Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
Dopo film di respiro drammatico come THE MASTER e IL PETROLIERE, Anderson torna a quella miscela di toni che
ha caratterizzato alcuni dei suoi film migliori, come MAGNOLIA e UBRIACO D'AMORE. Ambientato subito dopo la
strage di Charles Manson, Inherent Vice, tratto dall'omonimo libro di Thomas Pynchon, racconta di un caso che
scoperchia e apre una serie infinita di altri casi, e di un detective non proprio sobrio che attraversa il film con
splendida malinconia.
scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
musiche:
scenografia:
costumi:
distribuzione:
INHERENT VICE
148 MINUTI
USA
2014
PAUL THOMAS ANDERSON
THOMAS PYNCHON
PAUL THOMAS ANDERSON
ROBERT ELSWIT
MELANIE OLIVERLESLIE JONES
JONNY GREENWOOD
DAVID CRANK
MARK BRIDGES
WARNER BROS.
interpreti:
JOAQUIN PHOENIX (Larry "Doc" Sportello), JOSH BROLIN (Christian "Bigfoot"
Bjornsen), OWEN WILSON (Coy Harlingen), KATHERINE WATERSTON (Shasta Fay Hepworth), REESE
WITHERSPOON (Penny Kimball), BENICIO DEL TORO (Sauncho Smilax), MARTIN SHORT (Rudy Blatnoyd), JENA
MALONE (Hope Harlingen), JOANNA NEWSOM (Sortilège), MAYA RUDOLPH (Petunia Leeway), ERIC ROBERTS
(Mickey Wolfmann), SERENA SCOTT THOMAS (Sloane Wolfmann), SASHA PIETERSE (Japonica Fenway). .
premi e nomination:
2015 - Premio Oscar: Nomination Migliore sceneggiatura non originale, Migliori
costumi a Mark Bridges. Golden Globe, Nomination Miglior attore. National Board Of Review Award, Miglior
sceneggiatura non originale. 2015 - Critics' Choice Movie Awards, Nomination Miglior sceneggiatura non
originale, Miglior attore, Miglior scenografia, Migliori costumi a Mark Bridges. Independent Spirit Award, Robert
Altman Award.
Paul Thomas Anderson
Nato a Los Angeles nel 1970 e cresciuto nell’area urbanizzata di San Fernando Valley, là dove in Magnolia
piovono le rane, Paul Thomas Anderson è figlio di un attore che lo incoraggia a lavorare nel cinema. Anderson vi
si dedica fin da giovane utilizzando il super8, il 16mm e il video. Il suo primo vero film è un “mockumentary” di
30’, autoprodotto e girato in video, dal titolo The Dirk Diggler Story (1988), che racconta la storia di una stella del
cinema porno: un tema che riprenderà più tardi nel film Boogie Nights. Dopo aver abbandonato gli studi di
cinema all’università, si mette a lavorare in televisione, giocare d’azzardo e chiedere prestiti per finanziare quello
che definì il suo “film-saggio” il corto di 20’ del 1993 Cigarettes & Coffee, nel quale molte storie sono collegate da
una banconota da venti dollari. Il film si fa notare al Sundance: di conseguenza Anderson viene invitato al
Sundance filmmakers' lab, dove ha l’occasione di sperimentarsi con l’aiuto di veri professionisti. Ben presto trova
una casa di produzione disposta a finanziargli il suo primo lungometraggio, Sydney (Hard eight, 1996), presentato
nella sezione Un Certain Regard alla 49ª edizione del Festival di Cannes.
Il suo secondo film, Boogie Nights, gli procura il primo vero successo e mostra come punti di riferimento l'Altman
delle storie collettive oltre a Martin Scorsese. Il terzo film, Magnolia (1999), è fino a questo momento il più
celebrato tra i suoi lavori. Los Angeles fa da sfondo a una serie di storie intrecciate nelle quali prevale l’amarezza,
resa però in modo brillante e visionario, di una società il cui perno, la famiglia, è tendenzialmente marcio: un
affresco d’America che è anche una sintesi degli stili del suo cinema. Il film, musicato da Aimee Mann, ricevette
tre nomination agli Oscar e l’Orso d’oro al Festival di Berlino.
Nel successivo Ubriaco d'amore (premio per la regia a Cannes 2002), dirige Adam Sandler e Emily Watson in una
commedia che mette in luce le qualità inaspettate di Sandler, solitamente relegato a parti molto stereotipate.
