130125 Contro i papà - Centro Culturale di Milano
Transcript
130125 Contro i papà - Centro Culturale di Milano
in occasione della presentazione del libro “Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli” (Ed. Rizzoli, 2012) incontro con Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione Ferruccio DeBortoli, Direttore del Corriere della Sera Antonio Polito, Editorialista del Corriere della Sera coordina Letizia Bardazzi, Presidente dell’Associazione Italiana Centri Culturali Sala di via Sant’Antonio, Milano Venerdì 25 gennaio 2013 Via Zebedia, 2 20123 Milano tel. 0286455162-68 fax 0286455169 www.cmc.milano Testi-CMC - “Contro i papà” LETIZIA BARDAZZI: Buonasera a tutti, benvenuti a questo incontro di presentazione dell’ultimo libro di Antonio Polito, dal titolo Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, edito da Rizzoli. A nome del Centro Culturale di Milano, che ha organizzato questo incontro, ringrazio la casa editrice Rizzoli, in particolare la dottoressa Manuela Galbiati e il Corriere della Sera, per ospitare la diretta di questo appuntamento sul proprio sito internet. Il libro è scritto con la penna pungente di un attento osservatore della società italiana, ma anche con il cuore di padre e di figlio, ed è una lucida critica agli errori educativi di un’intera generazione: la nostra. È un libro che analizza la crisi del ruolo del padre e, di conseguenza, dei giovani e dell’intera famiglia. Tutta la generazione dei baby boomers, osserva Polito, ha cresciuto i figli educandoli al fatto che tutto è dovuto, accudendoli e proteggendoli: i genitori sono pronti ad eliminare quotidianamente ogni ostacolo che si possa presentare sulla via del successo dei propri figli, diventando quasi loro sindacalisti nei confronti del mondo. Tutt’altro rispetto al famoso auspicio di Steve Jobs, Stay hungry, Stay foolish; Polito afferma che noi ai figli diciamo: «Restate sazi, restate conformisti» (p. 11), li accudiamo anche nell’ambito scolastico e diamo loro, oltre all’agiatezza, un orizzonte di diritti in cui non esiste la fatica. È bellissima l’espressione della madre dell’autore: «la mangiatoia bassa corrompe anche gli animali»: quando non si fatica a procurarsi il cibo persino gli animali diventano stanchi e sonnacchiosi. Non c’è fatica e, soprattutto, non c’è correzione; viviamo dunque nella società della pantofola (p. 21) ‒ così definita dall’autore stesso: il pensiero del Novecento, complice anche il benessere e la globalizzazione, ha costruito un modello sociale ed economico in cui di fatto la crescita è a rischio, in cui tutti noi ci sentiamo un po’ protetti dallo Stato, un po’ mantenuti dalla fiscalità generale, in cui, insomma, anche l’università deve essere a chilometro zero, e in fondo, è meglio scommettere sul mattone che istruire, scommettere sull’educazione dei figli. Anche della meritocrazia un po’ abbiamo timore, perché ci allontana i figli da casa. Abbiamo il privilegio di parlare questa sera di temi come la preoccupazione educativa che emerge dal volume e le nuove sfide del nostro sistema del welfare, con l’autore, Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, con il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, e con il presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione don Julián Carrόn. Vi pregherei di accogliere i nostri ospiti con un applauso. Diamo subito loro la parola, iniziando dall’autore, al quale chiedo: come è nato in lei il desiderio di scrivere questo libro, e quale risposta ipotizza alla domanda della quarta della sua copertina, come salvarci dalle conseguenze. Se mi permette, aggiungo, da potenziale madre di “bamboccioni”, non è stato un po’ troppo severo con i nostri ragazzi? A lei la parola. 25/01/13 2 Testi-CMC - “Contro i papà” ANTONIO POLITO: Grazie a lei e all’ottima raffigurazione e sintesi dei contenuti del libro, e grazie a don Carrόn per averci ospitato e aver avuto interesse a presentare con noi questo libro, e ovviamente a Ferruccio De Bortoli, da cui in realtà nasce tutto. Questo libro infatti nacque dai lettori del Corriere della Sera, nel senso che io scrissi un articolo che De Bortoli pubblicò sul giornale su temi analoghi, e suscitò una tale reazione di proteste, di consensi, di mail, come non era mai successo in vita mia. Dicono che i giornali sono morti e invece no, c’è una vitalità impressionante al punto che poi spinsero la Rizzoli a pensare di ridiscutere gli argomenti. Innanzitutto, nel libro non c’è nessuna polemica con i nostri figli, anzi io tendo a togliere quel peso che regolarmente, nel dibattito pubblico italiano, viene messo sulle loro spalle in quanto sono “bamboccioni”, pigri, infingardi e così via. Tento invece di guardare le responsabilità dei padri, neanche delle madri, perché questa è un’altra via d’uscita facile per l’Italia, dire che è “mammista”. Invece siamo noi padri che l’abbiamo fatta così, adesso in qualche modo comandiamo noi, quelli nati negli anni Cinquanta, la generazione dei baby-boomers che ha costruito l’Italia un po’ a sua immagine e somiglianza. Anzi, mi piace una definizione, che nel libro riporto, di uno studioso che ha fatto una ricerca dicendo: «Il problema sono i “babboccioni”, non i “bamboccioni”» (p. 23). Allora prendiamoci un po’ di responsabilità. La responsabilità che abbiamo qual è secondo me? È quella di avere ormai completamente separato nel dibattito pubblico sul nostro paese la società dai singoli individui. Noi parliamo tanto di problemi sociali: sui giornali scrivono editorialisti, sociologi, economisti eccetera; quando però si tratta delle persone parlano gli psicologi, gli psichiatri, i sacerdoti e così via, come se fossero due campi totalmente diversi. Invece io penso che la soluzione dei nostri problemi collettivi, e ne abbiamo tanti come paese, richieda la somma di sforzi individuali, e quest’anno l’abbiamo visto con chiarezza: eravamo tutti insieme sull’orlo di un burrone e per tirarci su abbiamo dovuto fare ognuno la propria parte. Invece, un aspetto che non si capisce ancora abbastanza è che l’origine dei nostri problemi e dei nostri mali si deve cercare in comportamenti individuali, della famiglia, dei nuclei più piccoli della società. Non soltanto per risolverli bisogna stare tutti insieme, ma a mio parere l’origine di molti problemi italiani è culturale. In Italia chiunque sarebbe d’accordo con questa espressione: “l’economia cambia i valori: i mutamenti economici cambiano i valori della gente, le idee e i modi di vivere”; ma quasi nessuno sarebbe pronto a sottoscrivere l’espressione opposta, cioè