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Quale domani per quest’Europa?
Riflettere sul futuro dell’Europa unita, per uno storico, non può
che essere riandare alle sue origini e ricordare i principi e le aspirazioni che hanno guidato il cammino già fatto. Ma questo approccio ha
una portata generale e si presta bene ad essere seguito anche dai decisori, perché se è vero che la politica deve muoversi nel senso dell’avvenire, solo se si è nutrita del passato può essere in grado di perseguire il più grande progresso possibile senza contraccolpi. Poi viene
lo sforzo, difficile, di comprendere i grovigli del presente e da ultimo
l’audacia di avere una visione del futuro.
1. - Obiettivi e principi ispiratori dell’integrazione europea. L’UE
è un’istituzione politica post-moderna, che cambia continuamente per
adattarsi ad un mondo in rapida e imprevedibile trasformazione. «Questa camaleontica abilità nel reinventarsi – ha scritto recentemente Jeremy Rifkin.(1) – è la sua carta vincente». Essa si costruisce – aveva
spiegato Jean Monnet.(2) – attraverso il cambiamento, le cui condizioni
maturano nelle situazioni di crisi, ed il suo farsi è opera di lungo respiro, della quale non è possibile prevedere la forma finale, perché non si
può sapere quale cambiamento nascerà dal cambiamento.
In questi anni di profonda trasformazione economica e geopolitica è in corso un grande dibattito sul futuro dell’integrazione europea
e, fra le altre cose, ci si domanda se i principi sui quali essa è stata
fondata e si è retta per mezzo secolo siano ancora in grado di ispirarne gli sviluppi o stiano cedendo il compito a forze di altra natura.
L’unione dell’Europa prese vita nel contesto della guerra fredda,
grazie alla divisione della Germania e protetta dall’egemonia benevola
degli Stati Uniti. Per tutta la sua durata la guerra fredda ebbe effetti
importanti sul processo d’integrazione europeo: gli scopi politici dell’integrazione e il peso della Germania divisa non furono problemi urgenti ma di lungo periodo, e anche gli obiettivi militari dell’integrazione non furono di attualità. Tuttavia l’unione dell’Europa non fu
(1)kJEREMY RIFKIN, Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano, Milano, Mondadori, 2004, p. 229.
(2)kJEAN MONNET, Mémoires, Paris, Fayard, 1976, pp. 129, 616-617.
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un epifenomeno della guerra fredda. Essa ha radici ben più profonde
e anche più antiche delle esperienze autodistruttrici delle due guerre
mondiali, radici di carattere identitario in senso storico e culturale.
Un’altra interpretazione diffusa è quella che tende ad identificare l’UE con il mercato ed a considerare che essa esiste per creare il
profitto. Invece il mercato comune è stato creato perché il risollevamento dell’economia era una necessità prioritaria ai fini del mantenimento dell’indipendenza degli Stati occidentali e della democrazia, oltre che per rispondere alle esigenze di maggiore benessere delle società di massa.(3), ed era preordinato a scopi politici più ampi ancora,
in relazione ai quali ha svolto funzioni strumentali, come educare al
senso dell’interesse comune, abituare i popoli a vivere insieme.
L’UE è stata fondata principalmente per servire la pace, sulla base di principi che sono di natura etica.
I principi d’azione comunitari sono, infatti:
• la riconciliazione e il perdono, impliciti nella messa in comune
di quelle che erano all’epoca le risorse di base per lo sviluppo e la
guerra. Il perdono tra la Francia e la Germania – si può dire parafrasando Daniel Cohn-Bendit.(4) – si è posto come paradigma del perdono europeo: rimane esemplare per l’Irlanda del Nord, il Paese Basco e la Bosnia. Su questi temi della riconciliazione e del perdono la
generazione dei costruttori dell’Europa.(5) è stata in grande sintonia
etica con Hannah Arendt, l’ebrea tedesca segnata dalla Shoah, figura
di prua del pensiero occidentale, che al paradigma del perdono e della promessa ha dedicato, nel 1961, Conditions de l’homme moderne.(6). Come non pensare anche al titolo del libro di Desmond Tutu,
l’arcivescovo sudafricano che fiancheggiò Nelson Mandela nella lotta
contro l’apartheid e presiedette poi la Commissione per la verità e la
riconciliazione, premio Nobel per la pace nel 1984: No future without
forgiveness.(7);
• il riconoscimento dell’altro, che implica l’accettazione delle diversità, lo spirito di tolleranza reciproca. Esso ha reso possibili gli allargamenti successivi e un’omologazione progressiva degli stili di vita;
• l’uguaglianza nelle istituzioni, fra Francia e Germania anzitutto ma anche alla base della presidenza di turno del Consiglio, questa
(3)kIdem, p. 320.
(4)kCATHERINE GUISAN, Un sens à l’Europe. Gagner la paix (1950-2003), Paris,
Odile Jacob, 2003, p. 74.
(5)kQuesta espresssione mi sembra più pertinente di “i padri fondatori”, perché il progetto europeo è stato portato avanti dalla complicità di tanti ed era iscritto nello spirito del tempo, che è lo spitiro di quei certi signori (politici, diplomatici, ma anche artisti, letterati, filosofi) in cui si riflette la temperie di un’epoca.
(6)kGUISAN, Op. cit., p. 77.
(7)kLondon, Rider, 1999.
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rotazione delle responsabilità fra Paesi di taglia diversa su una base
egualitaria. Bando, quindi, alle questioni di prestigio e che nessuno si
segga a un tavolo con la pretesa di riportare un vantaggio sull’altro,
ma tutti si impegnino a perseguire in primo luogo l’interesse che è loro comune. Monnet riconosceva che questo approccio etico non era
naturale agli uomini, che si incontravano per trattare problemi nati
da contrasti d’interesse fra i loro Stati nazionali; ma bisognava indurli a comprenderne i vantaggi ed a seguirlo.(8). L’introduzione, nel
1950, di questo principio rappresentò una novità. 400 anni a. Ch. Tucidide, per definire il meccanismo della tragedia che costituivano le
guerre del Peloponneso, aveva scritto: «Nelle relazioni fra Stati, la
giustizia dipende dalla capacità di costrizione: i forti fanno ciò che
hanno la potenza di fare ed i deboli accettano ciò che devono accettare». Il 23 maggio 1950, quando si recò a Bonn per presentare la proposta francese di costituire una comunità carbo-siderurgica al cancelliere Adenauer, la cui azione in campo internazionale era ancora sottoposta a restrizioni, Monnet tenne ad evidenziare che la proposta
contemplava l’uguaglianza tra i vinti e i vincitori fin dall’inizio;
• un nuovo concetto di potenza, che nasce dalla condivisione
della sovranità ma anche dalla solidarietà, e che non è legato all’azione unilaterale ma all’azione concertata. La potenza attraverso la comunità, la potenza come affermazione di una volontà comune. La potenza è stata reinventata: non si confonde più con lo spirito di dominazione, anzi vi si oppone. Essa è una solidarietà organizzata, che
presuppone dei rapporti di uguaglianza e di reciprocità negoziati dalla parola. Monnet diceva che nelle relazioni internazionali sono soprattutto da evitare la vittoria e la dominazione.(9). Anche in questo
c’è grande sintonia etica da parte della Arendt, per la quale la potenza non nasce dall’accumulazione della ricchezza o da quella dei mezzi
di distruzione, ma dall’accordo tra gli uomini, per cui essa «decade,
non appena questi si disperdono».(10);
• il senso del compromesso, poiché nelle decisioni collegiali bisogna mirare al consenso e soprattutto evitare che ci siano dei perdenti.