Dopo una lunga pausa, nel 2007 torna a dirigere un film più ambizioso, Il petroliere, con Daniel Day-Lewis, storia
di uno spietato mercante di oro nero del Texas d’inizio Novecento.
La sua attenzione a personaggi carismatici ma provvisti di un’etica difficilmente condivisibile si ripresenta nel
dramma The Master, in parte ispirato alla figura di L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology.
La parola ai protagonisti
Intervista al regista e a Joaquim Phoenix
Il trailer suggerisce che si tratta di un film bizzarro. Si mescolano commedia e serietà.
Sì. O Dio…Sai, ricordo di aver mostrato questo film ad un amico, e ad un certo punto è diventato, tipo, sul punto
di piangere e io ho detto “No, ma è divertente, perchè sei triste?”. Ho provato a dare un feeling al film come se
fosse una canzone di Neil Young… Una sensazione simile a quella che il libro mi ha fatto provare. In mezzo a tutte
queste ridicole gag, c’è un mood sentimentale – in senso positivo – di nostalgia, dolore, uno sguardo rivolto
all’indietro. Pynchon è uno scrittore vicino agli 80, che non si atteggia da vecchio hippie il quale, guardandosi
indietro, dice “le droghe erano così buone, la musica così fantastica”. Piuttosto, sembra dire “Avevamo questa
cosa alla nostra portata, ce l’avevamo sulla punta delle nostre dita; e invece l’abbiamo sbriciolata”.
Cosa ti ha attratto, nel romanzo?
Nella storia di Vizio di forma ci sono molte idee comuni alle storie di Pynchon, in primis il fatto che, a furia di
investigare, si può andare avanti quasi all'infinito ad inseguire una soluzione non facendo altro che scoprire nuovi
misteri diversi da quello che si cerca di risolvere, oppure la presenza di una grande cospirazione a reggere tutto o
ancora l'esistenza di una forza maligna che lavora senza che nessuno lo sappia. Questa volta tutto è ambientato
anche in un periodo cruciale che mi piaceva molto poter ricostruire, almeno un paio di frasi del libro infatti fanno
riferimento ad una certa innocenza persa dal paese in quegli anni, come se quello fosse stato l'ultimo momento
in cui era ok essere sentimentale, cosa che oggi non è più possibile. Credo che Charlie Manson abbia rovinato per
sempre quell'attitudine.
Il libro, come il film, ha a che fare con un enorme nesso di temi – gli omicidi Manson, il Black Power, la
commercializzazione del sogno hippie – e un’intera serie di trasformazioni culturali nelle quali il passato recente
rivive nella Los Angeles del 1970.
C’è un documentario molto interessante, Mondo Hollywood, realizzato nel 1967 da Robert Carl Cohen, sulla
Vecchia Hollywood – voglio dire, star del cinema muto, dive invecchiate ecc. [Nel film si vedono] queste dive che
hanno comprato queste case a Beverly Hills e che sorseggiano tè mentre gruppi di hippie entrano ed escono
come vagabondi dalle loro feste…[…] Quindi sì, [il film rappresenta] questa strana poltiglia di tutte queste cose
che apparentemente non hanno niente a che fare le une con le altre.
Non è certo una narrazione facile da seguire, e i dialoghi pure. Mi sono trovato ad ascoltare i dialoghi a un livello
puramente estetico, come se fossero astratti, come musica.
Esatto. Non sono uno che segue sempre le trame nei film, mi capita di sorvolarle. Ma quella cosa che Pynchon fa
– acquisisci la stessa mole di informazioni che potresti acquisire in un giorno leggendo un quotidiano, un
sovraccarico di informazioni. Aprire un quotidiano ogni mattina ti fa sentire come se stessi leggendo un libro di
Thomas Pynchon. Nella sua epoca, stava scrivendo di roba tipo teorie cospirative. Sembra che tutti dicano “Ecco,
ora sono in grado di far questo – che ci vuoi fare? Si, [il governo] può tenere sotto controllo il tuo telefono”. Le
informazioni vengono legate nel modo in cui si legano nel libro, e vorresti essere sicuro che abbiano un senso.
