Ritiro quaresima 2016 - Tracce di Esperienza

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Ritiro quaresima 2016 - Tracce di Esperienza
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Ritiro di quaresima
Catania, 6 marzo 2016
1. La sincerità dell’ascolto
Il Ritiro deve iniziare con un moto personale di libertà e consapevolezza, con l’intento di usare e
ripetere le parole con sincerità, in modo che possano toccare la vita. Le parole toccano la vita
quando descrivono l’esperienza ed allora hanno un contenuto di memoria, oppure quando portano
un’attesa ed allora esprimono la preghiera. Che quello di oggi sia un momento di memoria e di
preghiera.
«Noi ci imponiamo alla realtà opaca solo se ripetiamo con sincerità certe parole. Gesù: posso essere
incoerente fino al midollo delle ossa, incoerente cento volte al giorno, ma è pronunciando questa
parola con sincerità che le cose incominciano a perdere la loro opacità, come se si disquamassero,
come la notte che passa dall’alba alla prima aurora» (Giussani, Esercizi della Fraternità 1995, p. 9).
È opaca la realtà che non lascia passare la luce, che non permette di accedere con certezza al suo
suo significato e che per questo lascia confusi ed incerti. Serve allora ripetere con sincerità la parola
Cristo, lasciare risuonare lungo le giornate le parole di Cristo e accogliere la parola che è Cristo.
Cristo è infatti la parola del Padre.
Il nostro è un Dio che parla e che si intrattiene con noi. Il formidabile inizio della Lettera agli Ebrei
ci ricorda che «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per
mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Ebr 1,1-2).
Dio ci parla nel Figlio: è Gesù Cristo la parola definitiva di Dio sull’uomo, sul mondo, sul destino.
Non possiamo imparare la verità della vita in un altro ascolto, ma solo nella sequela amorosa e
nell’accoglienza senza misura di Cristo, parola di vita.
Dio «nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si
intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum
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magnifico del suo amore per ciascuno di noi e per la nostra compagnia. Dio non ci lascia mai soli,
penetra nella nostra confusione per parlarci e così invitarci ad entrare nella comunione con Lui, per
avere la vita ed essere felici. Il senso e il frutto del nostro ripeterci le parole della fede è la
comunione.
Al Dio che parla, siamo chiamati a prestare l’«obbedienza della fede» (cfr Rm 1,5; 16,26). Nella
Scuola di Comunità siamo stati avvertiti dell’importanza dell’ascolto per il cammino della fede. «La
fede viene dall’ascolto» (Rm 10,17). I primi discepoli «sentendolo parlare così, seguirono Gesù»
(Gv 1,37).
La conoscenza associata alla parola è sempre una conoscenza personale, che riconosce la voce, si
apre ad essa in libertà e la segue in obbedienza. «Nell’aderire a qualcuno che ascolta, infatti, l’uomo
deve poggiare la totalità della sua persona sul “tu” di un altro» (Giussani, Perché la Chiesa, p. 103).
Inoltre, la conoscenza legata all’ascolto esige la pazianza, il trascorrere del tempo di cui la parola ha
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bisogno per pronunciarsi: è una conoscenza che s’impara solo come «termine di un abbandono, di
un amore» (Ibid., p. 104).
Nell’ascolto la conoscenza è connessa all’amore. S. Paolo afferma che «con il cuore si crede» (Rm
10,10). Il cuore, il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore, ci guida nell’ascolto della fede.
«La fede conosce in quanto è legata all’amore, in quanto l’amore stesso porta una luce. La
comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci
trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (Francesco, Lumen fidei, n. 26).
È l’amore che ci dispone alla conoscenza della verità.
Tutto questo per dire che la nostra confusione può diradarsi solo in un ascolto pieno di amore di
Cristo, parola del Padre, e nella ripetizione sincera delle parole che usiamo.
«Ascoltate oggi la sua voce: non indurite il cuore» (Sl 95,8).
2. La domanda di pietà
Un antico testo, per molto tempo attribuito erroneamente ad Agostino, immagina un dialogo in cui
si chiede al buon ladrone come abbia fatto, lui che non conosceva le Scritture e non aveva studiato,
a riconoscere il Salvatore in quel Gesù che pendeva dalla croce accanto alla sua. Il ladrone, dopo
aver confermato la sua ignoranza, dice: «Il Signore, che era lì presente, mi guardò e penetrò fino in
fondo ai segreti del mio cuore» (Ser. Caillau 2,60). Il racconto sembra la conferma di quanto ci ha
sempre insegnato don Giussani, ossia che riconoscere Cristo è facile, a causa della sua
eccezionalità: «è l’eccezionalità con cui appare la figura di Cristo ciò che rende facile riconoscerlo»
(Esercizi della Fraternità 2015, p. 69). Eccezionale è ciò che corrisponde alle attese del cuore, ciò
che sa leggere il suo segreto profondo.