Michel Rocard, MPE, lo definisce come la ricerca di un equilibrio che
corrisponde a un rapporto di forze temperato dall’etica e dal diritto;
• la protezione dei diritti umani fondamentali, tanto barbaramente violati in passato, alla quale ispirare un nuovo stile di convivenza europeo.
(8)kMONNET, Op. cit., pp. 379, 384, 558.
(9)kMARIA GRAZIA MELCHIONNI, Quale domani per questa Europa?, Roma, Edizioni Studium, 2004, pp. 103-104.
(10)kARENDT, Op. cit., p. 260.
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2. - Principi attivi nella prosecuzione del processo d’integrazione
oggi. Il mondo di oggi, in cui le conoscenze tecniche e le capacità per
produrre le armi di distruzione di massa sono ampiamente diffuse non
solo fra Stati ma anche potenzialmente fra gruppi politici motivati a
ricorrere al terrorismo.(11), che è attraversato da linee di faglia etniche e religiose, in cui esiste una propensione all’intervento internazionale, è un mondo in cui la pace è in pericolo.
L’Europa è sempre stata il punto critico delle vicende del mondo,
ma l’UE è riuscita a farne – per usare un’espressione di Aldo Moro –
«un Continente di pace».(12).
La pace e la speranza di un mondo migliore sono stati nel dna
dell’Unione Europea: quando si scelse l’inno europeo si guardò a
Beethoven piuttosto che a Wagner, si scelse l’Inno alla Gioia e non la
Cavalcata delle Walkirie. A questa acquisizione formidabile non si
può rinunciare, essa non può non essere un criterio per l’azione futura. Questa tesi è confortata – se ce ne fosse bisogno – da un’inchiesta
condotta da Times nel 2004 sulla iGeneration, che ha mostrato come
la vasta maggioranza dei giovani fra i 18 ed i 30 anni non accetterebbe di combattere in nessuna circostanza o sarebbe disposta a farlo solo per una causa sulla quale fosse d’accordo.(13).
Le civiltà periscono, se non si sviluppano al ritmo del mondo che
progredisce. La rivoluzione delle alte tecnologie ha aumentato il potere dell’uomo sullo spazio e sul tempo, ampliando il suo raggio d’azione e accelerando la velocità della sua azione.
Ciò significa che l’interdipendenza si è enormemente accresciuta
nel mondo globalizzato. Secondo i matematici, il battito d’ali di una
farfalla in Asia può essere all’origine di una tempesta nel mare d’Irlanda.(14). Ha scritto Rifkin.(15): «...in un’era in cui lo spazio e il
tempo si stanno rapidamente annullando e le identità diventano sempre più stratificate e globali, nessuna nazione, entro 25 anni, sarà in
grado di fare da sola: gli Stati europei sono stati i primi a capirlo e ad
agire di conseguenza, confrontandosi con la realtà di un mondo interdipendente in via di globalizzazione». Il concetto dell’interdipendenza
che lega tutti i Paesi e tutti gli uomini è stato alla base della riflessione monnettiana, tanto che François Duchêne che fu per tanti anni suo
(11)kZBIGNIEW BRZEZINSKI, The Choice: Global Domination or Global Leadership, New York, Basic Books, 2004, p. IX.
(12)kALDO MORO, Scritti e discorsi, vol. 6, 1974-1978, Roma, Edizioni Cinque
Lune, 1990, p. 3142.
(13)kThe Times, 13 September 2004.
(14)kDOMINIQUE DE VILLEPIN, Un autre monde, Paris, L’Herne, 2003, p. 450.
(15)kRIFKIN, Op. cit., p. 365.
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stretto collaboratore ne ha intitolato la biografia Jean Monnet.The
First Statesman of Interdependence.(16).
Non solo, ma in relazione alla nuova realtà tecnologica, che ha
portato sulla scena pubblica nuovi attori (città, regioni, gruppi, movimenti) in cerca di potere e di riconoscimento, l’UE ha sviluppato un
modo policentrico di governance, «caratterizzato dalla continuità del
dialogo e della negoziazione fra tutti gli attori, nei molti network che
compongono il suo mutevole campo d’influenza economico, sociale e
politico[...]».(17), un nuovo schema politico in cui il coordinamento
sostituisce il comando. Quindi anche sotto il profilo della modernità
delle sue istituzioni e della loro capacità di adattarsi nel funzionamento al mutare delle circostanze, l’UE appare adeguata al momento
storico quant’altri mai.
Sempre più il mondo guarda con interesse al modello europeo e
in varie regioni sono sorte organizzazioni che si ispirano ad esso.
Quella che ha le migliori possibilità di riuscire a realizzare una sua
versione dell’UE è l’Asia orientale, che da più di 35 anni persegue l’obiettivo e nel 2003, in uno stadio già avanzato della creazione dell’EAFTA (East Asia Free Trade Area), ha fissato la meta di una comunità economica ASEAN entro il 2020, aperta alla possibilità di una
partnership politica più integrata.
L’UE è vista spesso come un faro di speranza, come il laboratorio
in cui si prepara un futuro nuovo, animato dall’idealismo e non dal
materialismo, fatto di diritti umani universali e di diritti intrinseci
della natura, ovvero di “consapevolezza globale”.
La globalizzazione è l’ultimo effetto dell’impulso irresistibile dell’uomo a varcare tutte le frontiere ed a slargare le porte del possibile.
Come tutti i grandi momenti della storia, essa porta con sé dei pericoli, ma anche delle occasioni eccezionali, ad esempio per progredire
sulla strada dell’unità del genere umano.(18).
Nell’esperimento di governo transnazionale che l’UE ha posto in
essere si cercano lumi sulla direzione che l’umanità globalizzata, ansiosa di essere connessa globalmente ma radicata localmente, deve
prendere. È sorto, secondo Rifkin.(19), un nuovo mito: il Sogno europeo, paragonabile a quello che fu in passato l’American Dream.
Non tutti, naturalmente, sono d’accordo, e fra i censori dell’UE
è sempre in prima linea Margaret Thatcher, che tanto per cominciare
difende la concezione del potere tradizionale: «[...] in the age of de-
(16)kNew York, Norton, 1994.
(17)kRIFKIN, Op. cit., p. 229.
(18)kDE VILLEPIN, Op. cit., p. 423.
(19)kRIFKIN, Op. cit., passim.
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mocracy the pursuit of statecraft without regard for moral principles
is all but impossible», e dice che bisogna guardarsi da «this mixture of
naïve idealism with a distaste for power».(20).
