130125 Contro i papà - Centro Culturale di Milano

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130125 Contro i papà - Centro Culturale di Milano
in occasione della presentazione del libro
“Contro i papà.
Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli”
(Ed. Rizzoli, 2012)
incontro con
Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
Ferruccio DeBortoli, Direttore del Corriere della Sera
Antonio Polito, Editorialista del Corriere della Sera
coordina
Letizia Bardazzi, Presidente dell’Associazione Italiana Centri Culturali
Sala di via Sant’Antonio, Milano
Venerdì 25 gennaio 2013

Via Zebedia, 2 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.cmc.milano
Testi-CMC - “Contro i papà”
LETIZIA BARDAZZI: Buonasera a tutti, benvenuti a questo incontro di presentazione dell’ultimo
libro di Antonio Polito, dal titolo Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli,
edito da Rizzoli. A nome del Centro Culturale di Milano, che ha organizzato questo incontro,
ringrazio la casa editrice Rizzoli, in particolare la dottoressa Manuela Galbiati e il Corriere della
Sera, per ospitare la diretta di questo appuntamento sul proprio sito internet.
Il libro è scritto con la penna pungente di un attento osservatore della società italiana, ma anche con
il cuore di padre e di figlio, ed è una lucida critica agli errori educativi di un’intera generazione: la
nostra. È un libro che analizza la crisi del ruolo del padre e, di conseguenza, dei giovani e
dell’intera famiglia. Tutta la generazione dei baby boomers, osserva Polito, ha cresciuto i figli
educandoli al fatto che tutto è dovuto, accudendoli e proteggendoli: i genitori sono pronti ad
eliminare quotidianamente ogni ostacolo che si possa presentare sulla via del successo dei propri
figli, diventando quasi loro sindacalisti nei confronti del mondo. Tutt’altro rispetto al famoso
auspicio di Steve Jobs, Stay hungry, Stay foolish; Polito afferma che noi ai figli diciamo: «Restate
sazi, restate conformisti» (p. 11), li accudiamo anche nell’ambito scolastico e diamo loro, oltre
all’agiatezza, un orizzonte di diritti in cui non esiste la fatica. È bellissima l’espressione della madre
dell’autore: «la mangiatoia bassa corrompe anche gli animali»: quando non si fatica a procurarsi il
cibo persino gli animali diventano stanchi e sonnacchiosi. Non c’è fatica e, soprattutto, non c’è
correzione; viviamo dunque nella società della pantofola (p. 21) ‒ così definita dall’autore stesso: il
pensiero del Novecento, complice anche il benessere e la globalizzazione, ha costruito un modello
sociale ed economico in cui di fatto la crescita è a rischio, in cui tutti noi ci sentiamo un po’ protetti
dallo Stato, un po’ mantenuti dalla fiscalità generale, in cui, insomma, anche l’università deve
essere a chilometro zero, e in fondo, è meglio scommettere sul mattone che istruire, scommettere
sull’educazione dei figli. Anche della meritocrazia un po’ abbiamo timore, perché ci allontana i figli
da casa.
Abbiamo il privilegio di parlare questa sera di temi come la preoccupazione educativa che emerge
dal volume e le nuove sfide del nostro sistema del welfare, con l’autore, Antonio Polito, editorialista
del Corriere della Sera, con il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli, e con il
presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione don Julián Carrόn. Vi pregherei di
accogliere i nostri ospiti con un applauso.
Diamo subito loro la parola, iniziando dall’autore, al quale chiedo: come è nato in lei il desiderio di
scrivere questo libro, e quale risposta ipotizza alla domanda della quarta della sua copertina, come
salvarci dalle conseguenze. Se mi permette, aggiungo, da potenziale madre di “bamboccioni”, non è
stato un po’ troppo severo con i nostri ragazzi? A lei la parola.
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ANTONIO POLITO: Grazie a lei e all’ottima raffigurazione e sintesi dei contenuti del libro, e
grazie a don Carrόn per averci ospitato e aver avuto interesse a presentare con noi questo libro, e
ovviamente a Ferruccio De Bortoli, da cui in realtà nasce tutto. Questo libro infatti nacque dai
lettori del Corriere della Sera, nel senso che io scrissi un articolo che De Bortoli pubblicò sul
giornale su temi analoghi, e suscitò una tale reazione di proteste, di consensi, di mail, come non era
mai successo in vita mia. Dicono che i giornali sono morti e invece no, c’è una vitalità
impressionante al punto che poi spinsero la Rizzoli a pensare di ridiscutere gli argomenti.
Innanzitutto, nel libro non c’è nessuna polemica con i nostri figli, anzi io tendo a togliere quel peso
che regolarmente, nel dibattito pubblico italiano, viene messo sulle loro spalle in quanto sono
“bamboccioni”, pigri, infingardi e così via. Tento invece di guardare le responsabilità dei padri,
neanche delle madri, perché questa è un’altra via d’uscita facile per l’Italia, dire che è “mammista”.
Invece siamo noi padri che l’abbiamo fatta così, adesso in qualche modo comandiamo noi, quelli
nati negli anni Cinquanta, la generazione dei baby-boomers che ha costruito l’Italia un po’ a sua
immagine e somiglianza. Anzi, mi piace una definizione, che nel libro riporto, di uno studioso che
ha fatto una ricerca dicendo: «Il problema sono i “babboccioni”, non i “bamboccioni”» (p. 23).
Allora prendiamoci un po’ di responsabilità.
La responsabilità che abbiamo qual è secondo me? È quella di avere ormai completamente separato
nel dibattito pubblico sul nostro paese la società dai singoli individui. Noi parliamo tanto di
problemi sociali: sui giornali scrivono editorialisti, sociologi, economisti eccetera; quando però si
tratta delle persone parlano gli psicologi, gli psichiatri, i sacerdoti e così via, come se fossero due
campi totalmente diversi. Invece io penso che la soluzione dei nostri problemi collettivi, e ne
abbiamo tanti come paese, richieda la somma di sforzi individuali, e quest’anno l’abbiamo visto con
chiarezza: eravamo tutti insieme sull’orlo di un burrone e per tirarci su abbiamo dovuto fare ognuno
la propria parte.
Invece, un aspetto che non si capisce ancora abbastanza è che l’origine dei nostri problemi e dei
nostri mali si deve cercare in comportamenti individuali, della famiglia, dei nuclei più piccoli della
società. Non soltanto per risolverli bisogna stare tutti insieme, ma a mio parere l’origine di molti
problemi italiani è culturale.