Ma di cosa era costituito il fondo del cuore del buon ladrone? «Gesù, ricòrdati di me quando
entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Disma invoca pietà, vuole la salvezza eterna, chiede che Dio si
ricordi di lui. Così è il cuore dell’uomo: domanda la pietà della verità e del significato, la pietà della
felicità e dell’amore, la pietà della vita eterna. Dostoevskij mette in bocca a uno dei suoi personaggi
più miseri quest’attesa di pietà: «Bisognerebbe proprio che ogni uomo avesse almeno un posto dove
andare. […] Bisognerebbe proprio che ogni uomo avesse almeno un posto dove si abbia pietà di
lui!» (Delitto e castigo, parte prima, II).
Quanti uomini si accostavano a Gesù con questa richiesta di pietà! I dieci lebbrosi che a distanza
gridano: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!» (Lc 17,13); il cieco Bartimeo che lo sente passare per le
strade di Gerico: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!» (Lc 18,38-39); i due ciechi che gridano
dietro a lui: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi!» (Mt 9,27); il padre del ragazzo epilettico che gli si
getta in ginocchio: «Signore, abbi pietà di mio figlio!» (Mt 17,15). Che questo sia il segreto del
cuore dell’uomo sembra testimoniato dall’ultimo annotazione di Pavese nel suo diario: «O Tu, abbi
pietà».
È facile riconoscere Cristo per il suo piegarsi misericordioso verso di noi. Cosa è infatti la
misericordia? «Non è altro se non un caricarsi il cuore di po’ di miseria [altrui]. La parola
“misericordia” deriva il suo nome dal dolore per il “misero”. Tutt’e due le parole ci sono in quel
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termine: miseria e cuore. Quando il tuo cuore è toccato, colpito dalla miseria altrui, ecco, allora
quella è misericordia» (Agostino, Discorso 358/A). È facile riconoscere Cristo perché Egli carica il
suo cuore del peso della nostra miseria. «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi
darò ristoro» (Mt 11,28). Riconosciamo la presenza di Cristo in ogni abbraccio di misericordia.
L’intuzione che l’abbraccio di Cristo è il luogo dove un uomo possa andare e farsi vedere senza
vergogna, fa della vita un’inesauribile ricerca. «Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo
volto, Dio di Giacobbe» (Sl 24,6).
Lo scrittore argentino J. L. Borges, nella poesia intitolata Cristo in croce, scrive:
I piedi toccano terra.
Le tre croci sono di uguale altezza.
Cristo non sta nel mezzo. Cristo è il terzo...
Il volto non è il volto dei pittori.
È un volto duro, ebreo. Non lo vedo
e insisterò a cercarlo fino al giorno
dei miei ultimi passi sulla terra.
Insistiamo a cercare il Suo volto perché è un volto di pietà!
3. La grande miseria e la grande misericordia
In questo tempo di Quaresima, la Chiesa continuamente ci richiama alla conversione, al
cambiamento della vita. «Convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). L’invito di Gesù, con cui
inizia il vangelo di Marco, ci è stato rivolto personalmente, uno ad uno, il mercoledì delle ceneri.
L’invito alla fede è associato all’esortazione alla conversione.
Perché facciamo fatica di fronte al richiamo alla conversione e alla correzione? Ad esempio, il Papa
nell’udienza concessa alla Fraternità il 7 marzo 2015 ci invitò a non essere autoreferenziali, ad
andare incontro ad ogni uomo, a non adorare le ceneri ma a tenere vivo il fuoco. Possiamo in tutta
coscienza dire di aver accolto questo richiamo alla conversione come motivo di costante riflessione
personale e di dialogo comune?
La fatica ad accogliere il richiamo alla conversione - ci è stato detto agli Esercizi - è il segno che «la
nostra consistenza è ancora in quello che facciamo, in quello che abbiamo, cioè che ci siamo
spostati da Cristo. Perciò non c’è mai in noi pace, né letizia» (Esercizi della Fraternità 2015, p. 15).