che “i valori cambiano l’economia”, nel senso che i comportamenti, il nostro modo di intendere la vita, i rapporti con i nostri figli, con i nostri cari e tutti gli altri, producono profondi e rilevanti mutamenti nell’assetto socio-economico, di un paese. Siamo, come si direbbe in termini un po’ aridi, degli attori economici, i nostri 25/01/13 3 Testi-CMC - “Contro i papà” comportamenti di consumo, per esempio, cambiano profondamente l’andamento economico del paese. E allora io credo che per cominciare ad affrontare i problemi italiani bisogna anche cominciare a smontare qualche falso mito nel quale ci siamo tutti un po’ troppo adagiati. Nel libro ne elenco alcuni, per esempio, tornando alla storia dei “bamboccioni” e spiegando perché non ce l’ho con i ragazzi che restano a casa, abbiamo cifre non paragonabili con nessun altro paese d’Europa, neanche i paesi più mediterranei: i bamboccioni sono il 90% dei ragazzi tra i 14 e i 24 anni e il 50% se si arriva fino ai 30 anni; è ancora più clamoroso che la metà dei ragazzi che si sposano vanno a vivere nel raggio di un chilometro dalla casa di uno dei genitori della coppia, quindi è chiaramente un fenomeno molto profondo. Molti dicono che dipenda dal fatto che mancano il lavoro e la casa, i ragazzi non hanno i soldi per allontanarsi dalla famiglia d’origine e ciò, come sappiamo bene, conta molto. Ma lavoce.info pubblica una ricerca su questo aspetto, e si scopre che in realtà maggiore è il reddito familiare maggiore è la propensione a restare a casa più a lungo. Allora non si spiega tutto, perché specialmente chi ha più mezzi mantiene i figli più vicino a casa. Negli Stati Uniti d’America il fenomeno dei cosiddetti “bamboccioni” è più diffuso nelle famiglie degli italo-americani che in tutti gli altri gruppi etnici: vediamo che la questione di fondo da discutere è culturale e non si riduce esclusivamente ad un fattore economico. Oppure, per esempio, un altro falso mito con cui me la prendo è l’ineguaglianza usata come alibi: siccome la società è ineguale, e lo è molto di più di vent’anni fa (ed è un problema sociale molto serio), io non posso fare altro che lamentarmi di questa condizione. Cito una battuta di una comica bravissima, Luciana Littizzetto, la quale dice: “Ma a che serve laurearsi in tempo, a diventare prima disoccupati?”. Ecco come la denuncia di una condizione di difficoltà e d’ineguaglianza si trasforma in un alibi per procrastinare, per aggravare questo fenomeno. Un’altra polemica che faccio è che noi ci concentriamo sui giovani disoccupati, cioè quelli che cercano lavoro e non lo trovano, ma troppo poco parliamo in Italia dell’enorme numero di giovani inoccupati, cioè che non lavorano, non cercano un lavoro e non studiano, il 20% della popolazione giovanile. Infatti ci sono due milioni di cosiddetti neet (no education, employment, training), un dato spaventoso e senza paragoni nel resto dell’Occidente. Quindi vorrei che noi cominciassimo ad affrontare questi problemi, che nascono anche da scelte della famiglia. Sulla questione dell’università, per esempio, conduco una polemica sull’illusione e l’ipocrisia in cui tutti quanti siamo caduti, che in realtà, moltiplicando il numero delle università e mettendole il più possibile vicino a casa nostra, avremmo mantenuto comunque un’istruzione di massa con livelli di qualità elevati, il che ovviamente non può essere perché non ci sono le risorse per avere meravigliose e fantastiche università sotto la casa di ogni italiano; quindi da qualche parte si perde qualcosa, e infatti i nostri ragazzi, anche laureati, perdono in qualità sul mercato del lavoro 25/01/13 4 Testi-CMC - “Contro i papà” e poi lo pagano. Senza contare l’incredibile ingiustizia sociale che consiste nel fingere di far pagare poco l’università a chi la frequenta, da 700 euro a 900 euro all’anno di tasse, mentre lo studente costa almeno 7000 euro l’anno allo stato; anche questa è una grande ipocrisia perché il rimanente viene dalla fiscalità generale, cioè dai contributi di tanta gente che magari non può mandare i figli all’università. Due economisti di recente hanno calcolato che ogni anno quelli che in Italia hanno un reddito sotto i 40.000 euro versano due miliardi e mezzo di euro a quelli che hanno un reddito superiore ai 40.000 euro di trasferimento in tasse universitarie, per sostenere un sistema che altrimenti non si sosterrebbe. Il volume è una serie di queste contestazioni che naturalmente poi giungono a una conclusione, e la conclusione presente in tutto il libro è che se vogliamo affrontare problemi culturali del paese dobbiamo rimettere l’accento su una parola caduta in disuso che voi di Cl, qualche anno fa, avete rilanciato nel dibattito pubblico, che è il concetto di educazione. Nel senso che questo papà-orsetto, papà-pantofola, papà-fratello, papà-sindacalista, questo “papino”, “papetto”, “papone” (i modi di chiamarli sono tanti), che sta solo a confortare il figlio e magari andare a protestare a scuola o a picchiare il professore, com’è successo qualche giorno fa in un liceo, dovrebbe recuperare la consapevolezza del suo ruolo educativo. La parola educare viene da e-duco, condurre fuori, tirare fuori. Secondo una celebre definizione educare sarebbe «aiutare con opportuna disciplina a mettere in atto, a svolgere le buone inclinazioni dell’animo e le potenze della mente, e a combattere le inclinazioni non buone; condurre fuori, e-ducare, l’uomo dai difetti originari della rozza natura, instillando abiti di moralità e di buona creanza»1. Queste parole sono generalmente tabù nella discussione pubblica, se le scrivessi su un giornale mi prenderebbero per pazzo; io penso che valga la pena di ributtarle dentro e rimettersi a discutere anche su questo. Grazie. FERRUCCIO DE BORTOLI: Buongiorno a tutti. Intanto confesso che avrei preferito l’invito alla presentazione di un libro di economia e di politica, perché mi sarei trovato a mio maggiore agio. Quando Antonio Polito mi ha chiesto di presentare insieme a don Julián, che ringrazio anch’io sentitamente, questo libro che ha come titolo Contro i papà, il mio senso di colpa paterno, che era già elevatissimo, ha superato una preoccupante soglia. Allora, nel rivolgermi a voi oggi, vi devo comunque trasmettere questo sentimento, perché anch’io appartengo a quella generazione che è giustamente criticata nel libro di Polito; forse inconsciamente anch’io cerco di lottare contro i miei anni, non rassegnandomi all’età che avanza schiaccio la generazione successiva in una sorta di limbo della società, non chiamandola indirettamente alle proprie responsabilità. Anch’io forse ho 1 O. Pianigiani. Dizionario etimologico, Società Editrice Dante Alighieri, Segati, 1907. 