3. - Problemi e ambizioni dell’UE. Nel 2004 l’Europa intera è diventata il cantiere sperimentale in cui si rimodellano le relazioni fra
gruppi sociali diversi, che la storia aveva diviso e spesso contrapposto.
25 Stati (6 grandi e 19 medi o piccoli, 11 dei quali hanno meno di
6.000.000 di abitanti), che insieme hanno una popolazione di
450.000.000 di persone, sono uniti in una comunità di destino: hanno
in comune un ordinamento giuridico, che recentemente si è arricchito
di un trattato costituzionale; un Parlamento, al quale hanno delegato
un certo numero di poteri; una Corte di Giustizia, che assicura il rispetto del diritto comunitario; una Commissione, che è l’iniziatrice di
tutte le politiche comuni in cui si sostanzia l’azione dell’UE. L’UE ha
anche una moneta unica ed un suo braccio militare di intervento rapido e, con l’entrata in vigore della nuova costituzione, avrà un vero
e proprio ministro degli Esteri.
L’UE è il più grande mercato unico del mondo e il maggiore venditore di beni e servizi. Il suo PIL è superiore di 100 miliardi di dollari a quello degli Stati Uniti, è 6,5 volte quello della Cina e rappresenta il 30% del PIL mondiale. Bisogna dire, però, che l’Unione a 25
è molto eterogenea dal punto di vista economico e che, con l’ingresso
dei nuovi membri, lo scarto fra regioni ricche e regioni povere è nettamente maggiore di prima. Occorreranno molto tempo e molti sacrifici per colmare queste differenze.
Il cantiere, inoltre, non è chiuso: altri 4 o 5 Paesi potrebbero venire ad aggiungersi nei prossimi anni.
Le due più grosse operazioni in atto per far dialogare sempre più
efficacemente le diverse componenti di questa realtà complessa che è
l’UE sono:
• i cosiddetti Trans-European-Networks (TENS), che comprendono i settori dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni, con
l’obiettivo di connettere tutto il continente in un’unica rete tecnologica avanzata;
• la mobilità dei giovani e degli insegnanti e la progressiva integrazione dei programmi educativi.
L’UE è attualmente alle prese con una serie di operazioni impegnative, che sarebbe improprio considerare ambizioni perché sono necessità imprescindibili in relazione ai rischi di nuove instabilità che
l’accelerazione della globalizzazione porta con sé.
(20)kMARGARET THATCHER, Statecraft. Srategies for a Changing World, London, HarperCollins Publishers, 2002, pp. XXI, XX.
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Oggi la volontà politica non basta per padroneggiare il destino economico di una società: quando il giro d’affari di una multinazionale supera il PIL di un piccolo Stato, la decisione di ristrutturare una fabbrica può avere ripercussioni imprevedibili di carattere politico e sociale, capaci anche di far vacillare l’autorità stessa di quello Stato.(21). In
campo culturale l’omologazione delle culture e dei comportamenti provoca l’esaltazione dei particolarismi, che possono entrare in contrasto
gli uni con gli altri. I parametri culturali e religiosi si affiancano così ai
fattori tradizionali della potenza – demografico, militare, economico e
tecnologico – nel condizionare i rapporti internazionali.(22).
In particolare l’UE deve riuscire a:
• padroneggiare l’economia, perché le crisi compromettono la
stabilità delle istituzioni democratiche, salvaguardando la sicurezza
sociale, e garantire ed estendere l’Unione Economica e Monetaria
(UEM) con l’obiettivo, fissato dal Consiglio europeo di Lisbona nel
2000, di diventare nel 2010 la più competitiva e dinamica economia
basata sulla conoscenza;
• mandare a buon fine la costituzionalizzazione, che ha valore
simbolico e portata identitaria, ma comporta anche competenze e politiche particolari che permetteranno di correggere l’emiplegia esterna
dell’Unione;
• fare dell’allargamento a 25 perseguito dalla fine della guerra
fredda un vero successo politico e geopolitico, riuscendo ad amalgamare i nuovi membri in modo compiuto sotto il profilo dell’integrazione e soddisfacente sotto quello identitario ed a definire la prospettiva delle sue relazioni con il Near Abroad (a Est e a Sud);
• mantenere la pace ai suoi confini – un’operazione, questa, che
mette in gioco le relazioni dell’UE con la Russia e con gli Stati Uniti –,
e assumersi le sue responsabilità di attore regionale e globale.
In relazione ai problemi da affrontare, legati oltre che alle conseguenze della globalizzazione alla nuova dimensione acquisita con l’allargamento a 25, esistono all’interno dell’Unione posizioni diverse.
La Gran Bretagna intendeva che il widening avvenisse a spese del
deepening e considera con preoccupazione la prospettiva del superstato europeo emersa con l’euro, la difesa autonoma e la costituzione.
Blair si limita per ora a dire di volere qualcosa di diverso dal superstato, ad esempio una “superpotenza europea”; ma la Thatcher ha
promesso una copia delle sue memorie a chi le offre una descrizione
della differenza tra le due formule e chiede di rinegoziare la posizione
della Gran Bretagna nell’UE, di entrare nel NAFTA.(23).
(21)kDE VILLEPIN, Op. cit., p. 424.
(22)kIdem, p. 471.
(23)kIdem, pp. 344-345, 360-411.
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La Germania si trovava nella necessità geopolitica di non essere
zona di frontiera fra Est e Ovest, in un’Europa che fosse rimasta divisa da una linea di povertà, ha scelto di integrare l’Europa centroorientale nel sistema post-bellico europeo e mira a stringere un’ampia
partnership con la Russia.
La Francia ed i Paesi del Mediterraneo hanno accettato con perplessità gli allargamenti – la prima è stata compensata dalla moneta
unica –, e nutrono preoccupazioni per la PAC.
Quanto ai Paesi dell’Europa centro-orientale, essi non guardavano all’UE per la loro sicurezza ma agli Stati Uniti, nella transizione
economica hanno seguito l’esempio anglo-sassone (liberalizzazione,
competitività, niente cortina di carte) piuttosto che il modello socioeconomico dell’UE, e anche per la transizione politica si sono dovuti
confrontare con la loro realtà e con la loro storia. Perché, dunque,
hanno aderito? Molto probabilmente:
1. - perché il mantenimento della pace e la riconciliazione fra di
essi sono processi che hanno bisogno di essere inquadrati in un contesto ben regolato, com’è accaduto nel dopoguerra per la riconciliazione franco-tedesca;
2. - perché la questione delle minoranze nella travagliata Europa
centro-orientale non potrà essere eliminata, ma sarà lenita con i rimedi della cittadinanza europea e della sussidiarietà;
3. - perché la politica tradizionale di potenza e il sistema del
clientelismo potranno essere eliminati solo grazie ai condizionamenti
dell’UE;
4. - perché le riforma economiche interne da attuare sono molto
difficili e dolorose per la popolazione e senza lo stimolo e l’aiuto dell’UE non sarebbe possibile portarle a buon fine.
