la valle dei templi tra archeologia e paesaggio

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la valle dei templi tra archeologia e paesaggio
progetto scuola museo
“la valle dei templi
tra archeologia e paesaggio“
testi di
Aurelio Burgio
Giuseppe Barbera e Maria Ala
foto in copertina di
Giò Martorana
regione siciliana
assessorato
bb.cc.aa. e p.i
dipartimento
bb.cc.aa. ed e.p.
progetto scuola museo
“la valle dei templi
tra archeologia e paesaggio”
testi di
Aurelio Burgio
Giuseppe Barbera e Maria Ala
regione siciliana
assessorato
beni culturali ambientali e pubblica istruzione
dipartimento
beni culturali ambientali ed educazione permanente
Agrigento 2008
Progetto Laura Cappugi
Segreteria di redazione Patrizia Di Giovanni
Progetto grafico Tommaso Guagliardo
Copia omaggio - Vietata la vendita
scheda cip
Premessa
Rosalia Camerata Scovazzo
Presidente del Consiglio del Parco
Fra le varie problematiche
affrontate da Consiglio del
Parco, un posto importante ha
costituito il tema della didattica
e dei servizi da offrire alle scuole,
per il quale sono stati individuati
diversi strumenti: dalla
realizzazione di laboratori
didattici, alla pubblicazione di una
piccola guida fatta apposta per i
bambini e, infine, all’attuazione del
progetto Scuola-Museo finanziato
dal Dipartimento Beni Culturali
dell’Assessorato Regionale Beni
Culturali e Ambientali
sull’esercizio finanziario 2007,
di cui questa piccola
pubblicazione costituisce l’esito
finale, mentre gli altri sono
ancora in fase di realizzazione.
Con il progetto Scuola Museo,
che l’Amministrazione
Regionale manda avanti, ormai,
da diversi anni si intende, fra
l’altro, offrire ai docenti
strumenti efficaci per la
conoscenza specifica del Parco
e per la fruizione degli itinerari
archeologici e naturalistici al
suo interno.
La varietà e la complessità
culturale dei molteplici aspetti
della Valle dei Templi ci hanno
indotto a scegliere come prime
tematiche di carattere generale
da sviluppare sul piano
didattico, quelle che
costituiscono gli elementi
fondanti del Parco stesso: l’
archeologia e il paesaggio.
I due contributi - “Il contesto
storico-topografico, il circuito
difensivo, l’evoluzione
urbanistica ed architettonica
della città greca” e “Riscoprire il
paesaggio agrario della Valle dei
Templi tra miti, storia,
letteratura e tradizione” –
3
redatti dagli stessi specialisti
che hanno effettuato le lezioni,
forniscono in maniera sintetica
gli elementi fondamentali per la
comprensione dei grandi temi
culturali che rendono la Valle
celebre in tutto il mondo.
Ringrazio le Scuole e i Docenti
che ci hanno voluto seguire in
questo percorso, gli autori dei
testi per i loro esaustivi
contributi, la Direzione e gli
Uffici del Parco che si sono
adoperati per la realizzazione di
questo progetto redatto dalla
dott.ssa Laura Cappugi, che da
anni si occupa di didattica per
conto dell’Amministrazione
Regionale, cui va il mio più vivo
ringraziamento insieme alla
dott.ssa Assunta Lupo, nostro
referente presso il Dipartimento
Beni Culturali, per la fiducia
concessa.
Il Parco archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi di
Agrigento ha costituito un’area didattica con il preciso intento di
richiamare l’attenzione e l’interesse della Scuola alla conoscenza
della Valle e di stabilire rapporti continuativi di collaborazione con
esse, nelle forme e nei modi possibili, per promuovere esperienze
formative finalizzate alla conoscenza e alla fruizione del
patrimonio archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi, che
darebbero attuazione anche ad una forma di turismo scolastico di
grande rilevanza.
Nell’ambito delle proprie attività istituzionali dedicate alla
didattica, ha organizzato un modulo formativo rivolto ai docenti
delle Scuole di Agrigento e Provincia, che per la rilevanza del
progetto e le sue peculiari finalità conferma la strategia di
educazione ai beni culturali, caratteristica della Regione Siciliana.
Destinatari di tale attività didattica sono stati circa 70 docenti,
ripartiti tra scuole elementari, medie e superiori, visti come
“mediatori”, anche nella verifica di aspettative, bisogni formativi e
informativi, tra il Parco, gli educandi e le famiglie. I temi sviluppati
nell’ambito di tale attività hanno riguardato l’archeologia e la
storia di questo territorio, nonché gli aspetti paesaggistici, che
costituiscono la secolare attrattiva di esso. La pubblicazione, oggi,
degli argomenti trattati nel corso della suddetta attività, vuole
essere un ulteriore contributo allo sviluppo dei rapporti ParcoScuola, nella consapevolezza che possa costituire un utile
strumento di conoscenza della Valle e di suoi beni.
Pietro Meli
Direttore del Parco
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Introduzione
Laura Cappugi
Chi opera nel settore della
cultura e dell’educazione è
perfettamente consapevole del
forte bisogno culturale da parte
della società civile, che oggi
reclama sempre di più una
condivisione della conoscenza
delle tracce e dei documenti
materiali del proprio passato.
L’archeologia spesso viene
percepita da non pochi cittadini
come una proprietà privata
degli addetti ai lavori, un
complesso di testimonianze
non sempre decifrabile,
accattivante e ricco di stimoli.
Per questo motivo l’approccio
ad un sito archeologico non può
fondarsi sulla mera
contemplazione di frammenti del
passato, ma piuttosto sul valore
e sui significati delle strutture
riemerse dal sottosuolo, viste
come documenti leggibili ed
eloquenti di antiche civiltà.
I giovani che si recano a visitare
un qualsiasi sito archeologico,
spesso si limitano a percorrere
gli ambienti e a esplorarne le
diverse strutture che lo
compongono senza viverne la
potente seduzione. Talvolta
cercano di fare anche uno
sforzo di immaginazione per
cercare di ricostruire la vita
degli antichi abitanti, le
funzioni precise degli edifici, i
riti e i costumi sociali.
Ecco perché ritengo che sia
estremamente significativo
offrire un monumento il meno
possibile sclerotizzato e avulso
dalla realta’ quotidiana,
proponendo innanzitutto una
lettura storica e antropologica,
corredata da informazioni
dettagliate sui manufatti dal
punto di vista archeologico e
artistico.
Per gli studenti l’archeologia
così può assumere pertanto un
valore didattico di notevole
importanza, il cui scopo
principale sarà quello di
facilitare l’apprendimento
dell’arte, della storia, e delle
culture antiche, ma soprattutto
di suscitare nuovi motivi di
interesse, che possono dare
luogo ad ulteriori
approfondimenti.
Il progetto elaborato per il
Parco della Valle dei Templi ha
come finalità più evidente la
realizzazione di strumenti
efficaci di mediazione e
informazione. Ma non è l’unico
obiettivo, né il più importante.
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La mia esperienza didattica
maturata negli anni con
bambini e ragazzi ha dimostrato
che l’approccio ai temi della
storia antica e dell’archeologia
è maggiormente efficace
quanto più viene sollecitata la
naturale curiosità. E’ la curiosità
tipica che si riserba a quanto ci
è lontano e sconosciuto e che
del resto è il motivo per cui il
documentario storico
divulgativo, il cinema e la
letteratura di genere fantasy
abbiano così tanto successo. La
stessa storia antica che tanto
annoia, quando è codificata in
un libro di testo, può incuriosire
e affascinare dopo la visita ad
un museo o ad un sito
archeologico, in cui si trovino
idonei elementi di mediazione
(apparati didascalici, guide,
operatori) e la possibilità di
partecipare ad attività in
laboratori didattici.
Questa pubblicazione quindi si
presenta come il primo
necessario strumento per una
efficace conoscenza del sito, per
sensibilizzare e rafforzare il
legame col territorio,
promuovere attenzione per la
realtà ambientale e scoprire le
componenti storiche naturali e
antropiche. E’ la prima risorsa
documentaria di tipo didattico
attraverso cui il Parco intende
aprirsi al mondo della Scuola ed
è rivolta soprattutto ai docenti,
affinché trovino valido supporto
per le attività propedeutiche
8
alla visita del sito e per
l’approfondimento di temi
nell’ambito dei programmi
curriculari.
te sti di Aurelio Burgio
A kr a ga s.
Il contesto storico-topografico, il circuito difensivo,
l’evoluzione urbanistica ed architettonica della città greca.
Il sito e le vicende storiche
Il sito dell’antica Akragas,
culminante a Nord con i due
rilievi della collina di Girgenti
(m 326 s.l.m.) e della Rupe
Atenea (m 351), entrambe
delimitate da alte pareti a
strapiombo (fig. 1), si distende
su un altipiano calcarenitico in
dolce pendio, chiuso a Sud dalla
c.d. collina dei Templi, una ripa
marina del Quaternario inferiore
che si sviluppa per circa 2 km
da Est ed Ovest (fig. 2). Ad
Oriente e ad Occidente i limiti
dell’area urbana seguono le alte
balze rocciose che sovrastano
due modesti corsi fluviali,
rispettivamente l’Akragas (oggi
S. Biagio) e l’Hypsas (oggi
Drago), quest’ultimo alimentato
sulla sinistra dal torrente delle
Cavoline. I due principali corsi
d’acqua confluiscono a Sud,
all’esterno dell’antica città,
nell’attuale fiume S. Leone, che
solca un’ampia fascia
alluvionale del Quaternario
recente (Piano S. Gregorio), ai
cui margini orientali si elevano i
dolci rilievi culminanti in Poggio
Muscello (m 117). Ad Ovest
della foce del S. Leone si
distende infine la bassa e
stretta collina di Montelusa, o
Maddalusa (m 76), nei cui pressi
era collocato l’emporion della
città.
Il contesto paesaggistico nel
quale è inserita Akragas è
circondato da altre colline,
molte delle quali furono in
antico sedi di insediamenti
umani: subito a Nord si trova la
lunga cresta rocciosa di
Serraferlicchio (m 316), ad Est
Fig. 1 – La Rupe Atenea, veduta aerea da
NE (da MERTENS 2006).
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la collina di Poggio (o Cozzo)
Mosè (m 178), mentre ad Ovest
la lunga e stretta dorsale di
Monserrato (m 317) che
sovrasta il corso dell’Hypsas.
Pochi km a Nord-Est si eleva la
collina di Caltafaraci (m 533),
anch’essa occupata da un
piccolo centro abitato.
Le più antiche testimonianze di
vita di questo territorio – che
attrasse l’interesse di Paolo Orsi,
Pirro Marconi e Jole Bovio
Marconi, fino alle più ampie e
sistematiche ricerche di Pietro
Fig. 2 – La collina dei Templi, vista da Est
(da DE MIRO 1994).
Griffo, Ernesto De Miro e
Graziella Fiorentini, di recente
presentate in una articolata
visione d’insieme da parte di
Domenica Gullì – risalgono alla
più antica storia della Sicilia.
L’età neolitica è documentata
sia attraverso un saggio
stratigrafico sulla collina dei
Templi, subito ad Ovest del
tempio di Zeus, sia attraverso
rinvenimenti di superficie in
contrada Maddalusa ed a
Serraferlicchio. Villaggi
dovevano avere sede in tutte
queste aree, come pure, nelle
età successive, a Serraferlicchio,
Poggio Mosè e Monserrato.
All’Eneolitico ed alla prima età
del Bronzo si data il deposito in
grotta (probabilmente un luogo
di culto) di Serraferlicchio, nei
cui pressi si trovava anche un
abitato, ed alla prima età del
Bronzo le necropoli ed i villaggi
dislocati sia ad Est di Agrigento,
sulla lunga cresta di Poggio Mosè
(dal c.d. S. Calogero Bianco al
nucleo più antico dell’attuale
villaggio Mosè), sia ad Ovest, a
Monserrato; qui, di recente, sono
state localizzate anche tombe
risalenti alla media e tarda età del
Bronzo. A questo stesso periodo
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sembrano riferirsi le capanne
del settore più occidentale della
collina dei Templi (sempre nelle
immediate vicinanze del tempio
di Zeus), e nei pressi del poggio
di S. Nicola.
Una lunga frequentazione
dall’Eneolitico al tardo Bronzo
caratterizza l’area intorno al
santuario rupestre di S. Biagio,
mentre dal Bronzo antico all’età
del Ferro si datano le numerose
tombe a grotticella e a camera
identificate sui versanti
settentrionale e orientale della
Rupe Atenea. Se poi ci si sposta
alle pendici sud-occidentali
della città antica, si noterà che
l’ampia zona compresa tra il
tratto finale dell’Hypsas, le
contrade S. Anna e Pezzino, fino
all’estremità della collina dei
Templi, sembra essere stata
occupata in modo stabile in età
pre- e protostorica.
Di estremo interesse sono le
attestazioni di relazioni
commerciali transmarine con il
mondo egeo documentate nella
piana di Cannatello, a Sud-Est
di Poggio Mosè, dove già sul
finire dell’800 fu identificato un
abitato preistorico: è possibile
che da questa area provenga
l’anforetta a staffa micenea,
acquistata da Paolo Orsi presso
la “marina di Girgenti” agli inizi
del ’900, mentre a partire dagli
anni ’80 è stato portato alla
luce parte di un vero e proprio
“emporio”, con forte
caratterizzazione miceneocipriota, frequentato tra la
media età del Bronzo e la prima
età del Ferro.
Non sono documentate finora
tracce di villaggi riferibili alla
prima età del Ferro nell’area
della città di Akragas e nelle sue
immediate vicinanze, segno
forse che gli indigeni dovevano
abitare già in centri posti un po’
più all’interno, quando agli inizi
del VI sec. a.C. coloni di Gela,
con il concorso di genti rodiocretesi, diedero vita alla nuova
città. La presenza indigena è
comunque forte, espressa forse
– come ha sottolineato E. De
Miro – attraverso la presenza di
piccole sedi di culto; tra queste,
un ruolo importante poteva
avere il santuario extraurbano
di contrada S. Anna, posto forse
non a caso poche centinaia di
metri a Sud-Ovest della città,
proprio di fronte a quel settore
della collina del Templi del
quale è stata segnalata
l’occupazione stabile in età
preistorica e protostorica. Nel
santuario di S. Anna, di età
arcaica (ma non mancano
reperti dell’età del Bronzo), è
stata rinvenuta ceramica di
produzione indigena a
decorazione impressa, attestata
anche sulla collina di
Maddalusa, nei cui pressi si
trovava l’emporio stabilito
probabilmente dai primi coloni:
dalla necropoli proviene
ceramica di produzione
indigena a decorazione
impressa e incisa, ceramica di
importazione ionica e corinzia,
ed alcuni sarcofagi, uno dei
quali, in marmo, decorato a
metope e triglifi, è oggi esposto
al Museo Archeologico di
Agrigento.
Nel 582 a.C. dunque, sotto la
guida dei due ecisti Aristonoos
e Pystilos (i loro nomi ci sono
tramandati da Tucidide), Geloi e
Rodio-Cretesi fondarono
Akragas. Il territorio doveva
essere noto almeno in parte, se
si pensa alle numerose
testimonianze coeve ad Ovest di
Gela, in particolare nei dintorni
dell’attuale Palma di
Montechiaro, là dove un
importante nodo di transito è
rappresentato dalla strettoia
morfologica chiusa tra i rilievi
del Castellazzo e di Piano della
Città, sedi di due importanti
insediamenti. Ciò suggerisce
l’interesse dei Geloi per tutta la
fascia costiera occidentale,
tanto più che già alla metà del
VII secolo coloni di Megara
Hyblaea avevano fondato,
molto più ad Ovest, la
subcolonia di Selinunte.
