Settecento_schede opere

Transcript

Settecento_schede opere
SETTECENTO
SCHEDE OPERE (* immagine nel CD)
Pier Leone Ghezzi (Roma, 1674-1755)
Autoritratto, 1747 (*)
penna, mm 346x255; provenienza: acquisto Maria Luisa Muñoz, 1961
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 16749
Iscrizione: “Caricatura di me med.mo cav.re Ghezzi vedutomi nello specchio in atto di disegnare
qualche altra persona, nella mia età di anni 73, delli 16 Febbraro 1747”.
L’autore in questo foglio si raffigura settantatreenne ma ancora molto attivo, “in atto di disegnare
qualche altra persona”, e cioè intento nell’attività ritrattistica che diventerà centrale nell’ultimo
periodo della sua vita lavorativa. Insieme agli autoritratti dipinti egli ne eseguì anche molti caricati,
oggi conservati nella Biblioteca Nazionale di Parigi, nella Biblioteca della Valletta a Malta e presso
l’Istituto Centrale della Grafica, nel cui ultimo foglio lo troviamo ormai anziano e stanco, con la
vecchia parrucca, in atto di prendere del tabacco da una scatola. In linea con l’esigenza realistica e
la volontà di documentare un’epoca attraverso una moltitudine di personaggi, Ghezzi utilizza
anche per la sua, come per tutte le altre caricature, un occhio distaccato, studiandosi “nello
specchio” e ritraendosi, con il passare del tempo, in modo sempre più essenziale, privo di inutili
ornamenti.
Bibliografia: Incisa della Rocchetta 1964, p. 18; Lo Bianco 1999, pp. 182-187 n. 63. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Autoritratto, 1793 (*)
penna e acquerello, mm 275x195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-57
Iscrizione: “Questo e fatto per il Signor Bartolomeo Molatti Segnato il di 15 ottobre 1793 di ricordo
che per le buone nove avute tutti in un tempo fui assalito dal mal di orina che il di 12 detto, stetti 4
ore senzza poter orinare, oltre li altri replicati insulti le buone furono queste il figlio Paolo Emilio
arrestato in Firenze; Il funerale che doveo fare a S. Luigi dè Francesi per la morte di Luigi XIV che
non lo feci per l'inganni del A.te Dalestangie, ero senzza denari ne domandai al Principe Altieri al
quale e mio debbitore di z. 5000 pari li miei debbiti, e con tutto il male mi negò cento doppie e
doppo che li ò fatto l'appartamento per il figlio D. Paluzzo, che a sposato questa matina in casa
Barberini, la figlia del Principe Saverio; l'altra buona nuova che e in pericolo parte di un credito di z.
1600 e però non ho pisciato, ogniuno impari”.
Barberi si ritrae in questo disegno con una lettera in mano, e con un’espressione quasi disperata,
quale postulante presso un tale Bartolomeo Monaldi a Firenze, dove il figlio Paolo Emilio è stato
arrestato per motivi politici. Nella glossa, oltre a informarci circa il suo assillante problema di
salute, l’architetto riporta anche due “buone nuove”: un credito non saldato da parte di Emilio
Altieri per i lavori nella dimora a piazza del Gesù, diretti da Barberi fino al 1793 e per i quali recluta
molti importanti artisti romani e stranieri, e la mancata commissione del catafalco per i funerali di
Luigi XVI – alla cui realizzazione avrebbe dovuto partecipare anche Vincenzo Pacetti – e mai
eseguito a motivo de “l’inganni” de l’abate Carlo de Lestache, amministratore della chiesa di San
Luigi dei Francesi.
Bibliografia: Debenedetti (AMD)
1
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Vincenzo Pacetti, 1777 (*)
penna e acquerello, mm 275x195, provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-9
Iscrizione: “Questo è il birbissimo Sig. Pacetti scultore il quale doppo che dal essere un povero omo
gli diedi tanti lavori che furono bastanti di farsi 17 lochi di Monti mi disse di faccia che non avevo
fatto niente per lui. Segnato il 24 agosto 1777, lo affermo per birbo”.
Il personaggio ritratto in questo e in altri fogli è Vincenzo Pacetti (1746 ca.-1820) scultore,
collezionista nonché restauratore di statue classiche. In qualità di scultore indipendente viene
ammesso all’Accademia di San Luca, di cui è principe tra il 1796 e il 1801, e Bartolomeo Cavaceppi
lo nomina esecutore delle sue volontà. L’artista lavora a Villa Borghese negli anni 1782-1785 e a
palazzo Altieri chiamato dallo stesso Barberi il quale, nell’iscrizione a margine del foglio, lo
definisce “birbo” in quanto reputa di non aver ricevuto un’adeguata riconoscenza per i numerosi e
ben pagati incarichi che gli ha procurato negli anni e, forse, anche in riferimento alla sua non
sempre limpida attività di mercante e procacciatore di materiale archeologico. Incontratisi
probabilmente nel 1762, in occasione dei Concorsi Clementini, gli artisti avranno modo di
approfondire la reciproca conoscenza grazie alle comuni esperienze di Accademici di San Luca, di
Arcadi, di giacobini e ai lavori condivisi. Quella tra i due si rivelerà un’amicizia profonda e duratura
che coinvolgerà anche i membri delle rispettive famiglie – lo scultore terrà a battesimo Paolo
Emilio Barberi, intercederà presso Agostino Tofanelli affinché lo prenda nel proprio studio e darà
lezioni di disegno a Leone, un altro dei nove figli dell’architetto – e li vedrà spesso in soccorso l’uno
dell’altro; sarà Pacetti, infatti, a correre al capezzale dell’amico in punto di morte.
