La pace passa per il clima

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La pace passa per il clima
La pace passa per il clima
Michael Klare, The Nation, Stati Uniti
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Se troveranno un accordo per ridurre il
riscaldamento globale, i leader mondiali
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La conferenza sul clima di Parigi non dovrebbe
essere considerata solo un vertice sul clima ma una
conferenza di pace, e forse la più importante della
storia. Per capire perché, bisogna considerare gli
ultimi studi scientifici sui possibili effetti del
riscaldamento globale, e in particolare il rapporto del
2014 del Gruppo intergovernativo sul cambiamento
climatico (Ipcc). Quando è stato pubblicato, il
documento ha attirato l'attenzione dei mezzi
d'informazione di tutto il mondo. Il motivo è semplice:
i dati dimostrano che, se il cambiamento climatico
continuerà incontrollato, provocherà gravi siccità,
piogge intense, ondate di caldo opprimente,
insufficienza dei raccolti e inondazioni delle zone
costiere, causando carestie e morte.
Ma il rapporto afferma che il riscaldamento globale
avrà effetti devastanti anche a livello sociale e
politico: declino economico, collasso degli stati,
guerre civili, migrazioni di massa e guerre per il
controllo delle risorse. A queste previsioni è stata
dedicata molta meno attenzione, anche se dovrebbe
essere evidente a tutti che sono un rischio concreto,
visto che anche le istituzioni umane, come i sistemi
naturali, risentono dei cambiamenti climatici. Quando
alcuni beni fondamentali per la sopravvivenza - come
i cereali, il legno, il pesce e il bestiame d'allevamento
- diminuiranno o spariranno del tutto, le economie ne
risentiranno. Le società cominceranno a crollare sotto
il peso delle crisi economiche e dei flussi migratori di
massa. Forse i conflitti armati non saranno la
conseguenza immediata di questi fenomeni, osserva
l'Ipcc, ma se il cambiamento climatico andasse ad
aggiungersi alla povertà, alla fame, alla scarsità di
risorse, all'incompetenza e alla corruzione dei governi
e ai contrasti etnici, religiosi e nazionali, finirebbe per
causare aspri conflitti per il cibo, l'acqua, le terre e
altri beni primari.
Le probabilità di un conflitto
I mezzi necessari per la sopravvivenza sono già
distribuiti in modo inuguale in tutto il pianeta. Spesso
la linea di separazione tra quelli che hanno risorse
primarie a sufficienza e quelli che non ne hanno
coincide con antiche fratture a livello razziale, etnico,
religioso o linguistico. Per esempio, è vero che tra
israeliani e palestinesi c'è una profonda ostilità di tipo
etnico e religioso, ma è anche vero che i due popoli
non hanno le stesse possibilità di accesso alle terre e
all'acqua. Quando a queste situazioni si aggiungerà il
cambiamento climatico, prevedibilmente la tensione
aumenterà ancora.
Il cambiamento climatico comporterà il degrado o
la totale distruzione di molti sistemi naturali, spesso
già indeboliti, sui quali gli esseri umani contano per
sopravvivere. Alcune zone destinate all'agricoltura o
all'allevamento di bestiame potrebbero diventare
inabitabili o riuscire a sfamare popolazioni molto più
ridotte. Pensiamo per esempio alla regione meridionale del Sahara, che a causa delle temperature in
aumento e dei sempre più frequenti periodi di siccità
si sta già trasformando da zona erbosa in un arido
deserto, costringendo i pastori nomadi ad abbandonare le terre dei loro antenati. La stessa sorte
toccherà a molte regioni agricole dell'Africa, dell'Asia
e del Medio Oriente. I fiumi che un tempo garantivano
acqua tutto l'anno scorreranno solo in certi periodi o si
prosciugheranno del tutto, lasciando ben poca scelta
alle popolazioni locali.
Come fa notare il rapporto dell'Ipcc, gli stati con
istituzioni deboli saranno sottoposti a enormi pressioni
per far fronte al cambiamento climatico e aiutare
quelli che hanno un disperato bisogno di cibo e di
riparo. Le maggiori incertezze sul futuro", si legge sul
documento, "potrebbero coincidere con una minore
capacità degli stati di introdurre contromisure
adeguate, e questo farà aumentare le probabilità di
conflitti armati".
Un esempio di questo rischio lo abbiamo già visto
con l'inizio della guerra civile in Siria e il conseguente
collasso del paese, che hanno prodotto una quantità
di rifugiati paragonabile a quella causata dalla
seconda guerra mondiale. Tra il 2006 e il 2010 la Siria
è stata colpita da una siccità devastante, causata in
parte dal cambiamento climatico, che ha trasformato
in deserto quasi il 60 per cento del paese. I raccolti
sono stati scarsissimi e quasi tutto il bestiame del
paese è morto, riducendo in povertà milioni di
contadini che, presi dalla disperazione per non poter
più vivere delle loro terre, sono andati a cercare
lavoro nelle grandi città, dove hanno dovuto affrontare
l'ostilità delle ricche élite urbane.
Se il tirannico presidente siriano Bashar al Assad
avesse reagito a questa situazione con un
programma di emergenza per garantire lavoro e
alloggio a queste persone, forse il conflitto avrebbe
potuto essere evitato. Quello che ha fatto, invece, è
stato tagliare i sussidi alimentari e il carburante,
aggravando le difficoltà dei migranti e soffiando sul
fuoco della rivolta. Secondo un articolo firmato da vari
studiosi e pubblicato dalla rivista scientifica
statunitense Pnas, "Assad ha abbandonato le
periferie urbane in rapida espansione della Siria,
caratterizzate dal sovraffollamento, dall'insufficienza
delle infrastrutture, dalla disoccupazione e dalla
criminalità, e in seguito queste zone sono diventate il
cuore della rivolta".