Ma ho piuttosto voluto ricreare quel senso sotto forma di mood, permettendo a quei dialoghi di diventar musica,
indipendentemente dal fatto che ci fosse o meno musica in sottofondo a quelle parole. E’ una cosa che può
frustrare gli spettatori. Ma penso che abbia invece a che fare con l’immedesimarsi in Doc [Joaquin Phoenix]; se
“sei” con Doc, se ti importa di lui e di quello che vede e di ciò che gli sta a cuore e di ciò che lo rende paranoico,
allora è probabile che molte persone possano immedesimarsi nel film. In definitiva, ha tutto a che fare con una
cosa che penso sia identificabile da parte della maggior parte delle persone (inseguire quella persona con la
quale non dovresti più avere niente a che fare, eppure eccoti comunque là, ad inseguirla ancora. E’ una trappola
nella quale ognuno può essere cascato), una volta che tutto l’aspetto “politico” viene scartato.
Doc sembra essere il terzo stadio di Philip Marlowe – dopo Chandler e Bogart, dopo Altman e la versione di Elliot
Gould di Il Lungo Addio. Sembra la versione strafatta di quei detective.
Conosco Il Lungo Addio ovviamente, conosco Il Grande Sonno e conosco Il Grande Lebowski, ma penso che
Pynchon avesse in mente questo altro personaggio, certamente in gamba, che tuttavia scopre cose dalle quali
rimane comunque sorpreso – scioccato e sorpreso nel venire a sapere un informazione dopo l’altra, mentre
probabilmente nel profondo, sotto sotto forse è a conoscenza di tutto; è solo che fino a quel momento si è
rifiutato di credere che queste cose potessero accadere realmente. Non conosco i libri di Chandler così bene, ma
so che riguardano il classico detective sentimentale (ancora: sentimentale in positivo, nostalgico…). Doc è un
sentimentale “ex” dal cuore spezzato, ed è una buona caratteristica per un personaggio. E’ inoltre il personaggio
che risolve il caso – forse non può spiegare con certezza come ci riesca, ma lo risolve, forse solo attraverso il
proprio buon senso.
Sembra che tu abbia voluto ricostruire un’ideologia sessuale anni 60, in particolare nella scena di nudo di Shasta.
Intendo dire: il sogno della ragazza californiana inarrivabile, sembra proprio uscire da quel periodo. Anche se in
quella scena Shasta è in pieno controllo della situazione.
Beh, penso che le battute significative siano quelle in cui dice, “Cosa ti aspetti che sia per te? Di che tipo di
ragazza hai bisogno? Vuoi che sia una di quelle ragazzine indottrinate di Manson? Vuoi che sia una di quelle
piccole teenager sottomesse e arrapate che fanno esattamente quello che vuoi prima ancora che tu sappia cosa
sia?”
Ma l’erotismo del film sembra uscito fuori da un Playboy dei tardi 60 – le pose in costume da bagno, ecc…
Niente di male in questo, anzi è il massimo! Quando stavamo facendo il casting per il film, abbiamo visto così
tante attrici, ma erano bellezze moderne, di un certo tipo. Katherine Waterson sembra esattamente una di quelle
ragazze di copertina di quei anni. E il lavoro è stato indirizzato a presentarla come se fosse in quei anni nel modo
più accurato possibile.
Anche lo stile visivo è strano. Come suggerisce il trailer, sembra che tu abbia allestito alcune inquadrature in
modo molto preciso, come in alcuni panorami o “affreschi”, momenti come L’Ultima Cena, ma sono così brevi che
quasi sembra che tu li voglia gettar via per passare alla scena di dialogo successiva, di solito dominata da piani
fissi e primi piani.
E’ claustrofobico. Abbiamo pensato “Sarà fantastico, realizzeremo un beach movie!”, [e invece] siamo stati in
spiaggia un solo fottuto giorno! Sapevo cosa avevamo per le mani: una film ambientato in un’epoca, dove l’eroe
cammina e parla e acquisisce informazioni ancora e ancora per due ore e mezzo. Perciò necessitava di
interruzioni per de-claustrofobizzarlo, per aprirsi. Sono cresciuto in un’epoca in cui, se devi fare una
rappresentazione storica, sei obbligato ad avere una gru in strada per fare senza alcun motivo una carrellata
aerea – un mucchio di automobili, un mucchio di cartelli. Che spreco di soldi, tempo e metri di pellicola! Un
modo per far sì che il pubblico si sentisse dentro al film era quello di farne a meno. A questo si affiancava anche il
fatto di non aver abbastanza soldi – la questione era “qual è il minimo di cui necessitiamo per “aprirlo” e
continuare comunque il filo del discorso?” La gente vuol solo vedere cosa fa Joaquin Phoenix, vuol solo vedere la
prossima ragazza sexy, quindi andiamo avanti così!