25/01/13 5 Testi-CMC - “Contro i papà” finito per essere troppo protettivo con i miei figli nel tentativo, forse inconscio, di ridurre quel senso di colpa che vi manifestavo all’inizio. Questa però credo sia una condizione molto diffusa, perché la società è cambiata profondamente, le abitudini sono state rivoluzionate; io vengo da una famiglia povera, tra l’altro abitavamo qui vicino, e naturalmente però io ricordo che pure nella nostra dignitosa condizione ho sempre pranzato e cenato con mio padre e mia madre, non uscivano mai di sera, non sono mai rimasto solo, avevo delle possibilità di colloquio con i miei genitori che erano numerose, anzi in effetti non solo di colloquio ma anche di scontro, infatti io sono, come giustamente scrive Antonio Polito, della generazione del ’68 con tutti gli errori che abbiamo compiuto. Tra l’altro qui siamo vicini a un’università, c’è tutto un vissuto che vi risparmio in questa circostanza, ma è vero che avevamo delle abitudini completamente diverse: c’era un senso di comunità, c’era una prossimità. A volte io vado alla mia chiesa, San Nazaro: prima questo era un quartiere popolare d’immigrazione, straordinario per le sue comunità; adesso vedo che la società è così cambiata che i giovani sono addirittura una rarità, anche per le ragioni socio-economiche che sono state descritte. Insomma, cos’è accaduto? Che sono cambiati i tempi e le modalità della famiglia, in questi anni c’è stato secondo me un eccessivo individualismo, ci siamo preoccupati molto di noi stessi e poco degli altri, la famiglia è stata messa a dura prova. Non soltanto, ma la famiglia è sempre stata, in questi anni, il vaso di coccio delle nostre discussioni, e dobbiamo dirlo con molta sincerità: prima è venuto l’egoismo della proiezione sociale del singolo individuo, non c’è stata la preoccupazione del ruolo sociale della famiglia. Quindi da una parte c’è stata un’ipertrofia dell’individuo, dall’altra un progressivo degrado delle famiglie e delle istituzioni insieme alle famiglie, e questo credo che sia un tratto significativo della realtà che stiamo vivendo. Io condivido le ragioni culturali che ha espresso all’inizio del suo libro Antonio Polito, siamo anche figli della cultura e della filosofia del Novecento, e siamo stati disabituati dal benessere, che effettivamente ha cambiato la qualità delle nostre relazioni umane ed interpersonali. Pensate all’idea della differenza, che si è ampliata con il passare del tempo, nella cognizione di che cosa significa un sacrificio rispetto ad un risultato: ci siamo disabituati a considerare che qualcosa che noi dobbiamo conquistare comporta di per sé un sacrificio, un impegno, un tempo, una disposizione. Il benessere ci ha disabituato a dare valore a quello che abbiamo, anzi ha introdotto secondo me un pericoloso germe, l’idea che tutto sia assolutamente irreversibile, che non si possa tornare indietro, mentre invece dovremmo voltarci perché se ci voltassimo e ci ricordassimo come era alta la nostra felicità per il possesso di piccolissime cose nella normalità quotidiana, probabilmente riscopriremmo il rapporto tra sacrificio e risultato. Per esempio, io sono convinto che la finanziarizzazione 25/01/13 6 Testi-CMC - “Contro i papà” dell’economia, che ha depresso il lavoro come fondamento di una società, abbia molto disabituato i cittadini all’idea che un guadagno deve essere proporzionato al sacrificio e allo studio, e la finanza è, se volete, il trionfo dell’intermediazione pura, quindi di qualcosa che è legato allo status delle persone che mettono in atto un determinato contratto o sono protagonisti di un determinato programma o operazione finanziaria. Questo è uno degli aspetti che hanno indebolito eticamente la società. Si parla di “bamboccioni”, e al riguardo volevo condividere con voi un piccolo ricordo: la parola “bamboccioni”, come sapete, è stata inventata da Tommaso Padoa-Schioppa che prima di diventare ministro ha collaborato per lunghi anni con il Corriere della Sera. Discutemmo anche all’epoca se non fosse stata una parola azzardata; lui naturalmente mi ricordò che il doge Dandolo aveva conquistato Costantinopoli all’età di novant’anni, quindi lui avendone sessantacinque era assolutamente autorizzato a proporre. Ma anche in quel caso aveva introdotto un certo sentimento, cioè è vero che la nostra è una società nella quale gli anziani non vogliono cedere il passo ai giovani, in cui prevale l’egoismo di una certa fascia d’età (pensate al problema pensionistico): ci troviamo di fronte a fasce d’età che sono relativamente privilegiate rispetto a coloro che, entrando in maniera precaria nel mercato del lavoro, non avranno diritto nemmeno ad una ombra di pensione al termine della loro carriera lavorativa). Io non ero d’accordo con la sua definizione, la trovavo persino ingenerosa e per certi versi insultante; lui mi fece riflettere su un aspetto, che in una società nella quale c’è una dinamica positiva c’è comunque uno scontro tra una generazione e l’altra, quindi lui diceva: «se volete il mio posto ve lo venite a prendere, io non ve lo cedo». Giusta anche questa considerazione, che in parte dà ragione a quello che scrive Polito all’inizio del suo libro, quando dice che la nostra è diventata una società di diritti acquisiti indisponibili e non contendibili. Da questo punto di vista è chiaro che è un esempio assolutamente diseducativo, perché vuol dire che si ha diritto ad una certa prestazione o ad un certo percorso, e questo confonde coloro che fanno parte di corporazioni, delle tante “tribù” di questa società, per usare un termine che è stato appena impiegato da un altro professore prestato alla politica; è chiaro che siccome noi ci troviamo in una condizione nella quale siamo così schiacciati nella quotidianità, fatichiamo ad uscire e a comprendere che tutto deve essere oggetto di conquista, deve comportare studio e fatica. A nessuno può essere assicurato un pranzo gratis, nessuno si sentirà dire: «questo è il percorso perché ne hai diritto». Il diritto al lavoro esiste nella nostra costituzione, ma non esiste il diritto al posto di lavoro; è giusto che un paese s’impegni per trovare il massimo lavoro possibile; però questo comporta una responsabilità personale. 