pagina 1 - Fausto Biloslavo
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ANNO XIII NUMERO 225 - PAG 3 EDITORIALI Dottrina Sarkozy Tbilisi, Mosca e Kabul. Così l’Eliseo anticipa l’Europa che vorrebbe L a Francia ha subito le sue più gravi perdite dall’inizio della guerra in Afghanistan, ma la morte per mano dei talebani di dieci soldati di Parigi non ferma la “totale determinazione” di Nicolas Sarkozy. Il presidente francese ieri ha annunciato il suo arrivo nella capitale afghana per assicurare ai militari che “la Francia è al loro fianco” e dimostrare la volontà di proseguire l’impegno per sconfiggere il terrore. Nessun piagnisteo, perché la guerra è guerra, anche se è asimmetrica o fatta di imboscate e attentati. Nessun nascondersi dietro missioni di pace: i soldati sono in Afghanistan per combattere i talebani e sono stati uccisi compiendo “il loro dovere fino al sacrificio supremo”. Nessun vociferare di ritiro o di riduzione del contingente, ma la conferma della promessa fatta al vertice della Nato di Bucarest in aprile che un battaglione in più sarà presente per rafforzare la missione Isaf. “La Francia è risoluta nel proseguire la lotta contro il terrorismo, per la democrazia e per la libertà”, ha detto ieri Sarkozy: “La causa è giusta, ne va dell’onore della Francia e delle sue forze armate di difenderla”. In altre parole, sostenere l’Afghanistan nel suo abbozzo di democrazia e stabilizzazione rende necessaria questa guerra, per quanto lunga, dolorosa e drammatica. Come ha più volte spiegato Sarkozy, “è dovere di tutti i democratici aiutare il popolo afghano. La sua vittoria è la vittoria di un mondo libero” contro il totalitarismo islamista e a favore di un islam di pace e tolleranza. Volando immediatamente a Kabul, come a Mosca dieci giorni fa per interrompere l’aggressione russa contro la Georgia, Sarkozy accenna all’Europa che non c’è: gli Stati Uniti d’Europa con obiettivi geostrategici chiari, valori davvero universali e la schiena dritta. Mentre Germania, Italia e Spagna si trincerano nelle regioni pacifiche in Afghanistan, i francesi, i britannici e gli est europei combattono – e muoiono – al fianco degli americani nel sud e nell’est afghani. Mentre a Berlino si litiga sulla politica russa, Roma è in vacanza alle Maldive e Madrid se ne infischia, Sarkozy media un cessate il fuoco in Russia, Londra minaccia le relazioni con Mosca e la Nuova Europa corre in soccorso a Tbilisi. L’Europa e la sua politica estera rimarranno uno sogno fino a quando tutti i suoi membri non capiranno che, in questo mondo di nuove potenze e persistente islamismo, ci vuole una leadership coraggiosa come quella di Sarkozy. Serve un debito pubblico europeo Bruxelles può ancora stimolare la crescita, se ascolta il governo francese I l premier francese François Fillon si è rivolto al presidente di turno dell’Unione europea, che è il suo presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, chiedendo un piano europeo di rilancio dell’economia della comunità. Nel secondo trimestre Eurolandia ha registrato un declino del pil e si avvia verso un diagramma piatto nel terzo. Anche l’economia francese nel secondo trimestre è regredita, dello 0,3 per cento, e nel terzo potrebbe crescere dello 0,1 evitando per un soffio la recessione (cioè due trimestri negativi). Per stimolare l’economia Sarkozy sarebbe pronto ad accettare un deficit francese superiore al 2,5 per cento programmato. Ma Fillon difende il rispetto dei parametri stabiliti. Chi altro, dunque, può rispondere all’appello di Fillon e favorire un’espansione della domanda a livello europeo? La Germania, con la Bundesbank, rifiuta le politiche di stimolo economico a carico del bilancio pubblico, nonostante l’economia tedesca nel secondo trimestre abbia registrato una diminuzione del pil di mezzo punto