In Italia chiunque sarebbe d’accordo con questa espressione: “l’economia cambia i valori: i
mutamenti economici cambiano i valori della gente, le idee e i modi di vivere”; ma quasi nessuno
sarebbe pronto a sottoscrivere l’espressione opposta, cioè che “i valori cambiano l’economia”, nel
senso che i comportamenti, il nostro modo di intendere la vita, i rapporti con i nostri figli, con i
nostri cari e tutti gli altri, producono profondi e rilevanti mutamenti nell’assetto socio-economico,
di un paese. Siamo, come si direbbe in termini un po’ aridi, degli attori economici, i nostri
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comportamenti di consumo, per esempio, cambiano profondamente l’andamento economico del
paese. E allora io credo che per cominciare ad affrontare i problemi italiani bisogna anche
cominciare a smontare qualche falso mito nel quale ci siamo tutti un po’ troppo adagiati. Nel libro
ne elenco alcuni, per esempio, tornando alla storia dei “bamboccioni” e spiegando perché non ce
l’ho con i ragazzi che restano a casa, abbiamo cifre non paragonabili con nessun altro paese
d’Europa, neanche i paesi più mediterranei: i bamboccioni sono il 90% dei ragazzi tra i 14 e i 24
anni e il 50% se si arriva fino ai 30 anni; è ancora più clamoroso che la metà dei ragazzi che si
sposano vanno a vivere nel raggio di un chilometro dalla casa di uno dei genitori della coppia,
quindi è chiaramente un fenomeno molto profondo. Molti dicono che dipenda dal fatto che
mancano il lavoro e la casa, i ragazzi non hanno i soldi per allontanarsi dalla famiglia d’origine e
ciò, come sappiamo bene, conta molto. Ma lavoce.info pubblica una ricerca su questo aspetto, e si
scopre che in realtà maggiore è il reddito familiare maggiore è la propensione a restare a casa più a
lungo. Allora non si spiega tutto, perché specialmente chi ha più mezzi mantiene i figli più vicino a
casa. Negli Stati Uniti d’America il fenomeno dei cosiddetti “bamboccioni” è più diffuso nelle
famiglie degli italo-americani che in tutti gli altri gruppi etnici: vediamo che la questione di fondo
da discutere è culturale e non si riduce esclusivamente ad un fattore economico.
Oppure, per esempio, un altro falso mito con cui me la prendo è l’ineguaglianza usata come alibi:
siccome la società è ineguale, e lo è molto di più di vent’anni fa (ed è un problema sociale molto
serio), io non posso fare altro che lamentarmi di questa condizione. Cito una battuta di una comica
bravissima, Luciana Littizzetto, la quale dice: “Ma a che serve laurearsi in tempo, a diventare prima
disoccupati?”. Ecco come la denuncia di una condizione di difficoltà e d’ineguaglianza si trasforma
in un alibi per procrastinare, per aggravare questo fenomeno.
Un’altra polemica che faccio è che noi ci concentriamo sui giovani disoccupati, cioè quelli che
cercano lavoro e non lo trovano, ma troppo poco parliamo in Italia dell’enorme numero di giovani
inoccupati, cioè che non lavorano, non cercano un lavoro e non studiano, il 20% della popolazione
giovanile. Infatti ci sono due milioni di cosiddetti neet (no education, employment, training), un
dato spaventoso e senza paragoni nel resto dell’Occidente.
Quindi vorrei che noi cominciassimo ad affrontare questi problemi, che nascono anche da scelte
della famiglia. Sulla questione dell’università, per esempio, conduco una polemica sull’illusione e
l’ipocrisia in cui tutti quanti siamo caduti, che in realtà, moltiplicando il numero delle università e
mettendole il più possibile vicino a casa nostra, avremmo mantenuto comunque un’istruzione di
massa con livelli di qualità elevati, il che ovviamente non può essere perché non ci sono le risorse
per avere meravigliose e fantastiche università sotto la casa di ogni italiano; quindi da qualche parte
si perde qualcosa, e infatti i nostri ragazzi, anche laureati, perdono in qualità sul mercato del lavoro
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e poi lo pagano. Senza contare l’incredibile ingiustizia sociale che consiste nel fingere di far pagare
poco l’università a chi la frequenta, da 700 euro a 900 euro all’anno di tasse, mentre lo studente
costa almeno 7000 euro l’anno allo stato; anche questa è una grande ipocrisia perché il rimanente
viene dalla fiscalità generale, cioè dai contributi di tanta gente che magari non può mandare i figli
all’università. Due economisti di recente hanno calcolato che ogni anno quelli che in Italia hanno un
reddito sotto i 40.000 euro versano due miliardi e mezzo di euro a quelli che hanno un reddito
superiore ai 40.000 euro di trasferimento in tasse universitarie, per sostenere un sistema che
altrimenti non si sosterrebbe.
Il volume è una serie di queste contestazioni che naturalmente poi giungono a una conclusione, e la
conclusione presente in tutto il libro è che se vogliamo affrontare problemi culturali del paese
dobbiamo rimettere l’accento su una parola caduta in disuso che voi di Cl, qualche anno fa, avete
rilanciato nel dibattito pubblico, che è il concetto di educazione. Nel senso che questo papà-orsetto,
papà-pantofola, papà-fratello, papà-sindacalista, questo “papino”, “papetto”, “papone” (i modi di
chiamarli sono tanti), che sta solo a confortare il figlio e magari andare a protestare a scuola o a
picchiare il professore, com’è successo qualche giorno fa in un liceo, dovrebbe recuperare la
consapevolezza del suo ruolo educativo. La parola educare viene da e-duco, condurre fuori, tirare
fuori. Secondo una celebre definizione educare sarebbe «aiutare con opportuna disciplina a mettere
in atto, a svolgere le buone inclinazioni dell’animo e le potenze della mente, e a combattere le
inclinazioni non buone; condurre fuori, e-ducare, l’uomo dai difetti originari della rozza natura,
instillando abiti di moralità e di buona creanza»1. Queste parole sono generalmente tabù nella
discussione pubblica, se le scrivessi su un giornale mi prenderebbero per pazzo; io penso che valga
la pena di ributtarle dentro e rimettersi a discutere anche su questo. Grazie.
FERRUCCIO DE BORTOLI: Buongiorno a tutti. Intanto confesso che avrei preferito l’invito alla
presentazione di un libro di economia e di politica, perché mi sarei trovato a mio maggiore agio.
Quando Antonio Polito mi ha chiesto di presentare insieme a don Julián, che ringrazio anch’io
sentitamente, questo libro che ha come titolo Contro i papà, il mio senso di colpa paterno, che era
già elevatissimo, ha superato una preoccupante soglia. Allora, nel rivolgermi a voi oggi, vi devo
comunque trasmettere questo sentimento, perché anch’io appartengo a quella generazione che è
giustamente criticata nel libro di Polito; forse inconsciamente anch’io cerco di lottare contro i miei
anni, non rassegnandomi all’età che avanza schiaccio la generazione successiva in una sorta di
limbo della società, non chiamandola indirettamente alle proprie responsabilità. Anch’io forse ho
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O. Pianigiani. Dizionario etimologico, Società Editrice Dante Alighieri, Segati, 1907.
