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I CONVEGNI DELLA FONDAZIONE
NICCOLÒ CANUSSIO
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FONDAZIONE NICCOLÒ CANUSSIO
DICERE LAUDES
Elogio, comunicazione, creazione del consenso
Atti del convegno internazionale
Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2010
a cura di
GIANPAOLO URSO
Edizioni ETS
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La presente pubblicazione è stata realizzata
con il sostegno di
Ministero dell’Università e della Ricerca
Dicere Laudes. Elogio, comunicazione, creazione del consenso, Cividale del Friuli, 23-25
settembre 2010 / a cura di Gianpaolo Urso. – Pisa : Edizioni ETS, 2011 - 400 p. : 24 cm. –
(I convegni della Fondazione Niccolò Canussio; 10)
In testa al front.: Fondazione Niccolò Canussio
ISBN 978-884673085-5
CDD 21 - 946
Grecia – Roma – Intellettuali – Letteratura encomiastica – VIII sec. a.C. / XV sec. d.C. –
Congressi – Cividale del Friuli – 2010
I. Urso, Gianpaolo
II. Fondazione Niccolò Canussio
Fondazione Niccolò Canussio – via Niccolò Canussio, 4, 33043 Cividale del Friuli (UD)
via Bernardino Luini, 12, 20123 Milano – www.fondazionecanussio.org
© Copyright 2011
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SOMMARIO
Introduzione di Gianpiero Rosati
7
GLENN W. MOST, Power and Truth in Archaic Greece – and After
13
NINO LURAGHI, Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
27
CARMINE CATENACCI, Epica ed eulogia. Dai modelli mitici
di età arcaica all’epos storico ellenistico
49
LUCIANO CANFORA, Il corpusculum degli epitafi ateniesi
69
ROBIN OSBORNE, Is there Panegyric in Classical Greek Art?
83
RICHARD HUNTER, Festivals, Cults, and the Construction
of Consensus in Hellenistic Poetry
101
GREGOR WEBER, Den König loben? Positionen und Aufgaben
der Dichter an den hellenistischen Königshöfen
119
GILLES SAURON, La propagande de Pompée : conception,
diffusion et réception
143
JOY CONNOLLY, Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
161
EUGENIO LA ROCCA, Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
179
SABINO PEREA YÉBENES, Nicolás de Damasco, un intelectual singular
en la corte de Herodes y en la Roma de Augusto
205
DAMIEN NELIS, Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66)
253
GIANPIERO ROSATI, Amare il tiranno. Creazione del consenso
e linguaggio encomiastico nella cultura flavia
265
LAURENT PERNOT, Elogio retorico e potere politico all’epoca
della Seconda Sofistica
281
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6
FRANCA ELA CONSOLINO, Panegiristi e creazione del consenso
nell’occidente latino
299
IGNAZIO TANTILLO, Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
337
FRANCESCO STELLA, La dinamica del consenso nelle lodi imperiali
dei poeti carolingi e postcarolingi
359
PHILIP HARDIE, Strategies of Praise: The Aeneid and Renaissance Epic 383
INTRODUZIONE
GIANPIERO ROSATI
Negli studi classici dell’ultimo mezzo secolo, anche per effetto del condizionamento delle esperienze recenti dei regimi totalitari, il rapporto di poeti
e artisti con il potere politico è stato generalmente analizzato in una sola direzione, vale a dire attraverso l’influenza che quest’ultimo ha esercitato sui
primi indirizzandone o condizionandone l’attività. Il ruolo di scrittori e artisti
è stato cioè prevalentemente studiato come quello di soggetti passivi, ricettori di istanze elaborate altrove e calate dall’alto su figure concepite come
puri strumenti di celebrazione di un’autorità superiore (sul definirsi di questa
concezione dei rapporti tra potere e letteratura in termini di patronage ha
certamente agito il modello del mecenatismo augusteo e la sua interpretazione
moderna). Questo atteggiamento ha portato da un lato a interpretare il ruolo
dell’élite culturale in termini di ‘accettazione’ o ‘resistenza’ alle pressioni del
potere politico, e dall’altro, in virtù dello stesso pregiudizio moralistico (che
trasferiva al mondo antico il concetto moderno di artista-intellettuale engagé),
si è tradotto in una valutazione preventivamente ostile o spregiativa di forme
artistiche come la letteratura encomiastico-panegiristica, vista direttamente
come propaganda, come pura espressione di servile acquiescenza al potere
dominante.
Solo in anni relativamente recenti, e soprattutto nel mondo greco (specie
negli studi sulla lirica arcaica e sulla poesia di corte ellenistica), si è cominciato a vedere in termini più complessi e problematici il rapporto tra il potere
politico e il potere che di fatto detengono anche artisti e letterati, e che spesso
mettono in campo, per lo più in forme indirette e dissimulate, per bilanciare, orientare o contrastare il potere politico, o comunque per far sentire il
proprio peso e l’importanza vitale del proprio ruolo. Un aspetto particolarmente interessante del modo con cui i protagonisti dei ceti intellettuali cercano sostegno e protezione da parte del potere politico (il ‘mecenatismo’) è
il carattere negoziale della loro proposta, che ha come principale obiettivo il
riconoscimento di un proprio prestigio e funzione per così dire professionale.
Più che in termini di imposizione, di richiesta di un’azione di propaganda da
parte del potere (e di accettazione o resistenza da parte di artisti e letterati),
si tratta infatti di indagare il rapporto in una prospettiva ‘socio-economica’,
8
Gianpiero Rosati
come una proposta di scambio avanzata da parte di chi si propone come cantore del potere dominante (generalmente di tipo ‘monarchico’) non in una
forma rozzamente propagandistica, ma attraverso l’elaborazione di nuove forme encomiastiche indirette e particolarmente sofisticate. Artisti e letterati, in
quanto dotati degli strumenti capaci di rappresentare la realtà, e dunque di
influenzarne la percezione da parte di un vasto pubblico, detengono di fatto
essi stessi un potere che mettono in campo nei confronti dell’autorità politica.
L’encomio può dunque fare spazio a ben più che la semplice celebrazione
del potere dominante, ma aprirsi alla riflessione su modelli culturali e politici
diversi da quelli vigenti, a un atteggiamento problematico e perfino critico: la
sfida per l’interprete è dunque spesso quella di decifrare la doppiezza di un
discorso congenitamente ambiguo (cioè sempre sospetto di falsità), di leggere
quello che si cela, o affiora in filigrana, dietro la facciata di un discorso necessariamente laudatorio e che costringe il suo autore a escogitare modalità
espressive capaci di attraversare le maglie imposte dal potere. Perché un’altra
peculiarità del discorso-encomio è quella di avere un doppio interlocutore di
cui tener conto, il destinatario diretto (cioè chi detiene il potere) da compiacere, ma anche un ‘pubblico’ composito di fronte al quale salvaguardare almeno
un margine di dignità morale e culturale (anche allo scopo di influenzarne le
convinzioni).
In diverse fasi storiche del mondo antico si può apprezzare il ruolo creativo che poeti, letterati, filosofi, artisti hanno svolto non solo nei confronti di
singoli personaggi politici (celebrandone le imprese), ma più in generale nei
confronti del potere nelle sue varie articolazioni sociali, in termini di proposta
politica, talora elaborando e proponendo più o meno chiaramente un vero
programma politico-culturale. L’elaborazione culturale, e la produzione letteraria e artistica, hanno esercitato cioè un evidente ruolo politico, e la coscienza di questo potere da parte delle categorie professionali che lo detengono
entra in gioco nelle complesse mediazioni con l’autorità politica, di cui resta
traccia nelle forme e nelle strategie di una produzione letteraria e artistica che
sotto questo aspetto merita di essere analizzata più a fondo.
Lo scopo di questo convegno sul discorso-encomio (e non solo nel campo
strettamente letterario), dalle sue prime espressioni, ancora non formalizzate,
nella cultura greca arcaica fino alla tarda antichità e alle sue proiezioni in età
medioevale e rinascimentale era dunque quello di fare il punto sulla riflessione relativa a questo tema così importante nel mondo antico, che negli ultimi
decenni ha visto appunto emergere un interesse nuovo, capace di oltrepassare
quella cortina di diffidenza/indifferenza moralistica di cui si diceva, e di cui
tuttavia non hanno beneficiato in ugual misura tutte le aree storiche e culturali
del mondo greco e romano. È superfluo osservare come l’attenzione critica al
tema del consenso, ai modi di costruirlo o organizzarlo e agli attori coinvolti
Introduzione
9
in questo processo, con tutti i limiti che implica per l’indagine una documentazione parziale e orientata come quella di cui disponiamo, nasca anche (e vi
abbia a sua volta una ricaduta) dalla centralità di questo problema nel mondo
non solo antico (basti appena accennare, in secoli a noi più vicini, alla letteratura d’encomio fiorita attorno alla figura di Napoleone), ma sia uno dei nodi
cruciali attorno a cui ruota la riflessione anche odierna sul controllo dei mezzi
di comunicazione da parte del potere e sul ruolo degli intellettuali all’interno
delle società moderne.
La relazione d’apertura, di Glenn Most, delinea la cornice del convegno
fissando alcuni punti teorici importanti, anche ricorrendo all’aiuto di grandi
analisti del potere (e delle dinamiche psicologiche che esso attiva) come Castiglione e Machiavelli: sullo sfondo campeggia l’opposizione tra logos e kratos, e
in questo spazio si gioca il rapporto tra l’autore di encomi e il tiranno. Quanta
è la libertà di parola che il tiranno può permettersi, o deve accettare, senza
compromettere la stabilità del potere ma nemmeno la propria buona fama;
e, dall’altra parte, come può muoversi l’autore di encomi tra gli estremi della
sovversione e del servilismo? Tradotto nell’analisi degli epinici di Pindaro e
Bacchilide, questo esercizio di equilibrismo cerca di evitare gli opposti pericoli dell’eccessiva individualizzazione e quello dell’integrazione (che corrispondono ai due interlocutori di cui l’encomiasta deve tener conto, il tiranno ma
anche i cittadini).
La relazione di Nino Luraghi mostra, nell’analisi degli epinici di Pindaro
e Bacchilide, la sensibilità del poeta alla posizione occupata dal tiranno, e il
ricorso a una serie di modelli impliciti (‘maschere’, personae), dalla regalità
spartana al re-sacerdote alla figura di Creso, che legittimano in qualche modo
il ruolo del tiranno come un modello positivo di autocrazia. Un compito difficile, come sembra suggerire la stessa varietà delle ‘maschere’ di volta in volta
evocate.
Carmine Catenacci traccia un ampio orizzonte cronologico e culturale,
dall’età micenea a quella ellenistica, per mostrare come la funzione originaria
dell’epica sia quella di narrare e celebrare le imprese di un sovrano, collocandole in una distanza che insieme ne nobilita la figura e ne legittima il potere.
Attraverso la poesia di Omero (e le suggerite analogie tra Odisseo e Pisistrato)
e quella di Esiodo (in cui la stretta relazione tra poesia e potere trova addirittura il suo fondamento teorico) si apre una serie di spiragli sui resti dell’epica
storica del V e IV sec. a.C., che confermano la continuità e l’importanza di
quella tradizione.
Luciano Canfora analizza le peculiarità che caratterizzano il corpus dei 5
epitafi ateniesi, illustrando le possibili ragioni della dispersione della produ-
10
Gianpiero Rosati
zione massiccia di questi testi che tendenzialmente non assumevano una forma scritta; una produzione che già nel I sec. era pressoché totalmente scomparsa (soprattutto per il carattere ‘obbligato’, di circostanza, e tematicamente
ripetitivo, tale quindi da non attrarre l’interesse degli autori).