percentuale. La priorità deve essere la lotta all’inflazione. Solo con la riduzione della fiammata inflazionista, secondo la Buba, l’economia tedesca potrà riprendersi. Ma a Berlino non tutti sono d’accordo su questa linea. E’ probabile che le proposte degli espansionisti e le resistenze dei rigoristi si elidano a vicenda e che il contributo tedesco al rilancio europeo sarà molto limitato. La sola possibilità di una politica europea d’espansione, quindi, sta in un programma specifico dell’Unione, con la propria spesa pubblica, utilizzando come strumento la Banca europea degli investimenti. Questa istituzione potrebbe emettere dei prestiti garantiti dall’Unione per finanziare programmi di investimento in infrastrutture di interesse europeo, che potrebbero anche essere cofinanziati da privati e, forse, dai governi dei paesi membri. Economisti prudenti come Alberto Quadrio Curzio hanno da tempo avanzato questa proposta. Ma finora il Consiglio e la Commissione europea non hanno avuto coraggio di impiegare questi strumenti in funzione anticiclica. E’ il momento di farlo, se non si vuole ridurre l’Europa a una mera espressione geografica. Si è lavorato di più, ora si lavori meglio La generosità dei salariati richiede altrettanto impegno dalle aziende I dati statistici di luglio mostrano che in Italia si è lavorato di più. L’assenteismo nel pubblico impiego è crollato, anche per effetto della battaglia del ministro Brunetta, le ore lavorate nel settore privato, dove sono stati ridotti i balzelli sugli straordinari e sui premi di produzione, sono cresciute del 13 per cento, nonostante una congiuntura declinante. Al sistema ancora un po’ rudimentale d’incentivi e di sanzioni messo in opera dal primo decreto governativo i lavoratori hanno risposto con generosità. Vuol dire che la strada è giusta, ma che deve essere percorsa per intero. Alla mera valutazione quantitativa delle ore trascorse sul posto di lavoro si deve affiancare un sistema un po’ più sofisticato di valutazione dell’effettiva produttività, soprattutto ma non solo nel pubblico impiego. Il decreto temporaneo sulla detassazione delle parti del salario riferite alla produttività deve diventare l’ingrediente di un nuovo sistema contrattuale, nel quale l’impegno a rendere migliore il lavoro si esprima anche in maggiori garanzie per la sicu- rezza, in tutele più consistenti per il lavoro non permanente, in un sistema di aggiornamento tecnico e professionale che elevi la qualità delle prestazioni e migliori la posizione del lavoratore sul mercato. In cambio dello sforzo che hanno dimostrato di saper compiere, ai lavoratori deve essere fornita una qualità migliore del lavoro. Alle mamme lavoratrici va prestata un’attenzione particolare, a cominciare dai nidi aziendali e interaziendali. Alla flessibilità richiesta nelle prestazioni deve corrispondere una flessibilità offerta, in termini professionali, di impiego del tempo libero, di opportunità di crescita personale. Il lavoro deve cessare di essere una maledizione (ancorché detassata) per diventare una sede di affermazione della personalità, e questo richiede dal governo e dalle aziende, come d’altra parte dai sindacati, un atteggiamento meno fiscale, che riconosca il valore dello sforzo compiuto dai lavoratori e lo renda permanente, premiandolo sia sul piano del reddito sia su quello della sicurezza. IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 20 AGOSTO 2008 Sulla cartina Obama ha più strade per vincere,McCain solo una ECCO LA ROVE MAP SCRITTA DALLO STRATEGA DI DUE TRIONFI ELETTORALI. LE POSSIBILITÀ DI SUCCESSO DEI CANDIDATI New York. Mancano settantasei giorni alle elezioni presidenziali americane del 4 novembre, cinque alla Convention democratica di Denver che nominerà Barack Obama e dodici a quella di Minneapolis-St.Paul che lancerà