Rosetta Nulli - Testimonianze dai lager
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Rosetta Nulli - Testimonianze dai lager
Rosetta Nulli Sono Rosetta Nulli, sono nata ad Iseo il 30 luglio 1918. Il 12 settembre 1944 era una splendida mattina, io mi sono svegliata piuttosto presto e mi sono subito affacciata alla finestra. Ho aperto per fare entrare un po’ di luce, non molta perché avevo paura di svegliare mio figlio che stava ancora dormendo. Il lago d’Iseo era meraviglioso. Ho sentito delle voci che parlavano in tedesco. Ho aperto ancora un poco la finestra pensando fossero soldati della Todt, che lavorano in basso, venuti a fare un giro. Lo facevano alcune volte. Poi ho guardato meglio ed ho visto che non era la divisa dei soldati della Todt. C’era un ufficiale che si è girato e aveva il simbolo delle SS sul collo. Sono andata subito da mio padre ad avvisarlo e lui si è alzato. Hanno bussato e ho aperto. Questo ufficiale mi ha detto “Signora Bonomelli?” “Sì” ho detto io. “Dov’è il suo bambino?” Dico “Non c’è qui, non c’è, l’ho lasciato via” “Ma no signora, il suo bambino sarà qui”. Ha aperto la porta ed è entrato. Con lui sono entrati altri due soldati. Era un gruppetto di quattro o cinque militari con un maresciallo e un tenente. Subito hanno visto mio figlio che io avevo coperto. Mio figlio allora aveva quattro anni. Ci siamo alzati tutti, si è alzata mia sorella, mia suocera, mio padre, mia madre, io e il bambino. Ci hanno fatto uscire dalle stanze e siamo andati nella veranda sotto dove ci hanno detto “Vi portiamo via con noi perché dobbiamo fare dei controlli. Vi porteremo al Comune di Iseo e poi vedremo”. Ma loro erano venuti soltanto con due macchine, ed erano già in cinque, noi pure eravamo cinque. Allora hanno mandato via le macchine, ci hanno incolonnato e ci hanno fatto andare a piedi in paese. Davanti stava l’ufficiale con il maresciallo, dietro stavo io con il bambino, poi il drappello, che era chiuso dagli altri cinque SS. Nel tragitto ci chiedevamo “come mai ci hanno preso? Cosa sarà successo?”. Passando davanti al cimitero di Iseo vedo che ci vengono incontro due anziane signorine. Erano le sorelle di un certo Tanzi, che dopo l’8 settembre aveva passato le linee insieme con mio marito e mio cognato. Chiedo all’ufficiale “posso salutare le mie due cugine?”. Ci fa fermare. Una signorina mi abbraccia e mi dice “non abbiamo fatto in tempo ad avvisarvi. Tuo marito e tuo cognato sono riusciti ad evadere dalla Gestapo di Verona”. Allora abbiamo capito che ci avevano preso come ostaggi. Siamo arrivati nella piazza di Iseo e sotto i portici si affacciava la gente un po’ intimorita, perplessa. Ci hanno portato nello studio del Sindaco di Iseo, che era un amico di mio padre e mi aveva anche tenuta sulle ginocchia quando ero piccola. E’ stato solo un proforma, non capisco neppure perché ci abbiano portato lì, forse questo tenente doveva fare un paio di telefonate. Poi ci hanno portato alla casa di mio padre in paese e ci hanno fatto sedere in cucina, intanto che loro perquisivano tutta quanta la casa. Ad un certo punto hanno detto “possiamo andare”. Intanto era arrivata una terza macchina con un autista. Ci hanno caricato su due macchine. Io ero con il mio bambino e mia suocera. Ci hanno portato al comando delle SS a Brescia. Quando siamo entrati c’era il maresciallo Leo che ha chiesto qualcosa in tedesco a mia suocera. Mia suocera non ha risposto e lui le ha dato un manrovescio tremendo. Abbiamo chiesto “scusi, che cosa ha fatto?” ma non ci ha detto niente. Nel frattempo è arrivato un altro ufficiale con un plico in mano che