Blackout, l`impossibile sogno dei dittatori

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Blackout, l`impossibile sogno dei dittatori
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Blackout, l’impossibile sogno dei dittatori
di Alessandro Bottoni
L’
ultimo atto di tutti i dittatori nordafricani prima della loro caduta è
stato un blackout pressoché totale di Internet. Nel disperato tentativo di nascondere i loro
crimini e di impedire ai rivoltosi di
organizzarsi su larga scala, questi
criminali non hanno esitato a tagliare i cavi della loro più importante risorsa. Sarà questo anche il
destino dell’Italia, in coincidenza
della (ri)apertura dei numerosi processi a carico di Silvio Berlusconi e
dei suoi complici? Cosa succederà
in occasione delle varie manifestazioni antigovernative previste tra
fine febbraio e metà marzo? Anche
l’Italia andrà a fuoco mentre le tv
del “cavaliere” trasmettono musica
classica a reti unificate?
In realtà, “tagliare i cavi” di Internet è quasi impossibile, soprattutto in un paese come il nostro. Per
ragioni di costo, sugli stessi cavi
usati dai “dissidenti” passano anche le comunicazioni della polizia,
dell’esercito, delle banche, degli
ospedali e del governo stesso. Al
massimo si possono tagliare selettivamente alcune comunicazioni, ad
esempio quelle dirette a Facebook,
a Google, a Twitter ed ai server di
posta elettronica. Il risultato finale
è un blackout che all’utente finale
può sembrare totale e senza speranza ma che in realtà è molto più
parziale di quello che sembra. Le
comunicazioni utente-utente (P2P
e VPN) e quelle utente-sito-webnazionale (come Virgilio) restano
funzionanti in questi casi. Persino
ottenere questo risultato parziale è comunque molto difficile: il
ramo italiano di Internet dipende
da dozzine di diverse aziende e diverse istituzioni, alcune delle quali
sovranazionali, che operano sulla
base di contratti e trattati che non
possono essere disattesi con facilità. Non esiste un “Panic Button”
da spingere per spegnere la Rete.
Durante la rivolta in Egitto, Mubarack ha messo in atto un blackout
quasi totale e subito due associazioni di “hacktivist” francesi, Telecomix e France data Network,
hanno messo a disposizione dei
netizen nordafricani dei “punti
di accesso” ad Internet basati sulla vecchia tecnologia dei modem
analogici (quelli di voi che hanno
una connessione ad Internet da
lungo tempo ricordano sicuramente i vecchi modem US Robotics e
la configurazione della connessione via PPP). Questo ha costretto
Mubarack a tagliare anche le linee
telefoniche, sia mobili che fisse,
precipitando l’intero paese in un
blackout medievale e dagli effetti
devastanti che ha reso impossibili
anche le comunicazioni dei fedeli
dello stesso Mubarack. Un suicidio
tecnologico e politico i cui effetti
sono ormai evidenti.
Quando Gheddafi ha tentato di
fare la stessa cosa in Libia, gli hacktivist erano già pronti e Gheddafi
è stato costretto da subito a suicidarsi nello stesso modo. La lezione è quindi molto chiara: non c’è
modo di impedire ai rivoltosi di comunicare tra loro se il “governo”
non rinuncia esso stesso a comunicare con i suoi sostenitori. Le uniche reti che possono sopravvivere
ad un’azione così drastica sono
quelle usate dai militari e, si è già
visto, i militari non sono sempre
dalla parte del tiranno di turno.
In Italia, come in tutto l’Occidente industrializzato, la situazione è
ancora più complicata. Noi facciamo da sempre un ampio uso
di tecnologie P2P (eMule, Freenet
e Diaspora per esempio) che possono sopravvivere anche a forme
molto pesanti di sabotaggio della
rete. Fintanto che resta in vita la
rete telefonica e continuano a funzionare i router, non c’è modo di
impedire queste forme di comunicazione. Non solo: noi abbiamo una consolidata tradizione di
BBS (Bullettin Board System) che
possono continuare a funzionare
anche in assenza di Internet, appoggiandosi alla sola rete telefonica. La diffusione delle reti wi-fi
rende anche possibile l’uso di reti
mesh completamente indipendenti
da Internet e quindi irrintracciabili
e non censurabili, come Netsukuku. Tutto questo senza contare le
connessioni satellitari e quelle “packet radio” che, anche se rare, pur
esistono. Insomma, una eventuale
azione di censura governativa troverebbe pane per i suoi denti.