La relazione di Robin Osborne pone il problema teorico della tecnica della
forma-elogio in immagini, che rispetto all’elogio in parole deve far fronte a
forti limitazioni espressive, e costringe l’artista figurativo a creare un contesto necessario a suggerire la chiave eulogistica. Traccia poi una distinzione
tra l’elogio ‘relativo’ di tipo greco e l’elogio ‘superlativo’ che solo il contesto
romano del trionfo avrebbe reso possibile (fondandosi su quello squilibrio
di potere tra artista e laudandus che è un elemento costitutivo dell’encomio
stesso).
Richard Hunter centra il suo intervento sull’importanza delle feste e dei
culti religiosi nella cultura ellenistica, e sull’interesse di quest’ultima per la
dimensione performativa. L’analisi di alcuni passi di Callimaco mostra come
l’attenzione alle leggende eziologiche nella sua poesia, ai culti locali e alle loro
valenze politiche, può costituire una chiave importante per apprezzare l’uso
della religione ai fini della costruzione del consenso.
L’intervento di Gregor Weber fornisce un quadro articolato dello ‘scenario
di corte’ ellenistico attraverso una messa a punto, anche teorica, dei concetti
in gioco (corte, mecenatismo e amicizia [con i reciproci obblighi morali che
la filía comporta], propaganda, poeti), nel tentativo di ricostruire il rapporto
dialettico tra i poeti e la corte, nelle sue varie componenti anche reciprocamente conflittuali, il loro grado di autonomia e il loro spazio di intervento sui
temi ‘caldi’ che in essa avevano corso.
Gilles Sauron analizza alcune espressioni della propaganda di Pompeo in
particolare in certi suoi temi ricorrenti, come il confronto con modelli eroicomitici quali Alessandro, Ercole o Dioniso. Un testo essenziale della mise en
scène di questa propaganda è il monumentale complesso nel Campo di Marte,
con il tempio di Venere Vittoriosa, ma Sauron ne individua possibili tracce
anche nella famosa Villa di Oplonti e nel suo linguaggio simbolico-figurativo.
In un’ottica di analisi della psicologia del potere, e scomponendo la retorica del discorso eulogistico, Joy Connolly propone una lettura della Pro
Marcello di Cicerone come “esercizio di immaginazione politica”. Sottraendosi al dilemma pro/contro, tipico degli interpreti di questo testo, Connolly
vede nell’orazione un discorso inclusivo che lavora in una doppia direzione,
sincerità/ironia, o lode/biasimo: una riflessione dunque che, in un momento
di svolta politica traumatica, coinvolge i diversi referenti sociali coevi, e trova
stimolanti analogie con tematiche e dinamiche del mondo di oggi.
La relazione di Eugenio La Rocca mostra, attraverso un’analisi ricca e condotta su una documentazione tanto varia quanto omogenea nelle sue inten-
Introduzione
11
zioni, come il processo che porterà alla divinizzazione di Augusto risalga fin
ai primi anni del suo principato: è un percorso non lineare, e risponde alle
esigenze tattiche delle diverse fasi del consolidamento del suo potere, ma il
programma di ‘diventare dio’ sembra affermarsi già molto presto come un
obiettivo lucidamente perseguito dal princeps.
Sabino Perea Yébenes illustra la figura di Nicola di Damasco e il ruolo di
mediazione culturale svolto da questo intellettuale attraverso le sue vicende
biografiche (tra la Siria, la corte di Erode il Grande e poi la Roma di Augusto:
i tria corda di cui parla Arnaldo Momigliano). La sua grandiosa Storia universale era aperta da una biografia di Augusto mossa da un’evidente intenzione
panegiristica, e destinata probabilmente al pubblico greco (la lingua in cui
l’opera era scritta).
Damien Nelis fornisce un quadro articolato delle numerose letture critiche,
e dei problemi teorici, sollecitati da un testo tra i più dibattuti della letteratura
latina, l’encomio di Nerone nel proemio di Lucano. Accantonata ormai la rigida alternativa tra sincerità e ironia, l’analisi minuta del testo (sollecitata anche
dalle proposte teoriche di Stephen Hinds) mette in luce una rete di relazioni,
fondate anche sull’imagery di Fetonte, che suggeriscono una lettura più fluida
del passo, e valorizzano la funzione semantica del rapporto con le Georgiche
virgiliane.
La relazione di Gianpiero Rosati cerca di delineare alcune caratteristiche
della poesia encomiastica flavia, mostrandone le ambizioni teoriche nel rapporto col potere, e illustra le ragioni, e le implicazioni, del massiccio impiego
che essa fa di un lessico sentimentale in campo strettamente politico, nonché
le aporie cui la forma-encomio va incontro in un contesto di regime tirannico.
Laurent Pernot delinea un panorama dell’oratoria epidittica della seconda
sofistica e, attraverso l’analisi di alcuni tra i suoi pezzi più celebrati discute
soprattutto gli elogi di Roma elaborati da intellettuali greci, mostrando come
essi declinano in maniere diverse i topoi tradizionali degli elogi. L’encomio si
rivela così (anche attraverso la tecnica del non-dire, un impiego del silenzio
‘eloquente’) uno strumento raffinato che permette l’espressione di messaggi
politici impliciti e sottintesi.
Franca Ela Consolino analizza alcuni panegirici di età tardo-antica e romano-barbarica (Claudiano, Sidonio Apollinare, Cassiodoro, Venanzio Fortunato), mostrando come essi possano di volta in volta piegarsi, anche nello stesso
autore, alle diverse finalità dei contesti politici in cui si collocano, e come sulla
strategia di ‘manipolazione della verità’ messa in atto dal panegirista influisca
in maniera decisiva il pubblico degli ascoltatori.
La relazione di Ignazio Tantillo traccia un quadro delle analogie che, nella
tarda antichità (un’età di cerimonie e di panegirici), si colgono tra le tematiche e il linguaggio dei panegirici e alcune iscrizioni epigrafiche, suggerendo
12
Gianpiero Rosati
le possibili vie di collegamento tra questi due diversi spazi e le possibili funzioni, magari propriamente propagandistiche, che a queste ultime venivano
assegnate.
Francesco Stella fornisce un panorama delle manifestazioni e degli spazi
in cui prende forma l’intenzione propagandistica in età carolingia, e che ha al
centro Carlo Magno, anche in maniera autonoma dalla sua volontà e in iniziative del tutto indipendenti assunte da figure intellettuali più o meno legate
al potere centrale. La continuità con la tradizione classica della letteratura
encomiastica non va esagerata, e la rottura legata al personaggio di Carlo debitamente riconosciuta.
Philip Hardie mostra infine come la nostra idiosincrasia di moderni per
la funzione eulogistica del panegirico non corrisponda a un atteggiamento
che ha lungamente accompagnato la tradizione epica già nel mondo antico,
collegando l’epos alla retorica epidittica, e che è proseguita fino all’età moderna. Un’ampia esemplificazione della produzione medievale e rinascimentale
mostra poi come la ricezione di un episodio fortunato quale la Parata degli
Eroi, del sesto dell’Eneide, ne abbia più volte esaltato la funzione celebrativa
e paradigmatica in una chiave politica legata al contesto presente.
La ricerca del consenso è un obiettivo che il potere di norma (anche se
non sempre) persegue, e i modi della sua creazione si esplicano per lo più
non solo mediante iniziative promosse e organizzate dall’alto, ma anche attraverso proposte autonomamente elaborate da un’élite sociale e intellettuale
(specie quella gravitante attorno alla ‘corte’) che ambisce ad avere un ruolo
di mediazione e a svolgere una funzione in una certa misura autenticamente
politica. Un’analisi spassionata di forme letterarie e artistiche come encomi,
panegirici, celebrazioni e simili, che sono tendenzialmente estranee, per non
dire irrimediabilmente ostiche, al nostro gusto moderno, e una comprensione
dei loro meccanismi, della loro capacità creativa sul piano socio-culturale e
delle dinamiche comunicative che esse attivano, può aprire la strada a una
loro valutazione più oggettiva (non arriverò a dire a un apprezzamento). E
magari, com’è tradizione dei convegni della Fondazione Canussio, offrire anche qualche spunto di riflessione sulla realtà in cui ci troviamo a vivere.
POWER AND TRUTH IN ARCHAIC GREECE – AND AFTER
GLENN W. MOST
Usually, we expect, collisions between mastery of language and mastery of
power, like a collision between a Smart Car and a SUV, will be likely to cause
far greater damage to the former than to the latter1. After all, at least in the
short term, the dependence of logos – the refined discourse of eloquence or
wisdom – upon kratos – the structures of political power and social legitimacy
– is far more evident than the converse; and as for the ways in which the successful exercise of power can in fact depend upon the right application of
discourse, these become clear, if at all, usually only in the long term, and it
requires already a considerable measure of wisdom to be able to look to that
long term beyond the exigencies and distractions of the short term.
Hence it is not surprising that, despite the proverb, it has only been exceptionally that the pen really has been mightier than the sword – not only when
men of poetry and men of power have interacted traumatically, when it has
usually been the poets who have suffered more, but even when their encounter
has been softer and more subtle, for in this case too the true nature of political
power has usually been less fundamentally altered by its occasional gestures of
allegiance to the intellectuals than have the aspirations of poetry or philosophy
been transformed, and sometimes vitiated, by their subservience to the powers
that be. For every Zeno of Elea who, having failed in his attempt at tyannicide,
bit his tongue off and spat it into the tyrant’s face2, there have doubtless been
many more masters of discourse who have preferred after all to survive, and –
well then, why not? – reap ample benefits, by coming to an accommodation
with power, bending their more compliant tongues to serve its own ends.
* My thanks to Marta Cardin and the other members of my research seminar at the Scuola Normale
Superiore di Pisa for their lively and helpful discussion of an earlier version of this paper.
1
The most useful recent studies of this general topic have come from the tradition of French
philosophical sociology – perhaps unsurprisingly, considering the profundity and persistence of courtly
structures in French society. See for example M. FOUCAULT, Fearless speech, ed. J. PEARSON, Los Angeles
2001; P. BOURDIEU, Esquisse d’une théorie de la pratique. Précédé de trois études d’ethnologie kabyle, Génève 1972; Langage et pouvoir symbolique, Paris 2001; La production de l’idéologie dominante, Paris 2008.
2
The anecdote is reported with many variations (including different names for the tyrant) by a
number of sources: see especially Diodorus Siculus X 18,2; also Plutarch, Adv. Colotem 32 (Moralia
1126D); Diogenes Laertius IX 26-27; Clement Alex., Stromata IV 57.
14
Glenn W. Most
The delicate and often dangerous relations between modes of discourse and
modes of power have always occupied the attention of theorists and practitioners of both domains. Unsurprisingly, theory has tended to focus not upon the
drastic black and white alternatives, the largely unproductive limit cases consisting of the absolute subservience of eloquence to dominion or of the absolute
opposition between them, but instead upon the many shades of gray between
them, the more or less viable strategies of collaboration and complicity between
the speaker and his ruler. Given the questionable legitimacy of many sovereigns,
we can well understand a certain anxiety on their part to bolster their power
by suppressing the public expression of dissent on the one hand and favoring
the public expression of consent on the other, just as we have little difficulty in
recognizing the likelihood that at least some poets and orators will prefer collusion to collision, the benefits of collaboration and remuneration rather than the
risks of antagonism and marginalization (or worse).
