Il più famoso film di Serie B Il mondo oscuro di Cornell

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Il più famoso film di Serie B Il mondo oscuro di Cornell
I capolavori del Noir americano di serie B
Proiezioni. Letture. Musica. Incontri. Balerna, Sala ACP
Via S. Gottardo 102
12 ottobre 2007
Il più famoso film di Serie B
20.45
26 ottobre 2007
DETOUR (Detour), Edgard G.Ulmer, 1946
Il mondo oscuro di Cornell Woolrich
20.45
PHANTOM LADY (La donna fantasma), Robert Siodmak, 1944
Introduce Fabio Zucchella, caporedattore della rivista PULP Libri, traduttore e critico musicale
09 novembre 2007 Mi manda Tarantino
20.45
BIG COMBO (La polizia bussa alla porta), Joseph H.Lewis, 1955
23 novembre 2007 Pochi mezzi, molte idee
COMEBUCKLEY Concerto in tributo a Tim Buckley (progrock, jazzfolk)
22.15 THE NARROW MARGIN (Le iene di Chicago), Richard Fleischer, 1952
07 dicembre 2007 C’era una volta il noir (e Robert Mitchum)
20.45
THE NIGHT OF THE HUNTER (La morte corre sul fiume), Charles Laughton, 1955
Entrata a serata Fr. 10.– / Fr. 7.– per i membri ACP, Cineclub del Mendrisiotto e ridotti
(alla cassa è possibile acquistare la tessera di socio ACP a 40.– e CdM a 30.–)
Informazioni: 091 683 50 30
www.acpnet.org
grafica: www.mayasteiner.ch
20.45
Il lato B del sogno americano
Non so cosa significa il termine «noir». A quel tempo facevamo solo film. Cary Grant e le altre star della RKO
prendevano per loro tutte le luci e a noi non restava che illuminare i set con i mozziconi di sigaretta.
Robert Mitchum
Il titolo di questa quarta rassegna di cinema noir racchiude una
doppia apparente contraddizione: quella che possano esserci
capolavori di serie B e quella di individuare una serie B di un
genere nato anch’esso come tipico prodotto commerciale. In
effetti quello che verrà definito noir, ma che all’origine viene
chiamato piuttosto crime movie o gangster movie, nasce in parte
proprio per accompagnare film più famosi (la serie A) nelle doppie proiezioni dell’epoca. Sono film prodotti per fare quattrini
con investimenti minimi, realizzati sovente in una manciata di
giorni, sfruttando set di altre pellicole o esterni spogli e poco illuminati, demandati inizialmente, prima che le mayor intuiscano le
potenzialità commerciali del genere, a compagnie di produzione
minori (una su tutte la RKO di Val Lewton). Attori e registi sono
spesso degli emeriti sconosciuti (perlomeno al momento delle
riprese), sbarcati dal vecchio continente, in fuga dal nazismo,
esordienti o con carriere a un punto di stallo (nevvero Bogey?).
Eppure, nonostante i limiti, grazie al talento e alla libertà visionaria (non dimentichiamo che siamo in pieno maccartismo) dei
suoi autori – registi e attori, ma anche direttori della fotografia,
sceneggiatori di scuola hard boiled, compositori ecc. – questi
film così detti di serie B diventano ben presto per molti dei loro
artefici un trampolino di lancio verso la celebrità e costituiranno
uno dei capitoli più importanti della storia del cinema, destinato
a durare per quasi un ventennio (per convenzione dal 1941 al
1958) e ad essere frequentato e reinventato sino ai nostri giorni.
I film prescelti sono rappresentativi a loro modo di questo fenomeno portato all’eccesso laddove a mezzi sovente irrisori corrispondono riuscite di grande rigore e qualità artistica. Sono noir
che incarnano l’arte della sintesi, dell’ellissi e dell’allusione, che
anticipano tematiche scomode con linguaggi spregiudicati e che
ci affascinano per la loro congenita modernità stilistica. Visioni
di una città oscura e di una «folla solitaria» in cui gli individui,
persi i punti di riferimento identitari, rimangono esposti al caos
del mondo e della propria interiorità messa a nudo. Senza vie di
fuga. Come non riconoscersi?
Marco Galli
Cineclub del Mendrisiotto - Associazione Cultura Popolare
Detour
Detour, 1946, b/n, 69’, v.o. sott. it.