Una situazione simile si è verificata anche nella
regione africana del Sahel, dove una grave siccità è
andata ad aggiungersi al deterioramento delle
condizioni ambientali e alla debolezza delle istituzioni
fino a provocare episodi di violenza armata. La
regione ha già vissuto periodi simili in passato, ma
oggi a causa del cambiamento climatico avvengono
molto più spesso. "Prima succedeva ogni dieci anni,
poi ogni cinque e ora ogni due", afferma Robert Piper,
il coordinatore degli interventi umanitari delle Nazioni
Unite nel Sahel.
In Mali, uno dei molti paesi che confinano con
questa regione, il popolo nomade dei tuareg ha
pagato il prezzo più alto, a causa della
desertificazione che ha colpito i terreni usati per i
pascoli del bestiame. tuareg subiscono da tempo
l'ostilità del governo di Bamako, un tempo controllato
dai francesi e ora da africani neri di fede cristiana o
animista. Vedendo che il loro stile di vita tradizionale
era in pericolo e non ricevendo alcun aiuto dalla
capitale, nel gennaio del 2012 i tuareg si sono ribellati
e hanno conquistato metà del paese prima di essere
di nuovo respinti nel Sahara dai francesi e da altre
forze straniere.
Quello che è successo in Siria e nel Mali è
probabilmente un'anticipazione di quello che
succederà nel corso di questo secolo in molte altre
regioni. Con l'aumentare del riscaldamento globale,
che provoca non solo la desertificazione ma anche
l'innalzamento del livello dei mari nelle zone costiere
e ondate di caldo sempre più
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Ampie regioni del pianeta saranno nelle
condizioni in cui oggi si trova la Siria
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devastanti in regioni già calde, le zone del pianeta
inabitabili aumenteranno e milioni di disperati
saranno costretti a fuggire.
Mentre i governi più ricchi e più forti,
soprattutto nelle zone con un clima temperato,
saranno in grado di affrontare questi problemi,
è probabile che il numero di stati falliti aumenterà
notevolmente, provocando violenza e guerre per quel
che resta del cibo e delle terre coltivabili. In altre
parole, ampie regioni del pianeta saranno nelle
condizioni in cui si trovano oggi la Libia, la Siria e lo
Yemen. Una parte della popolazione rimarrà e lotterà
per sopravvivere, altri migreranno e molto
probabilmente incontreranno una versione ancora più
violenta dell'ostilità che devono subire oggi i migranti
e i rifugiati nei paesi in cui approdano. L'inevitabile
risultato sarà un'epidemia di guerre civili per le risorse
e di violenze di ogni tipo.
Fiumi contesi
La maggior parte di questi conflitti assumerà l'aspetto
di guerre interne: clan contro clan, tribù contro tribù,
setta contro setta. In un pianeta dove il clima sta
cambiando, tuttavia, non possiamo escludere la
possibilità di scontri tra nazioni per il controllo delle
risorse naturali, soprattutto dell'acqua. È già evidente
che il riscaldamento globale ridurrà la disponibilità di
acqua in molte zone tropicali e subtropicali, mettendo
in pericolo l'agricoltura, la salute delle popolazioni, il
funzionamento delle grandi città, e forse le basi
stesse della società. Il rischio delle "guerre per
l'acqua" aumenterà quando due o più paesi
dipenderanno dalla stessa fonte di approvvigionamento - come nel caso dei fiumi Nilo, Giordano,
Eufrate e Mekong - e uno dei governi coinvolti
cercherà di appropriarsi della poca acqua rimasta. I
tentativi di alcuni paesi di costruire dighe e deviare il
flusso di quei sistemi fluviali hanno già provocato
tensioni e minacce di guerra, come quando la Turchia
e la Siria hanno costruito dighe sull'Eufrate.
Un sistema che ha già sollevato particolari
preoccupazioni è quello del fiume Brahmaputra, che
nasce in Tibet (dove è chiamato Tsangpo Yarlung) e
attraversa l'India e il Bangladesh per sfociare
nell'oceano Indiano. La Cina ha già eretto una diga su
quel fiume e ha in progetto di costruirne altre,
mettendo in seria difficoltà l'India, che ha bisogno
delle acque del Brahmaputra per sostenere
l'agricoltura. Naturalmente, anche se in futuro l'acqua
diminuirà ancora, non è detto che scoppieranno delle
guerre. Forse gli stati interessati troveranno il modo di
dividersi le limitate risorse rimaste e cercheranno
mezzi di sopravvivenza alternativi. Ma non c'è dubbio
che quando le risorse diminuiranno e milioni di
persone cominceranno a morire di sete e di fame, la
tentazione di usare la forza aumenterà. In queste
condizioni, la sopravvivenza degli stati sarà in
pericolo e forse saranno costretti a fare disperati
tentativi per salvarsi.
Indubbiamente ci sono molte cose che si
potrebbero fare per ridurre il rischio delle guerre per
l'acqua, a cominciare dall'adozione di progetti di
collaborazione per la sua gestione, e
dall'introduzione ovunque dell'uso dell'irrigazione a goccia e di altri metodi per evitare gli
sprechi. Ma naturalmente il modo migliore per
evitare futuri conflitti legati al cambiamento
climatico è rallentare il ritmo del riscaldamento
globale. Ogni frazione di grado in meno che si otterrà
a Parigi e nei prossimi vertici significherà meno
sangue versato nelle future guerre per le risorse. È
per questo che il vertice di Parigi dovrebbe essere
considerato prima di tutto come una conferenza di
pace.
L'AUTORE
Michael Klare insegna relazioni internazionali all'Hampshire
College, nel Massachusetts. Collabora con The Nation e Tom
Dispatch.