Ma porti quello stile a livelli perversi: abbiamo soltanto due frammenti dell’Ultima Cena, che devono aver preso
comunque del tempo per essere allestiti.
Ma va bene così. Impieghi così tanto tempo, quando cominci, a diventare un professionista; e poi cominci ad
impiegare altrettanto tempo cercando di realizzare cose in maniera non-professionale, eliminandone alcune o
facendole sembrare “sporche”, accidentali.
Hai girato su pellicola, e catturato un look che evoca le immagini della California dei tardi ’60, con una luce
particolare. Come avete fatto tu e Robert Elswit (direttore della fotografia) a raggiungere questo risultato?
Ricordo com’era Los Angeles a metà dei ’70 quando la qualità dell’aria era molto differente; erano quelli giorni in
cui non potevi giocare all’aperto a causa dello smog. L’idea è stata di farla sembrare un po' come una cartolina
datata, la cover di un album, o una copertina morbida. Stavamo facendo dei test di ripresa e possedevo un pila di
vecchia pellicola che è stata per dieci anni nel mio garage, quindi aveva queste imperfezioni dovute al calore –
abbiamo filmato con quella, e quando abbiamo visto il risultato, è stato grande. Era deperita, appannata, i neri
non erano proprio neri, quasi lattiginosa, come una sorta di flashback istantaneo. Quindi cerchi di ricreare quella
sensazioni in termini di tempo d’esposizione e vecchie lenti.
In termini musicali, tiri una palla ad effetto all’inizio con una canzone del periodo, ma di una band tedesca
(Vitamin C dei Can). E poi, lo score di Jonny Greenwood è basata sul flauto, che avrebbe potuto suonare tipo
flower power – ma sembra piuttosto Debussy.
Si, specialmente in alcune delle parti più orchestrali – “sinistra” potresti definirla. In verità, quella traccia dei Can
è del 1972, quindi ho un pò barato. Di cosa parli quel testo non ne ho idea, ma sembra adatto alla storia. Ci sono
così tanti riferimenti musicali nel libro – Pynchon sembrava interessato al bubblegum pop, tipo “Sugar Sugar”
degli Archies, che stonava un pò nel film. Non volevo che fosse una compilation tipo “il meglio del 1970″.
Phoenix, benchè il film abbia toni da commedia e un tono generalmente divertito (si ride molto), ha un fortissima
componente malinconica che passa, per la gran parte, dalla tua superba interpretazione
JP: Non ho fatto nulla consciamente per rendere la melanconia ma è vero che nel libro ce n'è tantissima. Io ho
cercato di non prendere troppe decisioni consciamente sulle espressioni perchè altrimenti sembra che tu voglia
vendere qualcosa al pubblico, invece i momenti più profondi arrivano quando non te l'aspetti e non li cerchi.
Credo che se si attribuisce a me la riuscita di questo tono è perchè alla fine quel che vedi è la mia faccia, quando
in realtà tutto ciò che mi sta intorno gioca un ruolo fondamentale nel rendere quell'emozione, dagli armadi fino
alle luci.
La maniera in cui Paul Thomas Anderson ama girare, cioè facendo diversi ciak con diversi stili, diversi toni o modi
di interpretare ogni scena dà un andamento molto peculiare ai suoi film, forse Vizio di forma è quello che ne
risente più di tutti assieme a Ubriaco d'amore. A tratti incredibilmente serio e in altri molto giocoso si presenta
come un'impresa superiore alle forze di ognuno di quelli che ci ha lavorato. Anderson sottopone i suoi attori a dei
tour de force?
JP: Sì, giriamo molto e poi al montaggio lui toglie moltissimo materiale che secondo lui è venuto male.
Alle volte è capitato che facessi 12 ciak per una scena, ognuno diverso e con molte variazioni. Dopo mesi poi Paul
assieme al montatore ne seleziona uno. Per questo non mi prendo responsabilità di quel che vedi, perchè è uno
sforzo mio, del regista e del montatore. Tutti quei diversi elementi e pezzi del personaggio fanno sì che ti appaia
molto complesso ma non so davvero quanto ne sia responsabile io davvero. Mi piacerebbe dire che sono un
genio e faccio grandi cose ma non è vero. Quando abbiamo iniziato, non c'era da guardare vecchi film o altro,
tutto era nel libro, il tono è così unico che serviva solo quello. Con Paul non si lavora come con gli altri, lui
comincia a tirare fuori dischi, libri e riferimenti a quel periodo è come se nel suo ufficio ricreasse quegli anni per
spiegarti il tono che vuole raggiungere. Insomma non c'è una vera scienza dietro la maniera in cui ho interpretato
il personaggio, sono solo fortunato se è venuto bene.