So we might well expect the default situation at court to be public praise
and fulsome panegyric: but in fact matters were often far more complicated,
and more interesting. How much truth does the tyrant want to hear? But also:
how much truth can the tyrant wish to seem to want to hear? To be sure, we
expect, and the ancient Greeks expected, the anxieties of the tyrant and the
instability of his power to induce him inevitably to allow those he permitted
to surround him to tell him only what he wanted to hear. Doubtless this was
often the case. And yet truth usually remained a value honored at least in appearance if not always in reality; and a variety of circumstantial reasons – the
tyrant’s personality, a shrewd political calculation, his relations to his subjects,
to potential threats, and to other tyrants – could also sometimes favor not
only the appearance of frankness in panegyrics but also the inclusion in them
of at least some degree of genuine criticism and admonition. But the speaker
of praise for the tyrant who wished to exploit the space, however narrow,
thereby opened up to his apparent plain speaking, had to negotiate a tricky
and risky middle ground between seeming servile and seeming presumptuous
if he wished to achieve success in the eyes of men and of gods.
***
Precisely these issues were among those that most occupied the theoreticians of rhetoric, literary theory, and politics in the early modern period,
from the 15th century at least until Alfieri’s Della tirannide of 17773. From the
3
See for example S. ANGLO, The Courtier’s Art: Systematic Immorality in the Renaissance, Swansea
1983. A useful introductory anthology is provided by B.G. KOHL - R.G. WITT - E.B. WELLES (edd.), The
Earthly Republic: Italian Humanists on Government and Society, Philadelphia 1978.
Power and Truth in Archaic Greece – and After
15
dark and glittering depths of the Roman Empire, Tacitus had pointed to the
narrow road that could lead between self-destructive contempt for authority
and self-abasing servility – inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter ambitione ac periculis vacuum4 – and his words were to echo
throughout the century of Absolutism, Neo-Stoicism, and Tacitism, on the
one hand suggesting to anxious courtiers, who had to live not only with the
monarch but also with themselves, that success, and survival, were in general
terms not after all entirely impossible, but on the other inconveniently quite
failing to provide any detailed algorithm that might guarantee how to achieve
these ends. But the central question had posed itself urgently already in the
early 16th century: when and how can one safely and effectively tell the ruler
not what he wishes to hear but what he ought to hear? Machiavelli reserves his
discussion of “how flatterers should be avoided” to chapter 23, almost at the
very end of his manual on The Prince. Here he demonstrates, on principle and
by means of the negative example of the Holy Roman Emperor Maximilian I
of Habsburg, who had died in 1519, how great a danger flattery is unless the
prince is particularly careful: the ruler must strictly ration candor and freedom of speech, for if he allows everyone to tell him the truth people will lose
all respect for him; so he must confine truth-telling to secret exchanges with
a few wise counselors who know he will reward them for their frankness, but
otherwise he should listen to no one and should simply impose his decisions
without discussion; if he is stupid but lucky he will be successful if he follows
the counsels of a single wise advisor, for a while (until, that is, the counselor
decides to usurp his power himself), but if he listens to more than one he will
never be able to sort out their differences. Machiavelli concludes the chapter
with the paradox that good counsels always come from the wisdom of the
prince, and the wisdom of the prince never from good counsels, for only a
wise prince will be able to recognize the value of good advice and will create
those conditions under which alone it can reach him. So, we may infer, the
only prince who is capable of making good use of a truth-telling advisor does
not really need one at all, while the prince who would urgently need one cannot in fact make any use of him whatsoever – from which it follows, as the
night does the day, that sooner or later all but the very wisest princes will be
destroyed by their inability to hear, and listen to, the truth5.
Castiglione’s The Courtier presents an analysis of the interrelation between
discourse and power which, though certainly less lapidary and drastic than
4
Tacitus, Annales IV 20,5.
Machiavelli also discusses the relation between the ruler and his counselor elsewhere in The
Prince, especially in chapters 19 and 22. He does not make explicit the consequences of this paradoxical
conclusion for his understanding of his own role as a counselor.
5
16
Glenn W. Most
Machiavelli’s (with which it was approximately contemporary), is only in appearance any more optimistic. If Machiavelli identifies in the wisdom of the
ruler the only possible solution to the problem of courtly adulation, Castiglione locates it in the wisdom of the courtier; neither writer pays much attention
to the possibility that both the ruler and his courtier might be wise – perhaps
because if so there is no problem, more likely because the very possibility
seems to them so remote. It is only after the first three books, devoted to describing in considerable detail exactly what the ruler likes to hear – above all
pleasantly witty, innocuous conversation, but also music, games, dancing, and
other agreeable activities – that Castiglione dares to move on in the fourth and
final book to the more hazardous terrain of what the ruler ought to hear. If in
book 2 Federico had defined the perfect courtier as someone who “loves and
even adores the prince he serves beyond anything else” – provoking Pietro’s
understandable protest that what he was depicting was nothing other than “a
noble adulator” – this was because at that stage of the discussion the interlocutors were still considering only how the courtier should best endorse and
encourage his ruler’s desires “that are reasonable and honest, i.e. those that
in themselves are neither good nor evil, like playing or engaging in one activity rather than another”6. But at the beginning of book 4 Ottaviano shifts the
discussion upwards to the plane of moral philosophy, redefining the courtier
now as someone who must lead his ruler towards the good and dissuade him
from evil and who must use the truth for this end: in this new light it turns
out that the perfect courtier is the one who has obtained “to such a degree the
benevolence and spirit of the prince he serves that he can tell him, and always
tells him, the truth about every matter that it is appropriate for him to know,
without fear or risk of displeasing him” (IV 5, p. 368). The following chapters
(IV 6-10, pp. 369-375) go on to offer a detailed analysis of the risks involved
in telling the ruler unpleasant truths and provide advice on how those risks
can be, if not altogether eliminated, at least somewhat reduced. Yet the praise
of the perfect courtier as master of truth (IV 5, pp. 368-369) and of the truth
itself as the indispensable foundation of all good and of every virtue (IV 6, pp.
369-370) accords oddly if at all with the merciless analysis of the arrogance
of self-delusion as an almost unavoidable component of the psychology of
power (IV 7, pp. 370-372) and with the contrast between ancient princes,
who sought the best counsel from the wisest philosophers, and their modern
counterparts, who, shown “the horrid countenance of true virtue, … would
abhor it like an asp or make fun of it like the most worthless of things” (IV
6
A. QUONDAM - N. LONGO (edd.), Baldassar Castiglione. Il Libro del Cortegiano, Milano 1981, book
II, chapter 18, p. 144. Further quotations are taken from this edition and are indicated by book and
chapter number followed by page number; all translations are my own.
Power and Truth in Archaic Greece – and After
17
8, p. 373). And when Castiglione finally brings these two separate lines of argument together into the compass of a single sentence, he simply juxtaposes
them paradoxically with the bare expedient of a simple sign of punctuation,
a colon or comma, without in the least explaining how they can be related
cogently to one another:
Dico adunque che, poi che oggidì i principi son tanto corrotti dalle male consuetudini, e dalla ignoranzia e falsa persuasione di se stessi, e che tanto è difficile il dar loro
notizia della verità ed indurgli alla virtù, e che gli omini con le bugie ed adulazioni
e con così viziosi modi cercano d’entrar loro in grazia7, il Cortegiano, per mezzo di
quelle gentil qualità che date gli hanno il conte Ludovico e messer Federico, po facilmente e deve procurar d’acquistarsi la benivolenzia, ed adescar tanto l’animo del suo
principe, che si faccia adito libero e sicuro di parlargli d’ogni cosa senza esser molesto;
e se egli sarà tale come s’è detto, con poca fatica gli verrà fatto, e così potrà aprirgli
sempre la verità di tutte le cose con destrezza… (IV 9, pp. 373-374)
The sentence that begins with a baleful analysis of hopelessly corrupt present circumstances suddenly and astonishingly goes off after the word “grazia”
in a completely different direction, beginning with the words “il Cortegiano,”
into a eulogy of the perfect courtier who, somehow, can alone entirely redeem
them. The point at which these two half-sentences make contact, the sign of
punctuation between the two phrases cited, does not really unite them into a
single coherent conceptual structure but instead creates a logical anacoluthon
that implicitly asserts the fundamental incompatibility between the real and
the ideal. What place is there then for truth at court?
***
Machiavelli and Castiglione, typical humanists in this regard too, imagined
that matters were much better in antiquity than in their own times and did
not hesitate to castigate their contemporaries by appeal to the example of the
ancients. But in fact, the unambiguous lesson of antiquity is that most Greeks
and Romans recognized acutely and dispassionately the very same problems
and paradoxes as their Renaissance successors did. After all, Greek literature
7
In the edition of Quondam and Longo, this punctuation sign appears as a comma; in other modern
editions a colon is used. I have not checked the 16th century editions, nor does it seem to me indispensable
to do so. For it does not much matter just what sign was used in them: in the Renaissance the usage of
such punctuation signs was not standardized as it is nowadays, when a colon signifies that the material that
follows explicates the material that precedes; in the Renaissance this was only one use of the colon, which
otherwise could indicate a pause of any sort stronger than a comma and weaker than a period. No sign of
punctuation, by itself, could possibly resolve this logical discrepancy; if anything, Castiglione should have
written not “poi che” at the beginning of this sentence but instead “ben che” or “sebbene.”
18
Glenn W. Most
begins with a scene in which an irascible and incompetent leader, Agamemnon, not only demonstrates that he is quite incapable of accepting good advice
but instead is driven by the wise advice of sage counselors into an even greater
fury8. And Herodotus shows various scenes of power incapable of learning
from wisdom: Croesus gives the visiting Solon an easy opportunity, well prepared by a visit to inspect the royal treasuries, to answer the classic panegyric
question, who is the happiest man he has ever seen, and the king becomes
first perplexed and then infuriated at his visitor’s unaccountable inability to
give the obvious answer, namely Croesus himself (Croesus sends him off contemptuously as a fool, and the gods later destroy Croesus for his presumption
in supposing himself the happiest of men, I 30-34); again, when Xerxes proposes to invade Greece, the canny courtier Mardonius knows exactly how to
win his favor, by beginning his speech, in which he enthusiastically supports
the Great King’s foolhardy plan, with the words, “Of all Persians who have
ever lived, and of all who are yet to be born, you, my lord, are the greatest. Every word you have spoken is true and excellent…” (VII 9), while Artabanus,
who alone, as Xerxes’ uncle, dares to disagree with him, meets with contempt
and abuse (VII 11); later, when it occurs to Xerxes to actually ask a Greek,
Demaratus, about Greece, the canny Greek begins by asking, “My lord, is it a
true answer you would like, or merely an agreeable one?” and Xerxes assures
him he will not suffer if he tells the truth – but then responds to his realistic
and prophetic assessment by laughing at him and ignoring it (VII 101-105).
For the rest of antiquity, historians will continue to tell of good advice
not taken, with disastrous consequences; moralists like Plutarch will provide
well meant but evidently largely futile tips on how to tell a flatterer from a
friend9; rhetoricians like Menander Rhetor will compile much more useful
handbooks on how to compose successful epideictic speeches10; and orators
like Dio Chrysostom will begin their adulatory speeches for an imperial patron by flatteringly assuring him, “I, most noble Prince, have been in your
company and am perhaps as well acquainted with your character as anyone,
and know that you delight in truth and frankness rather than in flattery and
guile”11. Plato’s celebrated claim that his ideal city will only come into existence when the philosopher and the king are one and the same person12 can
be inverted and interpreted not only as a wan utopian hope but also as the
clear-eyed statement of a permanent problem: given that the philosopher and
the king will in reality always be two different persons, in Sicily as elsewhere,
8
9
10
11
12
Homer, Iliad I 24ff.