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finito per essere troppo protettivo con i miei figli nel tentativo, forse inconscio, di ridurre quel senso
di colpa che vi manifestavo all’inizio. Questa però credo sia una condizione molto diffusa, perché la
società è cambiata profondamente, le abitudini sono state rivoluzionate; io vengo da una famiglia
povera, tra l’altro abitavamo qui vicino, e naturalmente però io ricordo che pure nella nostra
dignitosa condizione ho sempre pranzato e cenato con mio padre e mia madre, non uscivano mai di
sera, non sono mai rimasto solo, avevo delle possibilità di colloquio con i miei genitori che erano
numerose, anzi in effetti non solo di colloquio ma anche di scontro, infatti io sono, come
giustamente scrive Antonio Polito, della generazione del ’68 con tutti gli errori che abbiamo
compiuto. Tra l’altro qui siamo vicini a un’università, c’è tutto un vissuto che vi risparmio in questa
circostanza, ma è vero che avevamo delle abitudini completamente diverse: c’era un senso di
comunità, c’era una prossimità. A volte io vado alla mia chiesa, San Nazaro: prima questo era un
quartiere popolare d’immigrazione, straordinario per le sue comunità; adesso vedo che la società è
così cambiata che i giovani sono addirittura una rarità, anche per le ragioni socio-economiche che
sono state descritte.
Insomma, cos’è accaduto? Che sono cambiati i tempi e le modalità della famiglia, in questi anni c’è
stato secondo me un eccessivo individualismo, ci siamo preoccupati molto di noi stessi e poco degli
altri, la famiglia è stata messa a dura prova. Non soltanto, ma la famiglia è sempre stata, in questi
anni, il vaso di coccio delle nostre discussioni, e dobbiamo dirlo con molta sincerità: prima è venuto
l’egoismo della proiezione sociale del singolo individuo, non c’è stata la preoccupazione del ruolo
sociale della famiglia. Quindi da una parte c’è stata un’ipertrofia dell’individuo, dall’altra un
progressivo degrado delle famiglie e delle istituzioni insieme alle famiglie, e questo credo che sia
un tratto significativo della realtà che stiamo vivendo.
Io condivido le ragioni culturali che ha espresso all’inizio del suo libro Antonio Polito, siamo anche
figli della cultura e della filosofia del Novecento, e siamo stati disabituati dal benessere, che
effettivamente ha cambiato la qualità delle nostre relazioni umane ed interpersonali. Pensate all’idea
della differenza, che si è ampliata con il passare del tempo, nella cognizione di che cosa significa un
sacrificio rispetto ad un risultato: ci siamo disabituati a considerare che qualcosa che noi dobbiamo
conquistare comporta di per sé un sacrificio, un impegno, un tempo, una disposizione. Il benessere
ci ha disabituato a dare valore a quello che abbiamo, anzi ha introdotto secondo me un pericoloso
germe, l’idea che tutto sia assolutamente irreversibile, che non si possa tornare indietro, mentre
invece dovremmo voltarci perché se ci voltassimo e ci ricordassimo come era alta la nostra felicità
per il possesso di piccolissime cose nella normalità quotidiana, probabilmente riscopriremmo il
rapporto tra sacrificio e risultato. Per esempio, io sono convinto che la finanziarizzazione
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dell’economia, che ha depresso il lavoro come fondamento di una società, abbia molto disabituato i
cittadini all’idea che un guadagno deve essere proporzionato al sacrificio e allo studio, e la finanza
è, se volete, il trionfo dell’intermediazione pura, quindi di qualcosa che è legato allo status delle
persone che mettono in atto un determinato contratto o sono protagonisti di un determinato
programma o operazione finanziaria. Questo è uno degli aspetti che hanno indebolito eticamente la
società.
Si parla di “bamboccioni”, e al riguardo volevo condividere con voi un piccolo ricordo: la parola
“bamboccioni”, come sapete, è stata inventata da Tommaso Padoa-Schioppa che prima di diventare
ministro ha collaborato per lunghi anni con il Corriere della Sera. Discutemmo anche all’epoca se
non fosse stata una parola azzardata; lui naturalmente mi ricordò che il doge Dandolo aveva
conquistato Costantinopoli all’età di novant’anni, quindi lui avendone sessantacinque era
assolutamente autorizzato a proporre. Ma anche in quel caso aveva introdotto un certo sentimento,
cioè è vero che la nostra è una società nella quale gli anziani non vogliono cedere il passo ai
giovani, in cui prevale l’egoismo di una certa fascia d’età (pensate al problema pensionistico): ci
troviamo di fronte a fasce d’età che sono relativamente privilegiate rispetto a coloro che, entrando
in maniera precaria nel mercato del lavoro, non avranno diritto nemmeno ad una ombra di pensione
al termine della loro carriera lavorativa). Io non ero d’accordo con la sua definizione, la trovavo
persino ingenerosa e per certi versi insultante; lui mi fece riflettere su un aspetto, che in una società
nella quale c’è una dinamica positiva c’è comunque uno scontro tra una generazione e l’altra, quindi
lui diceva: «se volete il mio posto ve lo venite a prendere, io non ve lo cedo». Giusta anche questa
considerazione, che in parte dà ragione a quello che scrive Polito all’inizio del suo libro, quando
dice che la nostra è diventata una società di diritti acquisiti indisponibili e non contendibili. Da
questo punto di vista è chiaro che è un esempio assolutamente diseducativo, perché vuol dire che si
ha diritto ad una certa prestazione o ad un certo percorso, e questo confonde coloro che fanno parte
di corporazioni, delle tante “tribù” di questa società, per usare un termine che è stato appena
impiegato da un altro professore prestato alla politica; è chiaro che siccome noi ci troviamo in una
condizione nella quale siamo così schiacciati nella quotidianità, fatichiamo ad uscire e a
comprendere che tutto deve essere oggetto di conquista, deve comportare studio e fatica. A nessuno
può essere assicurato un pranzo gratis, nessuno si sentirà dire: «questo è il percorso perché ne hai
diritto». Il diritto al lavoro esiste nella nostra costituzione, ma non esiste il diritto al posto di lavoro;
è giusto che un paese s’impegni per trovare il massimo lavoro possibile; però questo comporta una
responsabilità personale.