I più restii erano i Paesi baltici, ma la loro adesione è stata fortemente voluta dagli Stati Uniti, che si sono preoccupati di scongiurare subito in tal modo qualsiasi velleità russa di ristabilire la propria
autorità in quell’area che essi considerano cruciale per la sicurezza
dell’Europa e quindi nevralgica per l’equilibrio europeo e mondiale.
D’altra parte Washington si preoccupava allora del fatto che, portando il comando integrato della NATO troppo vicino ai centri vitali della Russia con l’integrare nella NATO le Repubbliche baltiche, la Russia potesse straniarsi dall’ordine mondiale emergente.(24).
Il successo degli allargamenti richiederà molte cure anche sul terreno culturale, dov’è stata fatta la scelta del rispetto delle diversità:
culturalmente l’Europa a 25 è una delle aree più eterogenee del mon-
(24)kHENRY KISSINGER, La Nouvelle Puissance américaine, Paris, Fayard,
2003, p. 83.
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do, sulla quale convivono centinaia di nazionalità differenti, che parlano 87 lingue e dialetti.(25), e le immigrazioni arricchiscono ancor più
il caleidoscopio culturale dell’UE.
Nei confronti dell’immigrazione la politica dell’UE non può che
basarsi sull’inclusività e valersi dello strumento del dialogo interculturale. La politica dell’assimilazione e la strategia del melting pot non
sono adatte alla diaspora culturale dei nostri giorni. Il concetto di
diaspora implica la persistenza di vincoli con la madre patria, intesa
come territorio o anche come cultura, che le tecnologie di trasporto e
di comunicazione esistenti permettono alla gente staccata dal proprio
habitat di intrattenere, mantenendo forte il proprio senso di identità.
Come ha osservato Ulrich Beck, la gente vive la propria cultura «quicome-là».(26) e non si può imporgliene un’altra.
4. - Il nuovo mondo del XXI° secolo e la necessità per l’UE di
svolgervi un ruolo di attore. Come si è accennato, le scelte dell’UE si
collocano in un quadro storico nuovo, che non è più quello della guerra fredda ma della globalizzazione, nel quale il problema centrale è
instaurare un nuovo ordine internazionale conforme ad una nuova visione del mondo.
Zbigniew Brzezinski sostiene che l’America, essendo uscita trionfante dalla fine della guerra fredda, è ora la potenza egemone a livello globale e che la sua egemonia è ineliminabile perché, se l’America
si ritirasse, il mondo cadrebbe rapidamente nel caos. In effetti, in uno
spazio globale caratterizzato da un’alta frammentazione istituzionale
e culturale e dalla mancanza di un’autorità sovranazionale unica, così come di un potere egemone, bipolare o unico, la conflittualità è latente e incombente.(27).
Il nuovo mondo del XXI° secolo è radicalmente diverso dal sistema mondiale del 2° Novecento. Se il XX° secolo è stato il secolo dell’America, nel XXI° il predominio dell’Occidente e dei suoi valori appare minacciato e all’orizzonte si delinea un sistema mondiale più plurale, nel quale prendono posto a pieno titolo le superpotenze asiatiche. Le sole tendenze demografiche lo dimostrano, perché nei prossimi 50 anni la percentuale europea della popolazione mondiale sarà
quasi dimezzata.
Nella realtà paneuropea l’identità occidentale dovrà relazionarsi,
così come si sta alterando la percezione della sicurezza, così come si
complica la formazione del consenso.
(25)kRIFKIN, Op. cit., p. 251.
(26)kIdem, p. 262.
(27)kBRZEZINSKI, Op. cit., pp. 213, 227.
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Il capitalismo occidentale non è più sfidato dal collettivismo sovietico o cinese, ma mostra i suoi limiti nelle crisi finanziarie e nella
disoccupazione che flagellano i Paesi ricchi nell’età delle alte tecnologie e della globalizzazione. Gli Stati nazionali non sono in grado di gestire l’instabilità del capitalismo, tanto complesso e anarchico esso è
diventato.
Oggi si è fatta tabula rasa di tutte le ideologie: il comunismo si è
screditato con il gulag e con il fallimento economico e sociale; il liberalismo lo ha fatto con lo spreco delle risorse naturali, il degrado ambientale, l’aumento delle diseguaglianze.(28); l’umanesimo con la barbarie ed i misfatti contro l’umanità di cui trasuda il mondo. Per gestire la complessità e l’interconnessione del presente non ci si può affidare ad un nuovo pensiero universalista, necessariamente semplificatore, ma ad un metodo per la condivisione dei benefici e delle responsabilità: tra gli uomini, tra gli Stati, tra i diversi attori della società internazionale.
Nel nuovo ordine internazionale emergente l’UE dovrà svolgere
un ruolo significativo nel reinterpretare il multilateralismo in chiave
etica. Occorre padroneggiare i nuovi fattori di insicurezza internazionale, indotti dalla globalizzazione, e collaborare alla elaborazione di
una strategia internazionale di lotta al sottosviluppo e di prevenzione
del terrorismo internazionale. Bisogna far breccia nell’unilateralismo
e mettere in opera una strategia globale condivisa, ma nessun Paese
membro è in grado di aprire da solo questo varco. Dev’essere l’UE ad
inserirsi, insieme ad altre istituzioni regionali, nella ristrutturazione
delle Nazioni Unite e a svolgere un ruolo politico negli organismi di
governo mondiale dell’economia.
Nel XIX° secolo il sistema internazionale fu basato sul gioco classico della potenza praticato dai trattati di Westfalia del 1648 e consistente nell’equilibrare i rapporti di forza tra gli Stati sovrani. L’organizzazione preposta al suo funzionamento fu il concerto delle potenze
o concerto europeo, frutto della diplomazia del congresso di Vienna.
Nel XX° secolo l’idealismo wilsoniano, riveduto e corretto dopo
la seconda guerra mondiale, ha prodotto le grandi istituzioni multilaterali, funzionanti secondo la stessa logica dell’equilibrio fra blocchi
di forze. Il nuovo ordine internazionale in divenire sarà scoperto nel
suo farsi, nascerà nel movimento, ma dovrà ispirarsi a dei principi generali che sono già evidenti: l’imperativo della condivisione della sicurezza, della solidarietà, della cultura; l’imperativo della legittimità;
l’imperativo della giustizia.
(28)kSulla crisi del capitalismo cfr., da ultimo, JEAN-LUC GREAU, L’avenir du
capitalisme, Paris, Gallimard, 2005.
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Oggi bisogna immaginare un modello che risponda ai nuovi caratteri della potenza e che dia spazio non solo agli Stati ma anche ai sistemi regionali ed agli attori non statuali.
Per quanto riguarda l’assunzione di responsabilità internazionali
in aree specifiche, la priorità per l’UE è rappresentata dal Mediterraneo, perché l’Europa intera è nel Mediterraneo e il Mediterraneo è
nell’Europa intera. L’UE deve avere una politica mediterranea autonoma, che riguardi tutti i Paesi della riva Sud, Turchia compresa, e
tutti gli aspetti delle relazioni transmediterranee. Nelle nuove circostanze che si sono venute a creare il problema del rapporto dell’UE
con la Turchia non può essere disgiunto da quello dell’organizzazione
da dare all’insieme delle relazioni transmediterranee o delle relazioni
internazionali nel Mediterraneo.