ha consegnato a Leo. Leo ha guardato il plico, ha fatto dire dall’interprete di scendere e ci ha fatti caricare di nuovo sulle macchine per portarci al palazzo della Gestapo a Verona. Al Palazzo della Gestapo ci hanno messo nelle cellette sotto la strada, con finestrelle che guardano su quel viale. Quel palazzo c’è ancora, ci passo sempre quando vado a Verona. Io ero in cella con mio figlio, mia sorella con mia suocera, e mio padre con mia madre. Le celle erano piccolissime, se si faceva scendere la branda dal muro non si poteva più camminare. Sono venute le otto, le nove di sera. Nelle altre celle c’erano prigionieri che conoscevano mio marito e mio cognato, uno di questi era il radiotelegrafista di mio cognato. Si misero a cantare una canzone per dirci di stare tranquille. Non ci sarebbe successo niente. Anche loro sapevano già che Bruno e Paride erano riusciti ad evadere. Così abbiamo avuto una conferma. Verso le nove scendono due soldatesse delle SS, aprono la cella e nel vederle mio figlio ha voluto subito che lo prendessi in braccio. Mi fanno uscire e una che parlava abbastanza bene l’italiano, forse dell’Alto Adige, mi dice “il bambino non possiamo lasciarlo con lei, non può fare la vita di cella, ma lei stia tranquilla perché andrà in un posto bellissimo, meraviglioso”. Mio figlio mi si è attaccato al collo, quelle tiravano e io lo stringevo. Dallo spioncino delle celle mio padre e mia madre gridavano “non lasciarlo andare!”. Non ce la facevo quasi più perché stringevo fortissimo. Ad un certo punto scende dalla scala a chiocciola un maresciallo. Chiede spiegazioni, si parlano in tedesco. Quindi chiama l’interprete e gli dice di dirmi di stare tranquilla, che il bambino lo lasciano con me. Dopo questo fortissimo shock, mi dice “Adesso metta il bambino in cella e venga su che dobbiamo interrogarla” Altra scena di mio padre e mia madre che gridavano “Non andare! resta qui! dove vai? non sai dove ti portano” Mi porta su in un ufficio. Mi ha fatto entrare, ho visto che c’era una finestra e ho pensato che se si metteva male mi sarei buttata di sotto e buona notte. Invece lui ha chiamato l’interprete e mi ha detto “stia tranquilla, cercheremo di trattarvi il meglio possibile e lasceremo uscire un po’ in giardino il suo bambino”. “La ringrazio”. Mi ha fatto riaccompagnare di sotto. Il giorno dopo mi vengono a prendere sotto e mi portano in un’altra stanza dove c’era un tenente delle SS piuttosto robusto e col naso un po’ schiacciato. Mi chiede che cosa faceva mio marito, dove stava, se io sapevo. Io dico “non so niente” perché mio marito mi aveva detto “se per una ragione qualsiasi dovessero arrestarti devi stare tranquilla, noi abbiamo l’ordine di dire tutto. Noi dobbiamo dire cosa stiamo facendo, da dove veniamo, da chi dipendiamo, come è fatto il comando eccetera. Quindi se loro ti prendono, tu non devi dire niente, tu non sai niente”. A tutte le domande ho risposto che non sapevo niente, che mio marito non mi diceva niente e che tra l’altro non l’avevo neanche quasi mai visto. Il giorno dopo ci dicono di prendere tutto quello che avevamo. Io avevo un vestito leggerissimo e nient’altro. Il bambino era in calzoncini, maglietta e forse aveva un maglioncino di cotone. Non avevamo niente perché quando ci avevano presi ci avevano detto che andavamo in paese. Ci caricano su un pullman con alcuni di quelli che erano nelle celle, con altra gente che veniva dalle prigioni degli Scalzi di Verona ed altri ancora che venivano da Forte San Leonardo. Partiamo. Sul pullman noi eravamo in quaranta ed i nostri guardiani pochissimi, anche se armati di