La fase più antica della storia
politica di Akragas, già nella
prima metà del VI sec. a.C., è
dominata dalla figura del
tiranno Falaride, la cui politica
di espansione si indirizzò in
modo deciso sia verso l’interno
della Sicilia, a spese dei Sicani,
sia lungo la fascia costiera. Fu
probabilmente a partire da
questi anni che la città
cominciò ad acquisire una
sempre crescente floridezza
economica, di cui può essere
espressione, sul finire del
secolo, la costruzione del c.d.
tempio di Eracle, il più antico
tra gli edifici di culto.
La storia ricorda un secondo
tiranno, Terone, della famiglia
degli Emmenidi, che resse le
sorti di Akragas tra il 488 ed il
471 a.C., continuando la politica
espansionistica di Falaride:
l’interesse della città si spinse in
modo ancor più deciso verso
l’interno della Sicilia, mirando
ad una dimensione tirrenica,
nella direzione della calcidese
Himera. In questa prospettiva si
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inseriranno l’intervento
cartaginese e lo scontro tra
Cartaginesi e Sicelioti, che
culmineranno con la battaglia
di Himera del 480 a.C.
La vittoria che i Greci di Sicilia
ottennero ad Himera sui
Cartaginesi, e su quei Sicelioti
loro alleati, rappresentò per
alcune poleis greche – e
Akragas fu tra queste – una
fase di notevole ricchezza, in
particolare quando dopo la
morte di Terone e la cacciata
del figlio Trasideo (471 a.C.)
venne istituito un governo
democratico che si manterrà
fino alla fine del V secolo. Le
risorse economiche (il bottino di
guerra) ed umane (schiavi)
convenute nella città dopo la
vittoria di Himera furono
probabilmente alla base del
notevole sviluppo edilizio, che
vide la collina dei Templi
infittirsi di edifici sacri. Si ricordi
che Diodoro Siculo (XI, 25, 3)
riferisce che i prigionieri di
guerra venivano sfruttati sia per
la costruzione di templi e per la
realizzazione del complesso
sistema di acquedotti e della
Kolymbethra, sia come forza
lavoro nella città e nei campi. Il
clima di ricchezza ed il favore di
cui godettero in quel periodo –
non certo in modo disinteressato
– le lettere e le arti, è ben
espresso dalla presenza ad
Akragas di Simonide e Pindaro,
il quale celebrò nelle sue Odi (II
e III Olimpica, VI Pitica, III
Istmica) proprio le vittorie di
Terone e della sua corte, mentre
nella XII Pitica celebrava la
bellezza della città.
Nel corso del V secolo, il
controllo politico-territoriale,
diretto e indiretto, di Akragas si
ampliò a buona parte della Sicilia
centro-meridionale, giungendo
fino alla zona di spartiacque tra
l’alta valle del Platani (l’antico
Halykos) e l’Imera Meridionale,
dove tra gli altri spicca il grande
centro abitato di Terravecchia di
Cuti, sede di un santuario
extraurbano ricchissimo di
statuette fittili di tipo
agrigentino.
Più tardi, alla fine del V sec., il
nuovo intervento cartaginese in
Sicilia produsse il progressivo
annientamento di quasi tutte le
poleis siceliote, a partire da
Selinunte: nel 406, dopo un
lungo assedio, Akragas venne
occupata, ed ai suoi cittadini fu
consentito di rientrare l’anno
successivo in una città il cui
impianto difensivo era stato in
buona parte smantellato,
economicamente ridotta a città
tributaria di Cartagine. Gli scavi
archeologici condotti in alcune
aree della città, anzitutto il c.d.
quartiere punico, hanno
documentato trasformazioni di
destinazione d’uso rispetto
all’età precedente la distruzione
cartaginese.
Una fase di oscurità, per quanto
noto attraverso le fonti,
attraversa la prima metà del IV
secolo ed oltre. Bisogna infatti
attendere gli anni di
Timoleonte, che tra il 344 ed il
338 a.C. condusse la lotta
contro i Cartaginesi, per
assistere ad una ripresa di
Akragas, e proprio in quegli
anni sotto la guida degli ecisti
Megillo e Feristo giunsero in
città nuovi coloni provenienti
dalla lucana Elea. Questo
episodio fu celebrato come una
nuova fondazione, ed è forse
all’origine di un massiccio
intervento che riguardò sia le
mura, che certo dovettero
essere restaurate, ma forse in
alcuni luoghi ristrutturate
secondo le più moderne
tecniche di poliorcetica, sia
l’impianto edilizio ben
riconoscibile nel c.d. quartiere
ellenistico-romano ed in quello
ad Ovest del Tempio di Zeus.
Sul finire del IV secolo Akragas
provò ad assumere via via un
ruolo autonomo rispetto alla
città che aveva assunto la guida
della Sicilia, Siracusa, e tale
scelta potrebbe essere stata
indotta dalla sua posizione, a
contatto con l’epicrazia
cartaginese estesa nella parte
più occidentale della Sicilia.
Infatti, intorno al 310, mentre il
tiranno siracusano Agatocle si
trovava impegnato in Africa in
una spedizione militare, gli
Akragantini cercarono di dare
vita ad una federazione di città
greche, che tuttavia avrà una
durata limitata, ed anzi nel 307
e 306 Akragas fu due volte
sconfitta da Siracusa.
Circa un trentennio più tardi,
alle soglie dell’affermazione di
Roma nella Sicilia, fu il tiranno
Finzia (287-279 a.C.) a reggere
le sorti della città: il suo
territorio si amplia fino a quella
che un tempo era stata la
madrepatria, Gela, che fu
distrutta ed i cui abitanti furono
spostati in una città cui il
tiranno diede nome, Finziade,
sulla collina che sovrasta
l’attuale Licata. Pochi anni
dopo, nel 276, sarà Pirro, re
dell’Epiro, a conquistare
nuovamente Akragas.
Con la prima guerra punica si
apre un lungo periodo
Fig. 3 – Akragas. Planimetria della città antica (da SCHMIEDT-GRIFFO 1958).
14
particolarmente difficile: nel
262 la città si arrende dopo
circa sei mesi all’assedio dei
Romani; un decennio più tardi,
nel 255, sono i Cartaginesi a
porre l’assedio, finché riescono
a conquistarla, sconfiggendo la
guarnigione romana che aveva
provato l’ultima resistenza nel
Tempio di Zeus, trasformato in
fortezza.
Infine, schieratasi contro Roma
durante la seconda guerra
punica, viene assediata e
saccheggiata nel 210 dai
Numidi alleati dei Romani,
cessando di essere città
autonoma.
Topografia generale della città
greca
La prima completa
presentazione d’insieme della
città, impostata in modo
scientificamente corretto, si
deve allo Stato Maggiore
Italiano, che nel 1863 realizzò
una carta in scala 1:10.000,
pubblicata nel 1867. Questa
carta venne rielaborata da
Giulio Schubring, che nel 1870
pubblicò la Historische
Topographie von Akragas,
stampata nel 1887 nella
traduzione italiana (Topografia
storica di Agrigento), curata da
G. Toniazzo, con il corredo di
una carta archeologica in scala
1:15.000.
Risale al 1958 la successiva
planimetria della città, ancora
valida nel suo impianto
d’insieme, elaborata in scala
1:10.000 da Giulio Schmiedt e
Pietro Griffo (fig. 3) attraverso
le fotografie aeree, ma che oggi
richiede puntualizzazioni ed
aggiornamenti.
L’area della città, ampia circa
450 ettari, chiusa dalle due
cime della collina di Girgenti a
Nord-Ovest e della Rupe Atenea
a Nord-Est, si sviluppa su un
pendio inclinato da Nord a Sud
fino alla cresta della c.d. collina
dei Templi, mentre i versanti Est
ed Ovest sono delimitati dal
corso dei due fiumi e da alte
pareti rocciose, interrotte in
alcuni punti da vallette che si
incuneano parzialmente
all’interno del perimetro
urbano, sul fondo delle quali in
genere si aprono le porte
urbiche. Nel tratto a valle della
più ampia depressione
morfologica che spezza
all’estremità sud-occidentale la
collina dei Templi, tra le aree
sacre dell’Olympieion e del c.d.
tempio di Vulcano, si trovò il
modo di raccogliere le acque
che vi confluivano tramite i
valloni ed una serie di condotti,
i c.d. acquedotti di Feace: qui
ebbe sede la celebre
Kolymbethra (fig. 4). Infine, la
posizione delle necropoli
Fig. 4 – La Kolymbethra ed il santuario delle Divinità Ctonie (da DE MIRO 2000).
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conferma che fin dall’inizio fu
selezionata l’intera area
descritta, dal momento che
all’interno del perimetro urbano
non sono note sepolture.
Polibio (Storie, IX, 27), nel
descrivere Akragas (che egli
vide probabilmente negli anni
212-210 a.C.), sottolinea la
differenza rispetto a molte altre
città del suo tempo, rilevandone
inoltre sia la posizione
strategica, sia la bellezza delle
costruzioni, sia la distanza dal
mare (18 stadi, pari a circa 3,2
km), tale da apportare benefici
alla città ed ai suoi abitanti;
evidenzia quindi le
caratteristiche delle mura e la
posizione della città rispetto ai
fiumi che la circondano. Passa
quindi a indicare l’acropoli, che
“sovrasta la città dal lato che
guarda l’oriente estivo, limitata
all’esterno da un inaccessibile
burrone, e avente dalla parte
interna una sola strada che vi
conduce dalla città. Sulla cima
c’è un santuario di Atena e di
Zeus Atabyrios, come anche a
Rodi”. Si sofferma quindi sulla
ricchezza e opulenza degli
edifici sacri e pubblici: la città è
infatti “magnificamente ornata
di templi e di portici, e benché il
tempio di Zeus Olimpio non
abbia avuto compimento, per
invenzione e per grandezza non
sembra essere inferiore a
nessuno di quanti sono in Grecia”.
La descrizione di Polibio
permette quindi di collocare
l’acropoli sulla Rupe Atenea, la
collina a Sud-Est, quella che
“guarda l’oriente estivo”, ipotesi
più che verosimile, che tuttavia
non incontra il favore di tutti gli
studiosi, a partire già dallo
Schubring, il quale preferiva
porre l’acropoli sul colle di
Girgenti. D’altra parte sulla
sommità della Rupe sono state
portate alla luce quasi
esclusivamente strutture a
carattere militare, opere di
terrazzamento e di
fortificazione pertinenti a fasi
distinte, due ascrivibili al V
secolo (una forse all’assedio
cartaginese del 406), una terza
al IV ed un’altra ancora al III
secolo sec. a.C. Da segnalare
anche la presenza di un
complesso artigianale (oleificio)
attivo tra la seconda metà del
IV ed il III sec. a.C.
Quanto al colle di Girgenti, non
c’è dubbio che dovesse essere
parte integrante dell’antica
città, e non solo perché vi si
trova un tempio della prima
metà del V secolo, inglobato
nella chiesa di S. Maria dei
Greci (tempio di Atena), ma
anche per la sua posizione
fortemente strategica. D’altra
parte non sono pochi gli esempi
di città greche (Locri Epizefiri)
che hanno incluso all’interno
della cinta muraria le più alte
colline, senza che ciò implicasse
la fitta e capillare occupazione
delle aree più impervie.
Le fortificazioni
La conformazione morfologica
dell’area su cui sorse la città
condizionò anche lo sviluppo
del sistema difensivo, che si
attestò sulle due cime del colle
di Girgenti e della Rupe Atenea,
sull’orlo dei valloni che
delimitano l’area urbana ad Est
e ad Ovest, ed ancora lungo la
cresta della collina dei Templi. Il
risultato fu un circuito che si
sviluppava per circa 12 km,
definendo così il solo spazio che
presentava confini fisici ben
marcati, tali da poter essere
rinforzati con opere di
fortificazione che non
richiedevano, almeno in una
prima fase, particolari
accorgimenti.
Polibio (IX, 27), ricorda che le
fortificazioni “si stendono su
una roccia alta e scoscesa, in
parte così per natura, in parte
per mano dell’uomo”, chiarendo
in poche parole che la linea
difensiva appare ai suoi occhi
come coronamento e
potenziamento di una
situazione naturale. Seguendo il
tracciato difensivo, lungo il
costone roccioso in più luoghi la
roccia appare oggi intagliata,
talora si individuano blocchi in
situ ovvero si distingue la
superficie levigata, destinata
alla messa in opera dei blocchi,
talvolta accompagnata da
consistenti tracce di bruciato,
ciò che rimane della distruzione
per effetto del fuoco. Il dissesto
idrogeologico che
contraddistingue la collina, più
accentuato lungo il ciglio, ha
determinato in più punti frane e
smottamenti. L’aspetto attuale è
però condizionato anche dalla
realizzazione di cave lungo il
16
circuito difensivo, insieme
all’apertura di tombe ad
arcosolio di età paleocristiana e
bizantina, soprattutto nel tratto
compreso tra i templi detti di
Hera e della Concordia, segno
che le fortificazioni avevano
ormai perduto la loro funzione.
A questo sistema di
adeguamento alla morfologia e
di potenziamento delle difese
naturali – elemento per nulla
legato alla cronologia
dell’impianto – si associano
vere e proprie opere di
fortificazione, soprattutto là
dove si presentano particolari
situazioni sfavorevoli per la
difesa, e presso le porte,
strutturate secondo il principio
della porta scea (la porta è
dotata di un rientrante obliquo
rispetto alle mura, difeso da
strutture più massicce sulla
destra dell’attaccante, che
poteva in tal modo essere
colpito sul lato di norma non
protetto dallo scudo). Tutte le
porte si aprono di norma in
corrispondenza di naturali vie di
accesso, depressioni o valloni
tributari dei due fiumi che
circondano la città, ovvero nelle
vicinanze dei principali edifici
sacri. Nell’insieme, sono nove le
porte che si aprono lungo il
circuito difensivo, alle quali si
affiancano alcune postierle.
Numerose sono le postierle
identificate: una ai piedi del
tempio di Demetra, due tra le
porte IV e V (una in
corrispondenza dell’angolo SO
dell’Olympieion), una poco oltre
la porta V, una ad Ovest del
tempio di Vulcano. Alcune porte
(II, III) recano nettissimi i solchi
lasciati in antico dal transito dei
carri, forse approfonditi nel
tempo dagli agenti atmosferici.
Fig. 5 – Porta I ed il baluardo a tenaglia (da
MARCONI 1930).
Talvolta, interventi sia di età
antica che moderna (un
frantoio a fianco della porta II)
hanno ulteriormente contribuito
a trasformare la struttura,
mentre non mancano (porta III,
V) resti murari e tracce
riconducibili alla presenza di
torrioni di difesa. Nicchie
scavate sulle pareti, destinate
ad accogliere pinakes votivi,
sono presenti nei pressi di più di
una porta (II, IV, IX).
G. Schubring e P. Marconi,
rispettivamente alla fine
dell’800 ed intorno al 1930,
prospettano ipotesi differenti
per il tratto lungo la
Kolymbethra: Schubring non
osservò qui tracce del muro di
cinta, e ritenne che la linea
difensiva scendesse verso valle
sbarrando con una diga il letto
dell’Hypsas, per poi continuare
lungo il suo corso. Marconi
segnala invece uno spesso
strato di conci nella parte
inferiore della Kolymbethra, ma
anche spezzoni del muro e
conci sparsi sul costone in alto,
ritenendo che il muro di cinta e
la diga fossero un tutt’uno.
Griffo ritiene invece che la
struttura di fondazione
segnalata dal Marconi sia
troppo avanzata verso valle.
Osservazioni tecniche condotte
lungo il circuito hanno fatto
ipotizzare a Marconi che il
muro fosse in alcune zone (per
esempio sul versante
occidentale, tra il tempio di
Vulcano e Poggio Meta)
articolato in salienti e
rientranti, e che la larghezza
fosse pari a m 1,25/1,30, pari ad
un blocco disposto per testa ed
uno per taglio. In altre zone (si
veda il tratto individuato a Nord
del tempio di Hera),
l’affioramento di tratti murari
permette di osservare la tecnica
costruttiva dell’impianto
difensivo.