Plutarch, Quomodo adulator ab amico internoscatur (Moralia 48E-74E).
D.A. RUSSELL - N.G. WILSON (edd.), Menander Rhetor, Oxford 1981.
Dio Chrys., Oratio III 2.
Plato, Republic V 473C-D.
Power and Truth in Archaic Greece – and After
19
logos and kratos will never come to coincide in the real city, and their collision
is inevitable – then as now.
***
Epinician poetry was for archaic Greece what a panegyric speech was for
the Roman Empire: an opportunity, bestowed by success, to gratify power
by a ceremony of public praise13. Since the man who had won the prize at a
(usually) athletic competition was paying for the poet to compose an ode that
would be sung in his honor (presumably by a chorus) in a public commemoration of his victory at his home town (or, more rarely, at the site of his victory), he is likely to have expected, and to have received, a poetic composition
celebrating his merits, athletic and otherwise, in no uncertain terms. Numerous anecdotes transmitted by ancient authors report – probably unreliably
for the exact details, but doubtless significantly for the general social situation
involved – the various kinds of unpleasantness that could come about if the
patron’s expectations were not fulfilled14; and Pindar for one makes no secret
of the facts that his poetry is being paid for (Isthm. II 1-13) and that the victor
has other means available to celebrate his triumph besides paying for such
poems, for example commissioning a statue (Pindar, for one, proclaims that
his poems achieve the same purpose but far more effectively: Nem. V 1-7). So
there is no doubt that, in a certain sense and to a certain degree, epinician poetry is simply one particular species among others of the larger genus of praise
discourse, differing for example from panegyric orations by being composed
and performed in sung verse rather than spoken prose, from hymns by praising men rather than gods, from threnodies by praising the living rather than
the dead, from encomia by praising an athletic victory, and so forth.
To say that epinician poetry praises its patrons is not news; but it is one
thing to say that the general purpose of an epinician poem is to praise its
patron and quite another to say that this is the only or essential purpose of an
epinician poem and that this is the purpose not only of the poem as a whole
but of every single aspect and component of it. And yet precisely these latter
were the claims Elmore Bundy made in 1962 when he asserted “…one master
principle: there is no passage in Pindar and Bakkhulides that is not in its primary intent enkomiastic – that is, designed to enhance the glory of a particular
patron” and declared, “it should be evident that the Epinikion must adhere to
13
In terms of the questions posed here, it would be useful to compare epinician poetry with inscriptions in honor of athletic victors. See for example the material collected in L. ROBERT, Les gladiateurs
dans l’Orient grec, Paris 1940; J. EBERT, Griechische Epigramme auf Sieger an gymnischen und hippischen
Agonen, Berlin 1972.
14
E.g., on Simonides: Cicero, De oratore II 86; Quintilian, Inst. Orat. XI 2,11-16.
20
Glenn W. Most
those principles that have governed enkomia from Homer to Lincoln’s Gettysburg Address…”15. Progress in scholarship, doubtless, is often achieved by
the enunciation of provocatively one-sided, reductive theses; but it does not
require much reflection to see that it is a non sequitur to infer from the assertion that a genre has the finality of praise the consequences that this must be
its only finality and that of all its elements. It is, after all, the purpose of an
automobile, be it a Smart Car or a SUV, to get its driver and passengers safely,
quickly, and economically to their destination; but is that the sole purpose of
every single part of an automobile, including its styling, its color, its chrome,
and the small mirror on the back of the front passenger’s windshield visor?
In fact, there were many constraints upon epinician poetry that limited and
modified the degree and the kinds of praise it was able to express. For one
thing, as I have argued elsewhere16, the epinician situation confronted poets
like Pindar and Bacchylides with two different, indeed almost contradictory
tasks, which we can call individualization and integration. The institutionally
public character of choral lyric meant that epinician poems, as distinguished
from the somewhat more restrictedly accessible monodic lyric, had to satisfy
not only the victor and his family but also his polis – one superficial but infallible proof of this is the praise for the victor’s city which epinicians almost
always link with the praise for the victor himself. But these two different addressees, the victor and his city, confronted the poet with two very different
challenges. On the one hand he had to celebrate the victor in the fullness of
his triumph – after all, it was the victor who had paid for the poem, and he
certainly expected the poet to praise him so that he seemed better than all
other men and worthy of his victory. But on the other hand the poet also had
to take account of the expectations and needs of the victor’s fellow-citizens, if
they were not to reject the victor as arrogant and dangerous to the community.
That is why the epinician poets sing not only of the victor’s great felicity and
brilliant success, but also of the insuperable limits of human possibility, and
why they not only magnify the victor’s unique lot but also warn him at the
same time to exercise self-control and moderation – thereby of course further
praising the victor, for such a warning has little sense applied to the anonymous masses. The epinician poet’s success in dealing with this complex and
delicate situation can only be achieved by running along the razor’s edge, the
kairos, on both sides of which lurk serious dangers for his enterprise: if the
poet exaggerates integration at the cost of individualization, the patron will be
15
E. BUNDY, Studia Pindarica, I, Berkeley 1962, 3.
Poet and Public: Communicative Strategies in Pindar and Bacchylides, in P. AGOCS - C. CAREY - R.
RAWLES (edd.), Receiving the Komos, London 2011 (forthcoming). See also e.g. K. CROTTY, Song and Action. The Victory Odes of Pindar, Baltimore 1982; L. KURKE, The Traffic in Praise. Pindar and the Poetics
of Social Economy, Ithaca - London 1991.
16
Power and Truth in Archaic Greece – and After
21
angry with him; but if he exaggerates individualization at the cost of integration, then the patron’s fellow-citizens will be angry with the patron.
That is why most epinician poems do their best to preserve a careful balance between celebration and admonition, between outright praise for the
victor and his achievement on the one hand and reminders on the other hand
that human success is always limited and impermanent and lies in the hands
of the gods. No epinician poet names a successful mortal without insisting
upon his mortality and his dependence for his success upon divine favor; and
just behind the constantly emphasized jealousy of the gods, which is always
possible, lurks the envy of men, which is absolutely certain. Sometimes indeed
the poet can only manage to hit the golden middle of the kairos by swinging
back and forth repeatedly between the two extremes on either side of it. A
passage in Pindar’s Tenth Pythian, composed for Hippocleas of Thessaly, winner in the boys’ diaulos in 498 B.C.E., illustrates this tendency with particular
clarity – no doubt not so much because it is Pindar’s earliest dated poem, as
rather because it is addressed to a very young victor and the poet can therefore permit himself to adopt a tone even more didactic than is his wont. The
numbers in parentheses are intended to help articulate this passage logically,
along the lines explained immediately after the citation:
(1) tiv kompevw para; kairovn; (2) ajllav me Puqwv
te kai; to; Pelinnai`on ajpuvei
jAleuva te pai`de", JIppokleva qevlonte"
ajgagei`n ejpikomivan ajndrw`n kluta;n o[pa.
geuvetai ga; r ajevqlwn:
stratw`/ t∆ ajmfiktiovnwn oJ Parnavssio" aujto;n mucov"
diaulodroma`n u{paton paivdwn ajneveipen.
(3) [Apollon, gluku; d∆ ajnqrwvpwn tevlo" ajrcav
te daivmono" ojrnuvnto" au[xetai:
oJ mevn pou teoi`" te mhvdesi tou`t∆ e[praxen,
(4) to; de; suggene;" ejmbevbaken i[cnesin patrov"
jOlumpionivka di;" ejn polemadovkoi"
[Areo" o{ploi":
e[qhke kai; baquleivmwn uJpo; Kivrra" petra`n
ajgw;n krathsivpoda Frikivan.
(5) e{poito moi`ra kai; uJstevraisin
ejn aJmevrai" ajgavnora plou`ton ajnqei`n sfivsin:
tw`n d∆ ejn JEllavdi terpnw`n
lacovnte" oujk ojlivgan dovsin, mh; fqonerai`" ejk qew`n
metatropivai" ejpikuvrsaien. qeo;" ei[h
ajphvmwn kevar: (6) eujdaivmwn de; kai; uJmnhto;" ou|to" ajnh;r givnetai sofoi`",
22
Glenn W. Most
o}" a]n cersi;n h] podw`n ajreta`/ krathvsai"
ta; mevgist∆ ajevqlwn e{lh/ tovlma/ te kai; sqevnei,
kai; zwvwn e[ti nearovn
kat∆ ai\san uiJo;n i[dh/ tucovnta stefavnwn Puqivwn.
(7) oJ cavlkeo" oujrano;" ou[ pot∆ ajmbato;" aujtw`/:
(8) o{sai" de; broto;n e[qno" ajglaiüvai" aJptovmesqa, peraivnei pro;" e[scaton
plovon: (9) nausi; d∆ ou[te pezo;" ijwvn <ken> eu{roi"
ej" JUperborevwn ajgw`na qaumasta;n oJdovn.
(10) par∆ oi|" pote Perseu;" ejdaivsato lagevta"… (Pyth. X 4-31)
(1) Why am I vaunting inappropriately? (2) Rather, Pytho [i.e., the site of the victory]
and Pelinna [i.e., the victor’s town] are calling upon me, and Aleuas’ sons [i.e., the
victor’s family], who are eager to bring to Hippokleas men’s glorious voices in revelry,
for he competes in the games, and the valley of Parnassos proclaimed him to the host
of neighboring people the best of the boys who ran the diaulos. (3) Apollo, sweet
waxes the end and the beginning for men when a god is prompting. He achieved this,
I believe, through your designs, (4) but by inherited ability he has trod in the footsteps
of his father, twice an Olympic victor in Ares’ armor that bears the shock of war; the
contest in the deep meadow beneath Kirrha’s cliff [i.e., at Pytho] also made Phrikias
[probably Hippocleas’ father rather than his father’s horse] a victorious runner. (5)
May destiny attend them as well in coming days to make lordly wealth blossom for
them. And having been granted no small share of delightful successes in Hellas, may
they encounter from the gods no envious reversals. May the god not be pained in
heart. (6) But blessed and a worthy subject for song in wise men’s eyes is that man,
who conquers with his hands or the excellence of his feet and wins the greatest prizes
with courage and strength, and while still living sees his young son duly win Pythian
crowns. (7) The bronze heaven is never his to scale, (8) but as for all the glories which
our mortal race attains, he completes the furthest voyage. (9) And traveling neither
by ships nor on foot could you find the marvelous way to the assembly of the Hyperboreans. (10) With them Perseus, the leader of people, once feasted…17
A brief analysis of this passage, sentence by sentence, shows clearly how Pindar oscillates here from one side of the kairos to the other. (1) The poet begins
by pretending that his praise of Hippocleas might be in violation of right measure, the kairos (para kairon). (2) But he immediately sets matters straight: he is
obliged to praise him by the fact of the boy’s victory and the pressure of both
his family’s expectations and his town’s. (3) And yet the true merit for the victory belongs not to Hippocleas himself but rather to the god Apollo. (4) But
not only to the god: for the boy has inherited his athletic ability from his human
family, and in passing Pindar slips in some praise for the past victories of Hip17
I quote the translation of W.H. RACE (ed.), Pindar. Olympian Odes. Pythian Odes, Cambridge,
MA - London, 1997, 359-361.