Bibliografia: Debenedetti 1997, p. 200 n. 4; D’Amelio 2010, p. 85; Cipriani, Fusconi, Gasparri,
Picozzi, Pirzio Biroli Stefanelli 2011, p. VI; D’Amelio 2016, in corso di stampa. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Giuseppe Valadier, 1793 (*)
penna e acquerello, mm 275x195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-90
Iscrizione: “Questo è il figlio del fu Mae. Luiggi Valadier valentomo che si buttò a fiume, per
disperazione di interesse, il figlio li e saltato in testa di far darchitetto ed è sinora l'autore delli
quattro orologgi posti al Vaticano; però, quelli interni io li levai di testa di metterli nel fregio del
ordine con due putti volanti che li reggessero e l'obligai di collocarli ove si trovano giacchè si sono
voluti mettere. Segato il di 14 Dicembre 1793”.
In questo foglio l’artista ritrae in caricatura Giuseppe Valadier (1762-1839), talentuoso architetto,
restauratore di monumenti antichi nonché scalpellino e muratore. Questa poliedrica formazione,
dovuta all’apprendistato presso la bottega orafa del padre Luigi, gli consente di comprendere
appieno i vari aspetti sia di un edificio che di un progetto urbanistico, dall’idealizzazione alla sua
realizzazione, permettendogli di raggiungere altissimi risultati. E sempre grazie al padre, grande
amico di Pio VI, ottiene neppure ventenne il prestigioso titolo di architetto dei Sacri Palazzi.
Nell’annotazione che accompagna il disegno Luigi Valadier viene ricordato da Barberi come
“valentomo che si buttò a fiume”, ricordando la sua tragica fine avvenuta nel 1785, quando a
causa o di una disastrosa situazione economica o della paura di un insuccesso riguardante la
lavorazione del campanone di San Pietro, si suicidò gettandosi nel Tevere. Tanta era la stima che
Barberi nutriva per lui quanto pochissima per il figlio, riguardo il quale dice di non capire come gli
sia “saltato in testa di far darchitetto”, riferendosi agli orologi progettati per i lati della fronte
esterna e della controfacciata della Basilica Vaticana, dei quali il nostro ne sconsiglia la
2
collocazione nel fregio dell’ordine facendoli, invece, collocare sul prospetto interno del muro, ai
lati dello stemma di Benedetto XIV.
Bibliografia: D’Amelio 2010, p. 101; eadem, in corso di stampa. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Teresa Bandettini, 1794 (*)
penna e acquerello, mm 275x205; provenienza: acquisto Claudio Argentieri, 1955
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2895-48
Iscrizione: “Così era vestita che pareva la Musa Clio”/ “Questa è la poetessa cioè la Bandettini che
improvvisò la sera del di 18 aprile 1794 in Archadia di Venerdi Santo a sera sopra li temi dati il
primo Gerusalemme distrutta, il secondo la figlia di Jetro condotta a morte il terzo la Madonna
addolorata, il quarto il convitto di Baldassarre, che disse benissimo”.
La donna raffigurata in questo foglio è la nota poetessa Teresa Bandettini (1763-1837) che iniziò a
scrivere versi giovanissima, a soli sette anni, trasgredendo agli ordini della madre, che la voleva
ballerina, mestiere che continuò ad esercitare a lungo e che le procurò il soprannome di Ballerina
Letterata. Nel 1789, dopo aver incontrato e subito sposato Pietro Landucci, decise di
abbandonare, dietro sollecitazione di quest’ultimo, la carriera di danzatrice per affinare l'arte
dell'improvvisazione, di cui divenne maestra, riscuotendo le lodi di Vittorio Alfieri, di Giuseppe
Parini e di Vincenzo Monti. Tra le sue molteplici esibizioni, rimase famosa una a Roma dove, per
ben otto volte, propose sempre lo stesso tema ma ogni volta con un metro diverso. Entrò a far
parte dell'Accademia dell’Arcadia con il nome di Amarilli Etrusca e si cimentò anche nella
redazione di alcuni poemi, La morte di Adone e La Teseide, e di due volumi di Poesie varie.
Barberi la ritrae proprio durante una sua esibizione, la sera del 18 aprile 1794, in una posa e un
abbigliamento straordinariamente simili a quelli del ritratto eseguito, un anno dopo, da Angelica
Kauffmann su commissione della stessa Bandettini.