ufficialmente la sfida del repubblicano John McCain. Tradizionalmente gli americani cominciano a prestare attenzione ai candidati e ai loro programmi dopo Labor day, la festa del lavoro che negli Stati Uniti si festeggia il primo lunedì di settembre. Ma già adesso i sondaggi sono quotidiani e gli osservatori più attenti come lo stratega elettorale di George W. Bush, Karl Rove, sono già in grado di fotografare nel dettaglio lo stato della corsa con una cartina colorata che parla da sola. Probabilmente già domani, al più tardi nel weekend, Obama sceglierà il suo vicepresidente che, salvo sorprese (Al Gore? Hillary Clinton? un repubblicano?), dovrebbe essere uno tra il senatore Joe Biden, esperto di politica estera, il senatore centrista dell’Indiana Evan Bayh, il governatore della Virginia Tim Kaine, il senatore del Rhode Island Jack Reedl’ex senatore ed esperto di proliferazione nucleare Sam Nunn. La scelta è importante perché il vice colma le debolezze del candidato alla Casa Bianca oppure aiuta a conquistare uno degli stati in bilico e decisivi per la vittoria elettorale di novembre. Il repubblicano McCain risponderà tra due venerdì, in Ohio, il giorno dopo della fine della convention di Obama. Nella sua lista di possibili vicepresidenti ci sono il governatore del Minnesota Tim Pawlenty, l’ex governatore della Pennsylvania Tom Ridge, l’ex sfidante Mitt Romney, l’ex direttore dell’Ufficio del Budget e rappresentante del Commercio estero Rob Portman e il senatore del Sud Dakota John Thune, ma McCain potrebbe puntare anche sul senatore democratico Joe Lieberman (già candidato vicepresidente nel 2000, con Al Gore), la giovane governatrice dell’Alaska Sarah Pahlin, il trentaseienne governatore indoamericano della Louisiana Bobby Jindal e l’ex presidente di eBay Meg Whitman. Negli ultimi giorni, McCain non ha escluso la possibilità di nominare un vice pro-choice, cioè favorevole al diritto all’aborto, facendo alzare le quotazioni di Ridge e Lieberman, anche se la scelta di annunciare il candidato vicepresidente in un comizio in Ohio fa pensare a Portman, ex deputato di Cincinnati. Oggi la corsa verso la Casa Bianca vede Obama leggermente in testa. Tutti i sondaggi degli ultimi mesi, da prendere con le molle, sono favorevoli al senatore democratico. Le ultime rilevazioni nazionali danno un vantaggio di 2 o 5 punti a Obama. Nelle ultime settimane, la differenza si è assottigliata e, complice un cambio di vertici e di strategia, la campagna McCain ha cambiato marcia, ha regolato il proprio messaggio, attacca duramente Obama e si prepara a spendere 96 milioni di dollari nei prossimi dieci giorni. ton, non è ancora riuscito a convincere in pieno la “classe lavoratrice bianca”. I boss locali del Partito democratico affidano al Times la loro preoccupazione: Obama parla di cambiamento, ma non di cose concrete e per questo non riesce a trovare una connessione reale con gli elettori comuni. C’è tempo, spiegano gli obamiani, la campagna elettorale non è ancora cominciata. McCain, lunedì lodato a sorpresa da Bill Clinton per le sue posizioni ambientaliste contro il surriscaldamento terrestre, sta cercando di recuperare con parole d’ordine po- I commentatori liberal e numerosi dirigenti democratici cominciano a essere preoccupati perché, considerato lo straordinario fenomeno Obama e la quantità di soldi raccolti, a questo punto i numeri dovrebbero essere molto più favorevoli al senatore democratico, tanto più che l’impopolarità di George W. Bush è alle stelle (anche se comincia ad affacciarsi la pubblicistica revisionista). Se si aggiungono la percezione di vivere una recessione economica, la crisi dei mutui, le due guerre in medioriente e il prezzo della benzina, queste elezioni dovrebbero essere una passeggiata per i democratici. Senonché l’aver scelto un giovane