Power and Truth in Archaic Greece – and After
23
pocleas’ father. (5) So far the gods have indeed shown favor to this family, but
there is no certainty that they will continue to do so and we can only hope that
they will. (6) And yet the success the members of this one family have already
achieved, victory in the games for oneself and one’s son, is already an enormous
accomplishment and well worthy of praise. (7) And yet the heavens, the domain
reserved for the gods, remain forever beyond their reach. (8) But they have attained the farthest limit to which human felicity can aspire. (9) But beyond that
limit lies the land of the mythical Hyperboreans, which no man can reach by
sailing the sea or traveling on land. (10) And yet the legendary Perseus did get
there, in a way neither Hippocleas nor his family nor any of Pindar’s listeners
ever will be able to imitate, namely by flying through the air – and with that
Pindar himself flies off into a lengthy narrative of the Hyperboreans’ easy life
and Perseus’ heroic exploits. We can well imagine that young Hippocleas, if he
even bothered to pay any attention to the details of Pindar’s poetic text, will
have felt somewhat confused by them – but both he and his father, and Thorax,
the head of the local Thessalian political dynasty, who seems to have paid for
the poem, as well as those of their fellow-citizens who attended its performance,
will doubtless have been sufficiently pleased by a general if somewhat vague
impression of poetic grandeur, of lofty if not completely novel thought, and
of noble if not fully pellucid expression, to have felt that whatever money had
been paid for the commission had been very well spent indeed.
So the epinician poet’s praise for the victor must always be confined within
carefully defined limits if it is to be effective. But beyond this general constraint,
which applies to all epinician poems by virtue of their generic situation of performance, other factors that derive from the specific circumstances of the individual
victory operate to influence the poetic expression of praise. For even if the general epinician situation is constituted by the necessary co-presence of both contradictory aspects, individuation and integration, nonetheless the exact balance
between them is up to the poet, who is free to place the emphasis in any single
case wherever the specific character of the individual situation seems to him to
require it. Thus, for example, on the one hand Pindar praises the city more emphatically when the victor comes from Athens (Pyth. VII), Corinth (Ol. XIII) or
Thebes (Isthm. VII) than in other cases, doubtless because a strong sense of civic
pride seems especially to have characterized these towns and would have made
it imperative for the victor’s sake to reintegrate him into the social tissue; and so
too, it is evidently felt to be impossible for a poet to celebrate the victory of any
Aeginetan athlete adequately without appealing to the legends of the Aeacids,
in which all Aeginetans evidently felt they had a personal stake18. On the other
18
See most recently A. PIPPIN BURNETT, Pindar’s Songs for Young Athletes of Aegina, Oxford 2005;
S. HORNBLOWER, ‘Dolphins in the Sea’ (Isthmian 9.7): Pindar and the Aeginetans, in S. HORNBLOWER - C.
24
Glenn W. Most
hand, Pindar’s songs for victors from Cyrene or Sicily, who by and large were
kings, tyrants, or their close friends and relatives, tend much more to emphasize their own achievements as powerful and successful individuals, and to
allude if at all to the glory of the hometown only so as to enhance even further
the celebration of its ruler’s power and success19.
The poems for Sicilian victors in particular raise the question whether
the special circumstances that governed epinician odes composed to be performed at a tyrant’s court might in some way have been reflected in the detailed rhetorical strategies deployed in them. To be sure, none of the patrons
for whom Pindar’s or Bacchylides’ poems were composed was a total nobody;
but it would after all not be very surprising if it turned out upon inspection that the kinds of praise that could be bestowed upon an ordinary, albeit
wealthy and athletically inclined, citizen of a typical Greek polis differed in
quantity and quality from that which could be expected to please a Sicilian tyrant or his henchmen. A century later, Xenophon took Hieron of Syracuse as
the paradigm of a ruler to whom no other kind of discourse was ever directed
at court than flattery; and although Xenophon was writing in his dialogue
Hieron as a moralist and not as a historian, his expectations for what life was
like at a tyrant’s court are likely to have been widely shared by other Greeks
and hence not to have been very far off the mark regarding conditions in Sicily or elsewhere. In Xenophon’s dialogue, the praise poet Simonides, thinking to flatter Hieron, tells him, “Praise, the sweetest of all sounds, is never
lacking, for all your courtiers praise everything you do and every word you
utter. Abuse, on the contrary, that most offensive of sounds, is never in your
ears, for no one likes to speak evil of a despot in his presence”20. But Hieron’s
response reveals the disadvantages of this seemingly idyllic situation: “And
what pleasure comes, do you suppose, of this shrinking from evil words, when
one knows full well that all harbor evil thoughts against the despot, in spite
of their silence? Or what pleasure comes of this praise, do you think, when
the praises sound suspiciously like flattery?” (15). Praising a victorious tyrant
who was bored and suspicious of flattery must have posed special challenges
for a professional technician of praise. For at least some poets, this challenge
may itself have been very attractive indeed, and may have made the financial
allures involved in such an undertaking even more appealing than they would
already have been on their own account.
MORGAN (edd.), Pindar’s Poetry, Patrons, and Festivals. From Archaic Greece to the Roman Empire, Oxford 2007, 287-308.
19
See most recently A.D. MORRISON, Performances and Audiences in Pindar’s Sicilian Victory Odes,
London 2007.
20
Xenophon, Hieron 14. Here and below I quote the translation of E.C. MARCHANT (ed.), Xenophon
in Seven Volumes. VII. Scripta Minora, Cambridge, MA 1968, 7.
Power and Truth in Archaic Greece – and After
25
Let us start with Bacchylides, a simpler and less voluminously transmitted
poet than Pindar, and ask how, with regard to his tactics of praise, his poems
for Sicilian tyrants differ from his other productions. As it happens, we possess three epinicia of Bacchylides addressed to Hieron of Syracuse; his other
surviving poems celebrate victors, from Ceos and other parts of Greece, who
were successful athletically but unremarkable politically. At least four striking features that are interesting in this connection are found prominently and
repeatedly in these three poems of Bacchylides for Hieron but are attested far
more rarely, if at all, in his other extant poems:
1. the poet’s explicit citation of what other people are saying, be it praise or
blame (III 9-10; 63-71; 96-98);
2. his asseveration that he himself at any rate is telling the truth about the victor (III 96; V 187-190);
3. his emphasis upon his sincere personal eagerness to praise the victor (IV
9-10; V 14-16; 195-197);
4. and his lavish praise for the victor’s intelligence (III 85; V 3-6).
Now none of these features would be particularly surprising on its own in
a poem of praise for any athletic victor; but it seems unlikely to be due merely
to the accidents of transmission that they are not found in Bacchylides’ other
poems in such concentration or so conspicuously. Surely it makes more sense
to interpret them as symptoms of the particular discursive conditions less typical of ordinary upper-class Greek households than of Hieron’s court, where
we would expect to find: (1) a situation requiring a heightened and constantly
wary attentiveness to what other people were saying and vigilant evaluation of
the possible motivations behind utterances; (2) the insistence that, whatever
fulsome or abusive lies other people have been telling, the speaker himself is
now telling the truth in his gratifying discourses to the ruler; (3) the guarantee
provided for the speaker’s claimed veracity by his profession of ardent friendship and sincere benevolence; and (4) the explicit praise for the tyrant’s perspicacity, his ability to see through other people’s deceptions and appreciate
what this speaker claims to be his own genuine candor.
If this is so, it will not surprise us to find that precisely the same four features are found repeatedly in Pindar’s odes for tyrants and kings as well:
1. the poet’s explicit citation of what other people are saying, be it praise or blame
(Pyth. I 51-52; 81-84; II 71-73; 81-82; 86-88; 89-92; V 107-108; Nem. I 24-25);
2. his asseveration that he himself at any rate is telling the truth about the victor (Ol. II 90-95; Pyth. II 83-85; V 107-108; Nem. I 18-19);
3. his emphasis upon his sincere personal eagerness to praise the victor (Ol. I
3-6; 103-105; 108-111; III 38-41; Pyth. I 42-45; III 1-3; cf. Fr. 118 Sn.-M.);
4. and his lavish praise for the victor’s intelligence (Ol. II 83-85; Pyth. II 5758; 72; 73-74; III 80-82; V 17-19; VI 47-49; Isthm. II 12).
26
Glenn W. Most
To be sure, more of Pindar’s epinician poems are preserved than of Bacchylides’, and Pindar is the more complex of the two poets, so that it is possible to
find a few more such passages in Pindar’s poems written for victors other than
tyrants and kings than is the case with Bacchylides; but even if the contrast between the poems written for the two kinds of dedicatee, which was fairly stark
with Bacchylides, does become very slightly murkier with Pindar, still the contrast
between these two types of epinicians certainly seems to hold for both poets.
There are also, as we would expect, not only striking similarities between the
ways in which each of the two poets deals with the discursive exigencies at the
tyrant’s court but also various differences. Above all, Pindar, unlike Bacchylides,
does not hesitate on occasion to give the appearance of admonishing sternly his
powerful client and he dispenses various kinds of sober advice to him (Pyth.
I 85-94; II 72; IV 270-278; cf. Fr. 126 Sn.-M.)21. In so doing the poet seems
to wish to demonstrate not only his own rectitude, independence, and candor
– the parrhêsia which for an Athenian would be an essentially political value,
closely linked to the ideology and identity of the city and its citizens, seems in
Pindar’s case to be more a reflection of his special poetic and religious status,
guaranteed by the Muses – but also the ruler’s love of free speech and his ability
to accept good advice, especially when it is well meant and carefully phrased.
To be sure, the tyrant’s real power over a distinguished foreign poet like Pindar
must have had its limits; but if the poet wished to receive future commissions
from the same patron, as Pindar often suggests (e.g., Ol. I 115-117; Pyth. II 96),
he will have been well advised to do his best to understand the delicate situation
at court and to adapt himself to it appropriately – and, what is more, if he hoped
to receive future commissions from patrons elsewhere in the Greek world (who
might not necessarily have been great admirers of the Sicilian tyrants), he will
have been well advised to make sure that he could be thought of not simply as
Hieron’s toady but as someone who could speak frankly to the ruler’s face (and
doubtless this too would redound to Hieron’s credit)22.
As so often in panegyric, the poet who insists that his patron should act in
some particular virtuous way, so far from implying that that patron has ever acted
otherwise in the past and must now stand abashed and corrected, is in fact intimating that he has always followed the path of this virtue anyway and does not in
the least need this encouragement in order to continue doing what comes naturally to him. Public praise, if administered shrewdly and tactfully, could not only
tolerate a bit of admonition, but could even be enhanced by it – at least back then.
21
For a different view of such passages, see B. GENTILI, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da
Omero al V secolo, Bari 1984, 141-151.
22
For a similar argument about Simonides’ poem for Scopas, see my Simonides’ Ode to Scopas in
Contexts, in J.P. SULLIVAN - I.J.F. DE JONG (edd.), Modern Critical Theory and Classical Literature, Leiden
- New York - Köln 1994, 127-152.
HIERON AGONISTES OR THE MASKS OF THE TYRANT
NINO LURAGHI
L.E. Rossi
in memoriam
Especially during the late archaic period, Greek tyrants seem to have been
enthusiasts of agonistic events, with a clear and consistent preference for the
hippic competitions. Victories in the chariot races at the Panhellenic games
are documented for a good number of tyrants from mainland Greece1, but
of course, the most impressive evidence for this phenomenon is represented
by the odes written by Pindar and Bacchylides in celebration of the victories
of the tyrants of Syracuse and Akragas in hippic events at the Panhellenic
games2. Because of the very high cost and total uselessness of racehorses, the
horse and chariot races were reserved to the wealthiest among the Greek upper class3. For tyrants, this sort of event presented one additional advantage
* This paper brings together and develops some observations that were sketched in LURAGHI 1994,
complementing them with new ones and updating them in the light of new research. An early version of
it was presented in Luigi Enrico Rossi’s seminario, and more recently in Princeton. My sincere thanks go
to all three audiences, and to Dr. Gianpaolo Urso for organizing the conference in Cividale and overseeing the publication of the proceedings with curteous efficiency. Immediately before submission, my colleague Andrew Ford has offered invaluable support in the form of corrections and suggestions. His keen
eye has saved me from many an infelicity in style and substance. Scholarship on Pindar is endless, and any
attempt at comprehensiveness in the footnotes would be self-defeating. Accordingly, references are kept
to a minimum, and the commentaries to Pindar and Bacchylides are presupposed rather than quoted,
with few motivated exceptions. All dates are intended BCE unless otherwise specified. This contribution
is a very modest tribute to the memory of a distinguished scholar and an exquisite gentleman.
