di memoria, dovrò verificare. Calabria, Sicilia, Puglia…È tutta Terronia, sosteneva papà negli anni delle grandi migrazioni. La
paura dell’invasore sconosciuto. Il timore di perdere le proprie radici in una babele di linguaggi oscuri, impenetrabili.
Il miglior amico di mio padre era Vito Curallo, da Pachino,
a Sud che più a Sud quasi non si può, profonda Sicilia. Vito
Curallo e i suoi pomodorini. “Da dove arrivano questi aborti
di pomodori” si chiedeva papà con diffidenza, abituato ai mastodontici cuori di bue delle nostre parti. Roba da terroni. Poi
li cercava al mercato a prezzi da gioielleria, quando ancora
non erano di moda e solo qualche intraprendente commerciante di piazza li faceva arrivare dal Sud.
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Vito Curallo fu compagno di lavoro di papà e gli fece conoscere i pachino. Lui veniva da Pachino. Vito Curallo qui dentro non
c’è, è voluto tornare a casa, almeno da morto. È morto da cinque
anni, forse sei, o sono addirittura sette… Uno di quei mali.
Urbano Calcaterra a quarant’anni – circa – non poteva ancora presupporre che gli sarebbero rimaste poche estati di sorrisi.
Guardava oltre, lui, oltre la faccia della moglie intenta a inquadrarlo a mezzo busto sullo sfondo del mare, Sicilia, Puglia, Calabria… Calcaterra, uno di quei tipici cognomi locali, magari
di origine contadina: Zappaterra, Calcaterra… Un regalo di
battesimo dell’Italia unita alle manovalanze senza patronimico
del Sud liberato. Garibaldi era padano? Avrebbe riconosciuto
come proprie le pretese di secessione delle mandrie vestite di
verde che celebrano i riti di un passato inventato in cui non
c’era Italia ma nemmeno Padania, nemmeno Veneto o Lombardia? Garibaldi voleva unire, non dividere. Forse. Chissà. Anche
il passato è un’ipotesi.
Urbano Calcaterra sorride, ma non sorride alla moglie –
sempre che sia stata la moglie a scattare la foto – e i lembi di
colletto della camicia bianca spiccano sparati come le lame di
due coltelli da cucina. Lui sorride al futuro, perché è estate ed
è vacanza ed è tornato a casa dai parenti, al Sud. Forse lui e
la moglie sono dello stesso paese, si conoscono fin da quando
erano bambini, si sono promessi già a dieci anni, sono emigrati insieme quassù a Torino per cercare un futuro a qualche linea di montaggio della Fiat. Quando gli hanno scattato
questa foto alla Fiat si produceva ancora la 127? Forse erano
già passati alla Ritmo, forse Urbano Calcaterra e sua moglie
e i suoi figli – due, quasi certamente – erano tornati in vacanza a casa dei parenti a bordo della Ritmo nuova fiammante.
Per questo sorride, guarda oltre la moglie, là verso la vettura
luccicante parcheggiata sulla piazzola, fermiamoci qui che si
vede già il mare, ti scatto una foto… I figli salutano dall’abitacolo. Due figli, che a Torino la vita costa cara, c’è lavoro ma
si deve vivere a testa alta, non si può fare i pezzenti, c’è il mutuo da pagare e i figli bisogna mandarli a scuola, ormai tutti
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hanno il diploma e a scuola sono tutti uguali, figli di operai e
figli di capi reparto, tutti studiano perché il futuro ha bisogno
di gente “studiata”. Non basta più saper decifrare a stento i
titoli dei giornali come i nonni giù al paese, che ai loro tempi
era già tanto finire la terza elementare.
Urbano Calcaterra non ha studiato molto, forse non ha neppure terminato le medie, ma a Torino ha trovato lavoro, dopo
quindici anni è già operaio di quinto livello, forse riuscirà a
diventare responsabile di linea. Lui si impegna e dà il meglio di
sé, perché non è vero che tutto ci è dovuto, bisogna guadagnarseli il pane e il rispetto. E poi non sarebbe così male poter ringhiare ordini a tutti quei colleghi che arrivano dalle province
più oscure alzandosi alle quattro per il turno del mattino e che
ti chiamano “napuli” o “terrone mangiacarrube”. Cosa mangiano loro, quelle facce spente e livide di Bruzolo, di Vaie, di
San Benigno Canavese o di Portacomaro, che strisciano giù dai
treni pendolari alle cinque e si trascinano in fabbrica con i baracchini pieni di minestrone e patate bollite? Urbano Calcaterra
diventerà responsabile di linea entro i quarantacinque anni, e
sarà quella la sua piccola vendetta sulle pattuglie sperdute e assonnate di polentoni che hanno accettato un oscuro destino al
Lingotto accanto a una catena di montaggio, loro che i campi li
avevano belli e comodi e facilmente irrigabili e li hanno mollati
al primo offerente per avvitare dadi e bulloni e morire presto
di noia e di nostalgia…
Calcaterra Urbano
1933 - 1979
Sarai sempre nei nostri cuori
Moglie e figli
Il sorriso non è andato molto più in là di quell’estate.