Bibliografia: D’Amelio 2010, pp. 101-102. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Signora Pomponi, 1777 (*)
penna e acquerello, mm 275x195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-12
Iscrizione: “Questa è la sorella della ragazza del Signor Pavolo Baggilli chiamata la Sig Pomponi
segnata quando veniva alla novena di Natale l'anno 1777 questa porta una aggiustatura di testa e
scuffia che fra tutte è presa di modello dalle ragazze del paese nostro”.
Anche la caricatura della signora Pomponi è un pretesto per raffigurare non tanto il personaggio,
piuttosto anonimo in quanto sorella della ragazza di Paolo Bargigli (l’architetto?), quanto piuttosto
il suo ricercato abbigliamento e la sua “aggiustatura di testa e scuffia”, cioè la sofisticata parrucca
con i relativi elementi decorativi, talmente particolare da essere presa a modello da tutte le
ragazze romane.
Bibliografia: D’Amelio 2010, pp. 69-102. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Ignazio Boncompagni Ludovisi, 1788 (*)
penna e acquerello, mm 275x195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-54
3
Iscrizione: “Questo è il Cardinale Boncompaggi Segretario di Stato, del nostro secolo alla moda e
lui lo favorisce benissimo Segnato di ricordo il di 25 ottobre 1788. Che il Bragieraro ecellente mi
misse il bragiero novo, e bencaro, perchè due zecchini, farebbe meglio al Signor Cardinale che a
me, o da fare quello che non fa lui e allora lui non farebbe quello che fa a tenor del secolo”.
La questione della bonifica padana contribuì a determinare e definire gli orientamenti riformistici
di Ignazio Boncompagni (1743-1790), che lo avvicinarono sempre di più ad alcune delle maggiori
personalità antigesuitiche della corte, tra le quali il cardinale de Bernis. Dopo una lunga e brillante
carriera ecclesiastica egli ricoprì la carica di Segretario di Stato di Pio VI dal 1785 al 1789; fu,
inoltre, prefetto delle congregazioni cardinalizie della Sacra Consulta e delle congregazioni di
Avignone e di Loreto. In questa caricatura più che il personaggio, ritratto da Barberi ben vestito
mentre incede con passo sicuro, risulta particolarmente interessante la glossa che lo definisce un
Segretario di Stato perfettamente in linea con il secolo alla moda. L’autore si riferisce
probabilmente ai suoi atteggiamenti disinvolti, che potrebbero essere arginati dall’utilizzo di un
cinto erniario, appena acquistato a caro prezzo da un braghieraro dallo stesso Barberi per il suo
annoso problema di salute, convenendo che starebbe meglio indosso al signor cardinale che a lui,
che potrebbe fare liberamente quello che invece fa, in modo sconveniente, il Boncompagni “a
tenor di secolo”.
Bibliografia: D’Amelio 2016. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Marianna Altieri e il principe Carlo Emilio Altieri, 1793 (*)
penna e acquerello, mm 195x274
provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-87
Iscrizione: “Il P.pe Altieri con la Duchessina sua nora che parlano al canapè prima di uscire con D.
Paluzzo suo marito Segato il di 11 Dicembre 1793”.
Maria Anna Violante Wettin von der Lausitz, (1770- 1845) viene qui raffigurata in conversazione
con il suocero, il principe Carlo Emilio Altieri (1723-1801), di cui ha sposato il figlio Paluzzo con il
quale si accinge ad uscire. Nelle cronache dell’epoca si legge che la duchessina era solita vestire in
modo ricercato ed elegantissimo e che si recasse ovunque in carrozza, persino alla messa
celebrata nella chiesa del Gesù, che si trovava nella stessa piazza del palazzo in cui abitava. I lavori
di decorazione della dimora, in occasione delle nozze dei due giovani, furono commissionati dal
principe proprio a Barberi, che vi lavora fino al 1793 reclutando molti importanti artisti sia romani
che stranieri all’epoca attivi a Roma.
Bibliografia: Debenedetti 1997, pp. 212 n. 36. (AMD)
Pier Leone Ghezzi (Roma, 1674-1755)
Domenico Silvio Passionei, 1749 (*)
penna, mm 345x233; provenienza: acquisto Maria Luisa Muñoz, 1961
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1506
Iscrizione: “Il Sig.r Cardinale Dom.co Passionei che fugge per non incontrarsi con alcuni personaggi
che venivano al suo romitorio, 12 7bre 1749”
Il personaggio dei due ritratti, aulico e caricato, è Domenico Silvio Passionei (1682-1761), celebre
umanista e bibliofilo e grande appassionato di archeologia classica. La carriera ecclesiastica, che
culminò con la nomina cardinalizia nel 1738, lo portò a viaggiare in tutta Europa e soprattutto in
Francia e nei Paesi Bassi dove conobbe molte personalità, tra le quali Rousseau e Voltaire,
4
avvicinandosi alle idee gianseniste che lo posero in aperta polemica con l’intera gerarchia
ecclesiastica e, in particolare, con l’ordine dei Gesuiti. Nel 1704 fondò il “Circolo del Tamburo”,
associazione frequentata dai più importanti intellettuali romani che, a partire dal 1739,
cominciarono a riunirsi presso l’eremo di Camaldoli dove il Passionei aveva creato un suo rifugio,
da lui stesso definito “romitorio”, nel quale trasferì gran parte della sua ricchissima biblioteca e
delle sue collezioni sia di opere antiche che dei più importanti artisti contemporanei. Il luogo
divenne talmente noto che, oltre agli amici più stretti del cardinale, iniziarono ad arrivare
quotidianamente molti visitatori incuriositi che spesso lo costringevano a defilarsi. Ed è proprio
uno di questi momenti in cui Ghezzi, con ironia, lo ritrae di spalle mentre si alza la tonaca per
facilitare la repentina fuga.