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Io trovo che questo libro dica che ci siamo deresponsabilizzati: dipende da noi e certo anche dalla
società che ha molte colpe e molte ingiustizie, è diventata più diseguale e ingiusta, non c’è più un
ascensore sociale, i giovani sono schiacciati, anzi per certi versi sono inesistenti, guardate cosa sta
accadendo nella campagna elettorale di questi giorni: dei giovani non parla nessuno. Io vorrei che
faceste un discorso a tutti coloro che andranno a votare per la prima volta, cosa che di solito non
avviene. Trovo che il tema di fondo di questo libro sia riscoprire il percorso di responsabilità
personale.
Aggiungo un punto per dire dove non sono d’accordo con l’analisi di Polito, quando guarda alla
scuola e alla scarsa predisposizione del mondo scolastico ad accettare una valutazione, e anche per
il fatto che forse nelle nostre università è perdonato chi copia mentre in altre realtà educative il
copiare è qualcosa che non è accettato. C’è naturalmente una critica a tutto il mondo degli
insegnanti, sulla quale io sono in parte d’accordo, ma in parte non lo sono perché ritengo che,
riferendoci al discorso delle famiglie che facevamo prima, sia stata rovesciata negli anni sul corpo
insegnante tutta una serie di compiti che un tempo non appartenevano agli educatori; la famiglia ha
smesso di svolgere il proprio ruolo e ha chiamato indirettamente il mondo dell’educazione e degli
insegnanti a svolgere una sorta di “supplenza genitoriale”. Io trovo che questo sia ingiusto perché da
un certo momento è andato a colpire una categoria che, mentre è stata caricata di maggiori
responsabilità e svolge un ruolo ancora più centrale nella nostra società, paradossalmente ha perso
importanza nella scala della stima sociale, addirittura è scesa agli ultimi posti anziché salire come
sarebbe stato augurabile, e questo è uno dei temi che vorrei affrontare.
Dico un’altra cosa. Questo non è un libro severo con i nostri figli, anche se naturalmente induce ad
un comportamento più severo da parte dei genitori. Deve tener conto comunque di un paradosso
della nostra società che forse noi come giornalisti abbiamo indagato poco ‒ e da questo punto di
vista io devo ammettere le mie responsabilità di direttore ‒ perché abbiamo perso negli anni tanti
giovani, cioè la categoria di quelli sotto i 30 anni è una categoria che nell'insieme della popolazione
italiana è diventata sempre più piccola, mentre la categoria degli over 65 è diventata sempre più
grande, quindi teoricamente dovremmo avere più bisogno di questi giovani, mentre li trascuriamo e
li inseriamo nel mondo del lavoro troppo tardi. Non consideriamo, per esempio, che i giovani, a
differenza nostra, hanno una condizione sociale certamente privilegiata, di maggiore benessere,
come segnala nel proprio libro Polito. Però guardate cosa è accaduto nel mercato del lavoro: noi,
tutto sommato, avevamo davanti un mercato domestico e delle linee di evoluzione della nostra
carriera personale, universitaria e lavorativa piuttosto tracciate; i giovani di oggi hanno un mercato
globale di fronte, un mercato globale che è diventato estremamente competitivo. Noi avevamo un
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mercato domestico tutto sommato indulgente, familiare, con tutto quello che il termine “familiare”,
in questo caso non positivo, induce. Vivevamo in una società non multietnica, oggi abbiamo una
società multietnica: non è negativo questo fatto, ma certamente i nostri figli hanno anche la
concorrenza, che è una concorrenza normale, dei figli degli immigrati di prima generazione che,
come i figli degli immigrati interni della nostra società, hanno lo stimolo a competere e ad emergere
che avevano i figli degli immigrati interni degli anni Cinquanta e Sessanta. Quindi la condizione
competitiva del mercato del lavoro è profondamente cambiata e, nonostante il numero sia
relativamente ridotto, non riusciamo a dare una risposta ai nostri giovani, come se in qualche modo
fosse venuta meno la responsabilità di costruire il futuro.
Quindi quello che io temo di più è una sorta di “prepensionamento mentale” nel nostro paese, cioè
eravamo più preoccupati a costruire il futuro per i nostri figli, comportandoci in maniera diversa
negli anni Cinquanta e Sessanta, anche negli anni della guerra, anche negli anni più difficili, in cui
era difficile mettere insieme il pranzo con la cena, mentre oggi è come se in qualche modo si fosse
affievolito questo nostro dovere morale. Io lego questo anche alla perdita di peso della famiglia
nella nostra società e a un eccessivo individualismo ed edonismo e anche a questa idea che si possa
rimanere giovani per sempre rimandando qualche riflessione più responsabile a tempi futuri,
inseguendo a volte dei miti che la vita possa allungarsi anche al di là del secolo, ed è augurabile, ma
forse andrebbe fatta una riflessione, che non so se sia politicamente corretta, se valga investire
molto sull'ultima parte della vita, o se poi questo avviene non investendo sulla natalità e su quello
che avviene nella prima parte della vita, se questo non sia un egoismo insopportabile. Grazie.
JULIÁN CARRÓN: Ringrazio prima di tutto Antonio Polito per questo invito di cui mi sento
veramente onorato.
Il libro che presentiamo oggi (Contro i papà. Come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli, di
Antonio Polito) è un grido, una provocazione, una domanda: ma dove stiamo portando i nostri figli?
Tanti genitori si ritroveranno in questo interrogativo. È una domanda che in non pochi casi diventa
preoccupazione, e a volte angoscia, perché molti non sanno da che parte girarsi, dove guardare per
uscire dall’impasse in cui a volte si trovano. Questo è un segno palese della confusione che domina
il nostro tempo, in cui pure abbiamo visto nascere, crescere, svilupparsi tante cose belle, tante
conquiste della scienza, ma alla cosa più cara, i nostri figli, non sappiamo offrire qualcosa di
veramente significativo affinché possano orientarsi in mezzo alla confusione in cui si trovano a
vivere.
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Siamo davanti al libro di un osservatore acuto, che coglie la sfida più grande che la società si trova
ad affrontare, cioè la sfida educativa, rispetto alla quale le altre, quella economica, sociale e politica,
non sono che conseguenze.
Ma Antonio non identifica solo la sfida, ma anche l’origine di essa: i padri. O, più genericamente,
gli adulti − siano essi padri, educatori, maestri o preti − che non sono stati in grado di offrire
un’ipotesi di risposta all’altezza del bisogno dei figli. L’Autore pone la questione in modo
tranchant fin dalle prime pagine del libro: «Chi di noi padri […] può negare a se stesso la verità, e
cioè che tutto intorno a noi ci dice che è l’educazione (intesa in un senso molto più ampio della
semplice istruzione) il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e, al suo interno, dei nostri
ragazzi? E allora perché abbiamo completamente abdicato alla nostra funzione educativa per
trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli?» (p. 16). Questa è la sfida.
