Emilio Tadini

Transcript

Emilio Tadini
Emilio Tadini
Il luogo
Per indicare un luogo lontanissimo, il più lontano su questa terra che ci sia possibile
immaginare, noi diciamo che è in capo al mondo - come se quel luogo fosse al confine
estremo del mondo, come se, di là da quello, il mondo finisse. Mi sembra che,
nell’immaginazione di molti di noi, la Siberia sia davvero in capo al mondo.
Non ero mai stato in Siberia. ‘Così, l’immagine che me ne ero formata era il prodotto di un
bricolage piuttosto povero. Luogo di punizione per tutte le autocrazie russe, e allora habitat
di una massa di disperati e di pochi carnefici, luogo di espiazione e di rigenerazione, terra
misteriosa non solo per la sua lontananza ma anche per la sua immensità, terra percorsa
da eroiche figure di solitari...
All’inizio del secolo, per andare dall’Italia in Siberia ci volevano probabilmente molte
settimane, mesi, forse. Ma se penso al mio secondo viaggio... Dunque. Un venerdì a
mezzogiorno, siamo a Milano, davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie. Alle due
siamo in volo. Mosca. Passiamo la sera in un aeroporto di Mosca. La mattina del sabato
— altro volo — arriviamo in Siberia, a Novij Urengoi. Il pomeriggio, dopo un’ora di
elicottero, siamo in mezzo alla tundra. Molto al di là del Circolo Polare Artico, ospiti, con
Giuseppe Tornatore e altri amici, di una piccola tribù di nomadi. Si riprende l’elicottero, si
torna a Novij Urengoi. Domenica mattina, altro volo, per essere, verso mezzogiorno, a
Mosca, sulla Piazza Rossa. Qualche compera in un grande magazzino, colazione in un
ristorante uzbeko. Poi, in volo. Domenica sera, sono a Milano, a casa mia.
Piuttosto folle, certo. L’abolizione della distanza — ottenuta interrompendo brutalmente le
quotidiane relazioni che si danno fra spazio e tempo — finisce per
compattare.spietatamente percezioni ed emozioni, e così rischia di far fuori in un colpo
solo desiderio, appagamento e ricordo.
Per un po’ di tempo, subito dopo quel viaggio, la Siberia non era più, per me, “in capo al
mondo” ma nelle pieghe vertiginose di qualche spazio letteralmente inconcepibile, quasi
privo di senso, e, dunque, quasi inutilizzabile dalla mia mente e dal mio cuore. Bene che
mi andasse, mi sembrava che la Siberia potesse trasformarsi in qualcosa che avevo
intravisto in un sogno. Eppure...
È così forte, il fascino della Siberia — anche per quel poco che ne ho visto — che resiste a
tutto, compreso il togliersi quasi allucinante di quella distanza che proprio mentre, ùna
volta, ci separava da lei, paradossalmente ci teneva legati.
Prima di tutto — visti, di notte, dal finestrino dell’aereo — la taigà, le folte foreste smisurate
e i grandi fiumi tortuosi che le tagliano, le attraversano, e il disco rosso del sole inchiodato
sull’orizzonte. Poi, la tundra — gli alberi sempre più piccoli e più radi, fino alla distesa di
muschi e licheni a perdita d’occhio.
Qui si perde davvero, il tuo occhio. Qui il tuo occhio ti si rivela insufficiente, troppo limitato
per cogliere quella immensità.
Qui, la tua immaginazione, per forza di cose e senza fatica, irresistibilmente, sembra
trasformarsi nel congegno fisiologico attraverso il quale prendono forma definitiva le tue
percezioni.
La città di Novij Urengoi ha compiuto diciotto anni l’anno scorso. Le prime case, di legno,
risalgono a poche diecine di anni fa. Poi, quasi tutte le case sono state costruite
sovrapponendo blocchi di prefabbricati. A volte, gli edifici sono decorati da zone dipinte a
colori. Rari quelli che, come il municipio, manifestino qualche esplicita volontà di forma
simbolica.
Più sabbia che asfalto. Distese di fango, quando piove. Poi la sabbia gela. E viene coperta
da metri di neve per tutto il lunghissimo inverno.
Tutta la città posa sulla sabbia. Qualche metro, in profondità. E per costruire ci vogliono
pilastri che arrivino a fondarsi, attraverso lo strato di sabbia, sulla base solida del ghiaccio
eterno.
Trenta, quaranta, anche cinquanta gradi sotto lo zero, l’inverno. E pochissime ore di luce.
E, al disgelo, nugoli di zanzare, per settimane intere. E un estate cortissima. Eppure
(continuo a dire “eppure” continuo a contraddirmi), eppure Novij Urengoi è affascinante.
Questa città non è affascinante soltanto quando, coperta, quasi sepolta dalla neve, la sua
forma sembra sfumare armoniosamente nell’immensità del bianco candido della tundra, o
quando, venendo da nord, la si vede, all’orizzonte, trasformata in una assoluta meraviglia
geometrica dalla limpida luce cristallina, dalla luce abbagliante, trionfante, onnipotente,
che qui sembra invadere e occupare tutto il mondo in una giornata di sole, durante i brevi
intermezzi di primavera o di autunno.
Questa città è affascinante anche in una giornata di pioggia, quando passi per strade tutte
uguali, quando attraversi grandi spiazzi deserti chiusi da quattro blocchi di edifici con le
finestre verso strada che danno su stanze in disordine (adibite come sono, in ogni
appartamento, a deposito, come si faceva noi con i solai, perché sono le più fredde), e
poche macchine che sembrano abbandonate sulla sabbia, e qualche gioco per bambini
magari un po’ arrugginito, e poca gente, fuori, tanto poca che chiunque tu veda passare ti
sembra unico e assolutamente perfetto, lì dov’è, per una fotografia.