Sull’irragionevolezza del progetto di adesione della Turchia all’UE nello stato attuale dell’Unione è stato detto recentemente, molto
bene, da Sylvie Goulard.(29) e da Philippe de Villiers.(30); ma invano,
perché stanno aumentando le voci a favore. Per l’ingresso della Turchia nell’UE premono gli Stati Uniti, per due motivi:
1) strategico, che consiste nell’avere un alleato demograficamente
e militarmente forte nello scacchiere medio-orientale, dal momento che
l’Iran è perso e l’Irak non si sa quando sarà gestibile. La posizione
della Turchia – contigua all’Iran, all’Irak e alle regioni caucasiche – è
di importanza capitale in caso di crisi, che metterebbero in gioco elementi essenziali della loro sicurezza nazionale fondamentale.(31);
2) politico, consistente nell’indebolire la corrrente filoaraba all’interno dell’UE e, al tempo stesso, rafforzare quella atlantista.
5. - L’“enigma russo”. Il Near Abroad della Russia è costituito
dai luoghi sui quali si appuntano le sue preoccupazioni geopolitiche e
che essa aspira a reintegrare in una confederazione a guida russa o
sui quali intende esercitare influenza. Nella sua ultima configurazione
l’UE ha un Near Abroad in gran parte coincidente con quello della
Russia.(32).
La storia ispira ai Paesi membri dell’UE sentimenti diversi nei
confronti della Russia: c’è chi come Germania, Francia e Italia prova
una certa nostalgia romantica per i periodi di collaborazione e chi, in-
(29)kSYLVIE GOULARD, Le Grand Turc et la République de Venise, Paris,
Fayard, 2004.
(30)kPHILIPPE DE VILLIERS, Les Turqueries du grand Mamamouchi, adresse à
Jacques Chirac, Paris, Albin Michel, 2005.
(31)kKISSINGER, Op. cit., p. 287.
(32)kSull’argomento cfr. MICHAEL EMERSON ET ALII, The Elephant and the
Bear. The European Union, Russia and their Near Abroads, Brussels, CEPS,
2001.
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vece, avverte un senso di timore dovuto alle dimensioni di quel Paese,
alla sua natura impenetrabile, al suo imperialismo messianico. Margaret Thatcher ha intitolato un capitolo del suo ultimo libro “The Russian enigma”.(33).
Tutti i dirigenti europei cercano di recuperare la Russia alla
cooperazione continentale, ma certi pensano anche ad un ingresso
della Russia nell’UE, prima o poi, per fare da contrappeso alla Germania o agli Stati Uniti. Questa prospettiva è vista da Kissinger come
causa di frattura dell’Alleanza atlantica. Anche una relazione istituzionale fra UE e Russia più stretta di quella fra UE e Stati Uniti è
considerata rovinosa per l’Alleanza. Secondo Kissinger la Russia
sarà sempre tentata dai demoni dell’imperialismo e la NATO deve restare per arginarli.(34).
Dopo la caduta del comunismo si è manifestata una tendenza, nei
Paesi occidentali, a regolare il proprio atteggiamento verso la Russia
non in base a considerazioni geopolitiche ma sulla base di ipotesi concernenti la sua situazione interna e il processo di riforme in atto, trascurando il fatto che in passato erano state le azioni esterne della
Russia che avevano minacciato la stabilità internazionale e sopravvalutando il rapporto tra economia di mercato e democrazia e tra democrazia e politica estera pacifica che, invece, non è automatico.
La Russia è oggi impegnata in un processo di transizione storico:
sta dotandosi di istituzioni che non hanno alcun ancoraggio nelle sue
tradizioni, ha ridotto il suo territorio europeo a quello che era sotto
Pietro il Grande. Gli esiti di tutto ciò sono ancora largamente imperscrutabili.
Il 3 ottobre 1999, quando Vladimir Putin era primo ministro, la
Russia ha adottato un provvedimento, divenuto legge nel gennaio
2000, che indica come obiettivo di politica nazionale di sicurezza la
«creazione di un dominio economico unico con i membri della CIS».
La reazione degli Occidentali è stata di pensare che, se essi devono rispettare le legittime preoccupazioni di sicurezza della Russia, questa
non deve minacciare l’indipendenza dei suoi vicini.
6. - La tensione transatlantica. Al centro di ogni riflessione sul
futuro dell’Europa c’è la relazione transatlantica.
La relazione Stati Uniti-Europa è sottoposta a tensioni sempre
più forti da molti decenni senza, però, incorrere nelle peggiori conseguenze, un pò come accade nelle famiglie. Tuttavia non è detto che le
crisi ricorrenti non possano determinare in futuro una rottura.
Il secolo XIX° ha visto guerre fra il Vecchio e il Nuovo Mondo,
nel XX° le grandi guerre mondiali li hanno associati, non è possibile
(33)kTHATCHER, Op. cit., p. 63 e sgg.
(34)kKISSINGER, Op. cit., pp. 109-110.
213
prevedere che cosa accadrà nel marasma delle grandi e rapide trasformazioni del XXI° secolo.
L’UE continua a crescere più forte, più profonda, più ampia, includendo sempre più aree prima dominate dall’URSS; il suo modello,
diverso rispetto a quello americano, attrae di più e influenza lo sviluppo di nuovi regionalismi nel mondo; il contenzioso economico euroamericano si è fatto pesante ed i gruppi che si oppongono da una parte e dall’altra dell’Atlantico sono elettoralmente potenti. Quali saranno gli esiti della competitività dei due modelli a livello globale?
In questi anni l’argomento – che, traendo ispirazione da un famoso titolo spadoliniano.(35), potremmo chiamare dell’Atlantico più
largo – non solo è oggetto di trattazioni specifiche nella letteratura, ma
è in piena evidenza in qualsiasi libro che si occupi degli affari correnti in politica internazionale, perché è uno dei dossiers più scottanti.
Già nel 2001 David Calleo, direttore degli Studi Europei alla
John Hopkins University, aveva pubblicato un libro, Rethinking Europe’s Future.(36), tutto incentrato sull’analisi degli sviluppi dell’integrazione europea e delle loro implicazioni sul futuro delle relazioni
fra l’UE e gli Stati Uniti. Secondo Calleo, l’Europa continua ad essere il principale problema globale. La Paneuropa attuale non è molto
diversa dall’Europa del primo Novecento: plurale e interdipendente,
con molti centri di potere interattivi e un non facile e mutevole equilibrio fra di essi. Potrebbe ricadere negli stessi percorsi di guerra?
Potrebbe riaprirsi un problema di egemonia continentale tedesca?
Calleo vede nel perdurare del protettorato benevolo americano,
esteso a molte parti dell’ex-URSS, una garanzia di stabilità; ma gli
sembra difficile che, nelle nuove circostanze, esso possa durare. La
soluzione che egli propone è quella di una forte, coesiva Europa unita all’America in una ringiovanita alleanza, alla quale partecipi anche
la Russia nel quadro di un più largo sistema paneuropeo.