Regia Edgar G.Ulmer, sceneggiatura Martin Goldsmith, fotografia Benjamin H.Kline, musica Leo Erdody,
montaggio George McGuire, scenografia Edward C. Jewell, produzione Leon Fromkess per PRC,
interpreti Tom Neal, Ann Savage, Claudia Drake, Edmund MacDonald
Al Roberts (Neal), pianista in un night di New York, fa autostop per raggiungere la fidanzata Sue (Drake), partita a Hollywood a tentare fortuna. Lo sconosciuto che gli ha dato un
passaggio muore improvvisamente, ma Roberts, per paura di non essere creduto dalla
polizia, nasconde il cadavere e continua il viaggio coi documenti e i soldi del morto. Una
donna incontrata per caso, Vera (Ann Savag e, nei panni di una dark-lady da antologia), lo
smaschera e vuole coinvolgerlo in un ricatto. E così il viaggio verso la California prende
una deviazione inarrestabile e si trasforma in un incubo.
Costato la cifra irrisoria di 30‘000 dollari, questo noir emblematico è stato girato da
Ulmer, regista visionario e cult, con attori semi-sconosciuti in soli sei giorni e ambientato
per lo più su un’automobile, in strada e in una stanza d’albergo. Definito «il film di serie B
più famoso del mondo», Detour utilizza gli schemi del noir per innovarli profondamente,
rovesciandone la logica narrativa. Strutturato come un lungo flashback raccontato con la
tecnica del monologo interiore, il film è tutto costruito sul (vano) tentativo di dominare
una catena di eventi completamente irrazionali, che fanno precipitare il protagonista
– antieroe smarrito come pochi nella storia del cinema – in una serie continua di incongruenze, mirabilmente esemplificate nella scena dell’uccisione di Vera (filmata con un
indimenticabile piano sequenza di sei minuti). Un capolavoro dell’assurdo, dalle atmosfere kafkiane, come hanno evidenziato i critici, nella sua determinazione a spogliare la
vita di logica e stabilità.
Phantom Lady
La donna fantasma, 1944, 83’, b/n, v.o. sott. fr
Regia Robert Siodmak, sceneggiatura Cornell Woolrich (romanzo a firma William Irish), Bernard Schoenfeld,
fotografia Elwood «Woody» Bredell, musica Hans J.Salter, montaggio Arthur Hilton, scenografia John B.Goodman,
Robert Claworthy, produzione Joan Harrison per Productions Universal, interpreti Franchot Tone, Ella Raines, Alan
Curtis, Aurora Miranda, Thomas Gomez, Fay Helm, Elisha Cook Jr.
Scott Henderson (Curtis) è ingiustamente accusato dell’omicidio della moglie ma non ha
alibi: la sconosciuta con cui era al momento del delitto è scomparsa. Nessuno gli crede.
Solo la sua segretaria (Raines), innamorata di lui, cerca di discolparlo. Ma trovare la
«donna fantasma» significa rischiare la vita nei quartieri malfamati della downtown.
Da un romanzo di William Irish (pseudonimo di Cornell Woolrich), primo noir hollywoodiano di Siodmak, segna il passaggio per il regista tedesco dall’espressionismo al noir
ed è un film stupendamente congegnato e dalle atmosfere hitchcockiane (la produttrice
Johan Harrison era la sceneggiatrice di Hitchcock!). Siodmak, regista di talento (suoi i
capolavori I gangsters, La Scala a chiocciola e Lo specchio scuro), infonde al film uno
stile poetico moderno e di grande rigore formale (inquadrature perfette, fotografia mai
banale) riuscendo a riprodurre le atmosfere e le psicologie woolrichiane con i personaggi
mossi più da spinte irrazionali che da motivi plausibili, in equilibrio precario tra desideri
interiori e forze sociali repressive. Esemplare la discesa agli inferi della bella protagonista
che sconvolge i canoni del genere: la donna da preda si fa inseguitrice. Straordinaria la
capacità di Clatworthy (in seguito scenografo de L’infernale Quinlan e di Psycho) di utilizzare una scenografia volutamente astratta (il palcoscenico di un teatro vuoto, il parlatorio
del carcere che assomiglia a un ring, lo studio di uno scultore) per creare un universo
magico e tenebroso: una New York tentacolare di bar notturni, teatri e stanze d’albergo,
dove vive un’umanità solitaria, hopperiana. Indimenticabili i risvolti erotici della scena in
cui la Raines accompagna (verosimilmente drogata) il batterista, il bravissimo caratterista Elisha Cook Jr (doppiato per l’occasione dal grande Gene Krupa), a un’indemoniata
jam session.
The Big Combo
La polizia bussa alla porta, 1955, b/n, 89’, v.o. sott. fr.