L’artista dovette assistere più volte alla scena perché, legato da profonda amicizia al Passionei, era
spesso suo ospite a Camaldoli nel periodo estivo, durante il quale si divertì a ritrarre sia i numerosi
ospiti che tutta la servitù della villa. Del prelato, così come di molti altri personaggi, Ghezzi realizza
più di una caricatura tra le quali, nell’album di Fossombrone, se ne conserva una identica a questa
esposta in mostra.
Bibliografia: Settecento alla moda 1999, pp. 182-187 n. 63; Dorati da Empoli 2008 p. 279; Dania
2015, pp. 34-35. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Signora Petracchi, 1778 (*)
penna e acquerello, mm 275x195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-24
Iscrizione: “Questa è la Signora ... Petracchi. Segnata il di 3 Settembre 1778”.
Le sorelle Petracchi, Maria Teresa, Palmira e Rosalinda, erano conosciute in tutta Roma per la loro
bellezza e spregiudicatezza e poiché appartenevano a una delle famiglie più in vista dell’alta
borghesia potevano permettersi di ascoltare concerti, di assistere ai fuochi d’artificio dei Due
Macelli e di sfoggiare ricercate mises. Più volte immortalate da Vincenzo Monti, le tre donne
compaiono anche in un quadro-sonetto della “Galleria del marchese Zagnoni”, descrizione in
poesia di una serie di ritratti femminili, satira crudele delle signore più in vista della società
romana. Maria Teresa è qui raffigurata in due fogli: in uno, di profilo, in compagnia di monsignor
Giuseppe Andrea Albani, – chierico e uditore di camera sotto il pontificato di Pio VI e ordinato
cardinale, nel 1801, da Pio VII – nell’altro da sola, frontalmente, in modo che Barberi, assai attento
e incuriosito dalla moda dell’epoca, possa rendere con dovizia di particolari sia l’elaborata
acconciatura che l’elegante andrienne.
Giuseppe Barberi (Roma 1746-1809)
Pio VI Braschi, 1788 (*)
penna e acquerello, mm 275x195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 3267-44
Iscrizione: “Papa Pio VI Segnato il di 17 marzo 1788, che venne a vedere le cammere aggiustate
da me alla Canonica di Mons. Ridolfi, delle quali restò contento assai, e che ebbi il piacere di
parlarci per tre quarti di ora”.
In questo foglio Barberi realizza più un ritratto che non una caricatura di Pio VI (1717-1799),
raffigurandolo in abiti da visita. Sempre in ristrettezze economiche, che aumentano con
l’ampliamento familiare, Giuseppe accetta, tra il 1787 e il 1788, alcuni lavori in qualità di
decoratore e artigiano sia per la Cappella della Canonica di San Pietro che per l’appartamento
5
dell’abate Ridolfi, molto apprezzati dal papa il quale si reca a visionarli personalmente. Ancora una
volta l’artista ha occasione di incontrare il Santo Padre, sempre estremamente magnanimo con lui,
verso il quale nutre una vera e propria devozione, assolutamente in contrasto con la condotta che
assumerà un decennio più tardi, quando diventerà uno dei maggiori protagonisti delle
movimentate vicende romane di fine secolo che lo porteranno ad aderire incondizionatamente
alle posizioni giacobine, grazie alle quali riuscirà finalmente ad ottenere una serie di agevolazioni
professionali che gli permetteranno di pagare gran parte di quei debiti che da sempre lo assillano.
Bibliografia: Debenedetti 1997, p. 210 n. 31; D’Amelio 2010, pp. 94-96. (AMD)
Carlo Marchionni (Roma, 1702-1786)
Fabio Rosa (*)
matita nera e acquerello grigio, mm 274 x 202; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1929
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1508-41
Iscrizione: “Il Sig.r Fabbio Rosa uomo molto di garbo, e Galantuomo, era un può chiassone, era
amico di tutta la Nobiltà di Roma fu capo computista della Communità, fu poi Computista di
Palazzo. Dilettavasi della caccia, e andava sempre con il sig.r Placido Costanzi bravissimo Pittore,
aveva fatta una raccolta bellissima di Quadri, Questa interamente la lasciò all’Accademia di S.
Luca, ove presentemente esistono. Ho creduto bene rappresentarlo, con Cioccolatta suo servo, e
cacciatore quando si riposavano per fare colazione, come soleva fare, essendomi ritrovato al
rifresco.”