Come si documenta questa abdicazione dei padri alla loro funzione educativa? Sostanzialmente in
due modi.
1) I genitori hanno voluto risparmiare ad ogni costo ai loro figli la fatica del vivere. «Invece che
fare i genitori, ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti dei nostri figli, sempre pronti a
batterci affinché venga loro spianata la strada verso il nulla [parole forti], perché non c’è meta
ambiziosa la cui strada non sia impervia. È un grande fenomeno culturale, e sempre più è un tratto
del carattere nazionale […]. Ed è un grande fattore di freno alla crescita non solo economica ma
anche psicologica della nazione» (p. 21).
Cioè, invece di lanciarli verso una meta ambiziosa corrispondente al loro bisogno, al loro cuore,
anche se la strada è impervia, abbiamo preferito spianare loro la strada perché non dovessero
impegnarsi troppo, per evitare la fatica della salita. Invece dello Stay hungry, Stay foolish (restate
affamati, restate folli) di Steve Jobs, nel suo famoso discorso all’Università di Standford, abbiamo
preferito il «restate sazi, restate conformisti» (p. 12).
«La colpa è nostra. I veri bamboccioni siamo noi» (p. 23), scrive Polito. Abbiamo perseguito un
modello sociale tutto teso a rendere facile la vita ai nostri ragazzi, senza accorgerci che così, in
nome dei nostri figli, li abbiamo rovinati. «Affamati non vogliamo che siano nemmeno per un
istante. Abbiamo anzi costruito le nostre vite e la nostra società in funzione del loro nutrimento.
[…] In funzione della protezione dei figli dal bisogno, con conseguenze sociali rilevanti e non
sempre positive» (pp. 12-13).
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Si è vissuto «un malinteso senso di protezione verso i nostri figli; malinteso perché in realtà tradisce
una sfiducia collettiva nei loro mezzi, la paura di lasciarli nuotare con le loro forze il prima
possibile. E questa sfiducia loro la sentono, e ne deprime l’autostima» (p. 20). Mi sembrano
affermazioni acutissime di come noi, facendo così, diamo un giudizio sulle loro capacità, sulle loro
possibilità di essere se stessi, di crescere, di svilupparsi. Non lo diciamo così esplicitamente, ma
loro colgono comunque questo giudizio.
In terzo luogo, abbiamo praticato un malefico paternalismo. «Società della pantofola», la chiama
Antonio, tutta protesa a preservare i giovani da ogni sforzo.
Mi colpisce la sintonia con quanto diceva don Giussani nel 1992, in una intervista al Corriere della
Sera: «Mi spaventa […] l’Italia. […] È una situazione civile dove non c’è un ideale adeguato, dove
non c’è nulla che ecceda l’aspetto utilitaristico. Un utilitarismo perseguito senza alcun punto di fuga
ideale. Questo non può durare. Il timore è che si scatenino conflitti senza fine. […] Perché è
successo tutto questo? Lei lo può dire dopo aver visto crescere tante generazioni. Qual è stato il
fattore scatenante di una simile caduta, di un simile peggioramento? A tutte queste generazioni di
uomini non è stato proposto niente. Eccetto una cosa: l’apprensione utilitaristica dei padri. Sta
parlando del dio denaro? Il dio denaro o una sicurezza di vita agiata, di vita senza rischi. E fatta
solamente di cose, senza rischio alcuno. […] Chissà se questo desiderio di rendere meno difficile la
vita dei propri figli, o di un dato gruppo di persone, sfondi a un certo punto l’orizzonte. Cioè, se chi
ha questo desiderio capisca che, per poterlo realizzare, ha bisogno di un ideale, di una speranza».2
I padri pensavano che, risparmiando loro lo sforzo e proteggendoli dal bisogno, stavano facendo il
bene dei figli, quando in realtà stavano spianando loro la strada verso il nulla.
Quando questa mentalità vince, il risultato è quello di cui parlava Pietro Citati in un articolo apparso
qualche anno fa su la Repubblica e dedicato alla generazione dei giovani d’oggi, dal titolo «Gli
eterni adolescenti», in cui faceva un ritratto quasi spietato del risultato che produce la vittoria di
questa mentalità. Scriveva Citati: «Un tempo, si diventava adulti prestissimo. Oggi c’è una continua
corsa all’immaturità. Un tempo, […] a tutti i costi, un ragazzo diventava maturo. […] Conquistare
la maturità era una rinuncia […]. [Oggi i giovani] non sanno chi sono. Forse non vogliono saperlo:
si chiedono sempre quale sia il loro io, […] amano […] l’indecisione! Non dire mai sì e mai no:
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L. Giussani, «Don Giussani: il potere egoista odia il popolo», intervista a cura di Gianluigi Da Rold, Corriere della Sera, 18 ottobre
1992; ora in: L. Giussani, L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, pp. 214-219.
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sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà mai. […] Non hanno volontà: non
desiderano agire […]. Preferiscono restare passivi. […] Vivono avvolti in un misterioso torpore.
Non amano il tempo. L’unico loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una catena
o organizzati in una storia».3
A questo articolo aveva fatto seguito una risposta di Eugenio Scalfari, il quale sosteneva: «La ferita
[in questi giovani] è stata la perdita dell’identità e della memoria» forse perché qualcuno aveva tolto
questa identità. È singolare: prima fanno di tutto per fare perdere loro l’identità e poi si lamentano
del fatto che hanno perso l’identità. «La ferita è stata il silenzio dei padri troppo impegnati nella
conquista del successo e del potere. […] La ferita è stata la noia, l’invincibile noia, la noia
esistenziale che ha ucciso il tempo e la storia, le passioni e le speranze. […] Non vedo quella
profonda melanconia che c’è nei giovani volti del Rinascimento dipinti dal Lotto e dal Tiziano. […]
Io vedo occhi stupefatti, estatici, storditi, fuggitivi, avidi senza desiderio, solitari in mezzo alla folla
che li contiene. Io vedo occhi disperati. […] Eterni bambini. […] La loro salvezza sta soltanto nei
loro cuori. Noi possiamo soltanto guardarli con amore e trepidazione».4
Oggi ci troviamo di fronte a una profonda crisi dell’umano, che si può riassumere in questo torpore
misterioso, in questa invincibile noia, in questo venir meno dell’umano in cui tante volte ci
troviamo quando la mentalità denunciata nel libro stravince.