mitra. Ad un certo punto dei prigionieri chiedono di fermarsi perché avevano necessità. Eravamo oramai fuori Verona, a metà strada tra Verona e Trento. Ci fermiamo e scendo anch’io con il bambino. Si avvicina un certo Bassi e mi dice “ State attenti perché adesso cercheremo di impossessarci del pullman”. “Per carità non fatelo!” dico io. “Non vede che ci sono pochissime guardie?” “Ma hanno il mitra, ci fate uccidere tutti, non fatelo!” “Tenga vicino il bambino”. Sono salita ed ero molto preoccupata per questa cosa. Ho detto a mio padre “quel signore mi ha detto che vogliono impossessarsi del pullman”. Quando i Tedeschi hanno visto che c’erano cinque o sei prigionieri che non erano ancora saliti, hanno chiuso subito gli sportelli e sono andati a cercarli. Noi siamo rimasti soli a porte chiuse con l’autista, che era armato, non aveva il mitra ma si vedeva benissimo che aveva una rivoltella. E’ andata bene perché questi hanno detto che si erano solo un po’ allontanati e così i Tedeschi non hanno capito che stavano per mettere in atto una sommossa. Arriviamo a Bolzano, a Gries, ci fanno scendere e entriamo nel campo. Era ormai l’imbrunire, le tre e mezzo, quattro del pomeriggio del 14 settembre 1944. Mio padre viene messo subito nel blocco B e noi, Ennio compreso, nel blocco E, il blocco delle donne. Poi ci chiamano in ufficio e ci assegnano i numeri, un rettangolo bianco con impresso in nero il numero. Io avevo il numero 4131, mio figlio il 4132, mio padre il 4130, mia madre il 4133, il 4134 mia sorella e il 4135 mia suocera. Non ricordo che cosa abbiamo mangiato quella sera. Alle sei e trenta chiudevano i blocchi perché cominciava a fare buio. A me avevano assegnato il posto basso del castello perché avevo il bambino. Al primo piano c’era mia madre, al secondo piano mia suocera e al terzo piano mia sorella. Dopo un’ora e mezza riaprono il blocco e ci chiamano fuori. Chiediamo al soldato altoatesino dove ci portano e lui risponde “al blocco celle”. Tutti cominciano a commiserarci dicendo “Siete sfortunati, vi portano in un posto dove di sicuro non uscirete più vivi”. Ci portano in una bella celletta con tre letti a castello, un tavolo e uno sgabello, una finestrella alta e il pavimento in terra battuta. I materassi erano di iuta con dentro la paglia. Le coperte erano grigie, spesse e pesantissime, ma fredde perché non erano di lana. La cella non era riscaldata. U ragazzo di Torino, che era caporeparto alla Fiat ed era stato arrestato per sabotaggio, ci aveva costruito una specie di stufa, usando un bastone, una spirale di ferro e una resistenza. Questo povero ragazzo è morto mi sembra a Mauthausen. In questo campo di concentramento mio figlio era veramente un’eccezione assoluta perché era un bambino ariano ed era un ostaggio. Per prima cosa cercammo di renderci conto come era organizzato questo campo perché nel blocco celle c’erano dei prigionieri particolari, che non vivevano la vita del campo. Eravamo con il capitano Barda, col figlio del colonnello Duca, prigionieri che andavano tenuti sotto controllo. Noi non abbiamo potuto neanche uscire e lavorare quindi le giornate erano lunghissime. Io potevo uscire dalla cella perché facevo passeggiare un po’ il bambino. Ennio non gradiva la zuppa che ci davano ed è stato due mesi senza mangiare. Beveva un goccio di latte, un cucchiaio di latte in polvere sciolto nell’acqua che gli davano al mattino, poi non mangiava più. Il medico tedesco, direttore sanitario del campo, ha visto che era veramente deperito, me ne ha chiesto il motivo e gli ha fatto una prescrizione. A mezzogiorno gli mandavano un piattino