Il fatto è che quando si va in giro per questa città, non importa che tempo faccia, ci si
guarda intorno, si continua a guardarsi intorno, e quasi avidamente. E come se non si
volesse perdere neanche un particolare — anche nei punti in cui si ha intorno soltanto una
serie di costruzioni tutte uguali.
Qui si continua a guardarsi intorno come se ci si aspettasse qualcosa di sorprendente. O
come se ci si aspettasse di trovarsi, di colpo, davanti alla soluzione di un enigma. (Sarà
anche paradossale, ma quasi mi sembra di non essermi mai guardato intorno con tanta
intensità — neanche girando per città famose, splendide, che vedevo per la prima volta).
A proposito di sguardi. L’ho vista e pensata tante volte, questa città, una volta tornato a
casa...
Ne ho provato nostalgia, di questa città. E, in certi momenti, nella dimensione di quella
nostalgia, mi sembrava che tutte le distanze abolite, rimosse dalla velocità degli
spostamenti, si rifacessero vive, e tornassero al loro posto, al posto giusto, e mi sembrava
anche che — di nuovo “in capo al mondo” — l’immensità stessa di quel luogo franasse giù
tutta intera, grande come un continente.
Quando, l’estate del 1999, nel suo studio di Roma, ho visto le fotografie fatte in Siberia da
Giuseppe Tornatore, mi è sembrato di riprovare quella nostalgia — ma anche di capire,
attraverso quelle immagini, almeno in parte, il segreto del fascino di quei luoghi.
Tornatore ha incominciato facendo il fotografo. E in Siberia — a Novij Urengoi, e poi nella
tundra, e nell’accampamento dei nomadi — è tornato per qualche giorno al suo lavoro
delle origini. Due viaggi, migliaia di fotografie.
A Novij Urengoi, Tornatore sembrava preso da un entusiasmo quasi furioso. Sembrava
che si trovasse davanti a un mondo sul punto di scomparire e sapesse che gli restava
pochissimo tempo per guardarlo, quel mondo, per fotografarlo. Oppure sembrava un
narratore — mi è capitato di pensare — intento a scrivere la sua narrazione in fretta e
furia, deciso a non smettere di scrivere, per paura che il mondo che ha immaginato e di cui
sta raccontando possa svanire di colpo e per sempre dalla sua mente, dalla sua memoria.
E, certo sembrava anche qualcuno che, fotografia dopo fotografia, dovesse assolutamente
arrivare a risolvere un enigma.
Davanti alle splendide fotografie di Tornatore, non rivedevo soltanto la figura di quei
luoghi. Ne risentivo il fascino. E, l’ho già detto, mi sembrava di incominciare a capirci
qualcosa.
È una città senza passato, Novij Urengoi. Sembra sospesa nell’immensità del tempo così
come è sospesa nell’immensità dello spazio.
Forse, potrebbe essere una città senza futuro. Che cosa ne sarà di queste case, di queste
strade, quando le riserve di gas naturale — che pure sono enormi — un giorno si
esauriranno?
Niente passato, futuro incerto, questa città sembra letteralmente esplodere nel presente.
Ed è come se la si percepisse nel proprio corpo, la potenza dell’energia sprigionata da
questa esplosione.
Una specie di astronave in volo, a velocità pazzesca, questa città, una astronave che vibra
in tutte le sue parti...
Quella che noi chiamiamo “la natura” — il corpo stesso del mondo - è così forte, qui
intorno, così violenta, da bruciare ogni senso. O, per meglio dire, da mettere fuori causa
ciò che noi, desiderando, chiamiamo con la parola “senso” E interamente conclusa, qui, la
natura, nel suo essere lì. Nella sua presenza, nel suo darsi.
Paradossalmente, questa pienezza abissale, non rimandando a niente, non evocando
niente, nemmeno un minimo significato, finisce per far apparire davanti ai nostri occhi
spalancati la figura stessa del Niente.
Adesso, tra l’altro, ci sembra di sapere anche che il Niente può benissimo manifestarsi
nella figura di qualche pienezza — addirittura di qualche splendore abbagliante. Anzi, ci
sembra di sapere che questa è, del niente, la figura più verosimile in assoluto. (Già, e se il
Terribile in se stesso non amasse affatto gli effetti speciali dei film horror?).
Una città intera tirata su di fronte a tutta la strapotente sontuosità del Niente. Forse, in
questo, Novij Urengoi è davvero una città unica al mondo.
Una specie di fortezza, anche. Una specie di fortezza. Una frontiera.
Questa città straordinaria è abitata da uomini, da donne, da bambini, naturalmente. I quali,
in questo regno sontuoso e soverchiante del Niente — candida luce e buio nero —
riescono nonostante tutto a vivere la loro vita. Tracciando strade, sentieri. I loro — i nostri
— poveri percorsi quotidiani. E così, bene o male, instancabilmente, costruendo di fatto,
giorno per giorno, nella semplice normalità quotidiana, la struttura di un valore.
Forse sarebbe giusto dire che questa città è la figura di un valore “costruito”. (Non si
costruiscono soltanto edifici).
I valori costruiti non sono forse gli unici valori veri?
Ma questa, di uomini, donne e bambini, senza i quali, naturalmente, una città enigmatica
e, nonostante tutto, favolosa come Novij Urengoi non potrebbe esistere, questa è un’altra
storia. E’ la storia raccontata da Giuseppe Tornatore nel secondo libro di fotografie.