Recensioni
Natalia Aspesi. Repubblica
Il detective privato Doc Sportello vive in una baracca di legno a Gordita Beach, sulla costa della California abitata
dagli hippies in preda al loro fumato sogno americano che sta per estinguersi. È fatto di spinelli che gli
addolciscono il mondo, lo spingono a non lavarsi i piedi e a spruzzarsi il profumo sui vestiti, a costruirsi la
pettinatura afro e a farsi crescere basette che gli occupano tutta la guancia; fruste giacche militari, piedi scalzi
nelle infradito rosse di gomma, in testa un cappello di paglia e la faccia stupefatta e assonnata di Joaquin
Phoenix. E il 1970, alla presidenza c'è Nixon che manda truppe americane nel Vietnam, e la polizia alla Kent State
University dove gli studenti protestano e quattro vengono ammazzati. Ma a Gordita Beach sono troppo fumati
per preoccuparsi, se non della strage che lì vicino Charles Manson ha compiuto ammazzando in casa sua l'attrice
Sharon Tate e altre sei persone.
Vizio di forma (Einaudi 2011), un noir, un thriller, un sogno psichedelico, che il venerato (Magnolia, The Master)
regista americano Paul Thomas Anderson, a 45 anni, ha osato, primo e forse ultimo al mondo, trarre da un
romanzo di Thomas Pynchon (Inherent Vice del 2009), oggi ottantenne e misterioso autore di culto tipo la nostra
invisibile Elena Ferrante, se non fosse che di lui esiste almeno una foto a vent'anni. Adesso che il film c'è, e c'è chi
è subito corso a leggere o rileggere il libro, li ha trovati tutti e due incantevoli, di gran divertimento, capaci di
rievocare un tempo e un luogo americano di gioventù pacifista e drogata, cancellato poi dalla rivolta contro la
guerra in Vietnam, il piombare dell'Aids, la rivincita del conformismo reaganiano. In certi momenti il film pare
Chinatown di Polanski (1974), in altri Il lungo addio di Altman (1973), ma Anderson è ovunque e pure Pynchon.
Doc viene informato dalla sua ex ragazza (Katherine Waterson) di un intrigo che coinvolge il suo attuale ricco
amante. L'itinerario del detective Sportello è un thriller assurdo (...).
È un labirinto di fatti, luoghi, personaggi che si inseguono, ed è come se anche lo spettatore fumasse marihuana
e scivolasse nella storia come in una nebbia: e infatti pare normale che gli intrecci si accumulino e si sfaldino
senza che a Doc, ma anche a noi, importi il nesso e pretenda una soluzione. Ma poi il senso c'è: stava finendo il
tempo della libertà e della rivolta, la marihuana da coltivare in giardino stava per essere stroncata dal grande
cartello internazionale del commercio all'ingrosso della cocaina, dai nuovi milionari della droga, e dall'industria
delle costose case di cura private per la disintossicazione dei drogati ricchi.
Emanuele Sacchi. Mymovies.it
Doc Sportello, hippie suonato che ciondola sulla spiaggia di Gordita Beach e investigatore privato a tempo perso,
è avvicinato dalla sua ex Shasta Fey, che gli affida un caso complicato. Insospettita dagli intrighi attorno al suo
nuovo amante, il palazzinaro Wolfmann, vuole prevenire un suo ricovero coatto. Doc non fa in tempo a
cominciare le indagini che finisce per essere accusato di omicidio dall'amico-nemico Bigfoot, ispettore della
Omicidi.
Sul titolo, a volte, è bene soffermarsi (...). Al di là della libera traduzione e semplificazione italiana, che poco o
nulla significa - e che, curiosamente, sia nel libro di Thomas Pynchon che nel film tratto da esso, non trova spazio
all'interno dell'opera - è il letterale "vizio intrinseco" la chiave del mistero. Che, come tale, include tanto il
MacGuffin del termine tecnico del ramo assicurativo che la reale sostanza dell'opera di Pynchon e Anderson,
dove "vizio intrinseco" sta per incapacità per un sistema di reggere l'instabilità centrifuga delle sue componenti
interne.