e inesperto candidato di colore come Obama (ma la stessa cosa sarebbe successa con una donna così odiata da metà paese, come Hillary) le rendono molto aperte. Il senatore dell’Illinois, come si è visto alle primarie contro la Clin- puliste ma efficaci come “drill here, drill now”, trivelliamo qui, trivelliamo subito, per abrogare il divieto federale di cercare nuovi giacimenti di petrolio al largo delle coste americane e in Alaska. Obama e i democratici (ma un tempo anche McCain) sono contrari e hanno criticato il senatore repubblicano, ma due giorni fa la speaker della Camera Nancy Pelosi ha lasciato intendere che il partito potrebbe presto cambiare idea. La crisi internazionale tra Russia, Georgia e Nato – così come il miglioramento della situazione in Iraq, dovuto in gran parte alla nuova strategia del generale David Petraeus invocata da McCain e ostacolata da Obama – si riflettono nei sondaggi nazionali che segnalano la crescita del senatore repubblicano, anche perché sulle questioni di sicurezza nazionale McCain è considerato dagli elettori americani più af- fidabile dell’inesperto Obama. I sondaggi nazionali però non contano niente, dicono i manager del team Obama. Il sistema elettorale infatti non elegge alla Casa Bianca chi ottiene più voti popolari nazionali, ma chi conquista almeno 270 Grandi Elettori, assegnati ai singoli stati dell’Unione sulla base del numero degli abitanti. In sintesi bisogna vincere negli stati, come spiega la cartina elaborata di Karl Rove. L’architetto delle ultime due vittorie presidenziali si è studiato tutti i sondaggi statali dell’ultimo mese e ha assegnato ciascuno dei cinquanta stati più Washington D.C. a McCain (in rosso) e a Obama (in blu) ovunque uno dei due candidati ha un margine di vantaggio superiore ai tre punti. Rove ha colorato di giallo gli stati dove la differenza tra i due candidati è minima, inferiore ai tre punti. La partita si gioca qui, in questi otto stati che, in totale, assegneranno 84 Grandi Elettori. Gli altri 43 stati, salvo sorprese, sono già al sicuro per l’uno e per l’altro, anche se la crescita di McCain si nota nel dimezzamento dello scarto in stati obamiani come il Wisconsin o New York. Se si votasse oggi, secondo Rove, Obama avrebbe 260 Grandi Elettori, contro i 194 di McCain, cioè sarebbe a un passo dalla quota presidenziale di 270. La cartina di Rove mostra come le strade di Obama per la Casa Bianca siano più d’una. Ora il dilemma della sua campagna è se perseguirle tutte e quindi puntare a una grande vittoria a valanga, oppure se concentrarsi sulla via più diretta per evitare che la dispersione di impegno, forze e denaro finisca per non fargliene imboccare nemmeno una. Obama può raccogliere i 10 voti necessari a diventare presidente vincendo in Florida (27 voti), in Ohio (20), in Virginia (13) oppure combinando i 9 voti del Colorado con i 5 del Nevada, i 4 del New Hampshire o i 3 di Montana e Nord Dakota. McCain, invece, deve vincere praticamente in tutti gli stati in bilico e può tentare soltanto in Michigan (17 voti) e forse in Pennsylvania (21) una difficile sortita nel campo obamiano. Al di là dei numeri di questi giorni, Rove crede che la Florida sia salda nel campo McCain e che, alla fine, saranno Colorado, Virginia, Michigan e Ohio i quattro stati che decideranno il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. Perché l’Algeria delle stragi è l’incubatrice della nuova al Qaida Algeri. “Un carnaio orrendo”. Così un testimone scampato alla strage descrive la scena dell’ultimo attentato di al Qaida in Algeria. Le quarantatre vittime della carneficina di ieri, in maggioranza giovani universitari, erano in fila davanti a una caserma di Issers per partecipare a un concorso della Gendarmerie Nationale. Un’automobile carica di esplosivo, guidata da un kamikaze, si