E, naturalmente, là fuori c’è sempre Wikileaks in paziente attesa
con i suoi oltre 3000 mirror...
Quando le “app” ti spiano
di Angelo Greco
T
utti ci siamo imbattuti in applicazioni
gratuite scaricabarili sul telefonino,
il pc o l’iPad. Magari sono
anche perfette, funzionali,
estremamente utili o divertenti. Alcuni, senza chiedersi
il perché di tanta benevolenza, le hanno installate, non
pensando al conto che, anche
indiretto, sarebbe stato prima
o poi presentato.
Bene, il conto si chiama “tracking on line”. Di che si tratta? Il “tracking” è come una
microspia nel telefono, un
occhio segreto che lavora 24
ore su 24, nascosto in queste
applicazioni. Così, chi le scarica, invia involontariamente
un flusso continuo di informazioni sul proprio conto al
“controllore”, il quale poi le
rivende a terzi per fini commerciali. Come una sorta di
sondaggio incosciente. Con
la differenza che, poi, per una
vita, avremo accanto quelli
che cercano di venderci la
cassettina del pronto soccorso e i cerotti.
Questo principio – che nes-
suno fa nulla per nulla – è
stato finalmente capito dai
consumatori di materiale Apple. E di qui la class action
appena intentata contro la
casa di Cupertino ed alcuni
sviluppatori di software per
Android.
Il primo allarme è apparso lo
scorso 17 dicembre sul Wall
Street Journal. E diciamola
tutta: non ci voleva una laurea per capirlo. L’accusa sarebbe quella di un business di
oltre trentacinque miliardi di
dollari (una cifra da capogiro)
volto a violare la privacy dei
cittadini e a divulgare le loro
informazioni personali (come
l’id, il numero di telefono, la
localizzazione del telefono, il
sesso, l’età, i gradimenti) senza chiederne il consenso.
Nel mirino ci sarebbero, tra
gli altri, TextPlus (popolare
applicazione iPhone per inviare messaggi gratis), Pandora (applicazione per l’ascolto
di musica per Android e
iPhone), il gioco PaperToss,
il social network per iPhone
dedicato alla comunità gay
Grindr. The Weather Chan-
nel, Dictionary.com. E chissà
quanti altri ancora si nascondo negli Store virtuali.
Siamo stati tutti vittime incoscienti di questo sistema a
vantaggio delle società pubblicitarie e lo abbiamo avallato noi stessi, considerando i
due piatti della bilancia: meglio “avere” qualcosa subito
a fronte di un “dare” futuro
e invisibile, avranno pensato
gli utenti.
Gli orsi si acchiappano col
miele. E “gratis” (“free” per
gli inglesi) è la parola magica. Altan una volta ha scritto:
“Non sarà che tutti muoiono
perché è gratis”?
Apple e Google hanno minimizzato, dichiarando che
si è trattato di una svista. Dichiarazioni ridicole se si tiene
conto che ben 45 delle 101
applicazioni prese in esame
sono risultate ree. La pubblicità, hanno inoltre chiarito i
due colossi, non ha arricchito le loro casse, bensì altre
aziende.
Se questa pubblicità è l’anima del commercio, questo
commercio andrà all’inferno.
Persone,
non numeri
di Athos Gualazzi
Se c’era bisogno di una conferma dell’importanza della
cultura e del web, le rivolte
nel Maghreb la sanciscono
inconfutabilmente. La cultura
è ovviamente alla radice della
libertà, se non conosci le alternative non puoi scegliere
e quindi avere disponibili le
informazioni è indispensabile
per operare una scelta qualsiasi, giusta o sbagliata che sia,
se non hai alcuna informazioni
una scelta equivale a giocare a
“testa o croce”, ti può andar
bene come male e in questo
caso non ne sei responsabile.