Due piani di lettura per una molteplicità psichedelica di interpretazioni degli stessi: l'Uno e il Tutto, in ordine
sparso, come vuole il cinema di Paul Thomas Anderson da Ubriaco d'amore in poi. Il noir e la sua lunga
discendenza di riferimenti riflessivi (Chandler via Altman, Kem Nunn via Pynchon, con aggiunta di Hunter
Thompson e Dude Lebowski) diviene così avvincente esca per catturare l'interesse e aiutare a immedesimarsi
tanto in Doc Sportello che nella sua nemesi Bigfoot Bjornsen, nascondendo così, attraverso un sottile e caliginoso
fumo di cannabis, la parabola della seconda caduta dall'Eden, quando l'ebbrezza utopistica dei '60 si è schiantata
di fronte alla cruda realtà della natura umana ad Altamont e Bel Air.
Gli Hell's Angels omicidi e la setta satanista di Manson diventano in Vizio di forma un'unica entità e si
contrappongono, con logica speculare, all'amore, che muove (più che il cielo e l'altre stelle) le onde dell'oceano e
il girovagare erratico, ma lucido e con uno scopo preciso, del protagonista. Un insieme di caratteri paradigmatici
fa di Doc Sportello creatura andersoniana più che pynchoniana, pecorella smarrita che si oppone con radicale
indolenza al traumatico passaggio di consegne tra un'epoca e un'altra, tra l'erba e la polvere d'angelo, tra Neil
Young (il brano scelto per la più romantica delle sequenze si intitola "Journey through the Past") e il decennio
dell'edonismo reaganiano che verrà, tra la pellicola che esibisce orgogliosamente la sua grana e il digitale che ci
seppellirà. Mai come in Vizio di forma lo sconclusionato nonsense di una trama inafferrabile e involuta è
mistificatore, come la retorica di un guru, rispetto alla geometrica precisione di un'opera che intensifica la
separazione di Doc dal suo, o dai suoi, doppi.
(...) La bromance tra questi e Doc, giocata costantemente sul filo della comicità, oltre a rivelare una matrice ben
più tangibile del Lebowski coeniano nell'oscuro Cisco Pike (Per 100 chili di droga) di una ruggente New
Hollywood, è la dinamica pseudo-amorosa di due opposti che si attraggono, due metà che si cercano e si
sostituiscono: il primo detective sempre meno improbabile e il secondo cullato e confuso dai suoi sogni di attore.
Scherzi del subconscio, forse, come una clinica criminale odontoiatrica o una nave all'orizzonte che non attracca
mai, che disegnano la più difficile delle trasposizioni, libera dove appare didascalica, metaforica dove appare
comica, prima di chiuderla sotto il sole elusivo di una California in chiaroscuro.
Mauro Gervasini. Filmtv Rivista
Con Journey Through the Past di Neil Young nelle orecchie riflettiamo, seduti su un ramo, sul nuovo film di P.T.
Anderson, Vizio di forma. La canzone viene ripetuta due volte nel corso della lunga avventura (quasi due ore e
mezza) del detective privato strafatto Larry “Doc” Sportello, ingaggiato dall’ex fidanzata Shasta per sventare la
presunta macchinazione ai danni del suo nuovo boyfriend miliardario, perpretrata dalla di lui moglie + amante
“guida spirituale”. La canzone sembra un’utile “mappa” per questo viaggio cinematografico nel passato,
implicazioni politiche, psichedeliche, letterarie comprese. Il libro di riferimento è a dire il vero contemporaneo, il
penultimo di Thomas Pynchon. Non un granché, per chi scrive, perché si può pensare al noir come strumento per
dire altro, ma lo straniamento postmoderno caro allo scrittore finisce per allontanare ogni tragicità (di personaggi
e situazioni) respingendo chiunque la consideri condicio sine qua non affinché il genere conservi specificità,
spessore e persino dignità. Anderson dichiara fedeltà al testo (...) ma non è Pynchon e la sua versione finisce per
essere diversa, più chandleriana (...). Doc attraversa un’epoca nel suo cruciale passaggio dal miraggio di libertà
degli anni 60 alla reazione dei 70, con Altamont, Nixon, Reagan (governatore della California), Cambogia e
Vietnam dietro l’angolo a segnare il passo e il nuovo spirito del tempo. Al netto delle diverse dipendenze (erba in
quantità industriale al posto dell’alcol), Doc è come Philip (Marlowe), o meglio il suo ritratto speculare, uguale e
contrario al modello. Un’impresa eccezionale di “riscrittura”, riuscita: il personaggio sullo schermo ha l’anima che
invece ci pare manchi nel romanzo di Pynchon, dove è puro pre-testo, un McGuffin semovente. Merito anche di
Joaquin Phoenix, magnifico. Dell’intricatissima vicenda, alla fine, tutti i nodi vengono al pettine, ma sembra
comunque di non aver capito nulla (noi spettatori e loro protagonisti). Poco importa: la geniale ultima scena (luce
in faccia a Doc, sguardo in macchina) dà la giusta chiave di lettura del film. Che non è un capolavoro, non sposta
l’asticella della storia del cinema, ma diverte confermando il talento del suo autore.