1
Apart from the Western Greek tyrants, the list includes Myron of Sikyon (Olympics of 648, Paus.
6,19,1-2), Kleisthenes of Sikyon (Pythian games of 582, Olympics of 572; Paus. 10,7,6-7 and Hdt. 6,126 respectively), possibly Periander of Corinth (Olympics, date uncertain; Ephorus, FGrHist 70 F 18), and Peisistratos
(victory ceded by Kimon Koalemos, Hdt. 6,103). Note also the victory of Gelon, still tyrant of Gela, with the
chariot at the Olympics of 488 (Paus. 6,9,4). On archaic tyrants and agonistic competitions, see CATENACCI 1992.
2
For a full list of odes, preserved and fragmentary, and with certain or tentative dates, see CATENACCI 2006, 197. Documented victories of the Deinomenidai and their acolytes are listed in BONANNO 2010,
185-186, with references to the relevant evidence.
3
Note the revealing terminology of Herodotus: the family of Miltiades the Elder was an oijkivh
teqrippotrovfo" (6,35).
28
Nino Luraghi
over athletic competitions. For them, it would have been extremely problematic to take a break from their despotic activities in order to train for the
games, let alone to travel to the Panhellenic sanctuaries in order to participate, thereby offering their fellow-citizen an attractive occasion to overthrow
their rule. Tyrants therefore preferred specialties that did not require their
personal presence, as was the case with horse and chariot races, in which the
competitors, the people whose names were proclaimed in case of victory, were
the owners of the horses, and the jockeys or the charioteers played a rather
secondary role, being usually professionals hired for the purpose.
In their participation in competitions, as in other aspects of their public
persona, we can observe the complex and ambiguous relationship of tyrants
with the competitive ethos that defined Greek social elites, encapsulated by
the Homeric imperative aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn, an
ethos of which tyranny was the ultimate, repressed, and logical consequence4.
The archaic tyrant appears to have behaved as a sort of professional aristocrat5, engaging in a systematic and organized fashion into all the leisure
activities that marked elite lifestyle in archaic Greece. In this perspective, his
attitude to competitions appears to have been similar to his attitude to lyric
poetry. It has often been remarked that tyranny seems to have encouraged
the emergence of professional poets that can be observed in Greek literature
from the second half of the sixth century6. The tyrant’s symposion is precisely
the environment where we see in action characters like Anakreon, surely an
aristocrat and a poet, but probably, more of a poet and less of a politically selfconscious and engaged aristocrat than somebody like e.g. Alkaios. Sympotic
poetry, a necessary feature of the aristocratic symposion, was organized by
the tyrant through recourse to professionals, and by the same token, when it
came to competitions the tyrant did not leave anything to chance. Rather than
entering the arena, he invested heavily in horses and jockeys, taking advantage
of his position of economic superiority with respect to any competitor – and
once the victory had been achieved, he invested in victory odes, commissioning the best poets of the day, and in lavish victory monuments7.
4
On tyranny as an expression of the competition for power within the elite, see especially HEUSS
1946, followed most notably by STAHL 1987; DE LIBERO 1996; STEIN-HÖLKESKAMP 2009. On the ethos
of archaic Greek elites as articulated in archaic poetry, FRÄNKEL 1969 and ADKINS 1972 are two classics;
for a more explicitly sociological approach, see DUPLOUY 2006, who also integrates the archaeological
evidence in a very persuasive and helpful way.
5
Note the perceptive comments in KURKE 1999, 131-132 on the Deinomenidai as hyperaristocrats.
6
See WEBER 1992, 42-51.
7
In this, too, the Syracusan tyrants excelled: their dedications include two bronze chariots dedicated at Olympia by Gelon and by Deinomenes, Hieron’s son, respectively (Paus. 6,9,4 and 12,1), and
the monument of which the Delphic charioteer was part; see SMITH 2007, 124-130. In general, for an
overview of Western Greek presence in the Panhellenic sanctuaries see ANTONACCIO 2007.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
29
The choice to compete on equal footing with the cream of Greek social
elite expresses the tyrant’s wish to be seen (also) as an excellent member of
this group. The magic kleos that shines on the victorious athlete was obviously
a very attractive commodity for a tyrant, who wielded a de facto power, tied
exclusively to his person, without a constitutional framework, a power that
could legitimize itself only in charismatic terms8. At the same time, donning
the robe of the victorious competitor was a tricky proposition for a tyrant. For
a victorious athlete, victory translated itself into symbolic capital to be used
typically in the competition for status and power within the city9. The tyrant
was the man who had reaped the ultimate success in such competition, overpowering all the other players and thereby bringing the game to a standstill.
He had already seized the first prize in the most important agôn. In his case, a
Panhellenic victory could only be a confirmation, not a revelation.
The complex functioning of the self-representation of the agonist-tyrant
can be observed in the best way by comparing victory odes for tyrants and for
non-tyrannical victors. If it is correct to regard victory odes as, among other
things, the script of a social ritual that reintegrated the victor into the community of the polis, renegotiating their reciprocal relationship in light of the new
situation created by his agonistic success10, we should expect a priori odes
for tyrants to show peculiarities, since the position of the tyrant vis-à-vis the
citizen body could not be equated to that of even the most successful among
its members. Indeed, peculiarities of various sorts have often been pointed
out by scholars. In his book on athletes and the polis, Christian Mann shows
that the connection between the laudandus and heroic models evoked in the
odes is much more direct, closer, and personal when the victor was a tyrant.
In other words, victory odes for tyrants were much more explicit in claiming
heroic status for their patrons11. In a similar vein, Andrew Morrison, in an
investigation of the audiences and performance contexts of Pindar’s Sicilian
odes, has pointed to the very high frequency, in odes for Hieron and Theron
or in praise for Hieron and Theron in odes for related people, of the kind of
praise that he, following William Race, calls ‘superlative vaunts,’ that is, praise
that extols the laudandus by suggesting matchless excellence, thereby implic8
For a discussion of the legitimation of archaic tyranny from the point of view of Max Weber’s
sociology of rule, see MANN 2001, 284-288 (more briefly already MANN 2000, 38). Even from this perspective, the boundary between tyrant and aristocrat remained ambiguous, considering that the ideology of
elite excellence was itself marked by a strong charismatic element; see SLATER 2001.
9
On the sociology of athletic victory in archaic and early classical Greece, see MANN 2001. On the
kleos of the victorious athlete, KURKE 1991 is a classic.
10
On this function of epinician poetry, see especially KURKE 1991 and the recent discussion of the
underlying social dynamics by THOMAS 2007.
11
See MANN 2001, 253-281. Notice the very similar conclusions reached by STENGER 2004, 275-288
in his analysis of the use of gnômai in Bacchylides.
30
Nino Luraghi
itly elevating him above the whole of his fellow-citizens12.
However, in victory odes the exceptional political position of the tyrant
was not addressed only on this implicit way. Right on the surface of the text,
the poets in some cases referred explicitly to the position of political supremacy of the tyrannical laudandus. Here, however, we are confronted with a
dichotomy we would not necessarily have expected a priori. Victory odes for
tyrants show two diverging options: the laudandus can be depicted according
to the traditional aristocratic values, as brave, wise, and of course generous,
as the most aristos of all aristoi in his city, as it were, with generous recourse
to superlative vaunt, or he can be addressed as a ruler, who to be sure is provided in the highest degree of all the virtues just mentioned, but on top of
that wields personal power within the political community. The first option
appears in the odes for the tyrant Theron of Akragas and for members of his
family, the Emmenidai, the second in the odes for Hieron of Syracuse and for
people of his court. The consistency between Pindar and Bacchylides, when
they write for the same patron, shows, in case we had doubts, that what is being reflected is the patron’s will, not the poet’s choice13.
The Emmenidai of Akragas14 are celebrated in four victory odes, all by Pindar. Olympians II and III refer to Theron’s victory at the Olympics of 476, while
the earlier Pythian VI celebrated the victory of Xenokrates, Theron’s brother,
at the Pythian games of 490. Finally, Isthmian II, commissioned by Xenokrates’
son Thrasyboulos, appears to celebrate retrospectively Xenokrates’ victory at
the Isthmian games sometime between 490 and 476. The original ode for this
victory had apparently been composed by Simonides. All the victories were
won in the chariot race. Furthermore, Pindar also composed two encomia,
probably meant for performance in a sympotic context, for Theron and for
his nephew Thrasyboulos, the former possibly in 476, the latter around 49015.
The most explicit statement of Theron’s role in Akragas, the words that
most strongly suggest the suspicion that he was not just an excellent citizen
among citizens, come at the beginning of the most grandiose of the odes Pindar wrote for him, Olympian II (5-8):
12
See MORRISON 2007, 33-34; 52; 84-87; building on Bundy’s terminology, RACE 1987, 137-139 calls
a vaunt ‘a summary evaluation by which an author attests to the superlative quality of his subject.’ Similar
observations in CATENACCI 2006, 184.
13
On this point, in general, see MANN 2000 and, among the most recent scholarship, FEARN 2007,
21; VAN DEN GROENENDAL 2010.
14
For a detailed discussion, see LURAGHI 1994, 231-272.
15
For a catalogue of Pindar’s Akragantine odes and for the possible chronology of the two encomia,
see CATENACCI 2006, 181.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
31
Qhvrwna de; tetr<ao>riva" e{neka nikafovrou
gegwnhtevon, o[pi divkaion xevnwn,
e[reism∆ jAkravganto",
eujwnuvmwn te patevrwn a[wton ojrqovpolin:
But (scil. among men) Theron must be celebrated because of his victorious four-horse
chariot, a man just with guest-friends, a bulwark for Akragas, the best city-securing
offspring of glorious fathers.
The keyword of the praise, ojrqovpoli", appears only here in Greek literature, and otherwise only in inscriptions. A honorary epigram from Termessos
in Pisidia (TAM III 127), dating to the second or third century CE, includes
it in a series of highly literary epithets, many of which are quite rare and may
well derive from Pindar, too. More interestingly, ojrqovpoli" appears as the
name of an Athenian battleship from the age of Alexander the Great (IG II2
1631 line 646). Surely Theron’s role of ‘keeping upright’ or ‘keeping straight’
the polis does suggest his political supremacy, but in a rather benign way. For
the rest, the excellence of the Emmenidai is articulated in conventional, if
occasionally superlative16, terms. In the same Olympian II Pindar assures his
audience that in a hundred years, that is, ever since being founded, Akragas
had not given birth to a man more benevolent in his mind or more generous
with his hand than Theron (101-104). In Olympian III, written for the same
victory and possibly destined for performance in a ritual worshipping the Dioskouroi17, we learn that Theron and the Emmenidai have been granted kudos precisely by the Dioskouroi in reward for the worship they paid to them
(38-41). Then the praise of Theron appears embedded in a typical Pindaric
priamel: if water is best and gold is the most honored of all possessions, now
Theron reaches the farthest point by virtue of his own native excellence and
touches the pillars of Heracles, beyond which nobody can go (Ol. 3,42-44).