25/01/13 7 Testi-CMC - “Contro i papà” Io trovo che questo libro dica che ci siamo deresponsabilizzati: dipende da noi e certo anche dalla società che ha molte colpe e molte ingiustizie, è diventata più diseguale e ingiusta, non c’è più un ascensore sociale, i giovani sono schiacciati, anzi per certi versi sono inesistenti, guardate cosa sta accadendo nella campagna elettorale di questi giorni: dei giovani non parla nessuno. Io vorrei che faceste un discorso a tutti coloro che andranno a votare per la prima volta, cosa che di solito non avviene. Trovo che il tema di fondo di questo libro sia riscoprire il percorso di responsabilità personale. Aggiungo un punto per dire dove non sono d’accordo con l’analisi di Polito, quando guarda alla scuola e alla scarsa predisposizione del mondo scolastico ad accettare una valutazione, e anche per il fatto che forse nelle nostre università è perdonato chi copia mentre in altre realtà educative il copiare è qualcosa che non è accettato. C’è naturalmente una critica a tutto il mondo degli insegnanti, sulla quale io sono in parte d’accordo, ma in parte non lo sono perché ritengo che, riferendoci al discorso delle famiglie che facevamo prima, sia stata rovesciata negli anni sul corpo insegnante tutta una serie di compiti che un tempo non appartenevano agli educatori; la famiglia ha smesso di svolgere il proprio ruolo e ha chiamato indirettamente il mondo dell’educazione e degli insegnanti a svolgere una sorta di “supplenza genitoriale”. Io trovo che questo sia ingiusto perché da un certo momento è andato a colpire una categoria che, mentre è stata caricata di maggiori responsabilità e svolge un ruolo ancora più centrale nella nostra società, paradossalmente ha perso importanza nella scala della stima sociale, addirittura è scesa agli ultimi posti anziché salire come sarebbe stato augurabile, e questo è uno dei temi che vorrei affrontare. Dico un’altra cosa. Questo non è un libro severo con i nostri figli, anche se naturalmente induce ad un comportamento più severo da parte dei genitori. Deve tener conto comunque di un paradosso della nostra società che forse noi come giornalisti abbiamo indagato poco ‒ e da questo punto di vista io devo ammettere le mie responsabilità di direttore ‒ perché abbiamo perso negli anni tanti giovani, cioè la categoria di quelli sotto i 30 anni è una categoria che nell'insieme della popolazione italiana è diventata sempre più piccola, mentre la categoria degli over 65 è diventata sempre più grande, quindi teoricamente dovremmo avere più bisogno di questi giovani, mentre li trascuriamo e li inseriamo nel mondo del lavoro troppo tardi. Non consideriamo, per esempio, che i giovani, a differenza nostra, hanno una condizione sociale certamente privilegiata, di maggiore benessere, come segnala nel proprio libro Polito. Però guardate cosa è accaduto nel mercato del lavoro: noi, tutto sommato, avevamo davanti un mercato domestico e delle linee di evoluzione della nostra carriera personale, universitaria e lavorativa piuttosto tracciate; i giovani di oggi hanno un mercato globale di fronte, un mercato globale che è diventato estremamente competitivo. Noi avevamo un 25/01/13 8 Testi-CMC - “Contro i papà” mercato domestico tutto sommato indulgente, familiare, con tutto quello che il termine “familiare”, in questo caso non positivo, induce. Vivevamo in una società non multietnica, oggi abbiamo una società multietnica: non è negativo questo fatto, ma certamente i nostri figli hanno anche la concorrenza, che è una concorrenza normale, dei figli degli immigrati di prima generazione che, come i figli degli immigrati interni della nostra società, hanno lo stimolo a competere e ad emergere che avevano i figli degli immigrati interni degli anni Cinquanta e Sessanta. Quindi la condizione competitiva del mercato del lavoro è profondamente cambiata e, nonostante il numero sia relativamente ridotto, non riusciamo a dare una risposta ai nostri giovani, come se in qualche modo fosse venuta meno la responsabilità di costruire il futuro. Quindi quello che io temo di più è una sorta di “prepensionamento mentale” nel nostro paese, cioè eravamo più preoccupati a costruire il futuro per i nostri figli, comportandoci in maniera diversa negli anni Cinquanta e Sessanta, anche negli anni della guerra, anche negli anni più difficili, in cui era difficile mettere insieme il pranzo con la cena, mentre oggi è come se in qualche modo si fosse affievolito questo nostro dovere morale. Io lego questo anche alla perdita di peso della famiglia nella nostra società e a un eccessivo individualismo ed edonismo e anche a questa idea che si possa rimanere giovani per sempre rimandando qualche riflessione più responsabile a tempi futuri, inseguendo a volte dei miti che la vita possa allungarsi anche al di là del secolo, ed è augurabile, ma forse andrebbe fatta una riflessione, che non so se sia politicamente corretta, se valga investire molto sull'ultima parte della vita, o se poi questo avviene non investendo sulla natalità e su quello che avviene nella prima parte della vita, se questo non sia un egoismo insopportabile. Grazie. JULIÁN CARRÓN: Ringrazio prima di tutto Antonio Polito per questo invito di cui mi sento veramente onorato. Il libro che presentiamo oggi (Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, di Antonio Polito) è un grido, una provocazione, una domanda: ma dove stiamo portando i nostri figli? Tanti genitori si ritroveranno in questo interrogativo. È una domanda che in non pochi casi diventa preoccupazione, e a volte angoscia, perché molti non sanno da che parte girarsi, dove guardare per uscire dall’impasse in cui a volte si trovano. Questo è un segno palese della confusione che domina il nostro tempo, in cui pure abbiamo visto nascere, crescere, svilupparsi tante cose belle, tante conquiste della scienza, ma alla cosa più cara, i nostri figli, non sappiamo offrire qualcosa di veramente significativo affinché possano orientarsi in mezzo alla confusione in cui si trovano a vivere. 