Regia Joseph H.Lewis, sceneggiatura Philip Yordan, fotografia John Alton, musica David Raksin,
montaggio Robert Eisen, scenografia Rudi Feld, produzione Sidney Harmon per Security Pictures Inc. e Theodora
Productions, interpreti Cornel Wilde, Richard Conte, Jean Wallace, Brian Donlevy, Robert Middleton,
Lee Van Cleef, Earl Holliman, Ted De Corsia.
Il cinico tenente Diamond (Wilde) dà la caccia al mafioso Brown (Conte), capo di una
gang di killer spietati, spinto non solo dal senso di giustizia ma anche da una malcelata
invidia per il suo modo di vivere, nonché dalla gelosia per la sua donna (Wallace). La
resa dei conti avviene con una classica sparatoria in un hangar d’aeroporto invaso dalla
nebbia.
Condensato di ingredienti noir – gangster carismatici, poliziotti depressivi, killer senza
scrupoli, atmosfere notturne e levigate, dialoghi sofisticati – il film di Lewis è rimasto
celebre per il suo aspetto solforoso, stilizzato e moderno. L’oscurità dell’immagine (la
fotografia contrastata è del leggendario John Alton, alla sua prova migliore) nasconde
le scenografie a buon mercato, ma serve soprattutto ad esprimere drammaticamente gli
stati d’animo e le ossessioni dei protagonisti: ci voleva un grande regista per cesellare un
tale senso torbido di minaccia e di passioni sotterranee. Ambiguo – vedi la velata omosessualità dei due scagnozzi (Van Cleef e Holliman) e il sadomasochismo del rapporto tra
la Wallace e Conte, inimmaginabile per l’epoca – violento e ricco di idee di regia memorabili. Famose e innovative la sequenza di tortura, con un frenetico a solo di batteria
jazz, e quella in soggettiva – sia visiva che sonora – della morte di Brian Donlevy: Conte
gli strappa l’apparecchio acustico, così si vedono i bagliori degli spari, ma non si sente
il rumore: «You won’t hear the bullets». L’influenza su Le iene di Tarantino è lampante:
chiamerà Mr Brown, come il personaggio di Conte, uno dei gangsters torturatori (che
interpreterà lui stesso!).
The Narrow Margin
Le iene di Chicago, 1952, 71’, b/n, v.o. sott. fr.
Regia: Richard Fleischer, sceneggiatura Earl Fanton da un racconto di Martin Goldsmith e Jack Leonard, fotografia
Gorge E.Diskant, musica Francio Sarver, Clem Portman, montaggio Robert Swink,
scenografia Albert S.D’Agostino, Darrel Silvera, produzione Stanley Rubin per R.K.O,
interpreti Charles McGraw, Marie Windsor, Jacqueline White, Gordon Gebert, Queenie Leonard, David Clarke,
Don Beddoe, Peter Virgo.
Il poliziotto Walter Brown (McGraw) deve condurre in treno da Chicago a Los Angeles la
vedova (Windsor) di un gangster per farla testimoniare a un processo decisivo contro il
crimine organizzato: prima di arrivare a destinazione avrà molte sorprese sia sull’identità
di chi deve proteggere che su quella dei suoi nemici, che non gli daranno tregua. E i
margini diverranno sempre più... stretti.
Girato in soli 13 giorni e senza star da un maestro di Hollywood (Lo strangolatore di
Boston, 20‘000 leghe sotto i mari, I vichinghi), il film è un piccolo gioiello di tensione e
efficacia narrativa, tutto giocato tra le pareti claustrofobiche di un treno in corsa. A cominciare dalle primissime scene (dove il collega di Brown muore al suo posto per una banalissima casualità) fino al sacrificio finale della collega, si respira un’aria da terrificante
tragicommedia degli equivoci, dove la vita e addirittura l’identità delle persone sembrano non avere più nessun valore, specchio discreto ma inquietante della confusione,
più vasta e sotterranea di un’intera generazione. Ottima la regia, la direzione del cast, la
sceneggiatura a orologeria, i dialoghi abrasivi, l’uso innovativo della camera a spalla che
stringe sui personaggi e aumenta il senso di prigionia tra le pareti del treno (abilmente
ricreate in studio), la fotografia notturna e l’erotismo disilluso di Marie Windsor (attrice
poco conosciuta, ma molto amata dai cinefili per alcune splendide interpretazioni per
Kubrick, Polanski ecc.). L’effetto realista è accresciuto dalla colonna sonora senza musica
e composta solo dai rumori del treno e degli ambienti. Da annotare uno dei passaggi più
audaci della storia del cinema: dalle ruote della locomotiva ad una lima da unghie. Rifatto
nel 1990: Rischio totale (con Gene Hackman).
