Newton, Vico e Rousseau

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Newton, Vico e Rousseau
Isaac Newton (1642-1727)
Opera principale: Philosophiae naturalis principia mathematica (1687)
Newton porta a compimento la rivoluzione scientifica di Copernico e Galileo, giungendo a
delineare l’immagine dell’universo che si è soliti chiamare “fisica classica”.
La sua filosofia si basa sull’empirismo inglese (Locke), in modo che l’esperienza diventa il campo
operativo e lo strumento di verifica delle attività intellettuali.
Il suo influsso sulla cultura illuministica fu profondo, al punto che la ragione newtoniana sarà il
modello di quella illuminista. Anche per Kant Newton costituisce il modello del sapere
scientifico.
MATEMATICA
In Newton l’unità di matematica e fisica (già intuita da Galileo) si precisa grazie a nuovi strumenti
matematici.
Egli indaga le cosiddette “flussioni”, ossia quelle grandezze che variano con continuità. Nel moto
accelerato studiò così la velocità, l’accelerazione, l’incremento di accelerazione. Descrivendo tali
grandezze con curve continue, il problema era dunque quello di trovare la direzione di ciascuna
curva in un punto (tangente o derivata) e l’area delimitata dalla curva stessa (quadratura o
integrale)  Newton è considerato, insieme a Leibniz, il fondatore del calcolo infinitesimale.
FISICA
Una leggenda diffusa da Voltaire racconta che Newton scoprì la gravitazione osservando la
caduta di una mela. In realtà, si trattava di un problema già studiato dalla fisica del tempo, ma
Newton trovò una sola formula per abbracciare sia la gravità sulla terra sia quella che mantiene i
pianeti nelle loro orbite: i corpi si attraggono proporzionalmente al prodotto delle masse e in
ragione del quadrato delle distanze.
Dalle indagini sulla dinamica derivano:
- precisazione dei concetti fondamentali della dinamica: massa distinta dal peso, generalizzazione
del concetto di forza, estensione delle leggi meccaniche all’interno dell’universo.
- formulazione dei tre principi fondamentali della dinamica: principio di inerzia; principio di
proporzionalità tra forza e accelerazione; principio di azione e reazione.
IL METODO E LE SUE REGOLE
Newton tende a delineare una scienza intesa come pura descrizione dei fatti della natura e delle
sue leggi, senza cioè alcuna ipotesi metafisica o, comunque, alcuna ipotesi che potesse trascendere
le possibilità di verifica empirica: hypotheses non fingo = mi rifiuto di immaginare ipotesi.
Ne derivano tre regole:
1) ammettere solo le cause necessarie per spiegare i fenomeni, senza aumentare il loro numero
inutilmente;
2) effetti dello stesso genere vanno attribuiti, finché è possibile, alla stessa causa;
3) le costanti che appartengono ai corpi di cui si può fare esperienza possono essere estese a tutti i
corpi in generale.
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Giambattista Vico (Napoli, 1668-1744)
Sebbene vissuto in epoca illuminista (NB: sospetto per la tradizione), Vico ha per primo posto, in
maniera sistematica e originale, il problema del mondo storico, delle sue strutture e del suo
significato.
La sua opera principale è la Scienza nuova, cui lavorò dal 1720 fino alla morte.
Vico stabilisce una differenza tra la conoscenza divina e quella umana:
a Dio appartiene l’intelligere, la conoscenza perfetta dell’oggetto
all’uomo appartiene il cogitare, che rende l’uomo partecipe della ragione divina.
L’uomo e Dio possono conoscere con verità solo ciò che fanno: verum et factum convertuntur.
Mentre Dio però può fare tutto (e dunque conoscere tutto), l’uomo può solo creare oggetti fittizi.
Così, all’uomo è preclusa la conoscenza completa della natura (che è fatta da Dio) e del proprio
essere (il cogito, contrariamente a Cartesio, è visto da Vico come coscienza del proprio essere e non
come scienza di esso).
L’oggetto proprio della conoscenza umana è dunque solo quello fatto dall’uomo stesso, ossia il
mondo della storia.
La scienza che ha per oggetto la storia è chiamata da Vico scienza nuova, con riferimento
all’opera di Bacone. Essa si fonda sulla filologia (che deve investigare la lingua e la civiltà umana)
e sulla filosofia (che deve studiare le leggi e le cause dei fatti storici) col loro aiuto, la storia
deve dunque accertare il vero e inverare il certo.
Siccome l’uomo è creato da Dio, allora la storia umana non può essere considerata separatamente
dalla storia ideale eterna, ossia dalla struttura che ne sorregge il corso temporale e che trasforma la
semplice scansione cronologica in un ordine ideale progressivo. La storia ideale eterna rappresenta
dunque il modello della storia umana e il criterio o il canone per giudicarla.