25/01/13 9 Testi-CMC - “Contro i papà” Siamo davanti al libro di un osservatore acuto, che coglie la sfida più grande che la società si trova ad affrontare, cioè la sfida educativa, rispetto alla quale le altre, quella economica, sociale e politica, non sono che conseguenze. Ma Antonio non identifica solo la sfida, ma anche l’origine di essa: i padri. O, più genericamente, gli adulti − siano essi padri, educatori, maestri o preti − che non sono stati in grado di offrire un’ipotesi di risposta all’altezza del bisogno dei figli. L’Autore pone la questione in modo tranchant fin dalle prime pagine del libro: «Chi di noi padri […] può negare a se stesso la verità, e cioè che tutto intorno a noi ci dice che è l’educazione (intesa in un senso molto più ampio della semplice istruzione) il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e, al suo interno, dei nostri ragazzi? E allora perché abbiamo completamente abdicato alla nostra funzione educativa per trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli?» (p. 16). Questa è la sfida. Come si documenta questa abdicazione dei padri alla loro funzione educativa? Sostanzialmente in due modi. 1) I genitori hanno voluto risparmiare ad ogni costo ai loro figli la fatica del vivere. «Invece che fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti dei nostri figli, sempre pronti a batterci affinché venga loro spianata la strada verso il nulla [parole forti], perché non c’è meta ambiziosa la cui strada non sia impervia. È un grande fenomeno culturale, e sempre più è un tratto del carattere nazionale […]. Ed è un grande fattore di freno alla crescita non solo economica ma anche psicologica della nazione» (p. 21). Cioè, invece di lanciarli verso una meta ambiziosa corrispondente al loro bisogno, al loro cuore, anche se la strada è impervia, abbiamo preferito spianare loro la strada perché non dovessero impegnarsi troppo, per evitare la fatica della salita. Invece dello Stay hungry, Stay foolish (restate affamati, restate folli) di Steve Jobs, nel suo famoso discorso all’Università di Standford, abbiamo preferito il «restate sazi, restate conformisti» (p. 12). «La colpa è nostra. I veri bamboccioni siamo noi» (p. 23), scrive Polito. Abbiamo perseguito un modello sociale tutto teso a rendere facile la vita ai nostri ragazzi, senza accorgerci che così, in nome dei nostri figli, li abbiamo rovinati. «Affamati non vogliamo che siano nemmeno per un istante. Abbiamo anzi costruito le nostre vite e la nostra società in funzione del loro nutrimento. […] In funzione della protezione dei figli dal bisogno, con conseguenze sociali rilevanti e non sempre positive» (pp. 12-13). 25/01/13 10 Testi-CMC - “Contro i papà” Si è vissuto «un malinteso senso di protezione verso i nostri figli; malinteso perché in realtà tradisce una sfiducia collettiva nei loro mezzi, la paura di lasciarli nuotare con le loro forze il prima possibile. E questa sfiducia loro la sentono, e ne deprime l’autostima» (p. 20). Mi sembrano affermazioni acutissime di come noi, facendo così, diamo un giudizio sulle loro capacità, sulle loro possibilità di essere se stessi, di crescere, di svilupparsi. Non lo diciamo così esplicitamente, ma loro colgono comunque questo giudizio. In terzo luogo, abbiamo praticato un malefico paternalismo. «Società della pantofola», la chiama Antonio, tutta protesa a preservare i giovani da ogni sforzo. Mi colpisce la sintonia con quanto diceva don Giussani nel 1992, in una intervista al Corriere della Sera: «Mi spaventa […] l’Italia. […] È una situazione civile dove non c’è un ideale adeguato, dove non c’è nulla che ecceda l’aspetto utilitaristico. Un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga ideale. Questo non può durare. Il timore è che si scatenino conflitti senza fine. […] Perché è successo tutto questo? Lei lo può dire dopo aver visto crescere tante generazioni. Qual è stato il fattore scatenante di una simile caduta, di un simile peggioramento? A tutte queste generazioni di uomini non è stato proposto niente. Eccetto una cosa: l’apprensione utilitaristica dei padri. Sta parlando del dio denaro? Il dio denaro o una sicurezza di vita agiata, di vita senza rischi. E fatta solamente di cose, senza rischio alcuno. […] Chissà se questo desiderio di rendere meno difficile la vita dei propri figli, o di un dato gruppo di persone, sfondi a un certo punto l’orizzonte. Cioè, se chi ha questo desiderio capisca che, per poterlo realizzare, ha bisogno di un ideale, di una speranza».2 I padri pensavano che, risparmiando loro lo sforzo e proteggendoli dal bisogno, stavano facendo il bene dei figli, quando in realtà stavano spianando loro la strada verso il nulla. Quando questa mentalità vince, il risultato è quello di cui parlava Pietro Citati in un articolo apparso qualche anno fa su la Repubblica e dedicato alla generazione dei giovani d’oggi, dal titolo «Gli eterni adolescenti», in cui faceva un ritratto quasi spietato del risultato che produce la vittoria di questa mentalità. Scriveva Citati: «Un tempo, si diventava adulti prestissimo. Oggi c’è una continua corsa all’immaturità. Un tempo, […] a tutti i costi, un ragazzo diventava maturo. […] Conquistare la maturità era una rinuncia […]. [Oggi i giovani] non sanno chi sono. Forse non vogliono saperlo: si chiedono sempre quale sia il loro io, […] amano […] l’indecisione! Non dire mai sì e mai no: 2 L. Giussani, «Don Giussani: il potere egoista odia il popolo», intervista a cura di Gianluigi Da Rold, Corriere della Sera, 18 ottobre 1992; ora in: L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, pp. 214-219. 25/01/13 11 Testi-CMC - “Contro i papà” sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai. […] Non hanno volontà: non desiderano agire […]. Preferiscono restare passivi. […] Vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena o organizzati in una storia».3 A questo articolo aveva fatto seguito una risposta di Eugenio Scalfari, il quale sosteneva: «La ferita [in questi giovani] è stata la perdita dell’identità e della memoria» forse perché qualcuno aveva tolto questa identità. È singolare: prima fanno di tutto per fare perdere loro l’identità e poi si lamentano del fatto che hanno perso l’identità. «La ferita è stata il silenzio dei padri troppo impegnati nella conquista del successo e del potere. […] La ferita è stata la noia, l’invincibile noia, la noia esistenziale che ha ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze. […] Non vedo quella profonda melanconia che c’è nei giovani volti del Rinascimento dipinti dal Lotto e dal Tiziano. […] Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi, avidi senza desiderio, solitari in mezzo alla folla che li contiene. Io vedo occhi disperati. […] Eterni bambini. […] La loro salvezza sta soltanto nei loro cuori. Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione».4 Oggi ci troviamo di fronte a una profonda crisi dell’umano, che si può riassumere in questo torpore misterioso, in questa invincibile noia, in questo venir meno dell’umano in cui tante volte ci troviamo quando la mentalità denunciata nel libro stravince. Questa profonda crisi dell’umano si documenta nella passività di tanti giovani, che sembrano quasi incapaci di interessarsi a qualcosa di veramente significativo, o nello scetticismo di tanti adulti che non mettono davanti a loro qualcosa per cui valga la pena muoversi per uscire da questa situazione. È come se non trovassero degli interessi con cui valesse la pena di coinvolgere fino in fondo la propria umanità. Sembra che niente sia in grado di interessare i giovani fino al punto di metterli in movimento, e allora «l’impegno verso lo studio diviene minimo, e la noia massima».5 Ma proprio facendo così, i genitori hanno commesso un errore madornale. Dov’è stato ed è l’errore? Nella confusione sulla natura del cuore dell’uomo. Pensiamo di risolvere noi il problema dei ragazzi, invece di sfidarli sulla loro natura. Quella natura originale, che Leopardi documenta in modo insuperabile: «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e 3 P. Citati, «Gli eterni adolescenti», la Repubblica, 2 agosto 1999, p. 1. E. Scalfari, «Quel vuoto di plastica che soffoca i giovani», la Repubblica, 5 agosto 1999, p. 1. 5 M. Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca, Castel Bolognese 2005, p. 8. 4 25/01/13 12 Testi-CMC - “Contro i papà” trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».6 A questa natura dell’uomo – che è la natura dei nostri giovani, e la nostra – non si può rispondere soltanto con una proposta facilona che non è in grado di interessare e di risvegliare tutta la capacità dell’io. 2) Questo ci porta al secondo errore denunciato da Antonio Polito, che è riuscito così a identificare l’altra radice dell’impostazione educativa che critica nel suo libro, e su questo mi trova molto d’accordo: l’origine dei problemi è soprattutto culturale. E qual è l’errore? Quello che «ha fatto di noi dei pessimi genitori è il pensiero del Novecento. La cui grande scoperta è stata l’individuazione di forze superumane, fossero esse psichiche, sociali o biologiche, capaci di togliere dalle spalle dell’uomo la responsabilità delle proprie azioni. Grandi filosofie consolatorie. Come il sistema di pensiero scaturito da Freud, nel quale l’Io razionale e consapevole, la sede della responsabilità individuale, diventa un povero derelitto in balìa di forze più grandi di lui, [gettando] “le basi per una riduzione dell’etica alla psicologia”. (Valeria Egidi Morpurgo). […] Oppure filosofie come il marxismo, che trasportano sul piano sociale lo stesso meccanismo a responsabilità zero. Ricordate uno dei più celebri assunti? È l’essere sociale che determina la coscienza, non il contrario. Dunque la nostra coscienza è solo un’ancella, che va dove la porta il conflitto di classe. E la liberazione dell’uomo non può che essere il risultato di un processo collettivo che si svolge sopra di noi […]. Ogni responsabilità individuale è finita, tutto è trasferito a processi e movimenti collettivi. Scrive l’antropologo Robert Ardrey nel suo The Social Contract: “Una filosofia che per decenni ci ha indotto a credere che le colpe dell’uomo devono sempre caricarsi sulle spalle di qualcun’altro; che la responsabilità di comportamenti dannosi alla società devono sempre attribuirsi alla società stessa; che gli esseri umani nascono non solo perfettibili ma anche identici, per cui qualsiasi grave conflitto tra di loro va addebitato alla gravità delle condizioni ambientali…”. […] E infine il darwinismo. […] Che spiega tutti i comportamenti umani come conseguenze inevitabili della storia evolutiva della specie, e non come scelte più o meno consapevoli degli individui. Paura e coraggio, egoismo e altruismo, pigrizia e intraprendenza: niente di ciò che siamo si può più far 6 G. Leopardi, «Pensieri» LXVIII, Poesie e prose, Mondadori, Milano 1980, vol. 2, p. 321. 25/01/13 13 Testi-CMC - “Contro i papà” risalire all’educazione che abbiamo ricevuto, all’esempio che ci è stato offerto, alla cultura in cui abbiamo vissuto. Ma tutto è Natura, tutto ci deriva dai nostri antenati e dagli istinti che si svilupparono nella lotta per la sopravvivenza del più forte» (pp. 26-28). Non so se capiamo la portata di questo errore: l’uomo, ridotto ai suoi antecedenti biologici e sociologici, diventa un pupazzo, una marionetta in mano alle «forze superumane»; per cui l’io non c’è più, l’io è come un sasso travolto dal torrente di queste forze. L’«io» come realtà personale, autonoma, con capacità di libertà, in grado di porsi come soggetto nella storia e nelle circostanze non c’è più, perché tutto è scaricato su antecedenti di ogni tipo, psichici, sociali o biologici. Polito lo chiama l’oppio della deresponsabilizzazione. Non essendoci l’io, non essendoci la libertà perché tutto è determinato da questi fattori, quale responsabilità è possibile davanti alle sfide? La conseguenza di questa mentalità è una certa concezione dell’uomo: «Rousseau definì il bambino “un perfetto idiota”. E nel 1890 William James descrisse la vita mentale di un neonato come “una grande, dannata, ronzante confusione”. È a causa di questa presunzione che, convinti di essere in presenza di simpatici “idioti”, parliamo e agiamo davanti a loro come se non ne fossimo ascoltati, e compresi, e giudicati. Non so voi, ma a me invece non è mai riuscito di stare in una stanza con uno dei miei figli fin dall’età di sette-otto mesi senza avvertire distintamente addosso a me i suoi cinque sensi spalancati; senza provare l’inquietante sensazione che dentro quei corpi ancora incapaci di muoversi e di nutrirsi con le loro forze ronzassero perfettamente oliati dei cervelli già funzionanti» (p. 67). Eppure, malgrado tutta la riduzione operata dal pensiero del Novecento, l’esperienza elementare del rapporto con i nostri figli impedisce questa riduzione. Come se avessimo la percezione, perfino sensibile, di come non li possiamo ridurre a quello a cui di solito li riduciamo, cioè ai nostri pensieri. Continua Polito: «Voi capite bene che se così fosse, allora il nostro comportamento di genitori sarebbe radicalmente sbagliato, e dovrebbe radicalmente cambiare [perché se i ragazzi hanno cervelli funzionanti, qualche cosa deve cambiare]. Non più “povero bimbo, è troppo piccolo per capire” […]. Il bambino capisce, comprende che c’è una cosa giusta e una sbagliata» (p. 68). Provate a commettere una ingiustizia nei suoi confronti e vedrete se capisce! Provate a trattarlo nel modo sbagliato e vedrete se capisce! Altro che ridotto ai fattori antecedenti di tipo biologico, psicologico, eccetera! Se invece di questo riconoscimento della loro originalità, del fatto che hanno cervelli funzionanti, prevale il dominio di questa mentalità, questo annullamento dell’io, si lascia campo libero a quelli che Polito chiama i “cattivi maestri”, che non trovano così