Porta I si apre ai piedi della
cresta sulla quale si trova il
tempio di Demetra (fig. 5): si
conserva soltanto la fronte
destra (riferita a chi guarda), di
cui rimane la parte iniziale di
uno sperone obliquo,
aggettante dal muro di cinta.
Poche decine di metri a SudOvest si trova il c.d. baluardo a
tenaglia, scavato da Ettore
Gabrici nel 1925: si tratta di
una sofisticata opera difensiva
costituita da due strutture
murarie, disposte in modo
obliquo rispetto alla linea delle
mura e convergenti verso un
torrione aggettante ampio m
8,30 x 6,80. Il baluardo è stato
eretto sul fondo di una valle
attraverso la quale si entra in
modo agevole nel cuore della
17
città antica, ed è verosimile che
sia stato costruito proprio per
rinforzare questo versante,
particolarmente esposto, e che
non appartenga alla fase più
antica del sistema difensivo.
Poco oltre si trova Porta II
(detta anche Porta di Gela),
all’estremità sud-orientale della
Rupe Atenea, là dove il costone
roccioso che sovrasta il corso
del fiume piega nettamente
verso Ovest. Il sistema difensivo
di Porta II, descritto già da G.
Schubring e indagato con alcuni
saggi da P. Marconi, si articola
in un lungo corridoio naturale,
incassato tra pareti di roccia
artificialmente intagliate in
modo pressoché verticale e
potenziate con opere murarie.
La strada, ricavata nel banco
roccioso, corre ad una
profondità media di 6 m
rispetto al terreno sovrastante,
raccordandosi al vallone S.
Biagio, e da qui ai percorsi che
procedono verso Oriente,
seguendo forse la direttrice che
passa alle spalle di Cozzo Mosè.
Sulle pareti che fiancheggiano
la strada si trovano alcune
nicchie, destinate all’inserzione
di pinakes votivi, segno della
presenza di un santuario rupestre
cui si riferiscono anche alcune
piccole fosse ed un recinto
quadrangolare; ceramiche ed
altri oggetti qui rinvenuti
attestano che l’area sacra fu
attiva tra il V ed il I sec. a.C.
Porta III, subito ad Ovest del
tempio di Hera. La porta vera e
propria si trova al termine di un
breve corridoio (m 7 x 2,5),
preceduto da uno slargo
quadrangolare di m 10 x 6; essa
era dominata sul fianco destro
dal maestoso rilievo sui cui
sorge il Tempio, e sulla sinistra
da una torre, i cui resti P.
Marconi riconosceva nella
roccia ed in una serie di tagli
destinati all’alloggiamento dei
blocchi.
Porta IV, o Porta Aurea, doveva
essere in corrispondenza della
via più importante, che
conduceva dalla città
all’Emporio, ma è anche la porta
che oggi si presenta più
danneggiata, a causa del
notevole approfondimento della
carreggiata stradale. Studi
recenti propongono di
individuare questa porta poche
centinaia di metri più a oriente,
tra il tempio di Eracle e Villa
Aurea, là dove sono visibili, sul
fianco di un’ampia lacuna (m 9)
del costone roccioso, una serie
di nicchie, proprio come nei
pressi di altre porte agrigentine
(Porta II); come è stato
osservato, tale squarcio nel
costone roccioso, coincide con
l’incrocio tra la plateia M-L e lo
stenopos che delimita ad Est
l’area del Ginnasio.
La porta V, anch’essa oggetto di
interventi di scavo in anni
recenti, è la struttura meglio
conservata del sistema di
fortificazione. E’ ben visibile il
baluardo sul fianco destro, un
rientrante obliquo lungo oltre
25 m, articolato con quattro
muri disposti a ventaglio, ad
altezze crescenti; il baluardo
consente al difensore di
dominare l’avversario sul suo
fianco destro, sicché la porta
appare strutturata sul principio
della porta scea. La porta V si
innesta sulla via che conduceva
al santuario delle Divinità
Ctonie, raccordandosi quindi
alla plateia Est-Ovest che limita
il santuario di Zeus.
Porta VI si trova al fondo di una
piccola valle, subito a Nord di
Poggio Meta. Essa si apre al
centro di una lunga e poderosa
linea difensiva (m 62 di
lunghezza), ed è rafforzata da
due torri, quella di SE lunga m
15,60 ed aggettante oltre 3 m
rispetto al filo del muro. La porta
vera e propria è un corridoio
largo m 8,60 e lungo m 11,90.
La Porta VII si trova alcune
centinaia di metri a Nord, lungo
il torrente delle Cavoline, ed è
l’unica ad essere dotata di un
apprestamento difensivo a valle
(c.d. Ponte dei Morti): ad una
distanza di ca. 120 m si trova
infatti un baluardo avanzato,
ampio m 15,20 x 12,60, alto
quasi 7 m, collegato ad un
lungo e robusto muro disposto
ortogonalmente alla linea
difensiva della porta. Questa
articolazione si spiega bene se
si considera che il vallone si
incunea all’interno dell’area
urbana, nella direzione
dell’acropoli, e che tutto questo
versante è sovrastato
18
dall’estremità della cresta di
Monserrato.
Ancora più avanti, poco prima
del campo sportivo, il Marconi
aveva individuato uno
sbarramento difensivo nel quale
doveva aprirsi la Porta VIII; poco
oltre, sulle pendici che salgono
verso la sella che separa la Rupe
Atenea dalla collina di Girgenti,
si trovava la Porta IX.
La cronologia dell’impianto non
è del tutto chiara, benché in
genere si intenda collocarla, in
modo pressoché unitario, nel
corso del VI secolo, piuttosto
che farla risalire già al
momento della fondazione,
come preferiva P. Marconi.
D’altra parte in alcuni settori,
specie là dove sono stati
condotti saggi stratigrafici,
sono state messe in evidenza
tecniche murarie differenti
(struttura piena in blocchi
squadrati; paramento di blocchi
ed emplecton di pietrame), e
ricavati più precisi dati
cronologici. Quanto noi oggi
vediamo è nell’insieme frutto di
un continuo lavorio, che prende
le mosse dalla realizzazione del
regolare impianto urbanistico
(intorno al 500 a.C.), con il
quale certo il sistema difensivo
doveva integrarsi, per
attraversare l’intero V secolo,
culminante nell’assedio
cartaginese del 406, in vista del
quale si dovette intervenire in
alcuni settori (per esempio sulla
Rupe Atenea); numerose sono le
opere successive, riconducibili
alle età di Timoleonte (sulla
cima, e nella zona sud-orientale
della Rupe Atena, non lontano
da Porta II) e di Agatocle (zona
sud-orientale della Rupe, non
lontano da Porta II).
L’impianto urbanistico
L’impianto urbanistico si presenta
assai organico, articolato secondo
assi in prevalenza ortogonali
(alcuni già notati da Pirro Marconi,
soprattutto nella zona meridionale
della città), e verosimilmente è
stato realizzato in modo unitario.
Dopo le acute osservazioni
formulate da F. Castagnoli nel
1956, la sua ricostruzione si fonda
sulla fotointerpretazione
effettuata nel 1958 da P. Griffo e
G. Schmiedt (fig. 3), ma solo in
poche aree sono state effettuate
mirate indagini di scavo.
La città si distende dalle pendici
della Rupe Atenea, a partire da
quota 190 ca. (zona dello
Stadio-via Petrarca, e, più ad
Est, dell’attuale Villa Genuardi,
“Albergo” nella planimetria di
Schmiedt-Griffo 1958) fino alle
estreme propaggini della collina
dei Templi (quota 100 ca.),
occupando quasi per intero
l’area compresa entro le mura di
fortificazione. L’assetto
morfologico generale si rivela
abbastanza omogeneo: il
pendio, modesto, è rivolto
prevalentemente a Sud-Ovest e
frazionato da piccole balze,
alcune con orientamento estovest (a NE di Poggio Meta, e a
valle di Villa Genuardi), altre
invece disposte in senso NE-SO,
vale a dire il medesimo
orientamento delle vie
principali dell’impianto urbano.
Due valloni solcano la città,
confluendo nella Kolymbethra:
il principale scorre da NE a SO,
articolando l’area urbana in due
settori dalle caratteristiche
leggermente differenti. Infine,
circa al centro della città antica
emerge il poggio di S. Nicola (m
125 s.l.m.), area cardine del
tessuto morfologico e
urbanistico, dove oggi sorge il
Museo Archeologico; gli scavi
qui condotti per la sua
realizzazione – tra il 1959 ed il
1963 – hanno portato alla
scoperta di un ampio complesso
di carattere sacro e politico, che
a seguito degli scavi più recenti
(a partire dal 1983) si è rivelato
parte essenziale della più
generale sistemazione urbana.
L’impianto urbano si fonda su
sei vie principali (plateiai),
orientate sulla direttrice NE-SO
(denominate A-B, C-D, E-F, G-H,
I-L, ed M-N, a partire dalla più
settentrionale), distanti tra loro
circa 300 m. Le plateiai sono
tagliate ortogonalmente da
circa trenta vie secondarie
(stenopoi), che procedono in
modo pressoché rettilineo
nonostante le pendenze,
probabilmente regolarizzate in
alcuni punti da rampe.
L’aspetto complessivo è dunque
quello di una città articolata in
terrazze, leggermente
digradanti da NE a SO. La
disposizione regolare
dell’impianto non è però rigida:
solo le due plateiai meridionali
(I-L ed M-N) e la quarta da Sud
(E-F) appaiono – nella
planimetria di Schmiedt e Griffo
– perfettamente parallele per
tutta la loro estensione, mentre
la terza da Sud (G-H) muta
orientamento nel tratto più
occidentale, al di là del vallone
che alimenta la Kolymbethra.
Qui infatti l’orientamento ruota
leggermente verso Ovest, forse
a causa di una più contrastata
morfologia del terreno,
interessando gli isolati definiti
tra il muro di fortificazione e le
due plateiai più settentrionali
19
(A-B e C-D). Tra Poggio Meta e
la collina di S. Nicola non tutti
gli assi viari sono al momento
perfettamente leggibili, ed alcuni
stenopoi sembrano procedere
secondo linee spezzate.
Le plateiai principali sembrano
essere la seconda e la quarta da
Sud (I-L ed E-F). La E-F mette in
diretto collegamento la zona
della porta I con la collina di S.
Nicola, probabilmente l’area più
importante dal punto di vista
politico. La plateia E-F sembra
essere più larga delle altre (ca.
11 m, contro una media di 7 m),
ed è l’unica che per un buon
tratto ha mantenuto inalterata
nel tempo la sua funzione, al
punto da essere ricalcata, a
Nord del c.d. quartiere
ellenistico-romano, prima dal
decumanus maximus della città
romana, ed oggi da un rettilineo
della SS 115 (sia pure con una
leggera declinazione verso
Nord). La plateia I-L collega
invece le porte II e V, lambendo
sul lato settentrionale l’isolato
in cui è inserito il tempio di
Zeus. Anche di questo asse è
possibile riconoscere a tratti
forme di continuità nel
paesaggio attuale, limitate a
partizioni agrarie.
Quanto agli stenopoi, distanti
tra loro ca. 35 m, sono noti per
lo più solo attraverso la
fotointerpretazione, e là dove è
stato possibile misurarne
l’ampiezza sono risultati larghi m
5. E’ verosimile che, come in altri
centri antichi (Naxos per esempio),
alcuni stenopoi abbiano svolto
un ruolo più importante,
concretamente espresso dalla
maggiore ampiezza. Si tratta di un
aspetto documentabile solo in
presenza di scavi archeologici,
che potrebbe tuttavia essere
indiziato da forme di sopravvivenza
e di continuità funzionale: si
noterà che il rettilineo della
attuale SS che conduce al Poggio
di S. Nicola ricalca uno stenopos
(del quale è verosimilmente più
ampio), e che quando nel 210 a.C.
Akragas fu presa dai Romani
(Livio, XXVI, 40, 9) questi
attraversarono Porta Marina
marciando in colonna verso il
Foro, collocato in media urbis,
quasi certamente nello stesso
luogo dell’agorà greca.
L’incrocio tra plateiai e stenopoi
suddivide dunque l’area urbana
in isolati di m 300 x 35 ca.,
frazionati nel senso della
lunghezza da un canale di
drenaggio (comunemente
definito ambitus secondo la
denominazione adottata per
l’urbanistica di età romana)
largo in media 40 cm. Gli isolati
dovevano essere in prevalenza
regolari nonostante la
contrastata morfologia del
terreno, ma è verosimile che in
più luoghi sia stato necessario
ricorrere a scale e gradinate per
superare i dislivelli, come è bene
evidente per esempio nella zona
a valle del quartiere ellenisticoromano. Proprio tale differente
struttura morfologica potrebbe
avere condotto alla scelta di un
orientamento leggermente
declinante verso Ovest per il
settore nord-occidentale della
città, a monte del ruscello che
alimenta la Kolymbethra. Ma si
può andare forse ancora oltre:
lo schema regolare offerto dalla
restituzione fotogrammetrica, le
cui tracce si leggono talora
nella attuale partizione dei lotti
e nelle stradelle interpoderali,
potrebbe celare più ampie e
diffuse differenze di
orientamento, ancora tutte da
indagare, sia tramite mirate
indagini di scavo, sia per mezzo
del puntuale rilevamento a terra
delle tracce visibili in foto aerea.
Quartieri di abitazione
dovevano inoltre sorgere anche
all’esterno della zona
organicamente pianificata,
come è bene dimostrato nel c.d.
quartiere punico, un quartiere
“artigianale” (vi sono stati
rinvenuti infatti anche pani di
argilla cruda, ed ambienti
chiaramente destinati a
magazzini e depositi) portato
alla luce alla metà degli anni
’80 nei pressi di Porta II. Si
tratta di una zona interessata
dalla presenza di un’area sacra
frequentata già alla fine del VI
sec. a.C., sui cui resti si
impiantò dopo la distruzione
cartaginese del 406 un
quartiere attivo fino alla metà
del III sec. a.C., quando si
datano le strutture in crollo.
L’orientamento dell’isolato si
discosta notevolmente dal resto
della città, e tuttavia anch’esso
è ampio m 35 e diviso in senso
longitudinale da un ambitus di
drenaggio largo ca. 50 cm;
anche lo stenopos individuato a
Sud-Ovest, largo m 5,5,
presenta le misure consuete. La
tecnica edilizia qui adottata
non si fonda sull’uso dei conci
squadrati documentati nelle
strutture edilizie di età classica;
è stata adottata invece la
tecnica detta “a telaio”, ben
nota e diffusa in Sicilia in
ambiente punico (Selinunte,
Mozia), ed è per tale ragione
che l’area viene anche definita
quartiere “punico”.
Particolarmente significativo è
il dato cronologico: la
ricostruzione del IV sec. a.C. non
alterò l’impianto preesistente,
anteriore al 406 a.C., mentre la
presenza di uno strato di crollo
e incendio dimostra che gli
edifici furono distrutti intorno
alla metà del III sec. a.C.,
verosimilmente in rapporto agli
eventi della prima guerra punica.
Non è possibile allo stato
attuale riconoscere con
certezza quale sia stato lo
sviluppo della città già nella
Fig. 6 – Il quartiere ad Ovest dell’Olympieion (da DE MIRO 2000).
20
Fig. 7 – Il settore centrale ed occidentale
della collina dei Templi (da MERTENS
2006).
prima fase, per quanto la
pianificazione di un centro
urbano nella sua interezza
appartenga alla tradizione
dell’urbanistica greca coloniale.
D’altra parte, gli scavi
stratigrafici condotti in alcune
zone della città antica, come
nel quartiere ad Ovest
dell’Olympieion, hanno
documentato strutture di età
classica perfettamente aderenti
alle insulae della fase
ellenistico-romana (fig. 6).