Nello stesso anno, traccciando le linee di una diplomazia americana per il XXI° secolo, anche Henry Kissinger aveva dedicato molta
attenzione alla deriva delle relazioni atlantiche sul piano politico, economico, culturale e sociale.
Essa ha avuto origine dal fallimento dei ripetuti tentativi effettuati in passato per equilibrare la partnership, nata nel momento dell’estrema debolezza e vulnerabilità dell’Europa post-bellica, e porla
su un piano di parità, e da ultimo si è accentuata in seguito, secondo
Kissinger, a quattro trasformazioni fondamentali:
(35)kGIOVANNI SPADOLINI, Il Tevere più largo. Da Porta Pia a oggi, Milano,
Longanesi, 1970.
(36)kDAVID P.CALLEO, Rethinking Europe’s Future, Princeton, Princeton University Press, 2001.
214
1. - la disintegrazione dell’URSS, perché il venir meno della minaccia ha ridato autonomia all’Europa;
2. - la riunificazione della Germania, che non dipende più dagli
Stati Uniti per la sicurezza, nè dalla Francia politicamente e orienterà
sempre più l’azione internazionale dell’UE verso la Russia;
3. - la tendenza crescente a considerare la politica estera come
uno strumento di quella interna, la quale è fortemente condizionata
dai gruppi più potenti elettoralmente e solo in parte riflette gli orientamenti culturali dei decisori;
4. - lo sviluppo dell’identità europea, che si definisce in gran
parte differenziandosi dagli Stati Uniti.(37).
A questa analisi vale la pena di accostare, per completarla, quella di Dominique de Villepin, secondo il quale la fase di turbolenza della relazione atlantica, che risente della crisi generale del sistema mondiale, è stata scatenata da tre rotture:
1. - la rottura dell’equilibrio strategico bipolare, che aveva reso
inossidabile per cinquant’anni una comunità di interessi di sicurezza
fra gli Occidentali, e la necessità per l’UE di riposizionarsi in un sistema mondiale che sia partecipativo e che eviti la radicalizzazione dei
contrasti (Nord-Sud, Est-Ovest, Islam-Cristianità);
2. - la rottura della globalizzazione, economica e culturale, nel
quadro della quale Stati Uniti e UE appaiono più competitori che
partners, appaiono come partners rivali, che non condividono più la
stessa visione dell’ordine economico mondiale;
3. - la rottura del terrorismo globale di massa, che si avvale delle moderne tecnologie, si alimenta delle situazioni di malessere e di ingiustizia, trae vantaggio dall’asimmetria della potenza, e contro il
quale le strategie americana ed europea divergono.(38).
Nonostante i cambiamenti verificatisi, negli anni ’90 la politica
atlantica dell’America ha continuato ad oscillare fra autorità imperiosa e indifferenza, fra la tendenza a trattare l’Europa come un’ancella
e la propensione a non vedere in essa che un soggetto per reportages
fotografici.(39). I comportamenti americani che più hanno inciso sul
deterioramento dei rapporti con l’Europa sono stati la tendenza a
confondere la cooperazione con l’adozione di un ordine del giorno
americano e una ricerca troppo sistematica di far adottare dagli alleati la propria legislazione interna.
Per il futuro della relazione atlantica, Kissinger disegna tre scenari:
(37)kKISSINGER, Op. cit., p. 43 e sgg.
(38)kDE VILLEPIN, Op. cit., pp. 330-334.
(39)kKISSINGER, Op. cit., p. 63.
215
1. - un’Europa potenza civile, una specie di Nazioni Unite in miniatura, in competizione economica con gli Stati Uniti;
2. - un’Europa che si dissocia dagli Stati Uniti nella politica internazionale e gioca un ruolo di mediatrice fra Stati Uniti e resto del
mondo;
3. - un rilancio del partenariato euro-atlantico, perché senza gli
Stati Uniti l’Europa non sarebbe che un’appendice peninsulare dell’Eurasia, vale a dire suo ostaggio, e rischierebbe di essere trascinata
nel turbine dei suoi conflitti. Sul piano geopolitico, d’altra parte, gli
Stati Uniti separati dall’Europa diventerebbero un’isola al largo dell’Eurasia, costretti a guardarsene e a mantenervi l’equilibrio delle
forze.(40).
Venendo al pratico, Kissinger si sofferma sul fatto che lo sviluppo
dell’identità europea dal campo dell’integrazione economica a quello
della politica estera e di sicurezza ha accentuato la difficoltà degli Stati Uniti di influire sulle scelte europee nel corso del processo decisionale (come, invece, riescono a fare assai bene muovendosi sul terreno
dei rapporti bilaterali), e sostiene che, consolidandosi questo sviluppo, la NATO non può più essere il solo organo di cooperazione atlantica ma bisogna introdurre una nuova struttura di cui l’America sia
parte insieme ai Paesi membri delle istituzioni europee. Per ora il
nuovo quadro della cooperazione atlantica potrebbe essere una
Trans-Atlantic Free Trade Area (TAFTA); in prospettiva, però, anche
per inquadrare la forza europea di difesa autonoma, bisognerà istituire un coordinamento politico fra Stati Uniti ed UE, che potrebbe essere ciò che egli chiama un gruppo di pilotaggio atlantico.(41).
Per spiegare le difficoltà ad elaborare una strategia mondiale
coerente manifestate dall’America nei decenni recenti illustri testimoni hanno fatto riferimento al turn-over generazionale. Fra essi.(42)
Kissinger, che distingue il succedersi negli Stati Uniti, dalla fine della
seconda guerra mondiale in poi, di tre scuole di pensiero:
1. - “la più grande generazione”, quella degli strateghi della
guerra fredda degli anni ’50 e ’60, che insistevano sulla presenza di
un elemento di potenza irriducibile nella politica internazionale, che
avevano alle spalle le esperienze ideali del New Deal e della lotta al
nazismo in nome della democrazia e che nel contenimento dell’URSS
associavano le esigenze dell’ideologia con quelle dell’equilibrio;
2. - la generazione al potere con l’amministrazione Clinton, uscita dal movimento contestatario contro la guerra in Vietnam, diffiden-
(40)kIdem, pp. 67-68.
(41)kIdem, pp. 75-76, 81, 112.
(42)kCon lui MAURICE COUVE DE MURVILLE, Le monde en face. Entretiens avec
Maurice Delarue, Paris, Plon, p. 272.
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te nei confronti del concetto di interesse nazionale e ancor più dell’uso della forza ai fini di esso, convinta che la guerra fredda fosse stata
un errore politico;
3. - la generazione nata dopo gli anni ’60, che attribuisce più importanza all’economia che alla politica, uscita per lo più dalle business schools e quindi da un sistema educativo che non dà molto spazio alla storia e alla filosofia, che manca così di background come di
prospettiva in materia di politica estera e tende a ridurla a politica
economica o a processo volto ad inculcare le virtù americane al resto
del mondo. Questa generazione ambisce ad occupare posizioni a Wall
Street o nella Silicon Valley piuttosto che a Washington ed ha paura
del mestiere della politica, che si svolge sotto il riflettore implacabile
dei media, capaci troppo spesso di distruggere le carriere e le reputazioni.(43). Inoltre la sua visione delle cose tende ad essere molto tecnica ed a prescindere da considerazioni etiche.