Questa profonda crisi dell’umano si documenta nella passività di tanti giovani, che sembrano quasi
incapaci di interessarsi a qualcosa di veramente significativo, o nello scetticismo di tanti
adulti che non mettono davanti a loro qualcosa per cui valga la pena muoversi per uscire da questa
situazione. È come se non trovassero degli interessi con cui valesse la pena di coinvolgere fino in
fondo la propria umanità. Sembra che niente sia in grado di interessare i giovani fino al punto di
metterli in movimento, e allora «l’impegno verso lo studio diviene minimo, e la noia massima».5
Ma proprio facendo così, i genitori hanno commesso un errore madornale. Dov’è stato ed è
l’errore? Nella confusione sulla natura del cuore dell’uomo. Pensiamo di risolvere noi il problema
dei ragazzi, invece di sfidarli sulla loro natura. Quella natura originale, che Leopardi documenta in
modo insuperabile:
«Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera;
considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e
3
P. Citati, «Gli eterni adolescenti», la Repubblica, 2 agosto 1999, p. 1.
E. Scalfari, «Quel vuoto di plastica che soffoca i giovani», la Repubblica, 5 agosto 1999, p. 1.
5
M. Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca, Castel Bolognese 2005, p. 8.
4
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trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei
mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più
grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire
mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga
della natura umana».6
A questa natura dell’uomo – che è la natura dei nostri giovani, e la nostra – non si può rispondere
soltanto con una proposta facilona che non è in grado di interessare e di risvegliare tutta la capacità
dell’io.
2) Questo ci porta al secondo errore denunciato da Antonio Polito, che è riuscito così a identificare
l’altra radice dell’impostazione educativa che critica nel suo libro, e su questo mi trova molto
d’accordo: l’origine dei problemi è soprattutto culturale. E qual è l’errore?
Quello che «ha fatto di noi dei pessimi genitori è il pensiero del Novecento. La cui grande scoperta
è stata l’individuazione di forze superumane, fossero esse psichiche, sociali o biologiche, capaci di
togliere dalle spalle dell’uomo la responsabilità delle proprie azioni. Grandi filosofie consolatorie.
Come il sistema di pensiero scaturito da Freud, nel quale l’Io razionale e consapevole, la sede della
responsabilità individuale, diventa un povero derelitto in balìa di forze più grandi di lui, [gettando]
“le basi per una riduzione dell’etica alla psicologia”. (Valeria Egidi Morpurgo). […] Oppure
filosofie come il marxismo, che trasportano sul piano sociale lo stesso meccanismo a responsabilità
zero. Ricordate uno dei più celebri assunti? È l’essere sociale che determina la coscienza, non il
contrario. Dunque la nostra coscienza è solo un’ancella, che va dove la porta il conflitto di classe. E
la liberazione dell’uomo non può che essere il risultato di un processo collettivo che si svolge sopra
di noi […]. Ogni responsabilità individuale è finita, tutto è trasferito a processi e movimenti
collettivi. Scrive l’antropologo Robert Ardrey nel suo The Social Contract: “Una filosofia che per
decenni ci ha indotto a credere che le colpe dell’uomo devono sempre caricarsi sulle spalle di
qualcun’altro; che la responsabilità di comportamenti dannosi alla società devono sempre attribuirsi
alla società stessa; che gli esseri umani nascono non solo perfettibili ma anche identici, per cui
qualsiasi grave conflitto tra di loro va addebitato alla gravità delle condizioni ambientali…”. […] E
infine il darwinismo. […] Che spiega tutti i comportamenti umani come conseguenze inevitabili
della storia evolutiva della specie, e non come scelte più o meno consapevoli degli individui. Paura
e coraggio, egoismo e altruismo, pigrizia e intraprendenza: niente di ciò che siamo si può più far
6
G. Leopardi, «Pensieri» LXVIII, Poesie e prose, Mondadori, Milano 1980, vol. 2, p. 321.
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risalire all’educazione che abbiamo ricevuto, all’esempio che ci è stato offerto, alla cultura in cui
abbiamo vissuto. Ma tutto è Natura, tutto ci deriva dai nostri antenati e dagli istinti che si
svilupparono nella lotta per la sopravvivenza del più forte» (pp. 26-28).
Non so se capiamo la portata di questo errore: l’uomo, ridotto ai suoi antecedenti biologici e
sociologici, diventa un pupazzo, una marionetta in mano alle «forze superumane»; per cui l’io non
c’è più, l’io è come un sasso travolto dal torrente di queste forze. L’«io» come realtà personale,
autonoma, con capacità di libertà, in grado di porsi come soggetto nella storia e nelle circostanze
non c’è più, perché tutto è scaricato su antecedenti di ogni tipo, psichici, sociali o biologici. Polito
lo chiama l’oppio della deresponsabilizzazione. Non essendoci l’io, non essendoci la libertà perché
tutto è determinato da questi fattori, quale responsabilità è possibile davanti alle sfide?
La conseguenza di questa mentalità è una certa concezione dell’uomo: «Rousseau definì il bambino
“un perfetto idiota”. E nel 1890 William James descrisse la vita mentale di un neonato come “una
grande, dannata, ronzante confusione”. È a causa di questa presunzione che, convinti di essere in
presenza di simpatici “idioti”, parliamo e agiamo davanti a loro come se non ne fossimo ascoltati, e
compresi, e giudicati. Non so voi, ma a me invece non è mai riuscito di stare in una stanza con uno
dei miei figli fin dall’età di sette-otto mesi senza avvertire distintamente addosso a me i suoi cinque
sensi spalancati; senza provare l’inquietante sensazione che dentro quei corpi ancora incapaci di
muoversi e di nutrirsi con le loro forze ronzassero perfettamente oliati dei cervelli già funzionanti»
(p. 67). Eppure, malgrado tutta la riduzione operata dal pensiero del Novecento, l’esperienza
elementare del rapporto con i nostri figli impedisce questa riduzione. Come se avessimo la
percezione, perfino sensibile, di come non li possiamo ridurre a quello a cui di solito li riduciamo,
cioè ai nostri pensieri.
Continua Polito: «Voi capite bene che se così fosse, allora il nostro comportamento di genitori
sarebbe radicalmente sbagliato, e dovrebbe radicalmente cambiare [perché se i ragazzi hanno
cervelli funzionanti, qualche cosa deve cambiare]. Non più “povero bimbo, è troppo piccolo per
capire” […]. Il bambino capisce, comprende che c’è una cosa giusta e una sbagliata» (p. 68).