Cos’è che ti ha fatto morire, Calcaterra Urbano, a quarantasei
anni, senza più futuro, senza più carriera, senza più pensione
tranquilla al paese, senza più niente di niente?
A questo punto, di solito, passo oltre.
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Gli ho dato un destino, gli ho ricostruito una storia, ho
immortalato nella memoria il momento esatto di quell’istantanea che è diventata il passaporto ufficiale per superare
l’ultimo confine.
I fiori sulla tomba sono di plastica. Scoloriti dal sole e dalla
pioggia. In un quarto di secolo si dimenticano anche i sorrisi di
una bella estate al mare. Fiori freschi solo il giorno dei morti,
quando questi viali diventano vasche da passeggio per i doveri
della circostanza. Fiori freschi forse anche al tuo compleanno.
Forse viene tua moglie con uno dei figli, magari c’è anche un
nipote, vedi, quello era nonno Urbano, tu non lo hai conosciuto, hai visto com’era bello? È a lui che somigli, dice tua moglie,
ed è così che continui a vivere, nell’ipotetica somiglianza con
un nipote che non hai conosciuto, che si muove in una società
che non hai conosciuto, giocando con strani giochi tecnologici
che non hai conosciuto, chissà se li avresti apprezzati, o magari
avresti scosso la testa ancora piena di capelli, tutti bianchi, e
avresti detto “ai miei tempi”, convinto che a settant’anni suonati puoi aver diritto più che mai di esprimere la tua opinione.
Ma sarebbero cambiati anche per te, i tempi, e non sai quanto, e
non credo ti farebbe piacere fare i conti con i soldi a fine mese,
tentare i confronti con un rapido calcolo di valore tra lira ed
euro, scoprire che tutto costa il doppio e che la tua pensione di
responsabile di linea – ce l’avevi fatta, infine – vale poco più di
quella di un manovale dei tuoi tempi.
Ai miei tempi.
Ai miei tempi si possono trascorrere anche così, le ore di
vuoto. A febbraio i viali del cimitero sono spogli ma non malinconici. Qui tutto è fermo in un eterno presente in cui cambia
il colore dei contorni ma non cambia il panorama. La magnolia
tra le tombe di De Pasquale Maria, 1919-1997, e Ferrero Roberto, 1921-2003, sembra ancora lo scheletro di un albero di cartapesta in una modesta scenografia teatrale. Tra un mese o poco
più sarà un’esplosione di fiori rosati e carnosi, uno spettacolo breve ma degno di applausi. I fiori cadranno sulle tombe,
come un regalo. Prima di Roberto Ferrero, fino alla settimana
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scorsa, qui era sepolto Barovero Leonardo, 1885-1963. Scaduti
i quarant’anni dalla sepoltura i resti vanno a finire in un loculo
dell’ossario, se i parenti sono consenzienti e se ci sono ancora
parenti in vita. Altrimenti si sparisce per sempre, anche dalla
memoria estemporanea di chi passa e lancia uno sguardo distratto alla tomba, alle date. Le tombe dei grandi rimangono
eterne e non mancano mai i fiori freschi. Leonardo Barovero
non era Charles Baudelaire, non era neanche Jim Morrison. È
morto mentre crescevano i Beatles, si è perso tutto, ma ognuno
di noi è destinato a essere presente in una ininfluente parte di
tutto, e non è detto che sia la parte migliore del tempo assoluto
quella che ci è toccato vivere.