Come in altre città greche, gli
isolati già nel V sec. a.C. si
riempiranno di case, dotate di
vani che di norma si aprono a
Sud su un cortile (intorno al
quale sono a volte disposti ad
L); l’ampiezza standard della
case sembra essere di m
17,40/17,80 x 13,00/13,70
(rispettivamente in senso E-O e
N-S). Una situazione analoga è
stata riscontrata nel quartiere
punico presso Porta II, dove è
stata ricostruita una sequenza
di lotti quadrangolari di m 17,5
x 17,5 alternati a lotti
rettangolari di m 17,5 x 9,5.
In definitiva, va messa in rilievo
non solo la sostanziale
unitarietà dell’impianto
originario, ma anche la sua
forza cogente, poiché esso viene
rispettato attraverso l’età
ellenistica e imperiale, ed
ancora oltre, fino ai tracciati
della strada statale e di
numerose strade rurali, oltre
che nella attuale lottizzazione
agraria, fenomeno comune a
molti centri antichi.
La cronologia dell’impianto
urbanistico si lega a quella del
tempio di Zeus (Olympieion),
realizzato probabilmente a
partire dal 480 circa, che
rappresenta il terminus ante quem.
Il santuario è infatti inserito in
modo perfetto nel tessuto
viario, ed è dunque ad esso
successivo (fig. 7): si noterà che
è marginato a Nord dalla
plateia I-L, e che il medesimo
orientamento hanno gli edifici
della prima metà del V secolo
portati alla luce nel quartiere ad
Ovest dell’Olympieion; inoltre,
sia il tempio di Zeus che il
vicino tempio L, a differenza di
tutti gli edifici sacri più antichi
presenti in questa area (dal
tempio di Eracle al c.d. tempio
dei Dioscuri), hanno il
medesimo allineamento della
pianta urbana. Ciò è stato
interpretato – già da F.
Castagnoli, ed accolto dalla
stragrande maggioranza degli
studiosi successivi – come
obbedienza ad una
pianificazione urbanistica che
coinvolgeva l’intera città,
piuttosto che come esigenza di
culto, esattamente come è stato
verificato nella polis
magnogreca di Metaponto.
Anche il terminus post quem per
la realizzazione dell’impianto
urbano sembra essere legato
21
agli scavi condotti nel settore
occidentale della collina dei
Templi, oltre ad una serie di
saggi stratigrafici eseguiti in
contrada S. Nicola. Su tali basi
E. De Miro propone una
datazione alla fine del VI sec.
a.C., mentre P. Griffo riteneva
che le condizioni economiche
favorevoli alla realizzazione di
un impianto così vasto e
articolato dovessero essere
successive alla vittoria di
Himera del 480.
In definitiva, l’impianto urbano
di Akragas è anteriore alla
edificazione dell’Olympieion e
del tempio L, e va datato non
oltre la fine del VI sec. a.C.,
trovando confronti con altri
impianti per strigas noti in
colonie siceliote e magnogreche.
All’interno dello schema
descritto trovarono posto le
aree pubbliche, sia quelle sacre,
sia quelle destinate all’esercizio
delle attività politiche.
L’ubicazione dell’agorà è stata
oggetto, in particolare negli
anni più recenti, di studi e
ricerche che hanno condotto ad
ipotizzare l’esistenza di due
distinte agorai (“superiore” ed
“inferiore”), localizzate nel
settore centrale della città,
ipotesi che tuttavia non vede
d’accordo tutti gli studiosi (si
veda in particolare MERTENS
2006). E’ bene evidente in ogni
caso l’esistenza di una vasta
zona pubblica, ancora non del
tutto chiara nelle sue
articolazioni, di raccordo tra il
temenos dell’Olympieion e la
collina di S. Nicola, con ampie
aree destinate alle attività
politiche, soggetta a profonde
trasformazioni tra il IV-III sec.
a.C. ed il I sec. d.C., e nella quale
sono pure attestati pochi altri
interventi in età costantiniana.
La c.d agorà superiore viene
collocata nei pressi della collina
di S. Nicola (fig. 8), in posizione
centrale e di cerniera tra le
diverse aree della città,
agevolmente raggiungibile
attraverso la plateia E-F, come
si è detto la più ampia tra tutte,
che in età romana costituirà
(ma con un dislivello di ben 8
m) il decumanus maximus. Le
trasformazioni monumentali
che hanno interessato questa
zona ne hanno mutato in parte
fisionomia e funzione, poiché
agli edifici sacri di VI-V secolo
(riconosciuti attraverso le
tracce dei cavi di fondazione di
un temenos, sulla terrazza più
alta del poggio), succedono tra
IV e III secolo edifici pubblici
civili, dopo un’imponente opera
di sbancamento e di
regolarizzazione del versante
sud del poggio. Il c.d.
ekklesiasterion ed il
bouleuterion appartengono
infatti ad età ellenistica:
entrambi furono realizzati
probabilmente alla fine del IV
secolo, ma non si può escludere
che in precedenza funzioni
analoghe fossero svolte in
questa stessa area (a
Metaponto e Poseidonia sono
note infatti in età arcaica e
classica strutture simili
all’ekklesiasterion; proprio il
confronto con Poseidonia ha
fatto ipotizzare che la struttura
circolare dell’ekklesiasterion,
dotata di banchine ricavate
nella roccia, potesse costituire il
luogo centrale dell’area
pubblica, tanto più che esso si
trova esattamente al centro
dello spazio delimitato dalle
plateiai E-F a Nord e G-H a Sud,
che potevano così definire
l’agorà). Sull’ekklesiasterion fu
eretto tra II e I sec. a.C. un
tempietto prostilo, il c.d.
Oratorio di Falaride, mentre il
bouleuterion, dopo una fase di
abbandono, fu trasformato in
odeion in età imperiale. In
definitiva, la sistemazione
monumentale dell’area pubblica
sulla collina di S. Nicola definì
in età ellenistica una vasta area
terrazzata, larga quattro isolati
e lunga uno (circa m 160 x 300,
strade comprese).
Una “agorà inferiore” è stata
localizzata nei pressi
dell’Olympieion, subito ad
Fig. 8 – L’agorà superiore (da MERTENS 2006).
22
Nord-Est del santuario, servita
dalla strada che uscendo dalla
attuale Porta Aurea collegava la
città al mare. In questa area
(attualmente destinata a
parcheggio) P. Griffo aveva
individuato intorno al 1950 un
piazzale con pavimentazione a
lastre. Il reticolo stradale è
costituito dalla plateia I-L (che
margina a Nord l’area pubblica)
e da quattro stenopoi, ciascuno
bipartito da un ambitus di
drenaggio: lo stenopos più
occidentale corre sulla fronte
dell’Olympieion, collegandosi
proprio a Porta Aurea, mentre
quello più orientale è allineato
con il complesso monumentale
del Ginnasio, individuato
nell’isolato a Nord della plateia
I-L. Negli isolati pertinenti
all’agorà inferiore lo scavo
archeologico ha documentato
l’esistenza di edifici pubblici,
prevalentemente di età
ellenistica, ma nei quali sono
attestati anche livelli di età
tardo-arcaica e classica: un
edificio a pianta rettangolare
nell’isolato 3, un complesso di
ambienti disposti ad L intorno
ad un cortile centrale
nell’isolato 1, e due grandi
edifici rettangolari eretti tra VI
e V sec. a.C. lungo l’asse della
plateia I-L.
Inoltre, proprio negli isolati a
Nord di questa, sono state
portate alla luce una serie di
strutture murarie, una delle
quali si sviluppa con
orientamento NO-SE
(parallelamente agli stenopoi)
per circa 200 m, costituendo
probabilmente un muro di
terrazzamento della metà del V
sec. a.C. circa. Su tale struttura
è stato messo in luce il
basamento di un portico di età
ellenistica, identificato con un
Ginnasio già intorno al 1950 per
la presenza di un lungo sedile
iscritto con dedica di Lucio ad
Hermes ed Herakles. A questi
dati si affianca la più recente
scoperta in situ di due distinte
file di sedili affrontati, ad una
delle quali appartiene l’epigrafe
già nota; di estremo interesse è
la scoperta di iscrizioni sulla
spalliera dei nuovi sedili, che
attestano la dedica ad Augusto
da parte del gimnasiarca Lucio,
mentre il rinvenimento di
frammenti di tegole con
iscrizione “GYM” prova la
destinazione funzionale
dell’edificio.
L’ipotesi di associare il ginnasio
di età romana alla posizione del
Foro, il quale avrebbe potuto
occupare lo stesso luogo
dell’agorà di età classica
(situazione che si presenta con
una certa frequenza nelle città
antiche), si fonda tra l’altro
anche su un passo di Cicerone,
il quale nelle Verrine (II, 4, 94)
riferiva che il Foro della città
romana era posto nei pressi del
tempio di Ercole. Tuttavia, è
stato notato che l’attribuzione
ad Eracle dell’edificio sacro che
sovrasta Porta Aurea è di natura
erudita, fondata proprio sul
passo ciceroniano, il che
significa che la stessa
associazione ginnasio-agorà
(inferiore)-Foro romano è
un’ipotesi ancora da dimostrare.
Ha dunque forse maggior
credito l’ipotesi che l’agorà
fosse collocata nei pressi della
collina di S. Nicola,
agevolmente raggiungibile
attraverso lo stenopos posto in
asse con la posizione di Porta
IV, che secondo una recente
proposta andrebbe collocata più
ad Est. Come già osservato, la
notevole importanza di questo
stenopos può d’altra parte
spiegarne la continuità
funzionale fino ai nostri giorni.
Tale ipotesi è peraltro più
confacente al citato passo di
Livio sulla presa di Agrigento ad
opera dei Romani.
La suddivisione urbana descritta
è stata talvolta riferita allo
schema “ippodameo”, in modo
improprio tuttavia: è infatti
nella tradizione dell’urbanistica
siceliota e magnogreca (si vedano
i casi di Selinunte e Metaponto,
ma anche Himera, Naxos e
Camarina) l’elaborazione di
piani urbanistici regolari
contraddistinti da isolati
allungati (si parla, mutuando
un’espressione latina, di
impianti per strigas). Inoltre, le
caratteristiche dell’impianto di
Akragas sono ben diverse dai
moduli dell’urbanistica
ippodamea, che peraltro, sul
piano cronologico, trova la sua
espressione alcuni decenni più
tardi, in città pianificate tra la
metà e la fine del V secolo
(Thurii, Pireo, Rodi).
Ulteriori considerazioni
riguardano la distribuzione
funzionale all’interno dell’area
urbanizzata. I santuari
occupano sempre luoghi
rilevanti, vicini alle mura ed alle
porte più importanti, in assenza
delle quali potevano essere
serviti da una postierla che li
metteva in comunicazione con
l’esterno (si veda quella presso il
tempio detto della Concordia),
evidentemente anche per
ragioni di culto.
Per quanto riguarda i quartieri
di abitazione, le informazioni in
23
nostro possesso sono ancora
frammentarie per le fasi più
antiche, a causa della lunga
continuità di vita attraverso le
età ellenistica e romana.
Intorno al 1920 P. Marconi
portò alla luce, sulle pendici
meridionali di quota 192, nel
settore nord-occidentale della
città, un quartiere di abitazioni,
databile tra il VI ed il IV sec.
a.C., caratterizzato da case
disposte a schiera, dotate di
cortile in comune, pozzo o
cisterna. Le case erano tutte di
piccole dimensioni (larghe 2/3
m e profonde 2/4 m, di rado
fino a 6,25 m), di norma con un
solo ambiente (raramente a
stanza doppia); l’altezza non
doveva superare i 2,5 m, ed i
tetti erano a doppio spiovente.
Gli scavi condotti a partire dal
1970 nel settore posto tra
l’Olympieion ed il santuario
delle Divinità Ctonie hanno
rivelato l’esistenza di un
quartiere con case disposte a
blocchi, dotate di cortile ad L ed
ambienti che si aprono su di
esso, realizzate con blocchetti
di pietrame.
Le aree sacre
L’aspetto più caratteristico,
davvero peculiare per la città di
Akragas, è la collocazione dei
santuari urbani in luoghi
particolarmente rilevanti, per lo
più presso le mura ed in
vicinanza delle principali porte.
Oltre al santuario di località S.
Anna, sono stati identificati il
c.d. Santuario Rupestre, ai piedi
del tempio di Demetra, e, al
centro del Piano S. Gregorio,
quello dedicato ad Asclepio.
Le più antiche aree sacre della
città greca, dedicate alle
Divinità Ctonie (Demetra e
Kore), si trovano – già alla metà
del VI secolo a.C. – nella parte
più occidentale della collina dei
Templi, in particolare tra il
tempio di Zeus e la
Kolymbethra, di fronte al
santuario extraurbano di
località S. Anna, anch’esso
dedicato alle Divinità Ctonie. Il
santuario urbano sorge dunque
all’estremità della collina, in
una vasta area frazionata in tre
terrazzi, che vedranno sorgere
via via altari e tempietti, e nella
prima metà del V secolo due
edifici peripteri (c.d. tempio dei
Dioscuri e tempio L), oltre a due
fondazioni sovrapposte relative
a due templi non portati a
compimento. Ulteriori
rifacimenti interessano l’area
fino ad età ellenistica, quando
sulla più alta delle tre terrazze
che scandiscono l’area fu eretto
un portico ad L, che si
sovrappose al muro di temenos
e alla lesche arcaica, ed un
edificio circolare (tholos).
Altri edifici di età arcaica sono
noti sia al di sotto dell’attuale
tempio di Vulcano, dunque
sullo sperone roccioso che sta
di fronte S. Anna, sia nell’area
del tempio di Zeus, sia più ad
Occidente, nei pressi di Villa
Aurea. Quello sotto il tempio
di Vulcano è un tempietto in
antis (?) di m 13,25 x 6,50,
dotato di terracotte
architettoniche policrome
datate alla metà del VI secolo,
mentre al 530 a.C. circa è
riferito l’edificio rettangolare
vicino Villa Aurea,
caratterizzato da una pianta
allungata (m 31,55 x 10,35), di
cui rimangono in vista poco
più delle fondazioni.
Un altro temenos è stato
individuato, si è detto, sotto
l’ekklesiaterion.
Ma, come è stato notato, è il V
secolo il momento in cui
Akragas assume un ruolo di
particolare rilievo
nell’evoluzione dell’architettura
templare siceliota. Dopo il c.d.
tempio di Eracle vengono
costruiti il tempio di Zeus
(Olympieion) e quello dedicato a
Demetra; quindi, uno dopo
l’altro, i templi peripteri
agrigentini posti in fila lungo la
cresta meridionale, dal c.d.
tempio di Giunone Lacinia al
c.d. tempio di Vulcano, cui si
affiancò il tempio di Atena sulla
collina di Girgenti. Proprio tale
sequenza ha suggerito
l’esistenza di una scuola di
architetti, tesi al
perfezionamento delle
proporzioni tra il volume
complessivo del tempio e le
singole membrature
architettoniche, confermato in
anni recenti da puntuali
rilevamenti strumentali.
L’edificio più antico è il c.d.
tempio di Eracle (tempio A),
eretto alla fine del VI sec. a.C.
Ha una pianta rettangolare
allungata (m 25,33 x 67) grazie
allo pteron profondo due
interassi alle due estremità,
dotato di una peristasi di 6 x 15
colonne, e pronao ed
opistodomo distili in antis; la
cella è piuttosto larga (quasi 12
m), con la conseguenza che gli
ambulacri laterali risultano
alquanto stretti.