La conversione esige una grande libertà interiore, quel «distacco da se stessi» reso possibile solo da
un amore alla verità più grande dell’idea che ce ne siamo fatta e quindi più grande dell’istinto a
difendere noi stessi. Non abbiamo paura della conversione se amiamo la verità più che l’immagine
di noi stessi. In questa libertà e in quest’amore fioriscono la pace e la gioia. La conversione esige un
sacrificio, che è reso possibile dall’«amore a noi stessi come destino, [dall’] affezione al nostro
destino» (Giussani, Il senso religioso, p. 44).
La conversione inizia con la coscienza del proprio peccato. Nel testo della sua Via crucis, don
Giussani scrive che «noi entriamo in rapporto con Cristo per la coscienza che abbiamo del peccato.
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Qui si attua la caduta senza fine in noi: nell’assenza della coscienza del peccato e nella coscienza
falsa del peccato, perché il rimorso, lo scetticismo non sono coscienza del peccato. Chi ha coscienza
del proprio peccato ha anche la coscienza della liberazione». D’altra parte, chi non ha coscienza del
proprio peccato, come può gioire all’annuncio pasquale della purificazione dai peccati? Un segno di
questa assenza della coscienza del peccato è l’abitudine di occultarlo con parole quali rimorso,
fragilità, limite. Per don Giussani l’assenza della coscienza del peccato manifesta «la caduta senza
fine in noi». In fondo, dietro a tante rivendicazioni di libertà che determinano anche l’agenda del
dibattito sociale e politico di oggi sta anche la volontà di liberare gli uomini dalla colpa, dal
sentimento del peccato. È ancora attuale la frase di Pascal: «Ecco i padri che tolgono i peccati del
mondo». Se non c’è alcuna colpa, è inefficace l’annuncio del perdono.
La coscienza del peccato è la dolorosa conoscenza di sé: la nostra libertà ha rifiutato Dio per
scegliere ciò un non-dio come scopo, ragione, metodo dell’azione.
La coscienza del peccato non è il malessere psicologico che avvertiamo in noi per i conti che non
tornano, ma la conoscenza dolorosa di aver scelto un non-dio come ragione di sé, speranza della
propria realizzazione. Abbiamo adorato un idolo al posto di Dio, abbiamo chiamato «Dio nostro»
l’opera delle nostre mani (cf. Osea 14,3). «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha
abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non
trattengono l’acqua» (Ger 2,13). Ecco il peccato: abbiamo abbandonato Dio, unica sorgente di vita,
e abbiamo cercato di trattenere la vita nelle opere dalle nostre mani (cisterne scavate da noi), dalle
cui crepe, però, essa scivola inesorabilmente via. Le opere che sono solo nostre sono come cisterne
screpolate che non possono trattenere l’acqua. La vita che volevano godere, scappa via da qualche
crepa.
Ancora nella Via crucis don Giussani ci ricorda che «noi siamo tra gli uccisori di Cristo come tutti
gli altri, ma lo siamo in modo assolutamente particolare com’è particolare il suo rapporto con noi».
Non dobbiamo scusare il nostro peccato, ma riconoscerlo. Insegnava Agostino: «Se il peccato ti
alletta, prima di tutto respingilo. Ma se ti ha già vinto, non scusarlo, ma piuttosto accusalo…
Grande misericordia chiede il grande peccatore. Grande medicina richiede la grande ferita»
(Agostino, Discorso 20,2).
La coscienza del peccato ci fa stare davanti a Dio nell’attesa della liberazione.
La miseria desidera la grande misericordia. All’abisso del male può corrispondere solo l’abisso
della misericordia di Dio. Per questo la Beata Elisabetta della Trinità scriveva: «Ama la tua miseria
perché su di essa Dio esercita la sua misericordia». L’ha detto il Papa proprio a noi: «Il luogo
privilegiato dell’incontro con Cristo è il mio peccato».
La coscienza del peccato mette l’uomo al cospetto del Dio vivo. Così accadde all’adultera del
vangelo, dopo che i suoi accusatori se ne andarono, uno dopo l’altro, avendo ascoltato la parola di
Gesù: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei: «Restò l’adultera e il
Signore, restò colei che era ferita e il medico, restò la grande miseria e la grande misericordia»
(Agostino, Esposizione sui Salmi, 50,8).
La conversione è stare davanti, nudi e senza difese, alla grande Misericordia. Solo quando la nostra
miseria sta davanti alla grande misericordia cominciamo ad aver dolore del nostro peccato. «Che si
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è peccatori non è un giudizio se non emerge quando guardiamo la faccia di Colui che abbiamo
contristato» (Giussani).