L’attentato dell’11 settembre 2001 si è abbattuto su di essa come
un fulmine a ciel sereno. Bersagli dell’attentato erano non solo i simboli del potere economico e militare americano, il Wall Street Center
e il Pentagono, ma il morale del popolo americano e il suo modo di vita. Se, come dice Bush, «the American way of life is not negociable»,
se non c’è quindi possibilità di compromesso, non rimane che la possibilità della guerra. Di fatto, dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti si
sono lanciati in una politica estera aggressiva, che si presenta come un
nuovo paradigma per le relazioni internazionali e in quanto tale appare come uno spartiacque storico.(44).
La guerra all’Irak è stata voluta perché: «Le economie industrializzate avanzate dipendono dalle risorse petrolifere del Golfo, e le
conseguenze di una radicalizzazione di questa regione si estenderebbero dall’Africa del Nord all’India passando per l’Asia centrale».(45).
Inoltre si trattava di sgomberare il campo dal più forte punto d’appoggio ai palestinesi per poter poi premere su di essi nel processo di
pace.
Anche per l’Europa è vitale che la fine dell’economia al petrolio
sia gestita in modo responsabile e che il conflitto arabo-israeliano venga composto; tuttavia l’Europa, pur senza spingersi ad isolare gli Stati Uniti, non ha approvato la guerra.
Questo diverso atteggiamento nella questione irakena ha a che fare in ultima analisi con la diversità culturale, con una diversa percezione del futuro e del rapporto con il mondo da parte dell’America e
dell’Europa. La differenza fra la visione americana e la visione euro(43)kKISSINGER, Op. cit., pp. 30-35.
(44)kCALLEO, Op. cit., p. 375.
(45)kKISSINGER, Op. cit., p. 272.
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pea del mondo risulta dalle specifiche eredità storiche e culturali che,
nei due continenti, hanno informato le rispettive forme di società. Secondo Dominique de Villepin, quella americana è incentrata sulla libertà, il ruolo delle comunità, la religione; quella europea vuole essere più sociale, più solidaristica, attenta alle derive possibili dei meccanismi del mercato.(46). Gli americani hanno il culto dell’autonomia,
tendono a non riconoscere alcuna fonte di legittimità democratica più
alta dello Stato nazionale, sono ligi alla Realpolitik di un’era passata
in cui lo Stato-nazione costituiva la più elevata autorità sovrana e lo
considerano il campione che garantisce nel mondo i diritti dei suoi cittadini con gli strumenti dell’hard power.(47). Nazionalismo e spirito
missionario – quello stesso dei padri fondatori, che costruendo «il faro sulla collina» sentivano di operare per l’avvento di Dio sulla terra
– alimentano in essi la convinzione che la potenza dell’America sia di
per sé un beneficio per tutti i popoli. Se non che, come aveva avvertito già Robespierre: «Persone n’aime les missionaires armés».
«Per molto tempo – scrive Rifkin – il soft power è stato un magnete per il resto del mondo: i valori democratici, le origini multiculturali, l’apertura, l’atteggiamento possibilista, l’ottimismo, l’innovatività e la creatività, la prosperità facevano degli Stati Uniti un punto
di attrazione e una fonte di ispirazione per gli altri», ma ora il soft
power americano si sta sgretolando.(48).
La politica estera europea, come si è visto, si fonda sulla diffusione della pace anziché sull’accumulazione del potere. Il suo obiettivo
non è l’egemonia, ma la pacifica convivenza in un mondo sostenibile.
Gli europei rifiutano ormai il tipo di politica di potenza che per
secoli ha dominato le relazioni internazionali, portando alla catastrofe il continente europeo e producendo tante distruzioni nel mondo. La
maggior parte dei leaders europei non condivide la visione hobbesiana del bellum omnium contra omnes e si muove nella prospettiva della soluzione pacifica dei contrasti: preferiscono negoziare invece di
dare ultimatum, riconciliare anziché recriminare, cooperare piuttosto
che competere.(49). L’esperimento europeo, in buona sostanza, tende
al superamento della forza bruta e all’uso sostitutivo di strumenti di
persuasione – come gli scambi commerciali e culturali, l’assistenza allo sviluppo, la cooperazione ambientale, le politiche di concorrenza,
tutte competenze forti dell’UE –, che fanno leva su un’ altra propensione istintiva dell’uomo, l’interesse.
(46)kDE VILLEPIN, Op. cit., p. 346.
(47)kRIFKIN, Op. cit., pp. 292-302.
(48)kIdem, pp. 306-307.
(49)kIdem, p. 303.
218
La minaccia del terrorismo globale, quella di una guerra nucleare, così come altri pericoli del nostro tempo quali il surriscaldamento
del pianeta, i virus informatici, la clonazione umana, la morte degli
oceani, la perdita della bio-diversità, l’allargarsi del buco dell’ozono,
uno scandalo in un mercato finanziario regionale, una nuova epidemia, possono gettare l’intero pianeta nel caos; ma agli occhi degli europei questi problemi globali dimostrano anzitutto che in un mondo
complesso, stratificato e densamente interattivo tutti sono vulnerabili
e bisognosi di sicurezza e che in un contesto del genere più della forza può l’empatia, più dell’imposizione può la cooperazione, più della
guerra possono le azioni di polizia combinate con gli interventi diplomatici e con un ricorso più sofisticato e generoso agli aiuti economici.(50). Le politiche di sicurezza non sono sufficienti, occorre una strategia di pace.
Il nuovo concetto di potenza degli europei è in linea con l’asimmetria della potenza nel mondo attuale; mentre il concetto di potenza
americano, che è rimasto quello tradizionale, non lo è. Si è passati da
una dialettica di guerra fredda ad una logica di rischi asimmetrici,
nella quale il debole può far vacillare il forte, insinuandosi negli interstizi della potenza, e il pericolo è diventato imprevedibile, perché
coloro che rifiutano le regole del gioco si arrogano una capacità di destabilizzazione inattesa. I fondamenti stessi della potenza ne risultano
profondamente trasformati, nel senso che ogni potenza globale rischia
di essere esposta a minacce asimmetriche: l’eccesso di potenza corrode la potenza.