Provate a commettere una ingiustizia nei suoi confronti e vedrete se capisce! Provate a trattarlo nel
modo sbagliato e vedrete se capisce! Altro che ridotto ai fattori antecedenti di tipo biologico,
psicologico, eccetera! Se invece di questo riconoscimento della loro originalità, del fatto che hanno
cervelli funzionanti, prevale il dominio di questa mentalità, questo annullamento dell’io, si lascia
campo libero a quelli che Polito chiama i “cattivi maestri”, che non trovano così alcuna resistenza:
«Ci sono in giro altri adulti che fanno danni non minori dei padri. Nel senso che li arrecano a
un’intera generazione di figli. Sono i cattivi maestri, intesi nel senso letterale e non metaforico del
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termine: gente che cioè insegna male, cose sbagliate, metodi approssimativi, idee perniciose. È il
folto gruppo di quei reduci del Sessantotto i quali, invece che in politica o in azienda, hanno
ottenuto il loro successo nell’accademia o nella comunicazione, e che oggi dagli schermi televisivi,
dalle edicole o dalle librerie disegnano davanti agli occhi dei nostri giovani il mondo come è e come
sarà. È attraverso le loro parole e le loro immagini che i nostri figli apprendono a sperare o a
disperare. Perciò il ruolo di questi padri-guru può essere anche più importante di quello dei padri
biologici» (pp. 131-133).
Antonio giunge a un’amara conclusione: «Siamo la prima generazione di padri nella storia ad aver
elaborato una complessa e altamente egoistica strategia di sopravvivenza attraverso la captatio
benevolentiae dei nostri figli. Fingiamo di farlo per il loro bene, ma in realtà lo facciamo per il
nostro» (p. 143). E aggiunge: «La nostra società è dunque invecchiata nelle speranze e nelle
aspettative, prima ancora che nell’età anagrafica» (p. 144).
Riducendo l’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici o sociologici, abbiamo tolto all’uomo e
ai ragazzi la loro dignità, e questo lo esprimiamo nel modo di guardarli, questo giudizio lo leggono
nel modo in cui li trattiamo, molto di più di quanto ce ne rendiamo conto. Ma basta un minimo di
rapporto con loro perché scopriamo che l’io c’è. E che c’è nell’io qualcosa di irriducibile a questi
fattori: don Giussani la chiamava «esperienza elementare», una esigenza di verità, di bellezza e di
giustizia, di felicità, di pienezza, che è il nocciolo dell’io. E per questo i giovani capiscono,
capiscono benissimo, non devono frequentare un corso per vedere quando è ingiusta una modalità
di trattarli o quando non vogliamo loro bene o quando non diamo loro tempo. Togliere loro il
criterio di giudizio è togliere loro la dignità, perché è come dire: «Tu sei scemo, ti spiego io come
stanno le cose!». Ma loro capiscono benissimo che non è così, proprio perché hanno dentro di sé
una esperienza elementare, che si esprime come esigenza di verità, di bellezza e di giustizia, per cui
non devono andare ad Harvard a fare un corso sulla giustizia per sapere quando sono trattati
ingiustamente! Provate a farlo! Perché i nostri figli, i nostri ragazzi sono spietati su questo. Noi
siamo dei dilettanti rispetto alla chiarezza del giudizio che hanno loro sulle cose. Ma noi pensiamo
che siano scemi. Invece che differenza, che diversità quando li trattiamo per quello che sono! Ma,
come dice il Papa, è successo [in molte persone molto capaci] uno «strano oscuramento del
pensiero»,7 quello che è elementare non lo vediamo più. E con questo oscuramento del pensiero
riduciamo la loro dignità, la loro capacità di essere, il loro io con tutta la sua possibilità di evolvere
7
Benedetto XVI, Luce del Mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, LEV, Città del
Vaticano 2010, p. 47.
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e restringiamo allo stesso tempo il nostro concetto di amore, che non è soltanto cortesia e
gentilezza, ma è amore nella verità.
Se la situazione è questa, da dove ripartire? Dal «punto infiammato [dell’animo], il locus di tutta la
mia coscienza»8, di cui parlava Cesare Pavese. Da quei cervelli funzionanti, da quel cuore che non
può essere ridotto ai fattori antecedenti, il cuore con le sue esigenze e con le sue attese. È questa
attesa che deve trovare una risposta adeguata. È intorno a questo punto infiammato che può ruotare
una proposta veramente corrispondente all’umano. Ma questo punto infiammato (come abbiamo
visto in tante occasioni) è sepolto da un torpore, da una noia: non trovando chi sfida i giovani con
un rapporto all’altezza della loro esigenza (che spesso si cerca di coprire con tante distrazioni), quel
punto rimane sepolto.
La questione, allora, è chi è in grado di risvegliare il punto infiammato, l’io dei giovani; ma anche
quello degli adulti. Questa è la sfida che abbiamo tutti davanti, la nostra generazione e le istituzione:
la scuola, la famiglia, la Chiesa, i partiti, gli imprenditori, tutti.
Per risvegliare l’io dal suo torpore, dalla noia che sembra invincibile, non basta una lezione o
soltanto un richiamo etico (che può essere utile), una predica; occorre un adulto che con la sua vita
sia in grado di fare interessare il giovane alla sua esistenza, al suo destino. Ma è difficile trovare
adulti che non siano scettici; quante volte mi trovo a dialogare con ragazzi in università i cui
genitori, davanti al loro impeto ideale, dicono: «No, la vita ti sistemerà pian piano».
È per questo che solo un testimone (diceva Paolo VI che abbiamo più bisogno di testimoni che di
maestri), per cui chi lo incontra non possa sottrarsi al suo fascino, alla sfida che la sua presenza
introduce nella vita, può risvegliare questo punto infiammato, questa esigenza nascosta. Uno che
incarni un modo di vita in grado di attrarre il cuore, di sfidare la ragione, di mettere in moto la
libertà. Insomma, occorre una proposta vivente.
Un testimone o, con una parola che oggi non è politicamente corretto usare, ma se la svuotiamo
delle connotazioni con cui a volte la percepiamo e se la diciamo nel suo senso originale risulta
decisiva, un’autorità, cioè qualcuno che mi fa crescere, che mi genera con la sua presenza. Occorre
una autorità, una presenza che sfidi il «punto infiammato» per lanciarmi verso quella «meta
impervia» a cui io, per la mia struttura umana, sono chiamato.
Scriveva don Giussani: «L’esperienza dell’autorità sorge in noi come incontro con una persona
ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice, ci genera novità,
8
C. Pavese, «A Rosa Calzecchi Onesti», 14 giugno [1949], Lettere 1926-1950, Einaudi, Torino 1968, vol. 2, p. 655.
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stupore, rispetto. C’è in essa un’attrattiva inevitabile, e in noi una inevitabile soggezione.