La vita allora si svolge e diviene come rapporto con Cristo, un rapporto che viene prima di ogni
cosa e circostanza, incontro e compagnia. Il rapporto con Cristo viene sempre prima: «è Cristo la
grazia, è questa Presenza, ed è il tuo rapporto con essa, il tuo dialogo con essa, il tuo modo di
guardarla, di pensarci, di fissarla» (Giussani, L’attrattiva Gesù, p. 24).
È la forza di questo rapporto (fatto di dialogo, sguardo, pensiero) che genera la compagnia della
Chiesa: «È la sua Presenza, è sempre un rapporto con Lui, un tocco con Lui, uno sguardo a Lui, un
incontrare il suo sguardo, che ti piega a Lui, che ti lega a Lui (come Andrea e Giovanni sono la
figura di quel che dobbiamo fare), che ti fa chiedere Lui, che ti fa entrare in rapporto con Lui»
(Giussani, L’attrattiva Gesù, p. 25). Se non fosse così, la nostra compagnia non sarebbe diversa,
diceva ancora don Giussani, dalla società dei Quaccheri.
4. La moralità
Il Papa ci ha spiegato che «la morale cristiana non è lo sforzo titanico, volontaristico, di chi decide
di essere coerente e ci riesce, una sorta di sfida solitaria di fronte al mondo… La morale cristiana è
risposta, è la risposta commossa di fronte a una misericordia sorprendente, imprevedibile,
addirittura “ingiusta” secondo i criteri umani, di Uno che mi conosce, conosce i miei tradimenti e
mi vuole bene lo stesso, mi stima, mi abbraccia, mi chiama di nuovo, spera in me, attende da me. La
morale cristiana non è non cadere mai, ma alzarsi sempre, grazie alla sua mano che ci prende. E la
strada della Chiesa è anche questa: lasciare che si manifesti la grande misericordia di Dio».
Questa moralità può fare di Pietro, colui che rinnega, un evangelizzatore. Ancora Agostino: «La
confessione di Pietro si trasformò d’un tratto nella forza dell’evangelizzatore. Donde viene questo a
un uomo? Aspettati Pietro sicuro di sé e scopri Pietro che rinnega: aspettati Dio che soccorre e
scopri Pietro evangelizzatore. All’ora fissata, la debolezza si trovò nella confusione perché fosse
bandita la presunzione, non perché venisse meno l’amore… il Signore lo guardò non col corpo, ma
in maestà; non con la vista propria degli occhi di carne, ma con suprema misericordia. Egli che già
aveva nascosto il volto lo guardò e quello fu reso libero. Per conseguenza, se il Redentore non
avesse posato lo sguardo su di lui, il presuntuoso sarebbe perito. Ed ecco, purificato dalle proprie
lacrime, afferrato e salvato, Pietro evangelizza. Porta l’annunzio colui che aveva rinnegato: credono
coloro che si erano smarriti» (Ser 284,6).
Il peccato toglie la presunzione non l’amore. Solo quando amiamo senza presunzione diventiamo
testimoni credibili, annunciatori non della nostra capacità ma della Sua misericordia.
Pietro, uomo debole e peccatore, viene scelto come roccia della Chiesa proprio perché sia manifesto
che la vittoria sul male è soltanto di Cristo e non la conquista di uno sforzo umano: «così la fragilità
umana è diventata segno della verità delle promesse divine e della misericordia di Dio»
(Congregazione per la dottrina della fede, Il primato di Pietro nel mistero della Chiesa, n. 15).
Proprio perché è caduto ed è stato amato e perdonato da Cristo, Pietro rappresenta nella sua persona
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il mistero della Chiesa, luogo di perdono e di rinascita. «La Chiesa è nella sua intima essenza luogo
del perdono in cui viene bandito il caos» (Ratzinger, La Chiesa, p. 112).
Ogni servizio dentro la Chiesa, e ogni autorità tra di noi, è servizio di amore e perdono. È la grazia
del perdono che costituisce la Chiesa come visibilità della misericordia di Cristo. Non siamo la
comunità dei perfetti, siamo la comunità di coloro che sono tenuti insieme dall’amore e dal perdono
e di questa realtà devono poter essere testimoni proprio i responsabili. L’autorità (nella famiglia,
nella comunità, nella Chiesa) che non è servizio di amore, di accoglienza e di perdono, diviene
inevitabilmente fattore di divisione.