La potenza passa ormai attraverso i canali dell’influenza, piuttosto che attraverso quelli dell’autorità; il suo strumento principale non
sono le divisioni, ma la comunicazione mediatica; essa non è più la
somma del potere militare, economico e tecnologico, ma ciò che crea
l’ordine e dà un senso ed è divenuto essenziale che Stati deboli, tentati di rompere con la comunità internazionale, non facciano cavalier
seul. In un mondo in cui i fattori identitari, culturali e religiosi soprattutto, occupano un posto crescente, non si può assicurare l’ordine con il semplice dominio tecnologico, economico o militare. Questi
fattori tradizionali della potenza rimangono vitali, e in particolare il
ricorso eventuale alla forza rimane indispensabile, ma da soli appaiono impotenti a controllare totalmente società aperte, ambienti complessi in cui tutto interagisce, nuovi attori che cercano spazio con
nuovi metodi. In particolare contro il terrorismo i mezzi militari non
sono i più idonei, ma devono essere impiegati anche i mezzi polizieschi, giudiziari, finanziari e i servizi segreti, e deve essere mobilitata
(50)kIdem, pp. 272, 285, 79.
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la comunità internazionale per affrontare e risolvere le piaghe profonde del mondo, dalle crisi regionali alla grande povertà.(51).
La visione “idealistica” europea, che tende a reintrodurre dei
principi etici nelle relazioni internazionali, non è di facile applicazione. I principi morali sono universali e atemporali, mentre la politica
estera è legata alle circostanze e deve tener conto della situazione storica. L’approccio “realistico” americano, d’altra parte, non è più
adatto a gestire un mondo percorso ormai da tempo da forze immateriali potentissime.(52). La ricerca in comune di una politica estera all’altezza delle sfide del XXI° secolo sarebbe forse possibile e senz’altro utile se le due grandi superpotenze riuscissero a relazionarsi sulla
base del riconoscimento delle rispettive identità e del principio di
uguaglianza.
Il più recente ed autorevole pensiero politico internazionale americano, pur considerando di importanza critica la costruzione di una
partnership globale euro-americana, la vuole “asimmetrica”.
Ignorando che il principio di uguaglianza può esprimere un rapporto etico e non solo un concetto matematico e non ritenendo fuori
luogo un approccio aziendalistico al problema, Brzezinski sostiene che
in politica l’uguaglianza simmetrica è un mito e che anche negli affari, dove le quote di partecipazione si possono contare, una partecipazione fifty-fifty non funziona. Secondo lui, l’Europa non può fare a
meno di rimanere unita all’America, senza la quale non può né essere
sicura, né essere unita, né influenzarne le scelte, e deve accettarne la
primazia. Questa, però, non implicherebbe una subordinazione automatica dell’Europa, che dovrebbe avere una “weighty influence” nel
disegnare e nell’eseguire una politica globale condivisa.(53). Una risposta effettiva al malessere globale non può non basarsi principalmente sulla potenza americana, che svolge una funzione essenziale
nella stabilità mondiale, ma comporta che essa si trasformi progressivamente in una “co-optive hegemony”, in cui la leadership è esercitata più attraverso azioni condivise con alleati stabili che non per mezzo di una “assertive domination”.(54). Per Brzezinski l’unilateralismo
porta all’isolamento e alla vulnerabilità da parte dell’antiamericanismo globale, ma il multilateralismo alla letargia.(55). L’America deve,
quindi, puntare alla progressiva realizzazione di una comunità globa-
(51)kDE VILLEPIN, Op. cit., pp. 427, 442, 454, 457, 471.
(52)kCosì, già nel 1989, COUVE DE MURVILLE (Op. cit., p. 249): «Dei movimenti
che nessuno è sicuro di controllare percorrono il mondo».
(53)kBRZEZINSKI, Op. cit., p. 221.
(54)kIdem, p. 217-218.
(55)kIdem, p. VIII.
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le di interessi condivisi e gestire la leadership del processo, che consiste nell’organizzare anzitutto l’interdipendenza della regione atlantica
in una rete di relazioni dalle più ampie implicazioni globali (accordi
bilaterali e multilaterali di libero scambio, forum politici regionali, alleanze formali) e nel seguirne l’evoluzione verso una struttura informale di governance internazionale.(56).
Sembra utile contrapporre alla visione dell’ex-consigliere del presidente americano Carter, Brzezinski, quella dell’ex-ministro degli
Esteri francese, de Villepin, fautore di una Francia atlantista, che intende partecipare attivamente alla riforma dell’Alleanza. Per de Villepin l’atlantismo della Francia è fuori discussione, ed egli cita un brindisi di de Gaulle ad Eisenhower: «Quando il mondo è difficile, quando il pericolo plana sui popoli, questo elemento morale che costituisce
l’accordo naturale dei nostri due Paesi è d’un prezzo e d’un peso eccezionali».(57); quanto alla NATO, essa «deve rimanere uno strumento di dialogo politico» e il dialogo deve essere reale, «basato su un codice di condotta che dobbiamo definire».(58). Dominique de Villepin
pensa ad una nuova carta atlantica, che ponga le basi di un’azione
congiunta nella cooperazione allo sviluppo e nella creazione di una
governance economica mondiale, capace di rispondere alle sfide della
globalizzazione.(59). In un’altra occasione ne definisce i tre obiettivi:
1.- stabilire il quadro ed i metodi di una concertazione in tutti i campi della relazione atlantica; 2. - sviluppare azioni comuni per valorizzare le convergenze; 3. - mettere a punto procedure per gestire le divergenze.(60).
La recente visita di George W. Bush a Bruxelles è stata un’operazione di facciata, che non è servita a definire una piattaforma comune di collaborazione Stati Uniti-UE e che non sembra preludere ad
alcun mutamento nella strategia tradizionale della Casa Bianca incentrata su rapporti esclusivamente bilaterali con gli europei. Quanto all’Alleanza, essa pare destinata a scivolare sempre più verso una relazione pragmatica fra Washington e una controparte europea a geometria variabile.
Le scelte operate dal Presidente americano dopo la rielezione per
coprire i posti chiave nella gestione delle relazioni internazionali – la
tenebrosa Egeria nazionalista Condoleza Rice al Dipartimento di Stato, il critico del multilateralismo John Bolton alla Rappresentanza
presso le Nazioni Unite, il teorico neoconservatore Paul Wolfowitz
(56)kIdem, p. 218.
(57)kDE VILLEPIN, Op. cit., p. 346.
(58)kIdem, pp. 345, 348.
(59)kIdem, p. 347.
(60)kIdem, p. 490.
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candidato alla Presidenza della Banca mondiale – mostrano che le posizioni di base dell’amministrazione americana non sono cambiate e
continuano ad essere antitetiche a quelle di un’UE post-nazionalista.
E anche la “diplomazia della trasformazione”, se non è più il diritto
di fare la guerra pre-emptive, risponde pur sempre ad una visione
dogmatica.
I sorrisi di rigore e le mistificazioni della public diplomacy non
bastano a colmare le divergenze esistenti nel campo di valori che si
davano per condivisi, come la democrazia, poiché to spread democracy è ben altra cosa dalla paziente attesa di democracy from
within.
Con la sua visita, tuttavia, Bush ha gettato la palla nel campo degli europei e tocca a loro rilanciarla. La sua proposta costruttiva di
un altro mondo l’UE deve pure bandirla ed è compito urgente della
diplomazia e della riflessione politica europee definirne il modo.
MARIA GRAZIA MELCHIONNI