Adriano De Grandis. Il Gazzettino
Ci sono film inafferrabili, che portano a misurarsi con il bisogno di adeguati ormeggi, ma che al primo giro di boa,
dove tutto ricomincia e scompagina, dimostrano l’inutilità di tali appigli, accompagnando lo spettatore all’estasi
del disagio e del fascino di un’avventura che decanta i fatti come in un album di figurine sparpagliate lungo un
percorso straniante: "Inherent vice" ("Vizio di forma" in italiano) non è solo questo, è assai di più. Ma è meglio
vederlo che spiegarlo. L’unico errore sarebbe quello di voler seguire cocciutamente la trama (meglio: le trame) e
altrettanto ostinatamente volerle comprendere: un esercizio che fa perdere solo del tempo. È la prima volta che
un romanzo di Thomas Pynchon, scrittore Usa "fantasma", dagli intrecci caotici e impenetrabili, arriva sullo
schermo: un atto di coraggio, che vede Paul Thomas Anderson grande vincitore.
Qui basta sapere che tutto ruota attorno a "Doc" Sportello, investigatore hippie strafumato, con basette da
cartoon e una noncuranza alla vita, che diventa stile involontario (...).
Usando il piano-sequenza come sensazione di un’apnea, Anderson elegge la baia di Gordita Beach, in California, a
paradigma di un’epoca (siamo agli inizi dei ’70, già nixoniani), dove nelle penombre fasciate di colori densi,
disegnate da Robert Elswi, i personaggi si muovono come in un acquario, con il tempo che si raggruma in dialoghi
e situazioni deliranti. Tempi e luoghi sanno di un Altman (di nuovo...) lisergico, dove Doc si specchia in Marlowe,
con il suo carico di depressiva quotidianità, non priva di qualche spunto comico, coniugandolo con il Lebowski dei
Coen e il destino ineluttabile.
Più vicino alle atmosfere di "Boogie nights" e "Ubriaco d’amore", che non alle impalcature mastodontiche di
"Magnolia" e "The master", Anderson afferra la sua ultima impresa: gli bastano prolungati, esemplari campi e
controcampi per elevare il suo cinema a corpo vivo di un’epoca che forse già intuiva di andar perduta. Tra echi di
Neil Young e una libertà di regia che dà quasi alla testa, dove ogni pensiero si fa immagine e viceversa, il film si
chiude sull’ultimo sguardo perduto e beffardo di un antieroe indimenticabile in un film magnifico. Ah,
ovviamente zero Oscar.
Giuseppe Gangi. Ondacinema
Vizio di forma è un film da ri-vedere. Nel settimo lungometraggio di Paul Thomas Anderson è facile rimanere
spiazzati e confusi, soprattutto se si entra in sala impreparati o preparati a vedere una commedia gonza - il
"Grande Lebowski" dei fratelli Coen fuso a freddo con "Il lungo addio", come si è letto spesso in questi mesi di
attesa. La complessità narrativa del romanzo di Thomas Pynchon che va continuando ad ampliarsi di personaggi e
situazioni lungo le sue 470 pagine viene modificata con un lavoro di taglia e cuci tutt'altro che scontato - di cui fa
le spese l'ambientazione surfer - e che, da un certo punto in poi, si discosta dalla lettera dello scrittore
alterandone la materia narrativa ma non lo spirito: l'operazione di riscrittura, più che a somigliare al Marlowe
eretico e contestatario di Robert Altman, è vicina al capolavoro cine-letterario "Non è un paese per vecchi".