di patate e il cuoco, un ebreo olandese, sotto le patate nascondeva un bocconcino di carne. Mio figlio si sedeva sullo sgabello al centro del tavolo e tutti lo guardavano mangiare le patate con sotto la fetta di carne. Mia sorella la sera gli raccontava la storiella del Nano Sabbiolino. Se tu non dormi viene un Nano Sabbiolino coi sacchetti di sabbia e ti butta la sabbia negli occhi così tu il giorno dopo non potrai più vedere niente. E poi gli faceva dei disegni. Quando mio figlio ha compiuto cinque anni, il comando tedesco del lager gli ha mandato un giochino, con gli animali da mettere nella giusta casella e le lucine che si accendevano. Siamo rimaste chiuse nelle celle fino al 29 aprile 1945. Una volta al mese radunavano tutti gli internati, uomini e donne, nel grande piazzale del campo che era molto vasto. Intorno c’erano capannoni da una parte e dall’altra, al centro c’era un fabbricato basso con le docce e l’infermeria, in fondo la cucina e di fronte un altro piccolo fabbricato con le celle di punizione. Dentro queste celle c’erano due muretti rivestiti di cemento e alti settanta centimetri circa, dove mettevano i prigionieri quando volevano punirli. Quando partivano i trasporti per i campi in Germania, facevano un’adunata, non quella solita che si faceva tutte le mattine alle cinque e trenta, mezz’ora dopo che era suonata la prima sirena. Era un’adunata particolare che si faceva verso sera dopo che tutti erano ritornati dal lavoro. C’era il maresciallo Haage, che era il vice comandante, e un altro maresciallo. Chiamavano numeri e nomi, questi uscivano dal gruppo e venivano chiusi tutti in un blocco, che era lasciato sempre libero. Erano quelli che erano stati scelti per andare nei campi di sterminio in Germania. Alla stazione venivano portati sui camion. Normalmente questo avveniva una volta al mese. Il campo poteva contenere dalle milleduecento alle millecinquecento persone, ma siamo sempre stati molti di più. Non ci hanno mai lasciato lavorare. La persona che si occupava di assegnare il lavoro alle donne era la prima moglie di Indro Montanelli, Margherita, una bella donna austriaca. E io e mia sorella le dicevamo “Cerca di fare in modo che anche noi si possa uscire a fare qualche cosa”, perché c’era un gruppo di donne che andavano a tenere pulite le stanze delle villette dei soldati e degli ufficiali tedeschi appena al di là dei reticolati. Ma non ce l’hanno mai concesso. Nel campo ho conosciuto dei religiosi, don Gaggero di Genova, che era dei Padri della Pace, e don Berselli, segretario del Vescovo di Cremona, che ogni due giorni veniva a farsi attaccare i bottoni delle mutande. Don Berselli l’ho rivisto anche dopo, mi ha invitato a pranzo al palazzo del vescovo di Cremona. Funaro era un famosissimo direttore d’orchestra, aveva un’orchestra di musica leggera ed era stato preposto ad organizzare i gruppi che dovevano pulire i corridoi e le celle. S’imboscava sempre da noi, diceva che doveva fare le pulizie e se veniva un controllo prendeva la scopa e la faceva prendere anche al suo batterista. Così, giorno per giorno abbiamo modificato le parole di una canzone – non ricordo il titolo che le abbiamo dato – ma comunque è uscita una cosa molto, molto carina. Una canzone riferita alla vita del campo, al piacere che avremmo provato quando saremmo usciti e qualora avessimo potuto fare indossare le nostre tute ai carcerieri. La canzone diceva “tutto passa e si scorda / tutto deve finir / se verrà l’armistizio / ce ne andremo di qui / della tuta con croce / un pacchetto farem / ed ai repubblichini / volentier la darem / proveranno la