è scagliata sulla fila ed è esplosa, creando un cratere di molti metri di diametro. Il testimone anonimo, ascoltato da France Presse, descrive così la scena: “Un orrore. Ero a bordo dell’autobus Orano-Tizi Ouzou e sono stato colpito da una scossa tremenda. Sulle prime ho pensato a un incidente ma subito dopo l’esplosione e la fiamma enorme mi hanno fatto capire che era un attentato. Tutto era avvolto in una coltre di fumo nero. Mi sono buttato dal finestrino e sono caduto su un cadavere schiacciato al suolo. C’erano cadaveri ovunque e qua e là brandelli di carne umana dell’attentatore. Feriti che si contorcevano dal dolore e correvano alla ricerca di e lance spezzate” riportano al senso dimenticato della guerra. Per molti L potrebbe sembrare una sorpresa, ma i conflitti di oggi, bollati con l’orribile termine di guerra “asimmetrica”, sono ben più di quelli che ci aspettavamo. Da una parte l’intento del libro è dimostrare “come nella dimensione militare moderna non ci sia più spazio per tutte quelle virtù, che al contrario, avevano da sempre caratterizzato il mestiere delle armi: coraggio ed acquisizione della gloria sui campi di battaglia”. Nella prima parte del libro si affronta infatti in maniera dotta e intrigante l’impatto della guerra sull’immaginario contemporaneo partendo dal passato e poi facendo slalom fra cinema e letteratura. Nella seconda si affronta invece il tema centrale del rapporto ambiguo fra la guerra e il politico di oggi. Il più delle volte timoroso o restio nel parlare del valore dei suoi soldati, che vengono sempre più spesso trasformati in “crocerossine” in armi, che al posto di fucilate dispensano caramelle per i bambini. Sminuendo così il ruolo di chi sta al fronte e ingarbugliando le idee all’opinione pubblica: convinta ad esempio che in Afghanistan i nostri soldati non sparino un colpo. Perché le missioni sono “di pace” e quindi le unità combattenti dovrebbero trasformarsi in reparti umanitari. Invece non è così, anche se rimane lodevole e bello l’impegno dei nostri militari negli aiuti a favore delle popolazioni locali. soccorso. Sono un miracolato”. Fra le vittime ci sono i familiari di un politico algerino che era andato a comprarsi le sigarette e aveva lasciato il padre, la madre e un fratello a tenere il posto nella fila. E’ il quarto attentato suicida compiuto in meno di un mese in Cabilia. Il 10 agosto otto civili sono morti in un attacco kamikaze contro una caserma, a Zemmouri El Bahri. Il 3 agosto, 25 persone sono rimaste ferite a Tizi Ouzou, il capoluogo della regione berbera; il 23 luglio un kamikaze a bordo di una moto si è fatto esplodere al passaggio di un convoglio dell’esercito a Lakdaria, settanta chilometri ad est di Algeri, ferendo tredici militari. Gli ultimi due attentati sono stati rivendicati da al Qaida per il Maghreb islamico (l’ex Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento). L’attentato di ieri, per le sue dimensioni e per la scelta dell’obiettivo, dimostra che è ormai pienamente riuscito l’inserimento del gruppo qaidista nelle tensioni etniche sempre più forti che l’assolutismo centralizzatore LIBRI Salvatore Santangelo LE LANCE SPEZZATE 311 pp., Nuove Idee, euro 15 Santangelo, classe 1976, giornalista di cultura superiore alla maggioranza dei colleghi, si addentra nel problema del rapporto fra guerra e politica di oggi. “Questa opera nasce da un astuto contrappeso rispetto al buonismo (…) di una imperante correttezza politica”, ponendosi in una posizione eterodossa sia rispetto al multiforme pensiero pacifista, sia nei confronti della guerra cosiddetta ‘giusta’ (dove l’elemento morale giustificherebbe un agire altrimenti considerato di per sé immorale)”. Forse più che “giusta” è stata “necessaria” anche la battaglia di Takur Ghar del 2002, descritta nel libro. Una delle più