A febbraio passeggiare qui dentro di mattina è un respiro
nel silenzio. La città si spegne alle spalle appena varchi il
grande cancello di ferro battuto. Neanche un’eco, niente, di
quell’incessante fragore metallico che ti accompagna come
un sottofondo. Come se una immensa mano invisibile chiudesse l’audio al mondo, e il mondo diventasse questo spazio
vuoto, pieno di vite che hanno esaurito il loro tempo, la loro
storia. I miei passi risuonano sordi sull’asfalto delle corsie di
transito, crepitano leggeri sulla ghiaia dei vialetti, si spengono per il tempo necessario davanti a una fotografia, a un
nome, una data o una dedica che suona stonata come un
saluto improvvisato. Forse non esistono i suoni e le parole
adatti all’addio perfetto.
«Lei ha molti parenti, qui» mi disse Crepaldi un paio d’anni
fa, all’inizio del mio nuovo pellegrinaggio.
«Sono tutti miei parenti» gli risposi quella volta.
Crepaldi sgranò i suoi occhi solitamente spenti in una domanda muta. Non conosco il suo nome di battesimo, la targhetta di riconoscimento che porta appiccicata a sinistra, quasi
appoggiata sull’addome a forma d’anguria, è talmente antica e
sciupata che vi si legge appena il cognome, sotto una fototessera in cui un giovanotto ben fornito di baffoni, capelli scuri e
basette chilometriche. Fissa attonito l’obiettivo come un malvivente appena arrestato.
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«Sono anche suoi parenti» aggiunsi. «Basta mettersi lì e
ricordare».
Crepaldi lavora all’ingresso del Cimitero Parco da sempre,
appena più tardi di quando lo hanno inaugurato, nei primi
anni Sessanta. Un immenso luogo di ritrovo nelle campagne a
sud di Torino, con vista sulle Alpi. Gli iscritti al club dell’eternità si sono moltiplicati a dismisura nei decenni, la città arriva a
lambire le mura, capannoni color catarro spuntano tutt’intorno
come monumenti progettati da un incubo.
«Miei parenti?»
Rimase dubbioso, allarmato, a valutare la pericolosità della
mia affermazione. Sul suo tavolino di fianco all’ingresso, a ridosso degli uffici destinati ai visitatori, non c’era nessuna arma
con cui difendersi, solo un quadernone sul quale registrava i
prestiti delle biciclette e una tabella con gli orari dei vari funzionari degli uffici. Mai che io abbia visto una ressa per conferire con qualche impiegato. I problemi dei defunti non riguardano più i vivi, una volta archiviata la pratica.
«Tutti siamo parenti di tutti» dissi.
Guardando la figura raffazzonata, il faccione tondo a vagamente avvinazzato, la giacca blu aperta senza scampo sul ventre dilatato, i quattro peli grigiastri rimasti aggrappati al cranio
chiazzato di voglie, si potrebbe pensare che quel tesserino malconcio appartenga a qualcun altro.
«Magari a un morto» dissi.
In quel periodo – due anni fa - avevo l’abitudine di esprimere ad alta voce la conclusione di certi pensieri. Avevo ventinove
anni ed ero stato appena licenziato dal mio dodicesimo lavoro
a tempo determinato. Dodici occupazioni provvisorie in cinque anni, alcune pessime, altre dignitose, un paio appaganti e
illusorie. Specie la penultima – l’undicesima – presso l’ufficio
stampa di una nobile casa editrice torinese. I tre mesi iniziali
erano diventati sei, poi nove e poi dodici. Dopo un anno è fatta,
mi rassicuravano le colleghe d’ufficio. Simpatiche, disponibili.
Una – Loredana – si rivelò disponibile anche in situazioni più
intime. Ero l’unico maschietto in quell’ufficio di relazioni pub14
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bliche con il mondo della carta stampata. Parlavo con scrittori,
giornalisti e critici letterari e tutti mi davano del tu. Dopo un
anno fui convocato presso l’ufficio del personale e la dottoressa Gonella mi comunicò che la crisi del settore non consentiva
all’editore un’assunzione a tempo indeterminato. Mi regalarono le ultime novità uscite in libreria e mi augurarono buona
fortuna. Avevo le mie buone motivazioni per concludere i pensieri ad alta voce.
Il tesserino di riconoscimento, ovviamente, apparteneva proprio a Crepaldi, un Crepaldi giovane e irsuto, con lo sguardo
smarrito e comunque aggressivo del colpevole preso in trappola. Erano semplicemente passati trent’anni abbondanti.
«L’anno prossimo andrò in pensione» mi ha detto qualche
settimana fa.
Ormai siamo quasi amici, dopo due anni, così come ero diventato quasi amico di Tullio Fioravanti, uno degli addetti alla
sorveglianza del Cimitero Monumentale di corso Novara.