sveglia / alle cinque del mattin / proveranno il brugiolo / proveranno il frustin / non vedrem più Tedeschi / fame non avrem più / scorderemo l’appello / se torniamo laggiù”. Mio figlio un giorno ha combinato un piccolo guaio. Gli avevo appena messo il suo cappottino ridicolissimo, che ci aveva mandato un amico di mio padre di Bolzano e che gli avevano concesso di portare, e lui è sgattaiolato fuori dal corridoio delle celle che erano state aperte. Gli sono corsa dietro e ho visto che era a metà strada tra le nostre celle e la recinzione di entrata. Sono rimasta perplessa perché improvvisamente ho sentito un fischio. “Questo è un fischietto, stanno fischiando un’adunata. Fermati! Ennio fermati” e lui invece che correva e questo fischietto che continuava a fischiare. Alcuni internati che stavano sistemando dei mattoni hanno mollato tutto e sono andati nel piazzale, nel grande cortile e anche tutti gli altri hanno fatto così, quelli che stavano facendo le pulizie e quelli che stavano lavorando dietro le celle di punizione. E’ intervenuto il maresciallo Haage, stupito della cosa. Quando ho girato l’angolo in fondo e ho agguantato mio figlio, mi sono accorta che era stato lui a fischiare. Ennio si è divincolato ed è corso subito nella cella. Sono entrata anch’io mentre all’altoparlante ordinavano di rientrare. Seduti al primo piano del letto a castello dicevo a Ennio “ma che cosa ti è venuto in mente? Dove l’hai trovato il fischietto? Adesso dov’è?” “Non ce l’ho più” “Dove l’hai buttato? Pensi che finisca così? Adesso verrà qui qualcuno” “ Ma io non ce l’ho più il fischietto, non ce l’ho più”. Dopo dieci minuti che siamo in cella, viene il maresciallo Haage. Entra con l’interprete e ci dice di restituire il fischietto. Allora lì a scongiurarlo “Ennio per favore, ti preghiamo, quando andiamo via, ti compreremo un fischietto grandissimo, però adesso devi dare questo fischietto” Allora lui ha messo la mano nella tasca del suo cappottino – il posto più ovvio, io l’avevo cercato nel pagliericcio – e ha restituito il fischietto. Quando è uscito dalla cella, il maresciallo Haage ci ha chiusi dentro. La liberazione. Si capiva che era successo qualcosa però lì era tutto in un ordine perfetto, assoluto. Non ci si poteva muovere, non si poteva fare niente. Era il 29 aprile, domenica 29 aprile 1945. Alle quattro del pomeriggio si apre la porta della cella, entra il maresciallo Haage con una delle guardie altoatesine che parlavano italiano. Ci dice di prendere le nostre cose, che doveva portarci al comando. Noi prendiamo quelle poche cose che avevamo e ci portano al comando. Lì ci hanno portato in una stanza e ci hanno dato gli abiti che avevamo quando eravamo entrati. Hanno detto che non dovevamo toccare le tute, invece io ho staccato coi denti i triangoli. Poi siamo andati dal tenente Tito, che era il comandate del campo. Ci ha dato il foglio di scarcerazione e ci ha detto che eravamo liberi. Ci hanno messo fuori alle quattro e mezza. Eravamo i primi. Il campo era ancora tutto pieno, tutto funzionava regolarmente, sembrava che dovesse andare avanti ancora per dieci anni. Il clima non era per niente cambiato. Ci mettono fuori dal campo e noi ci siamo chiesti cosa dovevamo fare lì a Gries, dove dovevamo andare. Non avevamo una lira in tasca ed eravamo in cinque, perché mia sorella Mariuccia era stata scarcerata un paio di mesi prima circa. Mio padre a Bolzano aveva un amico. Abbiamo pensato di cercare la strada di questo amico e verso le undici o mezzanotte siamo arrivati a casa sua. Lui non c’era ma c’era il figlio che ci ha ospitato. Comunque quello che ci