alcuna resistenza: «Ci sono in giro altri adulti che fanno danni non minori dei padri. Nel senso che li arrecano a un’intera generazione di figli. Sono i cattivi maestri, intesi nel senso letterale e non metaforico del 25/01/13 14 Testi-CMC - “Contro i papà” termine: gente che cioè insegna male, cose sbagliate, metodi approssimativi, idee perniciose. È il folto gruppo di quei reduci del Sessantotto i quali, invece che in politica o in azienda, hanno ottenuto il loro successo nell’accademia o nella comunicazione, e che oggi dagli schermi televisivi, dalle edicole o dalle librerie disegnano davanti agli occhi dei nostri giovani il mondo come è e come sarà. È attraverso le loro parole e le loro immagini che i nostri figli apprendono a sperare o a disperare. Perciò il ruolo di questi padri-guru può essere anche più importante di quello dei padri biologici» (pp. 131-133). Antonio giunge a un’amara conclusione: «Siamo la prima generazione di padri nella storia ad aver elaborato una complessa e altamente egoistica strategia di sopravvivenza attraverso la captatio benevolentiae dei nostri figli. Fingiamo di farlo per il loro bene, ma in realtà lo facciamo per il nostro» (p. 143). E aggiunge: «La nostra società è dunque invecchiata nelle speranze e nelle aspettative, prima ancora che nell’età anagrafica» (p. 144). Riducendo l’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici o sociologici, abbiamo tolto all’uomo e ai ragazzi la loro dignità, e questo lo esprimiamo nel modo di guardarli, questo giudizio lo leggono nel modo in cui li trattiamo, molto di più di quanto ce ne rendiamo conto. Ma basta un minimo di rapporto con loro perché scopriamo che l’io c’è. E che c’è nell’io qualcosa di irriducibile a questi fattori: don Giussani la chiamava «esperienza elementare», una esigenza di verità, di bellezza e di giustizia, di felicità, di pienezza, che è il nocciolo dell’io. E per questo i giovani capiscono, capiscono benissimo, non devono frequentare un corso per vedere quando è ingiusta una modalità di trattarli o quando non vogliamo loro bene o quando non diamo loro tempo. Togliere loro il criterio di giudizio è togliere loro la dignità, perché è come dire: «Tu sei scemo, ti spiego io come stanno le cose!». Ma loro capiscono benissimo che non è così, proprio perché hanno dentro di sé una esperienza elementare, che si esprime come esigenza di verità, di bellezza e di giustizia, per cui non devono andare ad Harvard a fare un corso sulla giustizia per sapere quando sono trattati ingiustamente! Provate a farlo! Perché i nostri figli, i nostri ragazzi sono spietati su questo. Noi siamo dei dilettanti rispetto alla chiarezza del giudizio che hanno loro sulle cose. Ma noi pensiamo che siano scemi. Invece che differenza, che diversità quando li trattiamo per quello che sono! Ma, come dice il Papa, è successo [in molte persone molto capaci] uno «strano oscuramento del pensiero»,7 quello che è elementare non lo vediamo più. E con questo oscuramento del pensiero riduciamo la loro dignità, la loro capacità di essere, il loro io con tutta la sua possibilità di evolvere 7 Benedetto XVI, Luce del Mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, LEV, Città del Vaticano 2010, p. 47. 25/01/13 15 Testi-CMC - “Contro i papà” e restringiamo allo stesso tempo il nostro concetto di amore, che non è soltanto cortesia e gentilezza, ma è amore nella verità. Se la situazione è questa, da dove ripartire? Dal «punto infiammato [dell’animo], il locus di tutta la mia coscienza»8, di cui parlava Cesare Pavese. Da quei cervelli funzionanti, da quel cuore che non può essere ridotto ai fattori antecedenti, il cuore con le sue esigenze e con le sue attese. È questa attesa che deve trovare una risposta adeguata. È intorno a questo punto infiammato che può ruotare una proposta veramente corrispondente all’umano. Ma questo punto infiammato (come abbiamo visto in tante occasioni) è sepolto da un torpore, da una noia: non trovando chi sfida i giovani con un rapporto all’altezza della loro esigenza (che spesso si cerca di coprire con tante distrazioni), quel punto rimane sepolto. La questione, allora, è chi è in grado di risvegliare il punto infiammato, l’io dei giovani; ma anche quello degli adulti. Questa è la sfida che abbiamo tutti davanti, la nostra generazione e le istituzione: la scuola, la famiglia, la Chiesa, i partiti, gli imprenditori, tutti. Per risvegliare l’io dal suo torpore, dalla noia che sembra invincibile, non basta una lezione o soltanto un richiamo etico (che può essere utile), una predica; occorre un adulto che con la sua vita sia in grado di fare interessare il giovane alla sua esistenza, al suo destino. Ma è difficile trovare adulti che non siano scettici; quante volte mi trovo a dialogare con ragazzi in università i cui genitori, davanti al loro impeto ideale, dicono: «No, la vita ti sistemerà pian piano». È per questo che solo un testimone (diceva Paolo VI che abbiamo più bisogno di testimoni che di maestri), per cui chi lo incontra non possa sottrarsi al suo fascino, alla sfida che la sua presenza introduce nella vita, può risvegliare questo punto infiammato, questa esigenza nascosta. Uno che incarni un modo di vita in grado di attrarre il cuore, di sfidare la ragione, di mettere in moto la libertà. Insomma, occorre una proposta vivente. Un testimone o, con una parola che oggi non è politicamente corretto usare, ma se la svuotiamo delle connotazioni con cui a volte la percepiamo e se la diciamo nel suo senso originale risulta decisiva, un’autorità, cioè qualcuno che mi fa crescere, che mi genera con la sua presenza. Occorre una autorità, una presenza che sfidi il «punto infiammato» per lanciarmi verso quella «meta impervia» a cui io, per la mia struttura umana, sono chiamato. Scriveva don Giussani: «L’esperienza dell’autorità sorge in noi come incontro con una persona ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice, ci genera novità, 8 C. Pavese, «A Rosa Calzecchi Onesti», 14 giugno [1949], Lettere 1926-1950, Einaudi, Torino 1968, vol. 2, p. 655. 