«Perché?» si era rammaricato Fioravanti, il giorno in cui gli
avevo comunicato che là dentro non ci avrei più messo piede,
se non a mia insaputa.
«Vado a conoscere qualcun altro» gli avevo risposto.
Tracimava un’aria offesa dal suo sguardo leggermente strabico. Due anni di pellegrinaggi quasi quotidiani dovevano risaltare come una garanzia di fedeltà, ai suoi occhi.
«Qui ho avuto tutto il tempo per fantasticare sulla mia Spoon
River» aggiunsi. «Niente di personale».
«Io cambierò cimitero prima del suo pensionamento» ho risposto invece all’annuncio di Crepaldi. «Almeno da vivo posso farlo».
Crepaldi è robusto, rubicondo e sovrappeso. Soffre di cuore e
di ipertensione. Fuma, beve e si ingozza di cibo malsano. Dalla
pensione al suo ritorno qua dentro non dovrebbe intercorrere
un lungo lasso di tempo.
Dopo le prime volte, in cui mi seguiva valutando le mie soste
accanto a tombe diverse, ha concluso forse che appartengo a
una qualche categoria di studioso, di quelli che ricavano grandi progetti da attività oscure e all’apparenza inutili. Quando
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oltrepasso la soglia dell’ingresso, solleva lo sguardo dal quadernone e mi lancia con la mano un torpido segnale di benvenuto. Ogni tanto scambiamo qualche battuta meteorologica,
altre volte ci segnaliamo a vicenda le negligenze degli addetti
alla manutenzione, ma come un dato di fatto sul lassismo autorizzato dei nostri tempi. Lui, d’altronde, è ingrassato come un
bue dietro quella scrivania, fingendosi occupato in un lavoro
che è una specie di giustificazione a riempire di vuoto le ore
della giornata.
Sono trascorsi quasi due anni dal primo incontro con Crepaldi e con i destini nascosti dietro i nomi e le fotografie. Due anni
in cui ho avuto modo di raggiungere quota sedici nei lavori
senza futuro, di fidanzarmi con Elisa Trevisan e di sentire le sue
parole fredde e lontane mentre mi abbandonava al mio destino
inconcludente. Due anni in cui mio padre e mia madre hanno
espresso le prime serie preoccupazioni sulla mia permanenza
in casa con loro.
«Hai trent’anni» mi ha detto la mamma l’anno scorso, il giorno
del mio compleanno. Più che un augurio sembrava una considerazione, sul fatto che a quell’età continuassi a dormire nella mia
cameretta di sempre e a condividere i pasti insieme a loro due.
«Trent’anni» rincarò a sua volta mio padre, come se in quel
breve lasso di tempo me ne fossi dimenticato.
Più che una compagnia sono un peso, è lecito ammetterlo.
Contribuisco alle spese di casa ma cerco anche di mettere in
piedi una modesta autonomia, regalando porzioni consistenti
dei miei stipendi occasionali a un’agenzia assicurativa, per garantirmi la remota illusione di una pensione da fame.
«Cosa conti di fare?» disse mia madre, appollaiata in bilico
sul bordo del mio letto con le mani abbandonate in grembo.
La mamma ha sessantaquattro anni e fa di tutto per dimostrarli. Si taglia i capelli da sola da quando l’euro e l’aumento
spropositato del costo della vita hanno immiserito il potere
d’acquisto della pensione di papà, col risultato di sembrare
un’ospite in fuga da un ospedale psichiatrico. Ciuffi color
topo morto schizzano come saette da ogni lato della testa, e
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non basta l’intervento rettificante di mio padre con le forbici a
ridimensionare i danni.
«Dove devo andare ormai?» si giustifica lei, fissandomi con i
suoi grandi occhi verdi. Quelli sono rimasti giovani, luminosi,
ma come persi in fondo a una inarrivabile malinconia.
«Cosa conti di fare?» ripeté quella volta mio padre, che ha
preso il vizio di ribadire i concetti della moglie, una sorta di
eco involontaria.
Mi studiavano attenti, come se quel giorno avesse potuto trasformarsi per loro in un’occasione ufficiale di libertà o come se
una magia improvvisa avesse reso autonomi tutti i trentenni
facendoli sparire in qualche luogo lontano e irraggiungibile.
L’isola dei trentenni perduti.
«Salvo qualche pausa forzata ho sempre lavorato» risposi.