Questo disegno caricaturale raffigura Fabio Rosa, un personaggio molto popolare nella Roma di
metà Settecento, che deve la sua fama al fatto che alla sua morte lasciò la sua quadreria in eredità
all’Accademia di San Luca, dove si trova tutt’ora, come riporta la scritta del Marchionni che si
conferma fonte attendibile. Figlio del pittore genovese Francesco Rosa trasferitosi a Roma, Fabio
nacque qui nel 1681 e vi morì nel 1753; fu sacerdote e fece studi giuridico-amministrativi,
arrivando a ricoprire l’ambita carica di computista dei Sacri Palazzi Apostolici, conferitagli da
Benedetto XIV nel 1741. La sua grande passione però, ereditata forse dal padre pittore, anch’egli
collezionista e mercante, era raccogliere dipinti, forse spinto dall’ambizione di adeguarsi al
modello patrizio del collezionista di quadri, proprio alle classi socialmente più alte, nelle quali forse
ambiva di essere inserito.
Prima di morire, nel maggio 1752, Rosa lasciò i suoi 183 quadri più belli della sua raccolta
all’Accademia di San Luca, andando ad arricchire in modo consistente i fondi accademici dei secoli
XVII e XVIII: il lascito fu accettato dopo la sua morte ne maggio 1753, grazie all’intervento dei
pittori Agostino Masucci e Placido Costanzi, suoi amici. Marchionni infatti riporta che Rosa era
amico di Costanzi, il quale non solo redasse insieme a Masucci l’inventario dei dipinti da lui
posseduti, ma ritoccò ed integrò alcuni quadri della raccolta. A detta di Coen, fu probabilmente il
pittore Costanzi, in quanto Principe dell’Accademia di San Luca in quegli anni, a consigliare il Rosa
a lasciare la sua collezione a quell’istituzione, scegliendo i 183 quadri più significativi per
l’Accademia, lasciando agli eredi i dipinti meno interessanti, destinati alla vendita (Coen 2012, p.
13). La collezione di quadri lasciata da Fabio Rosa era di prim’ordine, anche se mancavano opere
del Cinquecento, soprattutto per il nucleo seicentesco e per quello di artisti del suo tempo, con i
quali aveva rapporti stretti, opere che costituiscono ancor oggi gli esempi più significativi della
pittura romana del Settecento nell’Accademia di San Luca: si tratta di bozzetti per quadri
importanti di Francesco Trevisani, Giuseppe Passeri, Benedetto Luti, Placido Costanzi, Giuseppe
Chiari e Giovanni Paolo Panini, il ritratto di Benedetto XIV di Agostino Masucci, ed un nucleo del
paesaggista Jan Frans van Bloemen.
Marchionni doveva conoscere bene Fabio Rosa, anzi forse ne era addirittura amico, se gli dedica
ben due caricature (Prosperi Valenti Rodinò 2015, Tav. II.9, MR 1508/41, e Tav. II.10, MR 1509/74),
6
evidenziando in entrambe la sua passione per la caccia: qui è raffigurato sotto un albero seduto
riposarsi dalle fatiche della caccia, con il fucile appoggiato alla spalla, il fedele servo “Cioccolatta”
ed i cani accovacciati ai suoi piedi, mentre sta attingendo ad un “rifresco” di ottima qualità, a detta
del Marchionni che dichiara di averlo gustato. La lunga scritta del nostro artista è preziosa, perché
documenta aspetti altrimenti irrecuperabili del personaggio, come la sua passione per la caccia,
l’amicizia con il Costanzi, ed il carattere esuberante e chiassoso: infatti dice che era “uomo molto
di garbo, e Galantuomo” oltre che “chiassone… amico di tutta la Nobiltà di Roma”, secondo una
caratteristica diffusa nel patriziato romano, che ritroviamo nel Marchese del Grillo, noto
personaggio storico ricco di comicità, magistralmente interpretato al cinema da Alberto Sordi.
Bibliografia: Pietrangeli 1969, p. 322, ill.; Coen 2012, pp. 5-6, fig. 1; Prosperi Valenti Rodinò 2015,
pp. 187-190, Tav. II.9. (SPVR)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Charles Lestache, 1793
penna e acquerello, mm 275x195; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3267-58
Iscrizione: “Questo è l'Avv. Lestagie figlio del fu Lestagie scultore autore delli due pupazzi che sono
sù la facciata di S. Luiggi di Francesi il figlio il suo merito e quello di essere omo avaro di poca fede
basta che faccia il suo interresse non rispetta dovere amicizia raggion dovuta niente e tanto havido
che farrebbe anche il bisavolo, Segato che ero arrabbiato per li miei affari il di 16 ottobre 1793”
Charles Lestache (?-1811), figlio dello scultore Pierre – che Barberi ricorda nell’annotazione come
l’autore delle statue sulla facciata della chiesa di San Luigi dei Francesi – è particolarmente odiato
dall’architetto poiché, con i suoi imbrogli, non gli ha permesso di completare il catafalco di Luigi
XVI al quale aveva lavorato intensamente tra l’estate e l’autunno del 1793, quando ancora godeva
della protezione del cardinal de Bernis, che lo introdusse presso Pio VI. Barberi definisce Lestache
non solo un uomo di poca fede che non rispetta come si deve l’amicizia, ma anche talmente avido
che farebbe il “buscarolo”, cioè colui che rimedia i soldi.