25/01/13 16 Testi-CMC - “Contro i papà” stupore, rispetto. C’è in essa un’attrattiva inevitabile, e in noi una inevitabile soggezione. L’esperienza dell’autorità richiama infatti l’esperienza, più o meno chiara, della nostra indigenza e del nostro limite. Ciò porta a seguirla e a farci suoi “discepoli”. […] Per rispondere in modo adeguato alle esigenze educative [che oggi dobbiamo affrontare] dell’adolescenza non basta proporre con chiarezza un significato delle cose, né basta una intensità di reale autorità in chi lo propone. Occorre [allo stesso tempo] suscitare [nei giovani] nell’adolescente [quel] personale impegno con la propria origine; [con loro stessi, perché senza questo non saranno loro stessi; e per questo non si può evitare la fatica]; occorre che l’offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere fatto solo dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui. [Proposta di una ipotesi di significato da sottomettere alla verifica dei figli, della sua pertinenza alla vita, della sua capacità di rispondere alle sfide della vita. Senza questa educazione alla verifica di una proposta, non diventerà mai loro e quindi correranno il rischio di perdersi] La vera educazione deve essere un’educazione alla critica». La critica è il paragone di quello che ci viene proposto con i desideri del suo cuore: «Il criterio ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. E il criterio ultimo, che è in ciascuno di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. […] Abbiamo avuto troppa paura di questa critica»,9 di questa verifica, non abbiamo rischiato per poter generare un soggetto autonomo. Continuava don Giussani: «Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l’educando agisca sempre più da sé, e sempre più da sé affronti l’ambiente [le circostanze]. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell’ambiente, dall’altro lasciargli sempre più la responsabilità della scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace di “far da sé” di fronte a tutto. Il metodo educativo di guidare l’adolescente all’incontro personale e sempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il ragazzo si fa adulto [altrimenti il risultato sarà che non cresce]. L’equilibrio dell’educatore svela qui la sua definitiva importanza. L’evolversi infatti dell’autonomia del ragazzo rappresenta per l’intelligenza e il cuore − e anche per l’amor proprio − dell’educatore un “rischio”. D’altra parte è proprio dal rischio del confronto che si genera nel giovane una sua personalità nel rapporto con tutte le cose; la sua libertà cioè “diviene”. […] L’esperienza deve farla il giovane stesso, perché questo rappresenta l’avverarsi della sua libertà. E questo amore alla libertà fin nel rischio è soprattutto una direttiva che l’educazione deve tenere presente. […] Una educazione che accetti con vigilanza il 9 L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 83, 87, 17-18. 25/01/13 17 Testi-CMC - “Contro i papà” rischio della libertà dell’adolescente è reale sorgente di fedeltà e di devozione cosciente all’ipotesi proposta e a chi la propone. La figura del “maestro”, proprio per questa discrezione e rispetto, in un certo vero senso si ritira dietro la figura dominatrice della Verità Unica cui si ispira; il suo insegnamento e la sua direttiva diventano dono di testimonianza, e proprio per questo si iscrive nella memoria del discepolo con una simpatia acuta e sincera, indipendente − nel suo livello più profondo − dalle stesse sue doti. Per cui abbiamo una gratitudine e un legame ineliminabile al maestro, e pure una convinzione indipendentemente da esso».10 Il processo educativo non ha come scopo quello di “convincere” l’altro di ciò in cui crediamo noi − questo sarebbe un plagio −, perché al centro ci sono due libertà in rapporto tra di loro. La libertà si muove a causa dell’attrattiva del reale, perché il cuore dell’uomo è assetato della verità; ciascuno cerca ciò che corrisponde alle sue esigenze originali di bene, di bellezza, di verità, di giustizia, di felicità, che sono destate da tutto ciò che accade. L’educazione è, perciò, un invito alla libertà dell’uomo, per iniziare un cammino alla scoperta della verità delle cose. Se questo non accade, l’affezione, che pure le cose destano, prima o poi viene meno, e la noia vince, perché solo il vero ha la forza per permanere nel tempo. La dinamica della libertà non è arbitraria, non è un fare ciò che pare e piace, perché un uomo è veramente libero quando riconosce e aderisce al significato della realtà; senza un significato, infatti, mancherebbe la ragione adeguata per vivere. L’educazione è una grande sfida per il cuore dell’uomo, senza di essa è impossibile lo sviluppo della persona, come ragione e libertà. Tanto è vero che quando i giovani sono sfidati nella loro ragione e libertà, si dimostrano entusiasti di partecipare a questa avventura; il problema è che, purtroppo, non trovano molti adulti che li sfidino e per questo decadono. Vorrei terminare con un testo di Rabindranath Tagore, che dice tutto l’amore che un padre deve avere; quando questo amore c’è, la persona lo riconosce perché gli lascia lo spazio per crescere: «In questo mondo coloro che m’amano / cercano con tutti i mezzi / di tenermi avvinto a loro. / Il tuo amore è più grande del loro, / eppure mi lasci libero».11 È solo l’amore che rende liberi e che lascia spazio alla libertà, per crescere. Questa è sfida che noi adulti abbiamo il compito di accettare nei confronti dei giovani. 10 11 Ibidem, pp. 103-105, 107. R. Tagore, «In questo mondo...», in Ghitangioli, Guanda, Milano 1976, p. 167. 25/01/13 18 Testi-CMC - “Contro i papà” L.BARDAZZI: Concludo non aggiungendo altro a questi tre bellissimi interventi. Vi chiedo solo la pazienza di ascoltare una frase con cui la genialità di Péguy descrive il dramma del buon padre e quindi di Dio nei confronti della sua creatura: «Quante volte, quando penano tanto nelle loro prove, ho voglia, sono tentato di mettere loro la mano sotto la pancia, come un padre che insegna a suo figlio a nuotare nella corrente del fiume e che è diviso tra due sentimenti perché da un lato se lo sostiene sempre e lo sostiene troppo il bambino si attaccherà e non imparerà mai a nuotare ma anche se non lo sostiene al momento giusto questo bambino berrà un sorso cattivo, così sono io quando insegno loro a nuotare nelle loro prove anch’io sono diviso tra questi due sentimenti, se lo sostengo troppo non è più libero e se non lo sostengo abbastanza va giù, se lo sostengo troppo espongo la sua libertà, se non lo sostengo abbastanza espongo la sua salvezza: due beni, in un certo senso quasi ugualmente preziosi, perché questa salvezza ha un prezzo infinito; ma che cosa sarebbe una salvezza che non fosse libera? Come sarebbe qualificata? Noi vogliamo che questa salvezza l’acquisti da solo»12. Auguriamoci una briciola di questa esperienza, di vivere il fascino di questo rischio. Ringrazio i nostri ospiti, ringrazio voi dell’attenzione e vi auguro una buona serata. 12 C. Péguy, I Misteri, Jaca Book, Milano, 2010. 25/01/13 19