Pindar’s two odes for Xenokrates’ victories fall before the beginning and
possibly after the end of Theron’s tyranny at Akragas, and yet, they are hardly
different from Olympians II and III. All four odes celebrate the members of
the family of the Emmenidai, among whom Theron clearly occupies the most
prominent position, as witnessed by the fact that he appears in Pythian VI, for
his brother Xenokrates, and indirectly also in Isthmian II18. This is in itself a
very noteworthy fact, to be sure: appearances in odes dedicated to others are
confined to relatives who have themselves won in stephanite games, which
16
17
18
See Pind. Ol. 2,93-95 with MORRISON 2007, 52.
According to the theory of KRUMMEN 1990, 217-241; see now MORRISON 2007, 53-57.
LURAGHI 1994, 166.
32
Nino Luraghi
was not the case for Theron at the time of Pythian VI19. Otherwise, the wisdom and excellence of Xenokrates is praised, it is made clear that he was held
in high esteem by his fellow-citizens, but on the whole, nothing is said of him
that could not be said about any other victor.
As anticipated, the situation is completely different in the odes for Hieron20.
Needless to say, references to the code of values of late-archaic social elites are
no less frequent than in the Akragantine odes, and Hieron’s excellence and
generosity are praised extensively, but the terminology applied to Hieron makes
it clear that he is not just your usual excellent citizen. Right at the beginning of
the first datable ode for Hieron, Bacchylides’ Epinician V21, celebrating the victory of the horse Pherenikos at Olympia in 476, Hieron is invoked as Eu[moire
Surakosivwn iJppodinhvtwn stratagev, that is, something like ‘fortunate in your
fate, general of the Syracusans, riders of whirling horses’22, while for Pindar,
who celebrated the same victory in his Olympian I, Hieron is the Surakovsio"
iJppocavrma" basileuv", the ‘Syracusan horse-loving23 basileus’ (23), the man
who qemistei`on ajmfevpei ska`pton ejn polumhvlw/ Sikeliva,/ that is, ‘who
wields the scepter of justice in flock-rich Sicily’ (12-13). Let us remind ourselves
that the scepter is a straightforward attribute of divine or heroic monarchy: it
belonged to Homeric basileis, and Pindar and Bacchylides attribute it to Zeus,
Hestia, Tlepolemos, and Pelias (the latter actually wields in Iolkos the scepter
that should have gone to Jason by right of inheritance)24. Together with the
insistent use of basileus referred to Hieron, it forms part of a terminological
complex that suggests an assimilation of the Syracusan ruler to Homeric kings25.
19
Exceptions to this rule include Hieron, on whom see below, and two cases of people who are
thought to have sponsored odes for someone else, the Aleuadai of Larissa (Pythian X, celebrating Hippokles of Pelinna) and Damophilos of Cyrene (Pythian IV, for king Arkesilas of Cyrene). On the Aleuadai, see below n. 43.
20
On all aspects of Hieron’s life and afterlife, see now BONANNO 2010, with full references to evidence and scholarship.
21
For an introduction to this ode, its chronology and occasion, see now CAIRNS 2010, 75-92.
22
Notice the vocative: Epinician V opens with lines that read like a hymn to Hieron, a rare feature
on which see the comments of CAIRNS 2010, 82.
23
More likely than ‘fighting with horses,’ the other possible translation of iJppocavrma"; see GERBER
1982, 49.
24
Since according to Homer the themistes were given by Zeus to the kings, Pindar’s statement essentially representes Hieron’s power as divinely ordained; see GERBER 1982, 32-33. For a discussion of the
symbolical meaning of the scepter in Homer, see VAN WEES 1992, 274-280. On the possible implications
of the reference to Sicily in this passage, see below, p. 42 and n. 56.
25
On kingship in Homer, see especially the comprehensive discussion of the evidence in CARLIER
1984, 137-230; on Pindar casting Hieron as a Homeric basileus with the references to the scepter and the
themistes, see HARRELL 2002, 441-442.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
33
All the odes for Hieron repeat this concept with variations in the terminology. In Pythian II, not earlier than 477/6 and celebrating a victory with the
chariot in an unidentified competition,26 Hieron is called indirectly basileuv"
(13-14), and directly pruvtani" kuvrio" polla`n eujstefavnwn ajguia`n kai;
stratou`, that is, ‘lord and master of many streets crowned by fine battlements
and of a host of men’ (58). Prytanis, a word of Anatolian origin, indicated
the supreme magistrate in various Greek cities, and appears as an attribute
of gods in poetry: of Poseidon in Stesichoros (PMG 235), of Zeus in Pindar
(Pyth. 6,24) and in tragedy27. In Bacchylides (19,43), Epaphos is the prytanis
of the Egyptians. In other words, even more unambiguously than basileus, the
term carries associations of heroic or divine rulership28. In mysterious Pythian
III, an ode written for an unknown occasion whose very presence among the
epinicia is puzzling29, the only clear-cut thing is the depiction of Hieron as a
ruler: he is the one who Surakovssaisi nevmei basileuv", prau>;" ajstoi`", ouj
fqonevwn ajgaqoi`", xeivnoi" de; qaumasto;" pathvr (70-71), ‘who rules as a
basileus over Syracuse, gentle to the citizens, not begrudging to the agathoi30,
and a venerable father for xenoi.’ Further variations appear in the two odes
that celebrated Hieron’s victory with the chariot at the Pythian games of 470,
Pindar’s grandiose Pythian I31 and Bacchylides’ short Epinician IV. At the
beginning of the latter, Hieron is called ajstuvqemi" (2), something like ‘just
ruler of the city,’ while Pythian I, after some complicated allusions to Spartan
kingship which will be discussed more in detail below, calls Hieron aJghth;r
ajnhvr (69), a leader, whose task it is da`mon geraivrwn trevpein suvmfwnon ej"
hJsucivan (70-71), i.e., honoring the people, or more precisely, granting the people the geras that is due to it, to turn it to harmonious peace. A few lines later, in
a reference to the battle of Kyme of 474, Hieron is called Surakoisivwn ajrcov"
(73), with a rare word of transparent etymology, used in the Iliad as synonymous
with basileus (1,144) and by Pindar himself as an epithet of heroes32. Finally, in
26
Both the chronology of Pythian II and the event it celebrated are controversial. For an early date,
which I find more persuasive, and a connection with games in Thebes, see MOST 1985, 61-68 and CURRIE 2005, 258-259, who proposes an interesting textual emendation that would solve the problem of the
location of the event in favor of Thebes. For a late date, around 470, see CINGANO 1995, 43-47.
27
See Chantraine s.v.
28
See CATENACCI 2006, 187.
29
See CURRIE 2005, 344-345 and MORRISON 2007, 97-98 with further references.
30
Here Pindar is reversing a topos of anti-tyrannical discourse, the envy of the tyrant for the ‘best’
among the citizens; see e.g. Hdt. 3,80,4.
31
In general, on Pythian I as a manifesto of Hieron’s propaganda see PFEIJFFER 2005.
32
On the meaning of the word, see M. Schmidt, LfgrE s.v. In this passage, Pindar strikingly depicted
Hieron as if the latter had single-handedly defeated the Etruscan fleet (note especially line 74). In the
famous comparison of Western and Mainland Greek victories over the barbarian (lines 73-80), Salamis is
attributed to the Athenians and Plataia to the Spartans, while Himera is attributed to the Deinomenidai
and Kyme to Hieron alone. On the battle of Kyme, see BONANNO 2010, 159-172.
34
Nino Luraghi
Bacchylides’ Epinician III, that celebrates the most prestigious of Hieron’s agonistic victories, with the chariot at the Olympic games of 468, the ruler of Syracuse is the man para; Zhno;" lacw;n pleivstarcon JEllavnwn gevra" (11-12),
i.e., the man who has received from Zeus as his due the greatest rule among
the Greeks33, and further on Hieron’s attribute is the ska`ptr[o]n Diov["]
(70), the scepter of Zeus, no less. Noteworthy is also the fact that the same terminology accompanies Hieron in an ode written for a member of his court. In
Olympian VI, for the victory of the Iamid Agesias of Syracuse in the mule cart
race at Olympia, between 476 and 468, Hieron is described as the man who
in Syracuse kaqarw`/ skavptw/ dievpei (94), that is, rules with a pure scepter34.
In one case, in Pythian III (84-86), Hieron is qualified with the epithet we
are most used to attach to him:
ti;n de; moi`r∆ eujdaimoniva" e{petai.
lagevtan gavr toi tuvrannon devrketai,
ei[ tin∆ ajnqrwvpwn, oJ mevga" povtmo".
Your share of happiness attends you, for truly if great destiny looks with favor upon
any man, it is upon a tyrant leader of warriors.
Reading these lines, scholars have often concluded that Pindar called Hieron indifferently basileus and tyrannos, or even that he used the two words
interchangeably and did not perceive any negative meaning attached to the
word tyrannos. Surely this would be a rather hasty conclusion: after all, Hieron is called basileus, by both Pindar and Bacchylides, many times, and tyrannos only once. Furthermore, it is not irrelevant that in these lines tyrannos
is modified by the rare term lagetas. Lagetas is Dorian word, with Mycenaean
resonances: the ra-wa-ke-ta seems to have been the military commander, second in line after the wa-na-ka, in Mycenaean kingdoms35. Closer in time, lagetai appears in Ibykos as an attribute of the Dioskouroi (S 166,16), and in
33
Bacchylides’ words resonate in the apostrophe of the Greek ambassadors to Gelon in Hdt.
7,157,2.
34
Nemeans I and IX, written for Chromios, a Geloan who had come to Syracuse with the Deinomenidai and went on to become one of Hieron’s lieutenants (see LURAGHI 1994, 338-340), are packed
with unmistakable resonances of the odes for Hieron (see MORRISON 2007, 24-39; 102-104), but the tyrant
never appears directly. MORRISON 2007, 32; 76-78; 106 notices striking resemblances between Olympian
VI and the odes for Chronios.
35
On Mycenaean terms for rulers, see PALAIMA 2006 with further references. In a Phrygian rock
inscription from the seventh or sixth century, lawaktas is an attribute of Midas; see BRIXHE - LEJEUNE
1984, text M-01.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
35
Pindar characterizes Aiolos (Pyth. 4,107), Perseus (Pyth. 10,31), and the sons
of Pelops (Ol. 1,89). Lagetas is clearly a name for heroic leaders, an equivalent
of sorts for choral lyric of epic formulaic epithets like poimên laôn, which in
Homer indicate the basileis: yet another word of the sort of prytanis and archos. Therefore, rather than conclude that Pindar was indifferent to the negative undertones of the word tyrannos, we should probably see in these lines an
isolated attempt at whitewashing the word transplanting it into the semantic
sphere of epic heroes.
If we look for comparisons among Pindar’s odes, only Pythians IV and V,
celebrating the victory of Arkesilas, king of Cyrene, in the chariot race at Delphi in 466 show a somewhat similar vocabulary36. The analogy has led some
scholars to the conclusion that the Deinomenidai of Syracuse, Hieron and his
brother Gelon before him, had transformed their autocracy in a real monarchy37. In this theory, Hieron’s propaganda has won its last victory. The fact of
the matter is that archaic tyranny was rule de facto, without a constitutional
framework. The tyrant suffered under a permanent deficit of legitimacy, and
for this reason he constantly tried to depict his power in more appealing ways.