Da tale idea deriva la scansione della storia umana in tre età:
1. Età degli dei: gli uomini sono all’inizio stupidi e insensati bestioni, che temono le forze naturali e
vedono in essere delle terribili divinità. Per timore di esse creano i primi ordini familiari e civili,
dando vita a governi teocratici fondati sul timore di Dio.
2. Età degli eroi: gli uomini danno vita alle città e alle repubbliche, fondate su una classe
aristocratica che deriva da Dio la proprio forza e nobiltà.
3. Età degli uomini: in cui i popoli rivendicano la loro uguaglianza e danno vita alle repubbliche
popolari.
Tali età non si verificano però una volta per tutte. La storia umana è soggetta a corsi e ricorsi, ossia
torna periodicamente sui suoi passi.
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Jean-Jacques Rousseau (Ginevra, Svizzera, 1712 – Ermenonville, Inghilterra, 1778)
Pur appartenendo alla cultura illuminista (che conosce personalmente in un soggiorno a Parigi nel
142), Rousseau se ne distingue profondamente.
Nel 1750 scrive un Discorso sulle scienze e sulle arti in risposta a un concorso bandito
dall’Accademia di Digione sulla questione Se le arti e le scienze avessero contribuito a purificare i
costumi. Rousseau modifica il titolo nel modo seguente: Se le arti e le scienze avessero contribuito
a corrompere o purificare i costumi, evidenziando così con l’aggiunta della parola “corrompere”
qual è la sua tesi.
Nella prima parte del Discorso,infatti, egli afferma che le scienze hanno corrotto i costumi,
perché hanno abituato gli uomini ad agire secondo le buone maniere, ad apparire piuttosto
che ad essere, rendendoli così schiavi di comportamenti non naturali.
Ne deriva una condanna dell’arte in nome della natura.
La tesi è ripresa nella seconda parte, in cui Rousseau mostra come le scienze, anziché
scaturire dalla virtù, siano nate dai vizi e, alimentate dal lusso e dall’ozio, abbiano causato la
disuguaglianza sociale e la perdita delle virtù etiche.
Queste tesi costarono a Rousseau numerose accuse e polemiche. Egli, così, le precisò, nel senso
che la causa dei mali non sono direttamente le scienze, bensì la disuguaglianza, secondo il seguente
percorso:
disuguaglianza  ricchezze  lusso e ozio  belle arti e scienze  male
Da questo punto in poi, il centro della sua speculazione diventa dunque l’origine e la causa della
disuguaglianza.
Ancora in risposta a un concorso bandito dall’Accademia di Digione nel 1753-54, Rousseau scrive
così il saggio Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1755).
Riprendendo un tema caro ai giusnaturalisti, egli ritiene che per conoscere l’origine della
disuguaglianza tra gli uomini occorre conoscere l’uomo  rinvenire al di là dell’uomo “artificiale”
(= civile) l’uomo naturale.
A tal fine, egli segue un metodo logico-filosofico, ipotizzando che l’uomo, prima della civiltà,
vivesse in uno stato di natura. Tale condizione naturale non è mai stata reale, ma costituisce una
sorta di ipotesi euristica per poter comprendere l’origine della civiltà e, secondo Rousseau, della
disuguaglianza tra gli uomini.
Le domande sono: 1) in che cosa consiste lo stato di natura? 2) attraverso quali vicende l’uomo
ne è uscito?
La condizione naturale dell’uomo non è quella del selvaggio, bensì quella di un essere che vive in
uno stato di perfetto equilibrio tra bisogni e risorse: l’uomo possiede tutto ciò che desidera, in
quanto desidera solo ciò che già possiede.
L’uomo naturale non è dunque né buono né cattivo, ma innocente: ciascuno basta a se stesso, i
contatti con gli altri uomini sono sporadici e dettati per lo più da esigenze riproduttive. L’uomo
naturale è indipendente, perché è soddisfatto e non manca di nulla.
Nella seconda parte del Discorso Rousseau espone le cause e le modalità dell’uscita dallo stato
di natura.
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L’unico motivo per cui l’uomo può uscire da tale condizione naturale è perché l’equilibrio tra
risorse e bisogni si rompe. E ciò avviene solo per cause esterne (carestie, concorrenza degli altri
animali, ambienti ostili, ecc.)
A causa della rottura dell’equilibrio, l’uomo comincia a unirsi ai suoi simili, inventando le prime
forme di linguaggio e costituendo le prime comunità familiari.
Questo primo stadio, che Rousseau chiama civiltà nascente, non è tuttavia ancora causa di
disuguaglianze distruttive, perché si mantiene un certo equilibrio tra civiltà e natura.
La vera disuguaglianza nasce invece con la proprietà privata. Scrive Rousseau:
«Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare “questo è mio”, e trovò persone
abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile».
Insieme alla proprietà privata nasce dunque la disuguaglianza morale e politica, dal momento che
gli uomini si cominciano a dividere in ricchi e poveri, conducendoli così a uno stato di guerra
permanente.
La società civile nasce dunque da un patto tra ricchi e poveri, ma si tratta di un patto che Rousseau
chiama “scellerato” e che sintetizza così:
«Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un
accordo fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il
poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prenderò dandovi degli ordini».