L’Olympieion (tempio B) fu forse
realizzato a seguito della
vittoria di Himera del 480, e di
esso una suggestiva e puntuale
descrizione ci è stata
24
tramandata da Diodoro (XIII, 82,
2), che riteneva che si trattasse
di un edifico mai portato a
compimento; opinione oggi non
più da tutti condivisa. Costruito
su poderose fondazioni (alte
fino a 6,70 m) e crepidine
piuttosto elevata (5 scalini),
misurava m 56,30 x 112,60/70,
dunque con un quasi perfetto
rapporto 1:2 tra larghezza e
lunghezza. Lo sviluppo in
altezza è ancora incerto, poiché
per le colonne sono state
ipotizzare altezze variabili (tra
19,20 e 21,57 m); quasi 6,50 m
era l’altezza della trabeazione.
Si tratta di un tempio
pseudoperiptero, dotato di 7 x
14 semicolonne all’esterno, cui
corrispondono pilastri
all’interno, scandito in modo
pressoché perfetto in tre navate
nel senso della lunghezza. I
muri della cella sono sostenuti
da robusti pilastri, aggettanti
sia all’esterno che, in misura
maggiore, all’interno; tripartita
in pronaos, naos ed opistodomo,
è dotata di unico pilastro
centrale sulla porta del naos,
mentre pronaos ed opistodomo
sono privi di sostegni in antis. Il
naos era ipetro, cioè privo di
tetto, mentre le due navate
laterali, attraverso le quali si
accedeva da Oriente all’interno
dell’edificio, erano coperte da
tetti a doppio spiovente, con
kalypteres dalle decorazioni
policrome; la sima era dotata di
gocciolatoi a protome leonina, il
cui unico esemplare noto viene
datato all’ultimo quarto del V
secolo. Le pareti esterne erano
decorate con i telamoni,
collocati circa a metà altezza,
forse elementi strutturali
oltreché estetici, destinati
anche a reggere il peso della
trabeazione. I due frontoni,
infine, erano alti al centro circa
6 m, e decorati con
Gigantomachia ad Est ed
Ilioupersis ad Ovest.
Il tempio di Demetra (tempio C),
in età normanna trasformato in
chiesa, dedicata a S. Biagio, si
trova nella zona sud-orientale
della Rupe Atenea. Databile
intorno al 480-470 a.C., è un
edificio ampio m 13,30 x 30,20,
distilo in antis, cioè dotato di
due colonne inquadrate tra le
ante della cella, non circondata
da un colonnato (peristasi); il
tetto era coronato da una sima
(cornice) in calcare con
gocciolatoi a protome leonina.
Dell’edificio antico è oggi
visibile il vespaio di fondazione,
a graticcio, e parte dell’elevato
in blocchi isodomi inglobato
nelle strutture della chiesa. La
presenza di due altari subito a
Nord del tempio, insieme al
rinvenimento di offerte votive,
statuette e busti fittili, ha
indotto ad attribuire il tempio a
Demetra e Kore.
Ai piedi di questo edificio,
all’esterno della linea delle
fortificazioni, si trova il c.d.
santuario rupestre delle Divinità
Ctonie, nel quale al momento
della scoperta furono rinvenuti
busti fittili femminili. Si tratta
di un complesso dalla struttura
particolare, attivo
probabilmente dal VI agli inizi
del III secolo; esso comprende
due grotte ed un “vestibolo”
sulla fronte, di pianta
rettangolare allungata,
collegato tramite un canale ad
una serie di vasche.
Sulla collina di Girgenti è il
tempio di Atena (tempio E),
come si è detto inglobato nei
livelli inferiori della chiesa di S.
Maria dei Greci, databile poco
dopo la metà del V secolo.
Quasi nulla rimane (ma doveva
essere un periptero di 6 x 13
colonne) del tempio L,
identificato nel settore più
occidentale della collina dei
templi, ad Ovest
dell’Olympieion.
Ma ciò che colpisce di più
l’orizzonte è la sequenza di
edifici sacri sulla c.d. collina dei
Templi, eretti in massima parte
tra il 460 e la distruzione
cartaginese del 406.
Il tempio di Hera, o di Giunone
(tempio D), è un dorico
periptero dotato di 6 x 13
colonne (m 16,95 x 38,13),
eretto su un alto basamento in
posizione enfatica (fig. 9),
all’estremità orientale della
collina del Templi, ben visibile
per chi proveniva da Est. Sulla
fronte si trova l’altare,
monumentale, ampio quanto
l’edificio sacro.
Il c.d. tempio della Concordia
(tempio F) rivela caratteri
analoghi al precedente, dal
possente basamento su cui è
eretto, alle dimensioni, al
numero delle colonne. Costruito
poco dopo il tempio di Hera,
Fig. 9 – Il tempio di Hera (veduta da NO).
25
deve il suo stato di
conservazione all’essere stato
trasformato in basilica cristiana
alla fine del VI secolo dal
vescovo Gregorio, episodio che
pure ha prodotto alterazioni
nella struttura originaria
(realizzazione di arcate nei muri
della cella).
Infine, oltre i templi di Eracle e
di Zeus, si apriva l’ampia area
santuariale prossima a Porta V,
dove oggi svetta il tempio
periptero detto dei Dioscuri,
anch’esso con peristasi di 6 x 13
colonne. Realizzato nella prima
metà del V secolo
(probabilmente intorno al 470450), sono state risollevate in
tempi moderni quattro colonne
d’angolo, peraltro utilizzando
elementi diversi dall’area del
santuario.
Chiude la serie, sulla piccola
terrazza che domina la
Kolymbethra, il c.d. tempio di
Vulcano (tempio G), della fine
del V secolo, sempre dotato di
una peristasi di 6 x 13 colonne
(m 20,66 x 42,82). La presenza
di bugne sulle colonne e sulla
crepidine suggerisce che il
tempio non sia stato portato a
compimento, forse a seguito
degli eventi culminati con
l’assedio cartaginese.
Bibliografia essenziale
AA.VV., Da Akragas ad Agrigentum:
le recentissime scoperte
archeologiche nel quadro della
storia amministrativa e culturale
della città, Atti del Colloquio di
Agrigento del 28 ottobre 1996, in
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M. LOMBARDO, E. DE MIRO, s.v.
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Greca in Italia e nelle Isole
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26
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arte, Firenze 1929.
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organizzazione di una città
classica, in Rivista dell’Istituto di
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G. SCHMIEDT, P. GRIFFO, Agrigento
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G. TRIPODI, Agragas. L’ubicazione
della porta dell’emporio, in
Archeologia del Mediterraneo.
Studi in onore di Ernesto De Miro,
Palermo-Roma 2003, pp. 685-691.
te sti di Giuseppe Barbera
e Maria Ala
Riscoprire il paesaggio agrario della Valle dei Templi
tra miti, storia, letteratura e tradizione
Giuseppe Barbera, Maria Ala
La Valle dei Templi, per i
monumenti archeologici e per il
paesaggio agrario e naturale
che li contiene e li conserva, è
inserita dall’Unesco, tra i
“patrimoni dell’umanità”, il che
conferma non solo il suo
straordinario valore culturale,
ma rafforza anche il
convincimento che costituisca
una risorsa da valorizzare in
quanto paesaggio culturale,
espressione di una interazione
dinamica tra l’uomo e la natura
e testimonianza di una lunga,
ininterrotta evoluzione
biologica e culturale (Barbera,
Di Rosa, 2000). La creazione,
con la L.R. 20 del 2000, di un
Parco della Valle dei Templi
dichiaratamente denominato
“archeologico e paesaggistico”,
non fa che confermare
l’accresciuta consapevolezza
dei valori della Valle e del suo
paesaggio che è ascrivibile,
secondo la classificazione
proposta da Meeus (1995) per i
paesaggi agrari europei, alla
tipologia della “coltura
promiscua”: nei terreni migliori
pianeggianti o subpianeggianti
il mandorlo e l’olivo prevalgono
sui seminativi e sulla vite,
mentre il carrubo, il pistacchio
e il ficodindia sono presenti nei
terreni più poveri o con
rocciosità affiorante. Nelle aree
dove maggiore è la disponibilità
di risorse idriche, non mancano
“giardini” di agrumi e frutteti
irrigui. Importanti sono anche i
lembi di macchia, di comunità
rupicole e, seppure fortemente
degradate, di comunità ripariali
in alcuni tratti di fiumi. In questi
ultimi anni poi il paesaggio si è
arricchito di porzioni di
rimboschimento, realizzate
soprattutto con pini ed eucalipti.
Il paesaggio della Valle è il
risultato dell’incontro tra i
caratteri naturali e l’ingegno
dell’uomo, della lenta
evoluzione del rapporto tra
natura e cultura, di un progetto
collettivo che ha misurato la
necessità di produrre con le
risorse disponibili e con i
caratteri dell’ambiente. Un
paesaggio agrario tradizionale i
cui caratteri fondanti appaiono
molto remoti: già nel 480 a.C.,
Diodoro Siculo riporta la
presenza di vigneti e alberi da
frutto e le attività agricole
rappresentarono insieme al
commercio la base principale
29
dell’economia durante il
periodo greco. Alla base del
successo agricolo del territorio
agrigentino è la sua fertilità,
caratteristica che colpisce
l’attenzione di Al-Idrisi,
geografo arabo alla corte
normanna, che nel 1138 visita
la città ormai arroccata sulla
collina che “possiede orti e
giardini lussureggianti, nonché
un’ampia varietà di prodotti
frutticoli... Numerosi sono i suoi
giardini, ben note le sue
derrate” e si conferma nei
resoconti dei viaggiatori del
Grand Tour che giunti per i
resti archeologici scoprono una
ricca agricoltura in un
paesaggio di straordinaria
fertilità (Barbera, 2003).
Per J. H. von Riedesel (1767) “il
declivio dalla città fino al mare...
è coperto di vigneti, di olivi, di
mandorli, di superbe biade, di
legumi eccellenti, insomma di
tutte le produzioni che può
somministrare la terra, piantate
alternativamente con la più
graziosa varietà, dove le
possessioni dei diversi proprietari
sono separate da siepi di aloe e
di fichi d’India... è un paesaggio
di delizie, vero e proprio Eden”.
Fig. 1 – Tête d’un géant du Temple de Jupiter Olimpien en Agrigente. Peint par
Hubert.
Per P. Brydone (1770) “la
campagna... produce grano,
vino ed olio in grande
abbondanza e allo stesso
tempo è ricolma di frutta
magnifica di ogni qualità:
aranci, limoni, melegrane,
mandorle, pistacchi... gli occhi
ne gioivano quasi altrettanto
che a rimirare le rovine da cui
germogliano”. Swinburne,
baronetto di antica famiglia
cattolica che visita Agrigento
nel 1777, scrive: “le rovine
della città antica appaiono
distintamente tra la verde
campagna... Nessuno può
rendere giustizia alla bellezza
della valle... rigogliosamente
coltivata a sempreverdi e
alberi di mandorli in fiore”. Al
di là delle descrizioni del vasto
paesaggio punteggiato dalle
rovine, in Swinburne si coglie
con maggiore interesse, il
rapporto tra le rovine e gli
elementi vegetali. Per la Tomba
di Terone, egli scrive che è
“circondata da antichi alberi di
olivo che proiettano una
selvaggia e irregolare ombra
sulle rovine”. Si tratta di
un’attenzione che sarà
ricorrente nel nuovo spirito.
Del Tempio di Giunone Münter
(1785) dirà: “Questa rovina è
inesprimibilmente bella e
pittoresca. Ne ho viste poche
che facciano una impressione
così sublime, poiché tutto, i
giardini profumati, gli alberi
che si intrecciano tra i ruderi...
tutto contribuisce a riempire
l’animo di un sentimento di
pace solenne…”. Questa
sensibilità verrà evidenziata, da
Hoüel in poi, nell’iconografia
Fig. 2 – Rovine di Agrigento. Gustavo Strafforello, 1891.
30
dei templi che accompagna la
letteratura dei viaggiatori. Nel
1794 Friedrich Leopold conte
di Stolberg, di aristocratica
famiglia danese, amico di
Münther e di Goethe, realizza
il sogno del viaggio verso sud.
Questi trova proprio ad
Agrigento l’atmosfera ideale
per la sua sensibilità di poeta
studioso e innamorato del
mondo classico. Allo
spettacolo delle rovine del
Tempio di Giove resta colpito
dalla forza della natura: “La
distruttiva mano dell’uomo
demolisce in un unico
ammasso; il potente abbraccio
della natura soltanto ha
potuto scagliare questi
ingombranti massi in tanta
caotica mescolanza. Sempre
giovane, sempre vittoriosa,
essa (la natura) sorride sotto le
rovine di un’arte superba, ma
imponente: tra questi pilastri
la terra fa spuntare un
boschetto verdeggiante di fichi
e alberi di mandorle. Il primo
albero di pistacchio che io vidi
fu nel Tempio di Giove Olimpo,
ed era un tempo coperto di
fiori e di rossi frutti appena
apparsi”. Della Valle scrive che
“è ripartita in fertili campi di
grano, vigneti, alberi di fico, e
melograni. Questi frutti sono
tutti eccellenti nella loro
specie: non potrò mai scordare
il piacere che ho provato sotto
un albero di gelso di
straordinaria grandezza.
Infatti, sebbene sopraffatti
dalla grande calura, noi
potemmo sopportarla, andando
di rovina in rovina, talora
cavalcando e talora
camminando, rinfrescati da
questi frutti paradisiaci. Le
coltivazioni di mandorlo sono
altrettanto estese e le
mandorle si mangiano ancora
acerbe, e a me sembrano molto
più gustose di quando sono
mature; oltre a ciò sono
ritenute molto salutari. Alberi
di olivi e fertili campi di grano
deliziano la vista d’ogni parte”.
Ed è significativo che Stolberg
concluda il suo resoconto su
Agrigento e, insieme, il terzo
volume delle sue “lettere” con
entusiastica descrizione della
“ferula o finocchio gigante
selvatico” di cui esalta le
qualità prodigiose e che
ricollega ai più antichi miti
cantati dai più grandi poeti
greci, citando brani di Esiodo,
Eschilo ed Euripide.
“Ho conosciuto qui la ferula o
finocchio gigante, una pianta
che produce un fiore ad
ombrello o ciuffo. I Greci lo
chiamavano nardex. Esso
raggiunge l’altezza di un uomo
e assomiglia al finocchio che
qui cresce altrettanto alto, e lo
stelo è cavo e ripieno di una
sorta di essenza che si accende
come un fiammifero e a lungo
continua a brillare. Da ciò gli
antichi immaginavano che
Prometeo portò il fuoco dal
cielo nello stelo di questa
pianta...”.
Ancora più celebri le parole di
Goethe che soggiorna ad
Agrigento dal 23 al 27 aprile
1787.
“Girgenti, martedì 24 aprile
1787.
Una primavera splendida come
quella che ci ha sorriso stamane
al levar del sole, certo non ci è
stata mai concessa nella nostra
vita mortale. ... Dalle nostre
finestre abbiamo contemplato
in lungo e largo il lieve declivio
della città antica, tutto rivestito
di orti e di vigneti, sotto la cui
verzura non si supporrebbe
nemmeno la traccia di quartieri
urbani un tempo così vasti e
così popolosi. Il tempio della
Concordia si vede appena
spuntare all’estremità
meridionale di questo piano
tutto verde e tutto fiori...”.
Con precisione scientifica
Goethe, scrive ancora:
“Girgenti, giovedì 26 aprile 1787.
... Per piantar le fave usavano il
sistema seguente: praticano
buche nel terreno a giusti
intervalli, vi gettano un pugno
di letame, aspettano la pioggia
e poi seminano... L’ordine in
cui avvicendano le colture è:
fagioli, grano, tumenia; al
quart’anno il terreno viene
lasciato a maggese. Per fagioli
qui s’intendono le fave. Il
grano è meraviglioso. La
tumenia, il cui nome
deriverebbe da bimenia o da
trimenia, è un bellissimo dono
di Cerere, una specie di grano
31
estivo che matura in tre mesi.