Come era già successo per "There Will be Blood" e per "The Master", Anderson usa il cinema come una macchina
del tempo e affresca in 35 millimetri un altro momento di passaggio della storia statunitense partendo da un
personaggio: se lo sghembo Freddie Quell era il residuo umano dell'America post-bellica, Larry "Doc" Sportello è
uno dei pochi irriducibili hippie che non ha ceduto alle lusinghe dell'eroina, personaggio-faro nella nebbia
losangelina del 1970.
(…) Perdersi in "Inherent Vice" è ben più importante del ritrovare la via, e si direbbe che il regista abbia lavorato
intorno a quest'assunto: si smarrisce Shasta come Mickey Wolfmann, i personaggi appaiono e scompaiono dal
nulla (esemplare la sequenza che inizia con una dissolvenza su un banco di nebbia), e Doc è continuamente
spaesato per via dell'ingente e continuo quantitativo di marijuana che fuma. Il film stesso perde il proprio
bandolo per poi ritrovarlo casualmente, ed è davvero difficile ricostruire la sequenza degli avvenimenti secondo
un principio di causalità: siamo nel regno del caos, il terreno più fertile per il noir che è il genere di riferimento sia
del romanzo che del film, come se fosse una storia chandleriana raccontata dall'Hunter S. Thompson di "Paura e
delirio a Las Vegas".
Anderson espurga la maggior parte dei riferimenti (meta)cinematografici di cui il romanzo è intessuto. Il
protagonista, nonostante il modus vivendi hippie, è un investigatore di un certo talento e rimpiange l'epoca in cui
dominavano le figure dei grandi private eye, mentre a dominare adesso sono gli sbirri che sfondano le porte a
calci e violano i diritti civili: la rilettura del noir di Pynchon è la colonna portante della sua riflessione sulla fine
della controcultura. Anderson sfrutta il personaggio più mistico, Sortilége (a cui dà volto Joanna Newsom), come
narratore interno che dà ragguagli sui personaggi e sui quadri astrali che si osservano nella L.A. del '70, ma riesce
a evitare qualsiasi scappatoia retorico-didascalica. L'essenziale viene filtrato dal linguaggio audiovisivo, dalle
musiche di Jonny Greenwood alle cromie psichedeliche di Robert Elswit, al ritmo che pare seguire gli up&down
dei drogati. Doc, nella prima scena, ha lo sguardo perso nel vuoto, al di là dei margini dell'inquadratura: non
sappiamo cosa cerchi, cosa fissi, e quando si volta per l'improvviso palesamento di Shasta lei gli chiede se pensa
che sia un'allucinazione. Ciò che si vede in scena oltrepassa la scissione canonica reale/onirico, immergendo lo
spettatore in una dimensione altra che si irrobustisce in modo direttamente proporzionale all'intricarsi del
pasticcio in cui cerca di fare luce il protagonista.
Anche stilisticamente, "Inherent Vice" procede per strappi, passando da alcuni eccitanti long take (come quello
sui titoli di testa sulle note di "Vitamin C" dei Can) a momenti sincopatissimi dove si preme l'acceleratore sul
pedale dell'assurdo. L'uso della profondità di campo diviene quindi assai significativo: in una sequenza cruciale il
detective si avvia verso il bungalow di un centro massaggi, col suo solito passo lento e rilassato sale le scale e poi
si ferma a guardare indietro; nella particolare semi-soggettiva lo spiazzo di fronte è sfocato ma, quando il
detective si gira di spalle, viene messo a fuoco rivelando degli uomini in tenuta mimetica che si apprestano a un
raid. È una geniale invenzione andersoniana e, forse, anche una cripto-citazione del suicidio dello scrittore
hemingwayano del "Lungo addio" altmaniano, che si svolgeva sul profilmico, quando Marlowe guardava da
un'altra parte. Si tratta di sottili slittamenti che portano il flusso delle immagini dalle parti del trip lisergico, senza
dover forzare sul piano espressivo-visionario.
(…) Per concludere, un plauso per l'ennesima trasformazione di Joaquin Phoenix che con la sua recitazione felina
e istintiva, fatta di improvvisi scatti degli occhi, micro-espressioni, smorfie e frasi biascicate rende Larry Sportello
un personaggio iconico e memorabile. E anche a Paul Thomas Anderson, il cui cinema è ormai molto simile al suo
protagonista anticonformista, continuando in un tracciato con uno stile di regia e di racconto che ha fatto della
libertà il denominatore della sua maturità artistica.