Bibliografia: Debenedetti 1997, pp. 212-213 n. 37. (AMD)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Vito Maria Giovinazzi, 1787
penna e acquerello, mm 274x197; provenienza: dono Anna Laetitia Pecci Blunt, 1971
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 3366-1
Iscrizione: “Questo è l'Abate Giovanazzo ex giesuita gran letterato in specie nel antiquaria.
Segnato quando urlava contro il deposito di Canova in gran asemblea di principi addi 17 aprile
1787”
Tra gli ecclesiastici, una delle figure di maggior rilievo è quella del gesuita Vito Maria Giovinazzi
(1727-1805) il quale, in qualità di letterato e studioso di filologia classica, venne chiamato dal
principe Altieri per dirigere la sua biblioteca e, nello stesso tempo, collaborò con Barberi nella
definizione del progetto di decorazione del palazzo al Gesù. Schivo e introverso, il religioso viene
raffigurato in un atteggiamento inconsueto e cioè in atto di urlare “in gran asemblea di principi
addi 17 aprile 1787”, probabilmente nella chiesa dei Ss. Apostoli dove, qualche giorno prima, era
stato inaugurato il monumento canoviano a Clemente XIV, forse il reale destinatario delle ire di
Giovinazzi poiché artefice, nel 1773, dello scioglimento dell’ordine cui appartiene.
Bibliografia: Debenedetti 1997, pp. 205-206 n. 17; D’Amelio 2016, in corso di stampa. (AMD)
7
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Gobbo suonatore, 1795 (*)
penna e acquerello, mm 270x194; Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 16651
Iscrizione: “Gobbo che cantava per Roma io lo trovai che voleva cantare avanti al Teatro di
Tordinona, mentre mi facevo la bibita doppo rifabricato di novo, contai bene di portarlo n teatro, e
lo feci cantare sul palco scenico, e colà sentii da esso teatro era armonico, come appunto mi pareva
tale, onde questo Gobbo a cantato il primo al novo Tordinona ed era contentissimo che quasi se
non li avessi dato niente sarebbe restato contento ma lì apoco permesso fattone Seg. Forse il di 18
luglio 1795”
Unico foglio sciolto tra le caricature barberiane appartenenti alle collezioni del Museo di Roma,
tutte rilegate in volume, questo potrebbe appartenere a un’altra serie (vista la presenza, in alto,
del numero 37), sconosciuta, oppure semplicemente omesso dagli album che riuniscono
personaggi appartenenti al popolo minuto. Il Gobbo suonatore di violino, dalla grande testa
coperta da un cappello piumato, viene trovato da Barberi, come lui stesso ci dice in glossa, a
cantare davanti all’appena restaurato teatro di Tordinona e convinto ad entrare per esibirsi sul
palcoscenico, affinché riesca a testarne l’acustica. Barberi è molto interessato a questo mondo –
cui dedica altre caricature nominando nelle relative iscrizioni i nomi di attori, cantanti e ballerini
che vi lavorano abitualmente – poiché spesso chiamato dai teatri cittadini più noti, quali il
Capranica o il Pallacorda, in veste di redattore di perizie per la loro agibilità, nelle quali segnala gli
interventi da effettuare periodicamente e soprattutto in prossimità del periodico inizio degli
spettacoli.
Bibliografia: Debenedetti 1997, p. 183. (AMD)
Benigne Gagneraux (Dijon, 1756-Firenze, 1795)
Il nano Baiocco, 1786 (*)
acquaforte, mm 440x295; provenienza: dono Amici dei Musei di Roma, 1963
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 14737
Iscrizioni: “BAIOCCO”; “Roma 1788”; “Gagneraux inc.”
L’artista ritrae in questa incisione il nano Francesco Ravai o Ravaglia (1723-1793), mendicante
“dalla testa antica e dalla sguardo terribile di Giove corrucciato”, accanto a una grande sedia che
ne accentua la piccola statura. Il soprannome Baiocco potrebbe derivare dall’omonima monetina,
centesima parte dello scudo romano, che reclamava a gran voce per le strade cittadine e
soprattutto nella zona di piazza di Spagna o all’entrata del Caffè Greco, dove posava per gli assidui
frequentatori, oppure è possibile che egli stesso si assegnò il nomignolo rifacendosi alla nota
maschera della Commedia dell’Arte “Bacocco o Baiocco”, creata dal toscano Antonio Salvi (16641724) e interpretata da Antonio Ristorini. Ravai sposò una donna di statura normale, ebbe un
figlio, cui riservò un sontuoso battesimo (vedi l’iscrizione in calce al disegno di Marchionni) e ai
suoi funerali partecipò una gran folla. Il ritratto di Gagneraux compare anche sul frontespizio della
famosa Lettera di Bajocco al ch. sig. abate C. F. giurisconsulto o sia Memoria per servire alla storia
litteraria di questo nuovo scrittore di Antiquaria e Belle Arti, Cosmopoli, Roma 1786, libello
pubblicato anonimo da Onofrio Boni quale conclusione della violenta controversia – iniziata con la
pubblicazione, da parte dell’abate, del terzo tomo della Storia delle arti del disegno del
Winckelmann – ormai ridotta sul piano dell'insulto personale.