Lo seminano da Capodanno
fino a giugno ed è sempre
maturo alla data stabilita. Non
abbisogna di pioggia
abbondante, ma di forte caldo;
all’inizio la foglia è molto
delicata, ma poi cresce insieme
col grano e alla fine si rafforza
assai. La semina del grano
avviene in ottobre e novembre,
e a giugno è maturo. Ai primi
di giugno è anche maturo
l’orzo seminato a novembre...
Le superbe foglie dell’acanto si
sono aperte. La Salsola
fruticosa cresce abbondante... I
fichi avevan messo tutte le
foglie e cominciano a spuntare
i frutti... I mandorli erano
carichi; da un carrubo potato
pendevano baccelli a non
finire. L’uva da tavola viene
tesa su pergolati sorretti da
lunghi pali. A marzo piantano i
poponi, che a giugno sono
maturi: crescono prosperosi in
mezzo alle rovine del Tempio
di Giove, senz’ombra di
umidità. Il vetturino mangiava
di buon appetito carciofi e
broccoli di rapa crudi; bisogna
dire che sono più dolci e
succulenti dei nostri. Quando
si attraversa un campo i
contadini lasciano per esempio
mangiar fave a volontà”.
Charles Didier, ventiduenne
tormentato ed inquieto, giunge
in Sicilia nel 1829 e vi
soggiorna per sei mesi. Durante
la sua visita ad Agrigento
rimane particolarmente colpito
dal Ficodindia e così scrive: “i
templi si nascondono in parte,
qui sotto la pallida ombra
dell’olivo, là tra il fogliame
spesso e cupo del carrubo. Il
colore giallo e ardente delle
colonne contrasta col verde dai
mille riflessi, dalle mille
tonalità. Il fico d’India si
impadronisce di ogni angolo e
spande sulle pietre le sue foglie
grasse e immobili; insensibile al
soffio della brezza, non si piega
mai su se stesso; è rigido,
inerte, lo si crederebbe più un
finto arbusto, metallico,
anziché una pianta con linfa e
vita; accanto a lui, al contrario,
il mandorlo muove i suoi rami
leggeri e flessibili al minimo
soffio di vento...”.
Profetiche, rispetto alle recenti
vicende urbanistiche, sono le
parole dell’economista Laugel
(1872): “La natura è meglio di
quanto siano gli uomini; con
quale manto meraviglioso
avvolge questi grandi simulacri
di una religione antica! Il
fogliame argentato degli ulivi, i
fiori rosa dei mandorli, i verdi
germogli dei fichi, l’erba alta, i
fiori di campo stendono un
meraviglioso manto sul grande
cimitero”.
Frances Elliot Minto, nel suo
fortunato Diary of an idle
woman in Sicily, pubblicato a
Londra nel 1881, descrive così
la Città dei Templi: “Girgenti,
la magnifica, Akragas dei greci,
Agrigentum dei romani, è una
città luminosamente bianca,
arroccata su di un’altura di
fronte al mare. La storia si
dimentica dinnanzi allo
stupendo panorama, secondo
in bellezza solo a quello di
Taormina. La squisita armonia
delle coltri di verdi spighe e di
vigneti in germoglio che si
rincorrono con le onde
purpuree dei boschi: qui e lì un
fico o un carrubo delimitano i
campi di grassa erba cosparsi
di fiori, giù fino alle mura
greche, cintura d’oro sul mare
cobalto e turchese, a fasce
digradanti nell’azzurro più
tenero fino all’incontro col
cielo... Quando al mio arrivo
diedi uno sguardo al
panorama, dai luridi vetri della
mia finestra, appena realizzai
che cosa mi stava di fronte
ricaddi in un estatico
rapimento che non riesco
ancora a dimenticare...
Cerchiamo di immaginare, e
non è difficile, un giovane
greco senza pensieri, sdraiato
lungo l’argine, con la faccia al
sole, in attesa di una Lesbia o
di una Cloe, mentre respira
l’arte nella natura intorno. …le
divinità fluviali inseguono le
ninfe tra gli alti canneti; le
baccanti col capo adorno di
pampini d’uva battono il ritmo
esasperato delle danze della
Lidia: ogni cosa, invitante,
parla ai suoi sensi. La terra
ricca offre frutti, selvaggina,
pesci, subito preparati nelle
piccole capanne sotto le
palme, dove i pastori
zufolando conducono le greggi
dal vello soffice all’ombra dei
pergolati, mentre i flauti di
Pari risvegliano echi di motivi
pastorali nel folto dei giardini”.
Nel 1896 Gastone Vuillier giunto
ad Agrigento scrive: “La notte
era dolce ed io feci tardi sul
balcone dell’albergo, addossato
alla città. Da quell’altezza mi
pareva quasi librarmi nello
spazio; la luna splendeva nel
cielo, ove qualche stella filava
ancora... Tutto il piano dormiva
in un diafano mistero, e in
lontananza, attraverso i pallidi
ulivi e i neri carrubi,
intravedevo, come in un sogno,
colonnati dei templi antichi. Il
paesaggio era grandioso... La
natura s’è nuovamente
32
impadronita di quell’antico
sepolcro d’un popolo e fiorisce
sulla terra cruenta e stilla
profumi nelle ceneri dei morti...
giunsi presto al Tempio di
Concordia... Esso domina selve
d’ulivi, di messi ed infine il
mare...”.
Il milanese Luigi Vittorio
Bertarelli segna, invece, l’inizio
di un nuovo modo di affrontare
il viaggio, più vicino ai nostri
canoni, sempre meno
circondato da suggestioni e
miti. Bertarelli viaggia in
bicicletta raggiungendo la Valle
dei Templi che descrive in
questa maniera: “La strada è
completamente deserta, il
terreno in qualche parte
incolto, coperto di palme nane
(Chamaerops humilis), i campi
bordati di lunghe righe di agavi
spinose, il cui scapo fiorito si
alza in fusti sottili e graziosi
fino ad otto metri. Nell’aria
ardente, che brucia le fauci,
tutto oscilla: dove una
tumefazione del terreno porta
la strada un pò’ in su e l’occhio
corre tangente alla curva che
sale, ivi il tremolìo dell’aria
calda è così vivo, che un fiume
invisibile si direbbe scorra sulla
terra. L’arsura traspare dalle
foglie anelanti, di legni
screpolati, dal suolo pieno di
fenditure, dai colorì, dal
silenzio, dal cielo infuocato. E’
un paesaggio africano”.
Attraverso questo excursus è
possibile confrontare le
immagini del paesaggio
descritto o disegnato con quelle
del paesaggio esistente;
confronto dal quale si può
constatare la verosimiglianza
delle stesse immagini e dedurre
che esso non è sostanzialmente
cambiato da quando la Valle dei
Templi è diventata anche
“paesaggio culturale” (Barbera,
Di Rosa, 2000).
Il paesaggio dell’arboricoltura
asciutta: il “bosco di mandorli
e ulivi”
Il paesaggio agrario della Valle
dei Templi riconosce nel
mandorlo e nell’olivo la sua
componente vegetale più
caratterizzante. E’ un paesaggio
che ricorda una pagina
importante nella storia
dell’agricoltura siciliana: quella
che, a cavallo tra il XVIII e XIX
secolo, ha visto la
valorizzazione attraverso gli
alberi da frutto delle colline dei
latifondi prima dominate dal
pascolo e dai seminativi.
Il mandorlo, che fiorisce nel
pieno inverno da dicembre a
marzo con colori che vanno dal
bianco candido alle varie
gradazioni di rosa, è uno degli
elementi che più alimentano il
mito dell’eterna primavera del
sud, coprendo le colline della
Sicilia interna, come quella di
Aragona che scrive Bartels
(XVIII secolo) ha “tanti mandorli
quante stelle ha la via Lattea”.
Insieme all’ulivo dà vita al
paesaggio definito
dell’arboricoltura asciutta, per
sua resistenza all’aridità, e al
“bosco di mandorli e ulivi” della
Valle così come definisce Luigi
Pirandello nel suo romanzo “I
vecchi e i giovani”, il paesaggio
asciutto del mandorlo e
dell’ulivo della Valle dei Templi.
Il mandorlo, non ha particolari
necessità nei confronti
dell’acqua tradizionalmente
scarsa nell’isola e si adatta a
suoli con rocciosità affiorante e,
come nessuna altra specie da
frutto, ai terreni calcarei,
entrambi molto diffusi. Ha,
inoltre, necessità di
investimenti ridotti e di limitate
cure colturali, risultando così
idoneo a sistemi agricoli
marginali come sono quelli delle
aree interne collinari. Il frutto,
prodotto tipico dell’economia dì
sussistenza, ma allo s tesso
tempo richiesto dai mercati
internazionali, si conserva
facilmente a lungo,
sopportando trasporti disagevoli
anche per lunghi viaggi
(Barbera, 2000).
Il mandorlo, originario delle
regioni montagnose dell’Asia
centrale, arriva nel bacino
mediterraneo in epoca e in
circostanze ignote. Certamente
dall’Asia Minore, come
dimostrano alcune
considerazioni linguistiche e le
connessioni con i miti greci,
che spesso lo citano, e più
antichi miti orientali. Il
mandorlo, in Sicilia sembra
essere presente già nel V
millennio a.C., come evidenzia
una recente esplorazione
paleobotanica condotta nella
Grotta dell’Uzzo nei pressi di
San Vito Lo Capo (Trapani), che
ha portato al rinvenimento di
alcuni semi carbonizzati già in
quel periodo. La tradizione
vuole, però, che sia giunto con i
Fenici o, anche più tardi,
tramite la dominazione greca.
Catone (che per primo impiega
il termine utilizzato dagli
scrittori latini nux grecae),
Plinio e Columella sono
testimoni della sua diffusione
nel mondo latino e decisi
propugnatori, con indicazioni di
carattere agronomico ancora
attuali, della sua espansione in
coltura (Barbera, 2000).
L’esportazione dall’isola appare
già attiva nel IV secolo a.C.,
come dimostrerebbero alcune
mandorle di origine siciliana,
Fig. 3 – La Valle dei Templi imbiancata dai
mandorli in fiore, 1920 ca. (Fototeca Museo Civico di Agrigento).
33
rinvenute in un relitto al largo
dell’isola di Maiorca. Per
quanto riguarda la Sicilia, sono
particolarmente interessanti le
testimonianze del viaggiatore
arabo Al Idrisi (XII secolo), che
ricorda l’esportazione da Carini,
e la diffusa presenza nei
frutteti promiscui della Conca
d’Oro. E’ però tra il XVIII e il XIX
secolo, che i mandorli vengono
diffusi ampiamente nell’isola,
soprattutto nei pressi dei centri
abitati dove vi è disponibilità di
lavoro contadino e si ha la
diffusione di contratti di
enfiteusi che minano la grande
proprietà latifondistica. Viene
impiantato insieme all’ulivo,
spesso seguendo la vite, nei
territori interni a dimostrare
insieme evoluzione tecnica,
nuova organizzazione
territoriale e certezza del
possesso. Alla diffusione della
specie molto contribuisce
l’opera di Paolo Balsamo, primo
agronomo siciliano moderno,
convinto assertore degli alberi e
in modo particolare del
mandorlo. Agli inizi dei XIX
secolo, infatti così si pronuncia:
“... non dubito di riputare il
mandorlo, come uno dei più
utili, e pregevoli alberi tra
quelli, che vi sono in Sicilia, ed
Fig. 4 – Il “bosco di mandorli e ulivi” della Valle dei Templi (Foto di A. Pitrone).
34
oso pronunziarlo uguale, o
superiore in merito all’istesso
ulivo. Certo che questo dura di
più, e negli anni più fertili dà
assaissimo, ma quello è più
presto a dar frutto, lo
somministra quasi regolarmente
ogni anno, e chiunque sa di
raccolto delle mandorle è
incomparabilmente meno
costevole che quello delle ulive”.
Dal XVIII secolo la diffusione
della coltura è rapida in tutta
l’isola, con un incremento delle
superfici particolarmente
avvertito negli anni a cavallo
dei secoli XIX e XX, quando la
specie si estende a scapito dei
vigneti distrutti dall’invasione
della fillossera. E’ a partire dagli
anni ‘60, con l’espansione della
mandorlicoltura californiana e
spagnola e l’affermarsi di quei
sistemi colturali intensivi, che
inizia il regresso economico e
tecnico della specie in Sicilia. La
coltura del mandorlo nella Valle
dei Templi, e in generale nel
territorio agrigentino, ha fatto
registrare il crollo delle
produzioni, come riflesso della
concorrenza esercitata da
colture ritenute più
remunerative e di un
progressivo abbandono che
giunge, oggi, fino alla mancata
esecuzione delle operazioni
colturali più elementari
(Barbera e Monastra, 1989).
A ciò si aggiunge il triste
fenomeno della morìa dei
mandorli, con conseguente
diradamento dell’arboreto,
dovuto al propagarsi di diverse
malattie fungine (gommosi
parassitaria, cancro dei rami e
delle gemme, carie dei tronchi
ecc.) che lentamente, com’è nei
caratteri propri di queste
patologie, si diffondono in tutte
le parti della pianta causandone
la morte in breve periodo.
Diverse superfici risultano
completamente prive di alberi e
nelle altre, la densità di
impianto è scesa dalle 150-200
piante ad ettaro di un buon
mandorleto tradizionale, alle
50-80 attuali. Il danno
maggiore prodotto da questo
grave fenomeno, è la scomparsa
di parte delle varietà, o meglio
di eco-tipi, di mandorlo che
spesso sono proprie della Valle e
non si ritrovano altrove. Tra
queste sicuramente le piante
con la suggestiva fioritura
dicembrina (Lo Pilato, 1995).
Fig. 5 – Il Museo Vivente del Mandorlo “Francesco Monastra”.
35
Nel 1997, un’azione volta a
salvare e conservare la
biodiversità del mandorlo, si è
concretizzata nella
realizzazione del Museo
Vivente del Mandorlo intitolato
al Prof. Francesco Monastra,
con il supporto della
Soprintendenza BB.CC.AA di
Agrigento e della Provincia
Regionale di Agrigento. Un
campo collezione che conserva
circa 300 varietà tradizionali
dell’antica mandorlicoltura
siciliana, recentemente
arricchito dalle collezioni
varietali siciliane di pistacchio,
carrubo, olivo. Il disegno ricalca
l’aspetto di un mandorleto
tradizionale dove frammisti ai
mandorli, si trovano olivi,
carrubi, pistacchi, gelsi, sorbi e
arbusti caratteristici della
frutticoltura non irrigua della
Sicilia. Un mandorleto, oltre
che a conservare la biodiversità,
ha anche la funzione di
mostrare, con finalità
didattiche, le tecniche colturali
dell’agricoltura tradizionale.
Servirà, come banca di
germoplasma, a valutare le
varietà in funzione del loro
valore paesaggistico fino a
diffonderle in modo, ad
esempio, da offrire fioriture
continue da dicembre ad aprile,
bianche o colorate con tutti i
toni del rosa, e potrà stimolare
la promozione di produzioni
artigianali, come quelle
pasticciere, legate al mandorlo
e ai suoi prodotti. Dovrà, in
definitiva, non solo conservare
le risorse genetiche della
specie, ma costituire, anche,
un’utile indicazione per la
salvaguardia del paesaggio
agrario tradizionale della Valle,
un originale esempio di
musealizzazione all’aperto
(Barbera, 2000).
Fondamentale per lo studio
della biodiversità e per il
recupero paesaggistico dei
sistemi agrari e naturali
degradati e, nell’accezione più
ampia, per la tutela e
valorizzazione del paesaggio
culturale della Valle dei Templi,
è un laboratorio attrezzato per
la caratterizzazione e la
conservazione di germoplasma,
recentemente realizzato in un
antica masseria ottocentesca
nota come “Case Fiandaca”,
grazie a un’azione comune del
Parco Archeologico e
Paesaggistico della Valle dei
Templi e il Dipartimento di
Colture Arboree di Palermo.