Attraversavo proprio uno di quei periodi di pausa forzata,
tra un licenziamento e una nuova occupazione provvisoria.
Uno dei più lunghi, visto che durava da oltre un mese. Avevo
rifiutato un posto da operatore scolastico – ex bidello, in parole povere – un altro da operatore ecologico – ex spazzino, in
parole altrettanto povere – e un terzo da addetto alle fotocopie
presso un grande ufficio notarile, in attesa di qualcosa di meno
mortificante. La mia laurea – puntuale, dignitosa, ottenuta nei
tempi canonici – si era rivelata un inutile pezzo di carta in un
mondo di tecnologie veloci e specialisti del nulla.
«Una o due lingue ormai le conoscono cani e porci» mi
fece notare un funzionario addetto ai colloqui preliminari
presso l’ufficio assunzioni di una ditta farmaceutica – e la letteratura straniera non fa parte dei prodotti che lei dovrebbe
vendere per conto della nostra azienda. A noi servono forze
giovani, pelo sullo stomaco, faccia tosta e insistenza da far
impallidire un testimone di Geova. Lei ha l’aspetto remissivo
del compratore da infinocchiare, più che la grinta del venditore di fumo. Anche quello occorre saper vendere, se si vuole
sopravvivere in questo mondo… A proposito di letteratura
straniera, lei che se ne dovrebbe intendere avrà letto il Codice
Da Vinci. Un capolavoro, vero?
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Fu l’unica volta in cui abbandonai un colloquio sbattendo
la porta.
Appartengo al mondo, mi ripetevo un po’ melodrammatico
in quei giorni, ma il mondo non mi appartiene più. Nel frattempo si andava ingrossando l’esercito dei precari e andava
aumentando la loro età media. Non riusciva a consolarmi il fatto di essere sempre più in buona compagnia.
«Forse la Fiat tornerà ad assumere» disse mio padre.
Per lui che vi aveva lavorato trentacinque anni, ogni auto
venduta costituiva un segnale di ripresa. La Fiat gli è rimasta
nel cuore, così come l’illusione che possano rifiorire i tempi delle assunzioni di massa, delle colonie estive al mare per i figli
dei dipendenti – quasi potesse ancora iscrivermi – o delle rimpatriate in cui l’alta dirigenza radunava il gregge degli ex lavoratori per ringraziarli con un pranzo in stile mensa aziendale
e una medaglia di latta. Per mio padre continuano a rimanere
questi i simboli di un’antica dignità industriale. Lui fa orgogliosamente parte di un manipolo di sopravvissuti all’epoca
delle trasformazioni e dei ridimensionamenti. Gli Anziani Fiat
sono un piccolo esercito che guarda al passato come al tempo
delle utopie di riscossa consacrate dall’alto. La sua tessera di
Anziano Fiat gli garantisce sconti di cui lui quasi mai usufruisce, visto che non va mai da nessuna parte.
«Dopodomani ho un colloquio» tamponai, per tranquillizzare lui e la mamma.
Rimanevano là entrambi a fissarmi con rassegnata ostinazione, ma non sparivo in nessuna nuvola magica.
«La povera nonna Eugenia ti aiuterà. Fai bene ad andarla a
pregare» disse mia madre.
Colse la perplessità del mio sguardo.
«La signora Nives del terzo piano ti ha incrociato un paio di
volte al cimitero… Sai che è rimasta vedova sei mesi fa… Vedrai,
nonna Eugenia ti darà una mano da lassù» e indicò il soffitto. Al
piano di sopra abitava il signor Mainolfi, quasi novantenne e paralizzato da una raffica di ictus. Ovviamente la mamma indicava
qualcosa più in alto, ma feci istintivamente le corna.
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La signora Nives e il signor Osvaldo. Terzo piano – su sette – del nostro modesto condominio operaio di via Garessio.
Uguale ad altre due dozzine di condomini operai costruiti
all’inizio degli anni Sessanta e offerti in acquisto con mutuo
agevolato al personale della Fiat o delle ditte di Torino che
lavoravano comunque per la grande mamma putativa delle
umili maestranze sabaude.
Non mi ero ancora recato sulla tomba del signor Osvaldo.