Di lui si conservano numerosi ritratti – che lo raffigurano con il consueto aspetto dimesso:
pantaloni e camicia larghissimi, cappellaccio calcato sulla fronte, scalzo e poggiato all’immancabile
bastone – tra i quali ricordiamo quelli realizzati da Carlo Marchionni, Philip Wickstead, David Allan,
8
che nel suo disegno lo definisce “Il povero Baiocco, mendicante romano”, Ann Forbes, Franciszek
Smuglewicz, nonché Fragonard, Jens Juel, Jacques Sablet. Quello di Ravai è un caso piuttosto
anomalo per il Settecento, di un mendicante rappresentato non più come un ‘tipo’ ma come una
persona reale, in linea con le esigenze di quegli artisti alla ricerca di modelli fuori dall’ordinario per
i propri studi realistici.
Bibliografia: Bénigne Gagneraux 1983, p. 103; Hufschmidt, Jannattoni 1990, pp. 232-233.
Carlo Marchionni (Roma, 1702-1786)
Il nano Baiocco, 1750-70 (*)
matita nera, acquerello bruno e grigio, mm 260 x 191; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1929
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1508-30
Iscrizione: “Baiocco, e tale, e quale si vede prese moglie le fece un figlio, e con quattro carrozze lo
portò al Fonte, e lui andiede ad assistere alla Funzione, e tenne allegra la Città nel vederlo in
carrozza con tutta serietà, e siccome stava sempre domandando l'elemo’ina fino a forestieri a
spesa di questi Sig(no)ri si diede il trattamento delle suddette quattro carrozze”
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Federico Brogi con, in braccio, Scipione Barberi, 1777 (*)
penna e acquerello, mm 199x274; provenienza: acquisto Alessandro Morandotti, 1951
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 3266-3
Iscrizione: “Brogi che tiene in braccio Scipione in età di mesi due e giorni 17, nato il 18 maggio a
ore 11 di domenica pentecoste, Segnato il 14 agosto 1777 Corente anno a ore 5 ½ prima di andare
a cena”
Il personaggio raffigurato in questo disegno è Federico Brogi, famoso venditore e rammendatore
di calzette, assai noto a Roma sia per il suo mestiere che per l’aspetto deforme in quanto nano,
leggermente gobbo e macrocefalo. Dei tre disegni che Barberi gli dedica questo è, senza dubbio, il
più affettuoso poiché ritratto in veste di amico di famiglia e senza la sua inseparabile parruccaccia
mentre, con un’espressione tenera e felice, tiene sulle gambe Scipione abbracciandolo con le
grandi mani. L’autore, come al solito, ci fornisce una serie di notizie dettagliatissime segnalandoci
non solo il giorno e l’anno, ma anche l’ora di esecuzione di questa caricatura dedicata sia a Brogi
che all’amato Scipione, quartogenito dei suoi nove figli, del quale conosciamo la futura carriera
grazie alle notizie riportate da Vincenzo Pacetti nel suo Giornale, in data settembre 1794: “La
moglie del Signor Barberi e stata à raccomandare il figlio per la cappellania” e, ancora, nell’ottobre
dello stesso anno: “Abbiamo fatto il nuovo cappellano della cappellania Belletti nella persona di
Scipione Barberi, figlio del Signor Giuseppe Barberi […]”.
Bibliografia: D’Amelio 2010, p. 82; Prosperi Valenti Rodinò 2015, pp. 344-347. (AMD)
Carlo Marchionni (Roma, 1702-1786)
Peppe il brutto (*)
matita nera, acquerello grigio, mm 274 x 199; provenienza: acquisto Giulio Landini, 1929
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 1508-100
Iscrizione: “Questo è il ritratto di quel tanto rinomato Peppe il Brutto spadaro, e Maestro di Spada,
il quale tiene la sua / Bottega al Corso sopra la Chiavica in faccia a Fiano, da me rappresentato
collo sciaman o con tutte le sue / caricature, le quali non poteva sentire, ò fingeva, per le quali cose
fa quegl’atti impropri colle mani a qualunque / gran Personaggio, bastando solo che si fossero
toccati il viso, volendo significare, ò bello, o Brutto, è per altro / bravissimo nella sua Professione,
9
ma peraltro perde del gran tempo per fare il magella per i Caffe, e non stà in Bottega, / e
quantunque servisse il Papa, è morto Poveruomo”.