Nell’antica casa rurale è
prevista anche una sezione
etno-antropologica che
raccoglierà testimonianze
materiali della storia e della
cultura e che considererà non
solo la fase agricola ma anche
quella di lavorazione e
trasformazione, comprendendo,
così, anche le produzioni
artigianali pasticciere. Dovrà, in
definitiva, non solo conservare
le risorse genetiche della specie
ma costituire, anche, un’utile
indicazione per la salvaguardia
del paesaggio agrario
tradizionale e dei suoi valori
(Barbera, 2003).
Tradizionalmente per far cadere
i frutti dei mandorli della Valle, i
rami venivano “bacchettati” con
delle lunghe canne secche che
provenivano dal Giardino della
Kolymbetra. Qui gli agricoltori
dopo aver raccolto le canne dal
fiume, le facevano asciugare al
sole poggiate agli alberi di
arancio, per poi venderle, riunite
in fasci e divise per altezza, per
la raccolta delle mandorle e
delle olive, ma anche per la
coltivazione della vite e di
alcune specie da orto (Ala, 2005).
Il frutto può essere consumato
intero, dalla formazione
(allegazione) all’indurimento
del guscio. I semi si utilizzano
sia allo stato fresco, a partire
dal mese di giugno, quando i
cotiledoni delle varietà a
guscio premice e semipremice
(mollesi) sono induriti, che
secco. I semi allo stato secco
sono impiegati per il consumo
diretto e soprattutto in
pasticceria per la produzione
della pasta “reale”, che si
ottiene macinando i semi e
miscelandoli con lo zucchero. I
frutti di “martorana” (dal nome
di un vecchio convento
palermitano), venduti come
dolci tipici durante le feste dei
morti, sono costituiti solo di
36
questa pasta, mentre gli
“agnelli pasquali”, dolci a
forma di agnello, ricoperti di
glassa e confetti, sono
preparati anche con un cuore
di pasta di pistacchio.
Tradizionale è anche la
produzione di “latte di
mandorla”, una emulsione di
zucchero e mandorle pelate e
pestate e filtrata più volte che,
bevuta fredda in estate, rende
plausibile ciò che scriveva un
trattato francese di fitoterapia
degli inizi dell’Ottocento circa
i suoi benefici effetti “sugli
ipocondriaci, sui romanzieri,
sui poeti, il cui cervello
affaticato dagli sforzi di
un’immaginazione ardente
cade talvolta in un vago delirio
con l’avvicinarsi della notte”
(Barbera, 2007).
Oltre che come alimento, i semi
sono impiegati in farmacopea.
L’olio di mandorle, ottenuto per
pressione a freddo, ha funzioni
riconosciute di tipo analgesico
ed antinfiammatorio, ed è
utilizzato sia in medicina che in
cosmetica. E’ tradizionalmente
adoperato in Sicilia come
“rinfrescativo e purgativo,
adoprandolo in qualunque
tempo, ora e momento ed in
qualunque malattia” (Sestini,
1780). Dopo l’estrazione
dell’olio, la farina residua può
utilizzarsi tal quale o unita alla
farina di frumento. I gusci, dopo
l’estrazione dei semi, un tempo
venivano utilizzati come
combustibile solido. Il mallo
veniva impiegato sia per
l’alimentazione animale sia,
dopo l’incenerimento, per la
produzione di carbonato di
potassio (lisciva o potassa)
usato come fertilizzante e per la
produzione di sapone molle che,
Fig. 6 – Vecchi impianti di mandorli e ulivi
promiscui, in consociazione con colture cerealicole, 1920 ca. (Fototeca Museo Civico di Agrigento).
ottenuto con la cenere della
bruciatura dei malli, mescolata
ad olio o grasso animale, è stato
impiegato per usi domestici fino
agli anni ’50. Di questa antica
usanza ne parla anche Goethe
nel 1827, durante il suo
soggiorno ad Agrigento: “I
gambi delle fave vengono arsi, e
ne ricavano una cenere che
adoperano per il bucato. Non
usano sapone. Bruciano pure i
gusci delle mandorle e se ne
servono in luogo della soda,
lavando la biancheria prima con
l’acqua e poi con questa lisciva”.
La corteccia delle radici del
mandorlo è stata usata come
colorante naturale, mentre gli
essudati gommosi del tronco,
conosciuti come “gomma del
paese”, come sostituti della
gomma arabica (Barbera, 2000).
Insieme ai mandorli, gli enormi
“ulivi saraceni”, citati così da
Pirandello nel romanzo “I vecchi
e i giovani”, costituiscono il
“bosco di mandorli e ulivi” della
Valle, dando vita a “gruppi di
meravigliosi alberi... a cui
soltanto il magico tocco del
Creatore potrebbe rendere
giustizia”, come scriveva il
letterato inglese Henry
Swinburne nel 1777. Nei vecchi
impianti di mandorli e ulivi
promiscui e in consociazione,
l’impalcatura era molto alta,
fino a 2 m, per non ostacolare il
passaggio di animali e
consentire le colture erbacee.
L’altezza più frequente è però
intorno a 1,20-1,40 m e solo
negli impianti più recenti
scende al di sotto di 1 m. Per
quanto riguarda le lavorazioni,
tradizionalmente si operava 2-3
volte l’anno - in novembre, in
febbraio dopo la fioritura e in
aprile-maggio - ricorrendo al
lavoro animale e all’aratro a
chiodo (Barbera, 2000).
L’olivo è l’albero che più di
tutti ha seguito la natura e la
storia dell’uomo, almeno da
seimila anni. L’uso, invece
dell’oleastro è ancora più
antico. Dalla Mezzaluna fertile
l’olivo si diffuse nel secondo
millennio verso Occidente.
Arriva nella Grecia antica dove
sarà considerato l’albero della
civiltà come la quercia era
della mitica età dell’oro,
quando gli uomini
mangiavano le ghiande.
Secondo la mitologia è dono
della dea Atena che ottiene di
governare sull’Attica perché,
piantando il primo olivo
sull’acropoli, ha regalato agli
uomini “il dono migliore” e ha
così vinto la disputa con
Poesidone che aveva dato in
dono un cavallo. L’albero di
Atena che darà il nome alla
città, era ancora venerato ai
tempi romani; nei saccheggi
cui fu sottoposta Atene gli
37
alberi sacri furono risparmiati
dagli spartani.
Per i Greci, del resto abbattere
o bruciare olivi era un reato
punito dagli dèi, ma non dai
persiani che non riuscirono
però a sopprimerli visto che
subito riformarono, ricacciando
dalle radici, nuove chiome
(Barbera, 2007). Nel VI secolo
a.C., l’olivo era ancora
conosciuto in Italia, Spagna e
Africa. Virgilio scrive nelle
Georgiche: “Al contrario non c’è
nessuna coltura per gli olivi.
Essi non attendono la roncola
ricurva e o rastrelli resistenti,
quando hanno attecchito sui
campi e sopportato le brezze.
Da sola alle piante offre umore
bastevole la terra se aperta con
un dente adunco, e se arata con
un vomere darà frutti pesanti.
Perciò fai crescere il pingue
olivo caro alla Pace”.
Plinio, circa l’uso della specie,
scrive: “I greci, promotori di
ogni vizio, ne hanno indirizzato
l’impiego alla mollezza,
diffondendone l’uso nei ginnasi...
La maestà romana ha riservato
all’olivo un alto onore, perché
con esso vengono incoronati gli
squadroni di cavalieri...”.
La Bibbia testimonia la
coltivazione dell’olivo nelle
terre della Palestina e molti
sono i riferimenti a questa
specie nella Genesi, nell’Esodo,
nel Levitico, nel Deuteronomio.
L’olivo sarà albero sacro per la
religione ebraica, per quella
cristiana e per quella islamica.
L’innesto degli oleastri o le più
antiche tecniche di
moltiplicazione che utilizzano
la capacità della specie di
emettere radici da parte di
porzioni della parte aerea,
possono aver dato origine agli
ulivi della Valle, classificati
oggi come “monumentali”,
perpetuando anche così e per il
sovrapporsi nei secoli di storie,
leggende, riti, il valore sacro
della specie. “Alberi non a
misura di vita umana e che
hanno perciò a che fare con la
fede e con la religione”, così
scriveva Leonardo Sciascia
riferendosi ad alcuni olivi
siciliani. L’età di questi alberi è
considerevole, ma impossibile a
determinarsi ricorrendo alla
conta degli aneli di
accrescimento che si
aggiungono uno sull’altro,
anno dopo anno, a far crescere
il tronco. Dagli ammassi di
gemme che formano le forme
globose conosciuti come ovoli
che si trovano alla base del
Fig. 7 – Mandorli in fiore e ulivi monumentali della Valle dei Templi.
38
tronco (il pedale o ciocco),
infatti, si formano in
continuazione nuovi tronchi
che si sovrappongono nel corso
dei secoli. Questo modo di
crescere è all’origine della
forma contorta e della
sopravvivenza millenaria di
alberi che Pirandello chiamava
“saraceni”. In effetti, gli
studiosi di olivicoltura,
assegnano all’olivo addirittura
la qualifica di albero perenne
osservando che quando muore
la parte aerea (per il taglio, un
incendio, un fulmine), dal
pedale riparte sempre un
pollone pronto riformare
l’albero. Nella Valle i
monumentali ulivi saraceni,
con le loro straordinarie forme
e dimensioni sono ancora lì a
testimoniare, insieme ai
mandorli, il lento trascorrere
del tempo.
Il paesaggio dell’arboricoltura
irrigua: il “Giardino della
Kolymbetra”
Accanto al paesaggio
dell’arboricoltura asciutta del
mandorlo e dell’olivo della Valle,
laddove maggiore è la
disponibilità di risorse idriche e
solitamente in prossimità di
edifici rurali, agrumeti e frutteti
irrigui danno vita al paesaggio
dell’arboricoltura irrigua. Tra i
giardini di agrumi della Valle,
quello della Kolymbetra si
carica di un ulteriore e
straordinario valore storicoarcheologico.
Il “giardino”, così come si
chiamano in Sicilia gli agrumeti
tradizionali per sottolinearne
l’utilità e la bellezza che essi
racchiudono, è coltivato infatti
in una piccola valle all’estremità
occidentale della Collina dei
Templi tra il Tempio dei Dioscuri
e il Tempio di Vulcano, nel sito
identificato con quello della
piscina greca (kolumøqra=
piscina, bagno, cisterna,
peschiera) di cui scrive Diodoro
Siculo nel I sec. d.C., a proposito
dei lavori compiuti dagli schiavi
cartaginesi dopo la battaglia di
Himera (480 a.C.) (Barbera et
al., 2005). Essi “abbellirono la
città e il territorio... questi
tagliavano le pietre con le quali
non solo vennero costruiti i più
grandi templi degli dei, ma
vennero costruiti anche gli
acquedotti per gli sbocchi delle
acque della città... Fu
sovrintendente di queste opere
l’uomo, che avendo il
soprannome di Feace, fece sì
che, per la rinomanza della
costruzione, da lui gli
acquedotti venissero chiamati
Feaci. Gli agrigentini
costruirono anche una sontuosa
piscina che aveva la
circonferenza di sette stadi e la
profondità di venti cubiti: in
essa vennero condotte le acque
dei fiumi e delle sorgenti,
diventando così un vivaio, che
forniva molti pesci per
l’alimentazione e per il gusto; e
poiché moltissimi cigni
volavano giù verso di essa, la
sua vista era una delizia. Ma in
seguito trascurata, venne
ostruita, e infine, distrutta per
la quantità del tempo trascorso
e gli abitanti trasformarono
tutta la regione, che era fertile,
in terreno piantato a viti, e
densa di alberi di ogni tipo, così
da ricavarne grandi rendite”.
Quando all’orto ed alle piante
da frutto si aggiunsero gli
agrumi, prese la denominazione
di giardino per sottolineare,
come si usa in Sicilia, la
coincidenza dell’utilità e della
bellezza in un campo coltivato.
Così avviene almeno dagli anni
in cui furono introdotte, nei
“sollazzi” dei re arabi e poi
normanni, le più importanti
specie agrumicole e anche
quando, dalla metà del XIX
secolo, si affermerà la
monocoltura indirizzata ai
mercati del nord. Ciò
testimonia come ad essi siano
riconosciute, non disgiunte
dalle produttive, funzioni
culturali fondate sul piacere
estetico e sensoriale che deriva
dalla forma degli alberi, dal
39
colore e dal sapore dei frutti,
dall’appariscente e profumata
fioritura della zàgara,
dall’ombra e dalla frescura
assicurata dalla chioma
sempreverde. Nella Sicilia
orientale, ancora gli agrumeti si
definiscono “paradisi” e a
Pantelleria si chiamano
“giardini” imponenti edifici di
pietra a secco che conservano
un solo albero di arance o
limoni.
Non più coltivato negli ultimi
venti anni, il giardino della
Kolymbetra rischiava di
scomparire e con esso, una
cultura materiale e un
paesaggio, ogni giorno sempre
più minacciati. Finché nel 1998
il FAI - Fondo per l’Ambiente
Italiano - firma una
convenzione con la Regione
Sicilia, che concede l’area per
25 anni in cambio
dell’intervento di recupero
ambientale e paesaggistico del
“giardino”. Portato a termine il
progetto, il giardino della
Kolymbetra è stato aperto al
pubblico il 9 novembre del 2001
con l’obiettivo di restituire ai
visitatori un paesaggio agrario,
ma anche culturale di
inestimabile valore (Ala, 2005).
L’abbandono nascondeva una
lunga storia produttiva fondata
sulla fertilità del suolo
alluvionale, sull’abbondanza
delle acque e su un microclima
che le pareti di calcarenite
assicurano mite per l’intero
anno. Nelle zone più acclivi, la
gariga e la macchia
mediterranea si presentavano
con esemplari di mirto e
terebinto di dimensioni
eccezionali, mentre il degrado
nascondeva, fino a soffocare,
ciò che restava di un paesaggio
Fig. 8 - Tempel des Castor und Pollux. G.F.
von Hoffweiler, Sicilie, Leipzig, 1870.
culturale di grande valore
storico, agronomico e
paesaggistico: nel fondovalle, al
di là del piccolo e perenne
fiume bordato di canne, un
giardino mediterraneo
nell’accezione di un ortofrutteto e in particolare di un
agrumeto e, nelle zone non
irrigue, l’arboreto asciutto del
Fig. 9 - Il Giardino della Kolymbetra con il Tempio di Castore e Polluce sullo sfondo.
40
mandorlo e dell’olivo (Barbera
et al., 2005).
L’intervento di recupero è stato
volto a conservare l’uso del
suolo, le specie, le varietà, le
tecniche agronomiche, il
paesaggio dell’agricoltura
tradizionale, favorendo con
piccoli interventi
(camminamenti, sedute,
attraversamenti) la visita e la
conoscenza di un “giardino” che
mantiene i caratteri di un
sistema e di un paesaggio
agrario storico: quello dell’ortoagrumeto siciliano.
Quando nel 2000 si è dato
l’avvio al recupero, il primo
intervento è consistito
nell’eliminazione della flora
infestante che copriva
interamente il suolo fino a
sommergere gli agrumi
sopravvissuti. Solo allora è
stato possibile leggere il
giardino in tutti i suoi elementi
costitutivi: l’originario sesto
d’impianto degli agrumi, i
manufatti del sistema irriguo
tradizionale, la trama dei
muretti a secco, i
terrazzamenti, i sentieri, gli
attraversamenti. Gli interventi
hanno riguardato il ripristino
delle colture agrarie
tradizionalmente praticate, la
cura degli spazi naturali,
nonché il restauro dei muretti a
secco e dei manufatti di
particolare pregio, il recupero
del sistema irriguo tradizionale,
la pulizia e la riqualificazione
del torrente, il recupero della
rete di sentieri e la creazione di
due attraversamenti del fiume
per facilitare il percorso dei
visitatori. Si è proceduto al
ripristino delle fallanze
dell’agrumeto, procedendo
all’impianto dei portinnesti
tradizionali (arancio amaro) e al
successivo innesto con varietà
della tradizione agrumicola
siciliana (Barbera et al., 2005).