L’esperienza dell’autorità richiama infatti l’esperienza, più o meno chiara, della nostra indigenza e
del nostro limite. Ciò porta a seguirla e a farci suoi “discepoli”. […] Per rispondere in modo
adeguato alle esigenze educative [che oggi dobbiamo affrontare] dell’adolescenza non basta
proporre con chiarezza un significato delle cose, né basta una intensità di reale autorità in chi lo
propone. Occorre [allo stesso tempo] suscitare [nei giovani] nell’adolescente [quel] personale
impegno con la propria origine; [con loro stessi, perché senza questo non saranno loro stessi; e per
questo non si può evitare la fatica]; occorre che l’offerta tradizionale sia verificata; e ciò può essere
fatto solo dall’iniziativa del ragazzo e da nessun altro per lui. [Proposta di una ipotesi di significato
da sottomettere alla verifica dei figli, della sua pertinenza alla vita, della sua capacità di rispondere
alle sfide della vita. Senza questa educazione alla verifica di una proposta, non diventerà mai loro e
quindi correranno il rischio di perdersi] La vera educazione deve essere un’educazione alla critica».
La critica è il paragone di quello che ci viene proposto con i desideri del suo cuore: «Il criterio
ultimo del giudizio, infatti, è in noi, altrimenti siamo alienati. E il criterio ultimo, che è in ciascuno
di noi, è identico: è esigenza di vero, di bello, di buono. […] Abbiamo avuto troppa paura di questa
critica»,9 di questa verifica, non abbiamo rischiato per poter generare un soggetto autonomo.
Continuava don Giussani: «Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i
fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l’educando agisca sempre più da sé, e
sempre più da sé affronti l’ambiente [le circostanze]. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre
più a contatto con tutti i fattori dell’ambiente, dall’altro lasciargli sempre più la responsabilità della
scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace
di “far da sé” di fronte a tutto. Il metodo educativo di guidare l’adolescente all’incontro personale e
sempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il
ragazzo si fa adulto [altrimenti il risultato sarà che non cresce]. L’equilibrio dell’educatore svela qui
la sua definitiva importanza. L’evolversi infatti dell’autonomia del ragazzo rappresenta per
l’intelligenza e il cuore − e anche per l’amor proprio − dell’educatore un “rischio”. D’altra parte è
proprio dal rischio del confronto che si genera nel giovane una sua personalità nel rapporto con tutte
le cose; la sua libertà cioè “diviene”. […] L’esperienza deve farla il giovane stesso, perché questo
rappresenta l’avverarsi della sua libertà. E questo amore alla libertà fin nel rischio è soprattutto una
direttiva che l’educazione deve tenere presente. […] Una educazione che accetti con vigilanza il
9
L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 83, 87, 17-18.
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rischio della libertà dell’adolescente è reale sorgente di fedeltà e di devozione cosciente all’ipotesi
proposta e a chi la propone. La figura del “maestro”, proprio per questa discrezione e rispetto, in un
certo vero senso si ritira dietro la figura dominatrice della Verità Unica cui si ispira; il suo
insegnamento e la sua direttiva diventano dono di testimonianza, e proprio per questo si iscrive
nella memoria del discepolo con una simpatia acuta e sincera, indipendente − nel suo livello più
profondo − dalle stesse sue doti. Per cui abbiamo una gratitudine e un legame ineliminabile al
maestro, e pure una convinzione indipendentemente da esso».10
Il processo educativo non ha come scopo quello di “convincere” l’altro di ciò in cui crediamo noi −
questo sarebbe un plagio −, perché al centro ci sono due libertà in rapporto tra di loro. La libertà si
muove a causa dell’attrattiva del reale, perché il cuore dell’uomo è assetato della verità; ciascuno
cerca ciò che corrisponde alle sue esigenze originali di bene, di bellezza, di verità, di giustizia, di
felicità, che sono destate da tutto ciò che accade. L’educazione è, perciò, un invito alla libertà
dell’uomo, per iniziare un cammino alla scoperta della verità delle cose. Se questo non accade,
l’affezione, che pure le cose destano, prima o poi viene meno, e la noia vince, perché solo il vero ha
la forza per permanere nel tempo. La dinamica della libertà non è arbitraria, non è un fare ciò che
pare e piace, perché un uomo è veramente libero quando riconosce e aderisce al significato della
realtà; senza un significato, infatti, mancherebbe la ragione adeguata per vivere.
L’educazione è una grande sfida per il cuore dell’uomo, senza di essa è impossibile lo sviluppo
della persona, come ragione e libertà. Tanto è vero che quando i giovani sono sfidati nella loro
ragione e libertà, si dimostrano entusiasti di partecipare a questa avventura; il problema è che,
purtroppo, non trovano molti adulti che li sfidino e per questo decadono.
Vorrei terminare con un testo di Rabindranath Tagore, che dice tutto l’amore che un padre deve
avere; quando questo amore c’è, la persona lo riconosce perché gli lascia lo spazio per crescere: «In
questo mondo coloro che m’amano / cercano con tutti i mezzi / di tenermi avvinto a loro. / Il tuo
amore è più grande del loro, / eppure mi lasci libero».11
È solo l’amore che rende liberi e che lascia spazio alla libertà, per crescere. Questa è sfida che noi
adulti abbiamo il compito di accettare nei confronti dei giovani.
10
11
Ibidem, pp. 103-105, 107.
R. Tagore, «In questo mondo...», in Ghitangioli, Guanda, Milano 1976, p. 167.
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L.BARDAZZI: Concludo non aggiungendo altro a questi tre bellissimi interventi. Vi chiedo solo la
pazienza di ascoltare una frase con cui la genialità di Péguy descrive il dramma del buon padre e
quindi di Dio nei confronti della sua creatura: «Quante volte, quando penano tanto nelle loro prove,
ho voglia, sono tentato di mettere loro la mano sotto la pancia, come un padre che insegna a suo
figlio a nuotare nella corrente del fiume e che è diviso tra due sentimenti perché da un lato se lo
sostiene sempre e lo sostiene troppo il bambino si attaccherà e non imparerà mai a nuotare ma
anche se non lo sostiene al momento giusto questo bambino berrà un sorso cattivo, così sono io
quando insegno loro a nuotare nelle loro prove anch’io sono diviso tra questi due sentimenti, se lo
sostengo troppo non è più libero e se non lo sostengo abbastanza va giù, se lo sostengo troppo
espongo la sua libertà, se non lo sostengo abbastanza espongo la sua salvezza: due beni, in un certo
senso quasi ugualmente preziosi, perché questa salvezza ha un prezzo infinito; ma che cosa sarebbe
una salvezza che non fosse libera? Come sarebbe qualificata? Noi vogliamo che questa salvezza
l’acquisti da solo»12. Auguriamoci una briciola di questa esperienza, di vivere il fascino di questo
rischio. Ringrazio i nostri ospiti, ringrazio voi dell’attenzione e vi auguro una buona serata.
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C. Péguy, I Misteri, Jaca Book, Milano, 2010.
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