Avere informazioni e operare
delle scelte equivale anche ad
una assunzione di responsabilità, equivale ad essere liberi
ed esseri umani, non numeri
statistici. I giovani, nostri
dirimpettai, l’hanno capito e
una volta avute le informazioni
hanno operato delle scelte e
hanno potuto farlo grazie al
web. Al di là del ruolo diretto
della tecnologia, Internet e le
informazioni, in questi movimenti c’è la trasformazione
antropologica e sociale che li
rendono possibili. Nuovi tipi di
cittadini sono nati e cresciuti in
grado di valutare i governanti
M
entre si parla di compravendita di parlamentari a
prezzi scandalosi,
che permetterebbero
d’amblé l’acquisto di un appartamento,
a Roma
invece impazza la crisi abitativa. Soluzioni nell’immediato non se ne vedono
e così ci si ingegna. Come in zona
Tufello, ad esempio, dove sono stati
occupati i vecchi uffici municipali di via
Monte Meta.
e i loro inganni grazie alla possibilità di condivisione e diffusione delle informazioni, alla
possibilità di confronto fra loro
stessi fuori dagli schemi governativi/televisivi. Grazie alla
rete hanno potuto coordinarsi
al di la di confini geografici e
culturali, avviare la rivolta, rivolta che una volta avviata per
inerzia e motivazioni profonde
può anche fare a meno della
Rete stessa, la consapevolezza
acquisita e l’evidenza delle
storture alimentano da sole la
volontà comune.
Hanno spento la rete ma non
hanno potuto cancellare quello
che la Rete aveva costruito. Gli
sviluppi non sono prevedibili
così come la democrazia non
è una situazione statica ma in
continua evoluzione, a volte
negative, come la fase che stiamo attraversando nel nostro
paese, ma con l’eliminazione
dei confini e lo scambio permanente di idee, valori e informazioni è giocoforza tendere al
miglioramento. La “democrazia in crisi” è una tautologia in
quanto i cittadini sono giudici
permanenti del suo stato, sarà
sempre imperfetta ma migliorabile.
Il nome dello spazio non poteva che
essere “Puzzle”, per via del
carattere orizzontale e multidisciplinare
del progetto. L’obiettivo cardine dello
spazio è quello di creare uno studentato
totalmente autogestito, con uno sportello per migranti, laboratory multimediali
e scuola popolare.
Il consiglio del IV municipio, composto
per lo più da quella destra che qualche
anno fa si chiamava “destra sociale” ma
che ora ha solo voglia di ripulirsi e ha
Il puzzle di Monte Meta
di Paolo Cocuroccia
La proposta parte da realtà molto diverse: innanzitutto i vecchi
occupanti dell’Horus-Project e il “Laboratorio dell’altra città”: una
rete del territorio che ha lo scopo di
realizzare nuove forme di
democrazia diretta. Ma hanno aderito
almeno una decina di altre realtà, come
il laboratorio creativo Fusolab, che si
occupa di produzioni culturali indipendenti e cittadinanza attiva, le assemblee
universitarie della sapienza delle facoltà
di Medicina, Ingegneria, Studi orientali
e degli studenti medi del IV municipio,
il gruppo di ninux.org, che sta costruendo una rete wireless libera, aperta e
neutrale nel territorio metropolitano e
I pirati romani, immersi in battaglie su
informazione libera, copyleft, diritti e
libertà digitali.
scopeeto il gusto di sedere nei posti che
contano, sembra intenzionata a trattare.
Questa occupazione, secondo il presidente Bonelli “è in una zona interna,
degradata e poco
visibile, che interessa poco al municipio”.
Le premesse per una crescita, che coinvolga soprattutto i cittadini
del quartiere, ci sono tutte. Di questi
tempi, uno slancio di orizzontalità
politica e partecipazione, non può che
essere il benvenuto, anche se tutti si
chiedevano, proprio stamattina, per
quale motivo il comune abbia
abbandonato uno stabile di cinque piani, con una quarantina di stanze
e una decina di bagni...
Ora lo stabile ha nuova vita, un nuovo
percorso: Puzzle – Welfare in Progress.