feroci fra i soldati americani e i resti dei talebani e di Al Qaida ancora forti sui monti non lontani dal confine con il Pakistan. Santangelo usa in maniera brillante la “geofilosofia”, ma utilizza pure battute da film famosi. Come “Black Hawk Down” sulla tragedia di una missione impossibile americana a Mogadiscio del regime di Algeri ha scatenato in Cabilia. I cabili non sono arabi ma berberi, popolazioni autoctone preesistenti all’invasione araba del Seicento dopo Cristo che hanno saputo mantenere una forte omogeneità etnica, tanto che nella regione si parla – come in alcune zone del Marocco e della Tunisia – la loro lingua millenaria, il Tamazight. Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, nel corso della campagna elettorale di due anni fa, aveva promesso ai cabili – scesi in piazza per anni per rivendicare forme di autonomia – anche la libertà d’insegnare la loro lingua nelle scuole. Promessa totalmente disattesa, assieme a quella di autonomia amministrativa e di riforma del codice di famiglia. Proprio l’assenza di politiche riformiste e la rigidità assolutista di un regime sostanzialmente controllato dai servizi segreti – continue sono le proteste dei media francesi per lo stato di vessazione cui è sottoposta la stampa algerina d’opposizione – hanno fatto fallire il progetto di ricordando che “i Delta portano gli oakley”. Ovvero che nella guerra di oggi e la sua rappresentazione scenica la punta di diamante dei corpi speciali americani non disdegna gli occhiali alla moda. Nell’ultima parte, “Memorie di uomini in armi” si torna alla vita e al racconto dei soldati di ieri e di oggi, vivo e tremendo. Per spiegare la guerra senza nascondersi dietro il paravento delle missioni di pace, perché quando serve si combatte, bisogna tornare ad ascoltare la voce semplice e diretta dei soldati, come un pugno nello stomaco. Dagli arditi della Prima guerra mondiale alle Falkland, o alla battaglia del Checkpoint Pasta. Oppure come la storia dei ragazzi della Compagnia A dei Granatieri della Guardia reale inglese, raccontata dal Times di Londra e dal Foglio. Soldati pronti a tutto che si sono affibbiati il nome di Spartani, perché “siamo dei veri guerrieri”. Il 7 settembre dello scorso anno hanno vissuto una notte d’inferno a Garmsir, nel Sud dell’Afghanistan. “Per dieci secondi è stata confusione totale – racconta un militare britannico – le raffiche mi passavano letteralmente davanti alla faccia. Pensavo veramente di morire. Avevamo di fronte dei buoni soldati. Poi ho visto la fiammata di un singolo colpo. Il talebano aveva illuminato se stesso sparandoci. Mi sono appoggiato sul ginocchio e ho tirato il grilletto, due volte, nella sua direzione. Ho sentito gridare e poi più nulla”. “grande riconciliazione nazionale”, lanciato da Bouteflika tre anni fa con la proposta di amnistia per i terroristi. Hanno, al tempo stesso, offerto ad al Qaida un fertile terreno d’intervento. Nuovi militanti terroristi provenienti dall’Afghanistan – dotati di molte armi e di molti fondi –, hanno riunito negli ultimi tre anni vari gruppi algerini, mauritani, ciadiani e marocchini in un unico complesso terrorista che ha modificato tattiche e strategie dei gruppi sopravvissuti alla guerra civile algerina, che tra il 1992 e il 1998 aveva fatto 150mila vittime. Alle piccole, ma continue, scaramucce d’usura contro i militari nelle zone periferiche, al Qaida ha sostituito una mezza dozzina di grandi attacchi l’anno, come quello che ha colpito, l’11 aprile 2007, il palazzo del governo ad Algeri (causando 30 morti), quello contro la caserma della Guardia costiera a Dellys dell’8 settembre 2007, quelli contro la sede delle Nazioni Unite e del Consiglio costituzionale ad Algeri dell’11 dicembre 2007 e ieri quello di Issers. 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