ha veramente stupito è che Bolzano era ancora tutta presidiata dai Tedeschi. Non c’era niente che potesse farci pensare che la guerra era finita. Io poi ero ansiosa di tornare a casa perché da tantissimo tempo non sapevo niente, se mio marito era vivo o se era morto, che fine aveva fatto. E così ci siamo incamminati a piedi. Quando siamo stati vicino Bolzano è passato un mezzo militare tedesco con l’autista e un soldato. Ci hanno caricato e ci hanno portato fino a una ventina di chilometri dietro Bolzano. Anche lì erano ancora tutti Tedeschi. Mio padre ha detto “Non dobbiamo stare sulla strada principale perché non sappiamo ancora come mai ci hanno lasciato uscire” Non avevamo il coraggio di parlare con nessuno. Abbiamo nascosto i nostri fogli di scarcerazione e ci siamo messi d’accordo di dire che eravamo andati a trovare un nostro parente. Il 4 maggio siamo arrivati a Mori. Siamo andati a cercare la chiesa e il sacerdote ci ha detto che potevamo sistemarci in una piccola sagrestia separata. Alle quattro del mattino successivo abbiamo sentito dei passi cadenzati. Sono scesa e ho visto i Tedeschi in ritirata, a piedi, come in un film. Erano con le giubbe tutte slacciate senza i cinturoni e senza le armi. Verso le dieci circa non abbiamo più visto soldati tedeschi. Siamo usciti fuori e siamo andati verso la strada che doveva portarci a Riva ma l’abbiamo trovata interrotta, con un grande buco. Dall’altra parte abbiamo visto due camionette americane. Ho pensato “Finalmente adesso qualcuno mi raccoglierà e non dovrò più continuare a piedi” invece gli Americani hanno girato intorno a questa voragine con le loro jeeps ma non sono riusciti ad attraversarla, era troppo profonda. Abbiamo vedere il foglio di scarcerazione e loro hanno preso sulla loro jeep mia suocera, mia madre e il bambino. Io e mio padre abbiamo dovuto andare a piedi fino a Riva di Trento. Il nostro ritorno a casa è un finale veramente incredibile. A Riva di Trento ci riuniamo tutti. In inglese cerco di spiegare agli Americani la nostra situazione e chiedo cosa possono fare per noi. Ci portano con un mezzo anfibio al di là di Malcesine, fino a un bel prato in riva al lago, dove c’era un distaccamento di soldati americani. Mentre siamo a chiederci come fare per proseguire si avvicina un giovanotto che ci dice “ho sentito che state cercando un mezzo per tornare a casa. Vorrei farle una proposta. C’è un giovane laggiù che ha una moto con un sidecar. Se lei riesce a farsi dare dagli Americani la benzina, lui vi porta a casa” Arriva il giovane, sul sidecar c’era una bandiera tricolore. Era stato partigiano in quelle zone. Quindi ci sentiamo sicuri. Gli Americani riempiono il serbatoio e ci danno anche una tanichetta piccola. Ci siamo disposti così: mia madre nel sidecar con mio figlio, mio padre dietro il guidatore, mia suocera dietro il sidecar e io in piedi con un piede sul sidecar e uno sulla moto. Tremavo. Andiamo velocissimi e a un certo punto di viale Venezia si rompe una gomma. Proprio squarciata. Mio padre propone di andare la Fiat da un certo Bertolotti per trovare una gomma. Andiamo e lì siamo avvicinati da dei capi partigiani. Tra loro un tedesco. Mio padre decide di portarlo fino a Iseo. Dopo avremmo pensato cosa fare. E’ stato sei mesi a casa nostra, perché non voleva tornare in Germania, aveva paura. Era di Colonia. A casa nostra è stata dura ma abbiamo trovato tutto. Mio marito l’ho visto soltanto il 12 di maggio perché non l’hanno smobilitato finché non è stata firmata la pace gli Alleati. Anzi, gli avevano concesso solo di venire a casa, non era ancora stato smobilitato.