D’altronde lo conoscevo troppo bene, c’era poco da fantasticare su una sua improbabile vita da agente segreto, scrittore
dimenticato, amante tradito. Io esploro i destini sconosciuti
e li ricreo dentro di me. Per me, ma anche per loro, che mi
fissano – quasi sempre immortalati in un remoto sorriso –
dall’ovale sulla lapide. Forse cerco solo conferme sul fatto
che, prima o poi, anche i più ricchi e i più fortunati finiranno
lì a sorridere all’eternità. A quel punto avrà un’importanza
relativa la sontuosità dell’ultima dimora.
Nel corso dei miei pellegrinaggi avevo scoperto volti estranei
e profili familiari: il professor Vittori del liceo, il dottor Pavesio
che aveva curato le mie influenze di bambino un po’ cagionevole, la maestra Elena Maghenzani della quinta elementare,
ma anche Baldini Vincenzo, 1972-1994 e Santovito Piergiorgio,
1971-1988, compagni di scuola dei quali non avevo più avuto
notizie. Si ritrovavano sorrisi lontani e smarriti, passeggiando
lungo i viali.
«È vero» sospirai, fingendo uno sguardo contrito, affranto.
«Ho pregato nonna Eugenia perché mi mandi il suo aiuto da
lassù. Sono davvero mortificato, ma vedete anche voi com’è…
La crisi, le scelte della politica, la libertà di assumere e licenziare senza criterio, le richieste assurde di un mercato che pretende trentenni ricchi di esperienza senza dargli modo di farsela,
l’esperienza…»
«Se fossi un perito industriale…» sussurrò mio padre, scuotendo la testa.
O un perito meccanico, tecnico, informatico, dipende dalle
circostanze. Comunque specializzato in un settore da camice
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bianco, come dice lui, facendo un unico fascio di medici, infermieri, tecnici di laboratorio e scienziati nucleari.
«Non sono un perito di nessun genere e prometto che me ne
andrò di qui…»
La pausa a effetto ravvivò i loro sguardi afflitti per un attimo
di inarrivabile speranza.
«Sì, me ne andrò non appena avrò ottenuto un posto fisso.
Ve lo prometto».
I miei genitori si guardarono sospirando all’unisono, come
se avessero dovuto rimandare all’infinito il loro futuro di libertà. Orge, sesso sfrenato, cocaina e alcool, festini con ammucchiate e riprese amatoriali di rapporti intimi acrobatici. Sorrisi
al pensiero. Da troppo tempo le molle del loro antico lettone
matrimoniale avevano smesso di cigolare.
«Trent’anni» ripeté ancora una volta mio padre, come se per
tutto quel tempo avesse contribuito ad allevare un serial killer.
«Comunque, questo è il nostro regalo» disse la mamma,
allungandomi una busta bianca stropicciata. Probabilmente l’aveva recuperata da un cassetto della cucina o della mia
scrivania.
La cifra poteva sembrare modesta, ma calcolai rapidamente che ormai costituiva quasi un quinto del reddito mensile di
mio padre, che a suo tempo si era ritirato dal lavoro con “una
signora pensione”, come si vantava la mamma con le amiche.
Adesso, nel giro di un paio d’anni, si era trasformata in una
rincorsa per sopravvivere senza perdere dignità.
«Grazie. Non era il caso. Qualcosa guadagno comunque, lo
sapete. Sto davvero cercando di rendermi autonomo, sarebbe
incoraggiante anche per la mia vita privata…»
Frequentavo ancora Elisa Trevisan e sognavo di portarmela
davvero a letto in un posto che non fosse la sua camera da signorina perbene, in cui dovevamo fare sesso quasi in levitazione per non stropicciare malamente le lenzuola.
«Tempi duri» ammise papà.
«Tempi che cambiano» aggiunse la mamma. «Pensate che
piove anche a Roma».
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Sempre più spesso saltava fuori con quel paragone, come
per tenere vivo un remoto ricordo di sole e di giornate serene,
luminose. Le giornate del loro viaggio di nozze, maggio 1968. Il
maggio francese da un lato, il maggio romano dei miei giovani,
euforici genitori dall’altro. Non so quale sia finita peggio, di
quelle due illusioni.
Restammo in silenzio a fissare il pavimento, come se potessimo
cogliere il rumore delle gocce di pioggia sui tetti della capitale.
«Bene, io esco con Elisa» annunciai, mettendo fine alle meditazione collettiva.
Mi apprestai a uscire, mi voltai con loro due ancora impalati nel dubbio sul mio futuro, magari anche sulla loro recuperata libertà.
«Dimenticavo, questo mese non ho ancora versato il contributo per le spese di casa» aggiunsi, restituendo la busta dei
soldi a mia madre.
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