L’abbandono pluriennale
dell’agrumeto ha, in
particolare, reso necessaria
una potatura straordinaria di
riforma e risanamento degli
agrumi: per questa operazione
si è ricorso ad alcuni potatori
provenienti dalla Conca d’oro
che, in possesso dell’antica
Fig. 10 - Antica tecnica di potatura degli agrumi.
41
cultura materiale, erano in
grado di recuperare le vecchie
piante salvaguardandone il più
possibile la forma originaria.
Potature straordinarie hanno
riguardato anche gli altri
alberi da frutto e quelli della
vegetazione naturale
ricorrendo, ove necessario
sulle pareti della valle e per gli
esemplari di grandi dimensioni,
ad interventi di tree climbing.
L’esigenza di disporre di una
cartografia informatizzata che
consentisse di programmare gli
interventi di manutenzione e
risultasse utile alla fruizione, ha
portato alla realizzazione di un
SIT (Sistema Informatico
Territoriale).
Oggi la Kolymbetra riassume in
sei ettari il paesaggio agrario e
naturale della Valle dei Templi.
Nelle zone più scoscese, le
piante della macchia
mediterranea: il mirto, il
lentisco, il terebinto, la ginestra,
la fillirea, l’euforbia, l’alaterno,
la palma nana. Nel fondovalle,
al di là del piccolo fiume
alimentato dalle gallerie
drenanti ancora perfettamente
funzionanti e bordato da canne,
pioppi, tamerici e salici, un
agrumeto con limoni,
mandarini, aranci rappresentati
da antiche varietà e irrigato
secondo le tecniche della antica
tradizione araba. Dove l’acqua
non arriva, gelsi, carrubi,
fichidindia, mandorli e
giganteschi olivi “saraceni”.
La straordinaria bellezza del
giardino della Kolymbetra viene
ricordata nelle pagine dei diari
dei viaggiatori del Grand Tour e
in tanti altri racconti e
immagini pittoriche. Gaston
Vuillier nel 1896 descrive il
senso di benessere che, allora
come oggi, il giardino regala
per i suoi colori, profumi,
silenzi, forme, ombre e frescure:
“Gli antichi templi mostrano le
loro colonne attraverso gli
alberi di arancio e al di là si
scopre il mare infinito. Vi sono
rimasto a lungo, debole per il
caldo, con lo sguardo perso tra
le foglie che tremano e
luccicano ai soffi irregolari
della brezza marina e il mio
pensiero errante ha preso a
risalire il corso degli anni.
Lasciammo l’orlo del burrone e
andammo a riposarci all’ombra
Fig. 11 -Alberi di arancio in frutto del Giardino della Kolymbetra.
42
d’un folto carrubo; i massi del
Tempio di Zeus Olimpio erano
ammonticchiati intorno a noi, e
di là dagli ulivi, stentati e sottili,
si estendeva il mare infinito e
fremente. Nessun rumore
turbava quella solitudine; solo
di quando in quando le
cavallette, facendo del fruscio
fra le erbe secche, richiamavano
la nostra attenzione”.
A esprimere il fascino del luogo
impareggiabile è però
Pirandello che ne “I vecchi e i
giovani” da della Kolymbetra
una descrizione
prevalentemente morfologica
“nel punto più basso del
pianoro, dove tre vallette si
uniscono e le rocce si dividono e
la linea dell’aspro ciglione su
cui sorgono i Tempii è interrotta
da una larga apertura” per
riprendere le suggestioni del
suo paesaggio scrivendo della
tenuta Valsanìa che “restava di
qua, scendeva con gli ultimi
olivi in quel burrone, gola
d’ombra cinerulea, nel cui
fondo sornuotano i gelsi, i
carrubi, gli aranci, i limoni lieti
d’un rivo d’acqua che vi scorre
da una vena aperta laggiù
infondo, nella grotta misteriosa
di San Calogero”.
I vecchi agricoltori che in
passato hanno coltivato il
giardino, ricordano di grandi
produzioni di frutti che, raccolti
e messi dentro le coffe - borse
realizzate con foglie intrecciate
di palma nana - venivano
trasportati dai muli fino al
mercato di piazza Ravanusella,
nel centro storico di Girgenti,
per essere venduti insieme alle
zucchine, alle melanzane, ai
pomodori, ai peperoni e ai
cavoli raccolti dall’orto che
veniva coltivato al di sotto delle
chiome degli agrumi e sulle
terrazze. Affinché le piante
crescessero rigogliose,
all’intemo del giardino fu
realizzato un complesso sistema
d’irrigazione alla maniera araba,
costituito da vasche di raccolta
delle acque provenienti dagli
ipogei, da tubazioni in
terracotta e soprattutto da una
meticolosa sistemazione del
terreno che consentiva
all’acqua, attraverso canali di
terra, conche realizzate attorno
agli alberi e piccoli argini, di
raggiungere ogni pianta. L’orto,
coltivato al di sotto degli aranci
e dei limoni secondo antiche
pratiche agronomiche, viene
ancora irrigato secondo un
preciso disegno e delle regole
ereditate dalla civiltà islamica:
l’acqua proveniente da alcuni
ipogei, ancora perfettamente
funzionanti dopo 2500 anni,
viene accumulata nelle
“gebbie”, antiche vasche di
raccolta, e da queste passa nelle
“saje”, condutture in muratura o
in terra battuta a cielo aperto,
per poi passare nei “cunnutti”,
canali di terra che portano
l’acqua nelle “casedde”, conche
realizzate attorno al tronco
dell’albero e da qui tra i “vattali”,
arginelli di terra importanti per
aumentare l’efficienza
dell’irrigazione (Ala, 2005).
Fig. 12 - Un antico ipogeo e una gebbia (vasca di raccolta d’acqua) del giardino della Kolymbetra.
43
“Tirare la terra” è una tipica
espressione dialettale che
descrive, questo meticoloso
lavoro di zappa che il contadino
deve effettuare periodicamente
per sistemare il terreno, perché
a ogni singola pianta possa
arrivare l’acqua che, sfruttando
anche le minime pendenze del
suolo, trova il suo corso.
Connessa alla pratica irrigua era
la tecnica della forzatura dei
limoni che consiste nel lasciare le
piante prive d’acqua sino alla metà
di luglio per poi irrigarle: i limoni
producono, in questo modo, una
straordinaria fioritura che
consente la raccolta, nell’estate
successiva, dei cosiddetti “verdelli”.
L’agrumeto è costituito da
piante disposte in quadro con
sesti di 3,5 m, consociato in
alcuni tratti del giardino, con
specie da orto (cavoli, peperoni,
carciofi, melanzane, pomodori,
zucchine ... ). Gli alberi di agrumi
oggi presenti sono circa 600, divisi
in aranci dolci, aranci amari,
limoni, mandarini e clementine.
In generale ogni specie è
rappresentata da antiche
varietà (arancio “Vaniglia”,
arancio “Vanglia sanguigno”,
arancio “Tarocco”, arancio “Moro”,
mandarino “Avana”, limone
“Lunario”, limone “Monachello”...)
(Barbera et al., 2005).
La Kolymbetra è anche un
antico giardino siciliano ricco
di antiche varietà da frutto,
ormai quasi del tutto
scomparse dalle nostre tavole.
E’ un giardino basato su
tecnologie agronomiche e
risorse genetiche non adeguate
alle dominanti necessità del
mercato globale e all’efficienza
produttiva il cui interesse
risiede non tanto nella
funzione produttiva, ma
Fig. 13 - Irrigazione dell’orto-frutteto della Kolymbetra con antiche tecniche irrigue.
44
piuttosto in quella ambientale.
Per queste caratteristiche, si
pone in antitesi con i moderni
impianti da frutto
monoculturali intensivi, magari
più produttivi ed efficienti, ma
privi di tutti quegli odori,
sapori, colori e forme che
invece caratterizzano i
“giardini” dell’agrumicoltura
tradizionale, testimoni anche di
antichi saperi contadini e di
una cultura materiale in via di
scomparsa.
Nonostante il gruppo più
rappresentato sia quello degli
agrumi, numerose altre specie
da frutto sono presenti a
testimoniare un’elevata
biodiversità specifica:
azzeruolo, banano, carrubo,
cotogno, fico, ficodindia, gelso
bianco, gelso nero, kaki,
melograno, nespolo del
Giappone, nespolo d’inverno,
pistacchio, sorbo. In generale
ogni specie è rappresentata da
antiche varietà in gran parte
non più in coltura nei sistemi
frutticoli moderni. Alcune di
queste piante (soprattutto i
vecchi olivi) hanno un elevato
valore paesaggistico. Gli ulivi, in
particolare, per le straordinarie
dimensioni raggiunte e per la
bellezza delle forme del tronco,
sono da annoverare, insieme ai
mirti, tra le piante monumentali
del giardino.
Di particolare interesse
naturalistico anche alcuni
esemplari della flora
spontanea: tra le piante
arboree si distinguono gli
olivastri tra gli anfratti della
roccia calcarenitica, l’alloro con
le sue foglie aromatiche dalle
riconosciute proprietà
antisettiche che un tempo
venivano vendute, raccolte in
mazzetti, come “addagaru” per
bambini (alloro per bambini).
Era pianta sacra ad Apollo e ha
preso il nome greco da Dafne,
la ninfa amata dal dio. Nel
mondo classico l’alloro era
usato come simbolo di gloria e
fama: le corone da porre sul
capo dei vincitori ne erano
intrecciate (Ala, 2005). I carrubi
con le loro grandi chiome
sempreverdi regalano ombra e
frescura. Come dimostra
l’origine araba del nome, il
carrubo arriva in Sicilia durante
la dominazione islamica,
insieme all’arancio amaro e al
limone. E’ una specie longeva e
a lento accrescimento. La polpa
dolce e nutriente dei suoi
numerosi frutti, costituì, un
tempo, una parte importante
del vitto delle popolazioni
rurali. Nell’antichità i semi, di
forma lenticolare, venivano
usati come unità di peso
dell’oro, da cui deriva il termine
di “carato” (Ala, 2005).
Sulle pareti di calcarenite del
giardino, numerose sono le
specie arbustive della macchia:
il lentisco, la fillirea, l’alaterno,
l’euforbia arborea, specie
straordinaria per i colori, dal
verde, al giallo al rosso, che
nell’arco dell’anno si
susseguono sulla stessa pianta,
conferendo al paesaggio
variazioni cromatiche uniche ed
in continuo mutamento. Tra le
specie della macchia, anche la
palma nana occupa i versanti
scoscesi del giardino. E’
rappresentante d’eccezione
delle macchia ed è l’unica
palma che cresce spontanea nel
mediterraneo. Ha rivestito nella
storia un ruolo importante,
tanto che in antiche monete e
medaglie siciliane sono stati
Fig. 14 - La sistemazione del suolo, con i termini dialettali, per l’irrigazione degli agrumi (disegno di M. Ala).
45
rinvenuti i disegni delle sue
foglie a ventaglio. Le sue fronde,
fino a pochi anni fa, venivano
utilizzate per lavori di intreccio
ed il crine per imbottiture, per
fare cordami o stuoie e scope,
chiamate con il termine
dialettale di “giummarre”.
I mirti, chiamati in dialetto
“murtedda”, che solitamente
rientrano tra le specie arbustive
della macchia, all’interno del
giardino, per le eccezionali
dimensioni e forme assunte nel
tempo, sono da annoverare
insieme agli “ulivi saraceni”, tra
le piante monumentali della
Kolymbetra. Producono bellissimi
fiori bianchi dal profumo intenso
e bacche, di colore nerobluastro o bianco che maturano
in estate. Pianta sacra a Venere,
prende il nome da Myrsine,
fanciulla greca trasformata da
Pallade in un arbusto di mirto.
Nel mondo classico era usato
come simbolo di trionfo: con i
suoi rami si intrecciavano
ghirlande per incoronare poeti
ed eroi (Ala, 2005).
Lungo il perenne corso d’acqua
che attraversa il giardino,
particolarmente abbondante è il
canneto, della cui presenza si
ha notizia già nel 1225
all’interno di un’antica
pergamena che testimonia la
concessione al Vescovo Ursone
di Agrigento di una “terra in cui
vi era un canneto in prossimità
delle cave dei giganti” (l’attuale
Tempio di Giove). Le canne un
tempo venivano periodicamente
raccolte dai contadini del
giardino, divise per le diverse
altezze e riunite in fasci che,
poggiati agli alberi di arancio,
erano lasciati al sole ad
asciugare per poi essere vendute
per la raccolta delle mandorle e
per la coltivazione della vite e di
alcune specie ortive, come la
zucchina e il pomodoro.
Allo scopo di favorire la fruizione
è stata recuperata la viabilità
originaria: le tracce rinvenute nel
terreno e le interviste ai vecchi
agricoltori che per ultimi si sono
presi cura dei giardino, hanno
permesso di ricostruire i tracciati
originali. Alcuni nuovi sentieri in
terra battuta sono stati tracciati
allo scopo di collegare le diverse
parti del giardino o di portare il
visitatore in luoghi panoramici o
significativi dal punto di vista
culturale e paesaggistico (ipogei,
piante monumentali, resti
archeologici).
Lungo i percorsi, per favorire la
fruizione, sono state realizzate, in
luoghi panoramici o ombreggiati,
sedute con materiali naturali
(blocchi di pietra di tufo e assi
di legno). In legno e ferro sono i
due ponti realizzati per
l’attraversamento del torrente.
Per una visita più ricca, dei
pannelli didattici disposti lungo
il percorso, danno informazioni
sulla storia, il paesaggio e le
antiche specie coltivate. Altri
indicano la direzione verso
manufatti di interesse
archeologico, storico e
paesaggistico: ipogei, latomie,
muretti a secco, gebbie, piante
monumentali, punti panoramici
(Barbera et al., 2005).
Per le classi di scuola primaria e
secondaria un nuovo itinerario
di visita del giardino è una sorta
di “caccia al tesoro” dove i
ragazzi diventano protagonisti
46
attivi dell’esperienza. Con l’aiuto
di schede didattiche di
osservazione e scoperta, gli
studenti divisi in gruppi,
approfondiscono alcuni aspetti
del giardino legati alla storia, al
paesaggio e alle tradizioni
contadine, rivestendo ciascuno
un ruolo diverso: alcuni hanno il
compito di porre domande, altri
di orientarsi sulla mappa, altri di
controllare il tempo o di farsi
portavoce del gruppo
trasformandosi in ciceroni. Sotto
la guida di un operatore
didattico, ogni gruppo espone
poi al resto della classe quanto
scoperto. Di ritorno in aula, gli
studenti possono poi completare
il lavoro, utilizzando le schede di
approfondimento scaricabili
anche dal sito www.faiscuola.it.
Numerose sono, inoltre, le
manifestazioni organizzate
all’interno del giardino come la
“Scialata giurgintana”, una
festa della tradizione con
pranzo rustico ispirato alla
cucina contadina, da consumare
nell’area attrezzata all’ombra di
alberi di arancio e di una grande
alloro, la “Vapulanzicula”, una
grande festa dedicata ai
bambini cui vengono proposti i
giochi dei loro nonni, la “Festa
del pane”, una mostra di
tradizionali forme di pane e
dell’antico ciclo di produzione,
la “Notte tra gli aranci”, una
festa di metà agosto con cena e
musiche eseguite dal vivo e la
“Festa di S. Martino”, la festa
del vino nuovo con
degustazione guidate da esperti
sommelier e incontri con
cantine ed enoteche
specializzate.
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