Lo Stato, secondo Rousseau, è dunque una legalizzazione subdola di una situazione di sopruso
e sfruttamento: nasce per salvare la proprietà, ma i proprietari sono solo pochi privilegiati che, in
tal modo, tutelano solo i loro diritti a scapito degli altri.
La civiltà è perciò opposta alla natura. Quest’ultima è la condizione di innocenza e felicità
originaria che, con l’istituzione della proprietà e dei costumi civili, si è perduta.
Ma egli crede che l’uomo, proprio in quanto artefice di tale degenerazione, possa essere anche in
grado di riscattarsi, a patto però che ritrovi la propria naturalità. In altre parole, non si tratta di
abolire la civiltà, ma di ritrovare una condizione di vita associata in equilibrio con la vera natura
umana.
A tale scopo, Rousseau indaga la possibilità di uscire dallo stato di corruzione della civiltà. Ciò
avviene a tre livelli:
1) nella famiglia, mediante un nuovo modo di vivere l’amore
2) nello stato, attraverso un nuovo contratto sociale
3) nell’individuo, tramite la comprensione della natura e dei limiti dell’educazione.
1) Nello scritto La nuova Eloisa (1760), la santità del vincolo familiare non è fondata sulla volontà
dei parenti e sulle convenzioni sociali, bensì sulla libera scelta degli istinti naturali.
2) La costituzione di uno Stato giusto (perché fondato sull’ordine naturale) è invece affrontata
nell’opera fondamentale Il contratto sociale (1762).
Rousseau rifiuta ogni teoria dell’autorità politica basata sul diritto divino o sulla forza. Si rifà
al contrattualismo, per cui non esiste autorità senza consenso pattuito, ma senza distinguere tra
pactum unionis e pactum subiectionis: nessun patto può privare l’uomo della libertà naturale e,
pertanto, nessun patto è legittimo se assoggetta l’uomo a un sovrano “altro” da loro (né assoluto,
come in Hobbes, né rappresentativo, come in Locke).
Entrando in società, dunque, gli uomini alienano i propri diritti ma, nel farlo, restano soggetti
solo a se medesimi. Come si conciliano dunque alienazione e libertà? Occorre trovare un
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contratto sociale per il quale «ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e
resti libero come prima».
Tale patto consiste in una alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la
comunità. Ciascun individuo diventa così parte indivisibile del tutto: si genera dunque un corpo
morale e collettivo che ha una sua unità (un io comune) e una sua volontà (volontà generale).
NB: La volontà generale non è dunque meramente la volontà di tutti, ma è la volontà del corpo
sociale e, come tale, la volontà che tende all’utilità comune.
Essa, pertanto, coincide con la volontà del singolo, senza tuttavia coincidere con il suo interesse
privato.
La volontà generale, in altre parole, non ha una base quantitativa (come somma di volontà
particolari), ma qualitativa (in quanto tesa al bene comune e dunque distinta dalla volontà
privatistica di ciascuno). Perciò, essa è sempre:
- retta (in quanto mira al bene comune, che è bene di tutti);
- infallibile (in quanto non sbaglia mai, sebbene il giudizio che la guida possa farlo);
- giusta (in quanto tende sempre all’uguaglianza, mentre la volontà privata instaura privilegi);
- indistruttibile (in quanto nasce da un patto con cui l’individuo aliena tutto se stesso alla
comunità).
L’esercizio della volontà generale (potere legislativo) risiede nella sovranità, che appartiene
soltanto al popolo. Tale volontà, a causa della natura del patto, è:
assoluta (perché non limitata da altro se non dal bene pubblico);
inalienabile (Rousseau rifiuta dunque ogni tipo di rappresentanza e sostiene una democrazia
diretta);
indivisibile (Rousseau rifiuta la divisione dei poteri).
3) La questione dell’educazione è affrontata nell’opera Emilio (1762).
Rousseau vi chiarisce le condizioni per un ritorno alla natura partendo però dall’individuo. Si
chiede dunque: che tipo di educazione si adatta alla naturalità dell’uomo?
La risposta è che si tratta di una educazione che non insegni la virtù e la verità, ma che si limiti a
preservare l’innocenza naturale, dunque a salvare il cuore dal vizio e la mente dall’errore.
L’azione dell’educatore deve mirare soltanto a far sì che lo sviluppo fisico e spirituale del bambino
avvenga in modo del tutto spontaneo. L’idea di fondo, che Rousseau giustifica raccontando le
vicende di un bambino (Emilio) e del suo educatore, è che la natura non coincide semplicemente
con l’istinto, bensì con l’ordine razionale naturale e con l’equilibrio naturale tra istinto e
passioni. Tale condizione non è dunque ottenibile con un mero ritorno a un ipotetico stato di natura
dell’uomo, ma è qualcosa cui l’educazione deve tendere sulla base della stessa ragione umana.
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