5. Testimoni dell’essenziale
Origene scrive che quando «il combattimento è duro, non dobbiamo cominciare con l’attaccare gli
ultimi aspetti dei problemi» ma affrontarli alla loro radice (cf. Omelie sull’Esodo 4). Non bisogna
attardarsi a combattere gli effetti del disagio, ma cogliere la radice del male. Solo quando sappiamo
risalire alla radice del male, possiamo offrire la radice del bene, l’essenziale. Occorre andare alle
fonti del male e rendere visibile l’essenziale.
Ha detto il Papa: «nella Chiesa [si] esige l’impegno comune per un progetto pastorale che richiami
l’essenziale e che sia ben centrato sull’essenziale, cioè su Gesù Cristo. Non serve disperdersi in
tante cose secondarie o superflue, ma concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con
Cristo, con la sua misericordia, con il suo amore e l’amare i fratelli come Lui ci ha amato… Ci
potremmo chiedere: com’è la pastorale delle nostre diocesi e parrocchie? Rende visibile
l’essenziale, cioè Gesù Cristo?» (Francesco, Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la
promozione della nuova evangelizzazione, 14 ottobre 2013). Solo quando ci si attesta
sull’essenziale, non si è ossessionati «dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine
che si tenta di imporre a forza di insistere» e ci si concentra «su ciò che è più bello, più grande, più
attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo
profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 35).
L’essenziale è l’annuncio che Dio è amore. E tale annuncio è reso persuasivo non da discorsi
dimostrativi, ma da testimoni credibili. L’amore non si può dimostrare, si può solo mostrare. «C’è
bisogno di cristiani che rendano visibile agli uomini di oggi la misericordia di Dio, la sua tenerezza
per ogni creatura… Ogni battezzato è “cristoforo”, cioè portatore di Cristo, come dicevano gli
antichi santi Padri. Chi ha incontrato Cristo, come la Samaritana al pozzo, non può tenere per sé
questa esperienza, ma sente il desiderio di condividerla, per portare altri a Gesù (cfr Gv 4). C’è da
chiedersi tutti se chi ci incontra percepisce nella nostra vita il calore della fede, vede nel nostro
volto la gioia di avere incontrato Cristo!» (Francesco, Discorso alla Plenaria del Pontificio
Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, 14 ottobre 2013).
La misericordia dei cristiani rende visibile agli uomini di ogni tempo il volto di Dio e fa della
Chiesa quel posto dove ogni uomo possa «andare» e dove possa trovare «pietà di lui!».
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6. L’amore che non ci sarà tolto
Si diceva agli Esercizi che «nella luce della Risurrezione possiamo guardare in faccia la domanda
più urgente dell’uomo: veramente vale la pena di essere nati?» (p. 5). Vale la pena vivere? L’uomo
vuol esserne sicuro e domanda in tutti modi un ideale per cui vivere e sacrificarsi. È stato notato che
tra quanti danno un giudizio positivo sull’ISIS vi sono tanti giovani che rispondono al loro disagio
sognando di «entrare a far parte di una “banda di fratelli e di sorelle” pronti a sacrificarsi per
qualcosa di importante» (Atran). Un giovane non può sopportare il nulla, ed allora è tentato
dall’idolo.
Come rispondiamo a questa violenta domanda? Cosa possiamo indicare a chi cerca «qualcosa di
importante» per cui vivere e morire? Non abbiamo tesoro più grande da offrire che il sacrificio dei
nostri martiri.
I martiri di questo tempo drammatico ci testimoniano che la vita val la pena perché c’è Cristo. È
Cristo l’amore per cui val la pena. Vale la pena del vivere solo qualcosa per cui si può anche
morire. Ciò per cui non possiamo dare la vita, non merita alcuna dedizione.
«Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi
viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo,
sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita:
per essere il Signore dei morti e dei vivi (Rm 14,7-9).
Cristo è l’unico amore che possiamo godere senza la paura che ci venga tolto. Tutti gli amori sono
avvelenati in fondo dalla paura di perdere l’amato. Tutti gli amori hanno dentro, come un veleno, la
paura che finiscano. Questo no! Questo amore è per sempre.
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la
fame, la nudità, il pericolo, la spada? Come sta scritto:
Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno,
siamo considerati come pecore da macello.
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono
infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né
potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall'amore di
Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-39).
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Preghiamo con sincerità perché Cristo possa essere l’unica ragione del vivere, la vera appartenenza,
l’amore più grande.