Una vittima dei più feroci strali satirici del Marchionni fu questo Peppe il Brutto spadaro, cui
dedicò varie scenette (Prosperi Valenti Rodinò 2015, Tav. IV.24,25), che aveva la sua Bottega al
Corso sopra la Chiavica in faccia a Fiano, cioè presso una delle chiaviche, o canali di scolo per le
acque, che si trovava presso palazzo Fiano Almagià nel quartiere Campomarzio. Si trattava di un
individuo laido e volgare, come si intuisce dall’abbigliamento logoro e trasandato, bravo nella sua
professione di fabbricante di spade, ma perdeva il tempo nei caffè, dilapidando così i soldi
guadagnati, tanto da ritrovarsi alla fine dei suoi giorni povero in canna. Peppe non amava essere
preso in giro dal Marchionni, per cui reagiva con gesti scurrili facendo “quegl’atti impropri colle
mani a qualunque gran Personaggio”. La sua bruttezza emerge chiaramente dai tratti del volto,
quasi animalesco tanto da essere paragonato ad un lupo mannaro per il volto appuntito, la bocca
larga e l’assenza del mento – il suo soprannome infatti era “il Brutto” – mentre la sua volgarità è
suggerita dal gesto scurrile della mano con cui Marchionni lo stigmatizza più di una volta. L’artista,
che evidenzia la sporcizia dell’individuo, paragonato ad un maiale ai suoi piedi, ricrea per contrasto
un interno con velleità nobiliare nell’insegna appesa in alto, una sorta di emblema con una testa di
negro – allusivo al suo volto scuro - e due spade incrociate, legata ad un nastro e
scenograficamente inquadrata da un drappo.
Bibliografia: Prosperi Valenti Rodinò 2015, Tav. IV.23.
Pier Leone Ghezzi (Roma, 1674-1755)
FilippoVasconi (Roma, 1687 circa-1730)
Pulcinella insegna ai figli, 1719 (*)
acquaforte, mm 277x355
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. MR 40865
Iscrizione: “Il platon de polcinelli fra i suoi portici, e…a sui figli fa il maestro ma il suo Grillo, ché più
destro e più saggio è del padrone con un raglio i fa la correzione”; “Eques Petrus Leo Ghezzius inv.
Et del.”; “Philippus Vasconus sculp. 1719”
Pulcinella è stata a ragione considerata sempre la maschera più popolare d’Italia, tanto da aver
goduto anche di una certa fortuna letteraria grazie alle sue connessioni con il teatro. Sul versante
artistico, non solo Pier Leone Ghezzi e Carlo Marchionni a Roma gli hanno dedicato molte delle
loro invenzioni, ma sono celebri le interpretazioni su di lui fatte a Venezia da Giovan Battista
Tiepolo e da suo figlio Giovan Domenico. Protagonista indiscusso della Commedia dell’arte e poi
del Carnevale romano, egli è sempre raffigurato vestito con una casacca bianca, largamente
rimboccata in vita, con la maschera nera e un gran naso a becco ricurvo, mentre tiene in mano
oggetti allusivi alla sua fame perenne. Nell’immaginario collettivo popolare infatti Pulcinella
rappresentava il contadino sciocco e burlato, sempre morto di fame, costantemente alla ricerca di
qualcosa da mangiare per sé e per la sua famiglia, ma anche astuto, profittatore, sboccato e
sensuale.
Nel Settecento fu Pier Leone Ghezzi a dare una nuova interpretazione della maschera napoletana
attraverso i suoi disegni raffiguranti La famiglia di Pulcinella, che conobbero una grande diffusione
grazie alla traduzione incisoria di Vasconi e Bombelli: qui Ghezzi infatti ambientò la maschera nella
realtà della vita quotidiana, dove egli, pur sempre ossessionato dal cibo e dal sesso, in perenne
contrasto con la moglie, appare in una dimensione più umana, mentre si affanna a sfamare i figli, a
insegnare loro a leggere ed a rassegnarsi alla fatalità dell’esistenza. L’artista quindi ha avuto il
merito di non limitare Pulcinella solo a maschera da palcoscenico, ma di innalzarla a figura morale,
in quanto lo raffigura vinto dalle difficoltà della vita, come si nota in quest’incisione, mentre si
10
adatta alla dura realtà quotidiana, accogliendo su di sé il peso della sussistenza della sua numerosa
famiglia (cfr. Cialoni, pp. 256-263).
Bibliografia: Capobianco in Pulcinella, maschera del mondo 1990, pp. 232-263, cat. 5.0-5. 13;
Cialoni 1990, pp. 256-263; Prosperi Valenti Rodinò 2015, pp. 293-295. (SPVR)
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Venditore di dolciumi per la festa della Befana, 1790-96 (*)
penna e acquerello, mm 274x200; provenienza: acquisto Claudio Argentieri, 1955
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2895-10
Iscrizione: “Venditore di befana”
Giuseppe Barberi (Roma, 1746-1809)
Il teatrino dei burattini, 1790-96 (*)
penna e acquerello, mm 275x197; acquisto Claudio Argentieri, 1955
Roma, Museo di Roma, Gabinetto delle Stampe, inv. GS 2895-67
11