The Night of the Hunter
La morte corre sul fiume, 1955, b/n, 90’, v.o. sott. fr.
Regia Charles Laughton, sceneggiatura James Agee (Charles Laughton, non accreditato) dal romanzo di David
Grubb, fotografia Stanley Cortez, musica Walter Schuman, montaggio Robert Golden, scenografia Hilyard Brown,
produzione Paul Gregory, interpreti Robert Mitchum, Shelley Winters, Lillian Gish, Billy Chapin, Sally Jane Bruce,
Peter Graves, Evelyn Varden, James Gleason, Don Beddoe.
l predicatore psicopatico Harry Powell (Mitchum) sposa e uccide una vedova, cercando il
bottino di una rapina del marito. Novelli Hansel e Gretel, i due figlioletti (Chapin e Bruce)
fuggono lungo il fiume, attraverso un’America inquietante e onirica, trovando rifugio
presso un’anziana signora (Gish) che ospita trovatelli. Ma Powell è sulle loro tracce e
l’incubo continua.
Unica regia di Laughton, attore scespiriano e indimenticabile Quasimodo nel Notre-Dame
di Dieterle: sullo sfondo di un’America di provincia in cui tutti sono ossessionati dal
puritanesimo (Powell si rifiuta di consumare le nozze), è una fiaba nera girata con uno
stile folgorante che non ha eguali nel cinema dell’epoca. Laughton sembra ricapitolare
espressionismo e surrealismo in una sintesi personalissima dove l’orrore e il meraviglioso sono due facce di una stessa medaglia. Come se l’intera vicenda fosse il frutto
dell’immaginazione dei due bambini, la logica narrativa del film procede più per ardite
associazioni di idee e riferimenti metaforici che per rigorosa consequenzialità. Capace di
unire una sconcertante modernità ad una dimensione atemporale e archetipica, il film
è un potente atto d’accusa contro il fanatismo religioso e i falsi profeti. Un capolavoro
che però il pubblico e la critica non amarono e il cui insuccesso impedì a Laughton di
continuare la sua carriera di regista. Bellissima la fotografia contrastata di Stanley Cortez
(L’orgoglio degli Amberson), dalle luci maniacalmente posizionate al servizio della poetica del regista. Da antologia l’interpretazione sfaccettata di Mitchum (al punto più alto della
sua carriera noir), che porta tatuate sulle nocche le parole «Love» e «Hate», citate in numerose pellicole, e quella della diva del muto Lillian Gish, musa ispiratrice di David W.Griffith.
Forse la favola più bella e nera della storia del cinema: «Dream, Little One, Dream».
ComeBuckley – Concerto in tributo a Tim Buckley (progrock, folkjazz)
Andi Czech, voce e chitarra acustica
Martin Sturzenegger, chitarra acustica, arpa, seconda voce
Folksinger, compositore, genio incompreso, Tim Buckley è stato uno dei più grandi
cantanti della storia del rock. Il suo gioco intricato di gemiti, grida, vocalizzi angelici e
improvvisi sussulti ha introdotto un nuovo stile di canto, in bilico tra folk-jazz e psichedelica.
Andi Czech, cantante e compositore, è uno dei musicisti di riferimento della scena
rock sperimentale zurighese. Dopo una collaborazione con Veronique Su, con la quale
approfondisce la sua personale ricerca sulla vocalità, conosce un primo largo successo
di critica e pubblico nel 1987 con l’album «Comebuckley», primo tributo al songwriter
Non essendo stato possibile reperire tutti i detentori dei diritti delle pellicole,
gli organizzatori si dichiarano disposti ad assumersi eventuali spese ad essi correlati.
americano morto per overdose nel 1975, a soli 28 anni. Farà poi parte di alcune band
cult come i City Vibes e soprattutto i Radio Osaka, dalle sonorità indefinibili tra progrock,
newjazz e elettronica. Nel 2007 inizia con Veit Stauffer (RecRec) la realizzazione di un
secondo doppio album dedicato a Tim Buckley, pubblicato in ottobre e che verrà presentato a Balerna nella sua formazione congeniale: duo acustico, con il bravo chitarrista e
amico Martin Sturzenegger. Più di un tributo, quello di Czech, è, grazie ad una verve e ad
una vocalità fuori del comune, una vera emozionante rivisitazione.
http://www.timbuckley.com/
http://timbuckley.net/
http://www.radio-osaka.ch/