However, to turn his unlimited but chronically unstable rule into some constitutional form was not a real option, especially because of the endemic refusal
of monarchy that characterizes the political culture of the polis. As a matter
of fact, the diverse and creative terminology, rich in connotations but denotatively unclear, that Bacchylides and Pindar apply to Hieron does not suggest a
well-defined institutional position, and the very comparison with the odes for
Arkesilas shows this, suggesting one further observation of some interest. In
his case, Pindar uses none of the rich vocabulary of power that we find associated with Hieron. Arkesilas is invariably a basileus of Cyrene, as are his ancestors all the way back to Battos Aristoteles, the founder of the city (Pyth. 4,2;
5,15; on Battos, Pyth. 4,62; on the ancestors, 5,96-97). On the other hand, in
odes for Hieron there is not a hint of the dynastic legitimacy that is showcased
in those for Arkesilas. Whatever Pindar’s Hieron was supposed to be, he was
not the successor of another ruler of the same sort. Genealogical memory in
the odes never goes beyond the name of his father, who however is nothing
more than a name. This is a point that we will need to return to later.
From the passages discussed so far, two uncontroversial conclusions can be
derived. First, victory odes do indeed reflect the specific political position of
the laudandus. Second, it was clearly the tyrant himself who decided whether
36
37
For a comparison between odes for Arkesilas and odes for Hieron, see HARRELL 2002, 448.
Formulated most explicitly by OOST 1976.
36
Nino Luraghi
and how his power was to be addressed in the ode. This second point may
seem obvious to some, but it is worth stressing, considering a persistent tendency in research on epinicia to underestimate the input of the patron. Based
on these conclusions, attention will now turn to selected passages from the
odes for Hieron that seem to offer further evidence on the representation of
tyrannical power. In these passages, tyranny is defined indirectly, by suggesting analogies with other forms of power that function as implicit interpretive
models for it: the masks of the title of this contribution. Such models have
one interesting point in common: they are all drawn not from the world of
myth, but from a historical and institutional reality that was clearly familiar to
the audience of the odes. The analogies are suggested, more or less explicitly,
but never worked out in detail, not only because victory odes were not political treatises, but also because a sharper comparison would have defeated the
goal of the enterprise, which was to conjure up a legitimate framework for the
power of the tyrant.
The first passage has been partially referred to earlier. It deserves to be
looked at in its entirety (Pyth. 1,58-70):
Moi`sa, kai; pa;r Deinomevnei keladh`sai
pivqeov moi poina;n teqrivppwn: cavrma d∆ oujk ajllovtrion nikaforiva patevro".
a[g∆ e[peit∆ Ai[tna" basilei` fivlion ejxeuvrwmen u{mnon:
tw`/ povlin keivnan qeodmavtw/ su;n ejleuqeriva/
JUllivdo" stavqma" JIevrwn ejn novmoi" e[ktisse qevlonti de; Pamfuvlou
kai; ma;n JHrakleida`n e[kgonoi
o[cqai" u{po Tauügevtou naivointe" aijei; mevnein teqmoi`sin ejn Aijgimiou`
Dwriei`". e[scon d∆ jAmuvkla" o[lbioi
Pindovqen ojrnuvmenoi, leukopwvlwn Tundarida`n baquvdoxoi geivtone", w|n klevo"
a[nqhsen aijcma`".
Zeu` tevlei∆, aijei; de; toiauvtan jAmevna par∆ u{dwr
ai\san ajstoi`" kai; basileu`sin diakrivnein e[tumon lovgon ajnqrwvpwn.
suvn toi tivn ken aJghth;r ajnhvr,
uiJw`/ t∆ ejpitellovmeno", da`mon geraivrwn travpoi suvmfwnon ej" hJsucivan.
Muse, at the side of Deinomenes too, I bid you sing the reward for the four-horse
chariot, for a father’s victory is no alien joy. Come then, let us compose a loving hymn
for Aitna’s king, for whom Hieron founded that city with divinely fashioned freedom
under the laws of Hyllos’ rule, because the descendants of Pamphylos and indeed of
Herakles’ sons, who dwell under the slopes of Taygetos, are determined to remain
forever in the institutions of Aigimios as Dorians. Blessed with prosperity, they came
down from Pindos and took Amyklai, much acclaimed neighbors of the Tyndaridai
with white horses, and the fame of their spears flourished. Zeus Accomplisher, de-
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
37
termine such good fortune as this always for the citizens and their kings by Amenas’
water38 to be the true report of men. For with your help a leader, instructing his son,
honoring his people, can turn them to harmonious peace.
Pindar is here alluding to the foundation of Aitna by Hieron, in the second
half of 476/5, in place of the old Chalkidian colony of Katane. The population
of the new city came from Syracuse and was composed of former mercenaries of Gelon, of former citizens of Megara and Gela whom Gelon himself
had moved to Syracuse after 485, and possibly also of more recently enrolled
mercenaries, coming from the Peloponnese. At the beginning, an old Geloan comrade and brother-in-law of Gelon and Hieron, Chromios, had been
put in charge of the city, possibly acting as a tutor of Hieron’s young son
Deinomenes, whom these verses celebrate as basileus of Aitna39.
Modern readers of Pythian I often seem to be tempted to take Pindar at
face value and conclude that the constitution, or better, the nomoi of the new
city were modeled on Sparta’s. Even though this is precisely what Pindar tries
to suggest, we need to resist taking his allusions literally. Against such a temptation, one may point to the opening lines of Isthmian IX (1-4), where Pindar
evokes with similar terminology the foundation of Aigina by the Dorian army
of Hyllos and Aigimios and the fact that the Aiginetans ever since obey the
stavqma of the two heroes. The parallel with the stavqmai of Hyllos and the teqmoiv
of Aigimios is obvious. But of course, apart from the fact that the Aiginetans
were Dorian, nobody ever thought that Aigina had the same constitution as
Sparta. There is no reason to think otherwise in the case of Aitna40.
The invocation of the laws of Hyllos and Aigimios, which for Pindar represent the foundation on which Hieron has put the new city, has certainly
something to do with the high prestige enjoyed by Sparta in the aftermath of
the Persian Wars. Furthermore, we have good reasons to think that Dorianism was a component of Deinomenid ideology, possibly already in Gelon’s
times and certainly in the case of the foundation of Aitna. In the case of the
refoundation of Syracuse by Gelon, Polyaenus speaks of an invitation to new
colonists of Dorian stock (1,7,23). As for Aitna, the summary of Aischylos’
tragedy Aitnaiai, written for Hieron and more or less contemporary of Pythian I, suggests, with its changes of scene, from Aitna to Xouthia, then back to
Aitna, Leontinoi and finally Syracuse, a juxtaposition of Aitna and Xouthia-
38
DOUGHERTY 1993, 94-95 astutely points out a pun on the name of the river, meant to confirm the
durability of the new foundation.
39
On the foundation of Aitna, see LURAGHI 1994, 335-346; BONANNO 2010, 127-139. On its celebration in various literary genres, DOUGHERTY 1993, 83-102.
40
See CINGANO 1995, 349; BONANNO 2010, 150-152.
38
Nino Luraghi
Leontinoi as mother-cities respectively of the Dorians and Ionians of Sicily41.
This is clearly the ideological context of Pindar’s praise of Dorianism.
But there is more here, and it is not only the jolly brashness with which
Pindar celebrates the freedom of the new tyrannical foundation. The Dorian
laws of Aigimios and Hyllos are framed by two references to basileia: first,
Deinomenes appears as the basileus of Aitna, and then Pindar wishes good
luck to the citizens and their basileis. After that, Hieron dominates the stage,
the aJghth;r ajnhvr, in his double role as a leader for the citizens of Aitna and a
mentor for his son. At which point, one starts suspecting that the theme of the
Spartan laws may not be there only in order to praise the Dorianism of newlyfounded Aitna, but also to cast a special light on the role of the two tyrants,
father and son. Interpreters from Böckh to Köhnken have seen in the reference to basileis of Aitna, in the plural, an allusion to Sparta’s famous double
monarchy,42 and even though we could just as well think that the plural refers
to the sequence of all future kings, the association between the plural and the
two basileis mentioned directly would remain somehow in the air. And in any
case, the reference to Sparta allows Pindar to depict basileia as a lawful component of the political form of the new city. Now, it is clear beyond reasonable
doubt that Hieron and/or Deinomenes did not occupy in Aitna a position
comparable to that of kings Pleistarchos or Leotychidas in Sparta. However,
it is also clear that Pindar, with his subtle and less than subtle allusions, is here
exploiting Spartan basileia in order to make it possible for Hieron’s autocratic
power to appear on the stage of this ode with an air of legitimacy. Interestingly, this is not the first time Pindar tried this trick. In the opening lines of
his Pythian X, Spartan kingship is exploited in a very similar way to dress in a
respectable cloak the aspiration of the Aleuadai of Larissa, famous Medizers,
to be recognized as the lords of Thessaly43.
And now, to the second mask, and to Pythian II. As noted earlier, date and
occasion for this ode are unknown to us, and were unknown already to ancient
commentators, the only uncontroversial fact being that the victory celebrated
had been won with the chariot. After the introductory praise of Syracuse and
Hieron, the first antistrophe and the epode run as follows (13-20):
41
Dorianism of the Deinomenidai: VALLET 1985, 308-310. On Aischylos’ Aitnaiai, see now POLIPALLADINI 2001; for their relation to Hieron’s political agenda, see LURAGHI 1994, 343-344; BONANNO
2010, 139-147.
42
See KÖHNKEN 1970, 4 n. 2.
43
See Pyth. 10,1-3: both Sparta and Thessaly are ruled by Herakles’ offspring (the Aleuadai are
indirectly called basileis, like Arkesilas of Cyrene and Hieron). On the actual position of the Aleuadai in
Thessaly, see HELLY 1995. On Thessalian society at the times of Pindar, see STAMATOPOULOU 2007.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
39
a[lloi" dev ti" ejtevlessen a[llo" ajnhvr
eujaceva basileu`sin u{mnon a[poin∆ ajreta`".
keladevonti me;n ajmfi; Kinuvran pollavki"
fa`mai Kuprivwn, to;n oJ crusocai`ta profrovnw" ejfivlhs∆ jApovllwn,
iJereva ktivlon A
j frodivta": a[gei de; cavri" fivlwn poiv tino" ajnti; e[rgwn ojpizovmena:
se; d∆, w\ Deinomevneie pai`, Zefuriva pro; dovmwn
Lokri;" parqevno" ajpuvei, polemivwn kamavtwn ejx ajmacavnwn
dia; tea;n duvnamin drakei`s∆ ajsfalev".
Various men pay the tribute of a resounding hymn to various kings as a recompense
for their excellence. The voices of the Cyprians often celebrate Kinyras, whom the
golden-haired Apollo heartily befriended, the priestly favorite of Aphrodite, for reverent gratitude goes forth in one way or another in return for someone’s friendly
deeds. But you, O son of Deinomenes, the maiden of Epizephyrian Lokroi invokes
in front of her house, for after desperate toils of war she has a look of security in her
eyes thanks to your power.
The scholia offer information on the historical events that form the background of these lines. The tyrant of Rhegion Anaxilas, founder of Messene
in Sicily and a prominent member of the coalition that had been defeated at
the battle of Himera, had probably attacked the Epizephyrian Lokrians once
before, shortly before 480, defeating them and sending to Olympia a dedication from the war booty44. Now, in 477, possibly hoping to take advantage
of Gelon’s death, Anaxilas was preparing a new offensive, together with his
son Leophron, to whom he had entrusted Rhegion when he founded Messene. Hieron replied sending his brother-in-law Chromios to Anaxilas with
an ultimatum. Anaxilas backed off and Hieron gained the gratitude of the
Lokrians45.
We do not need to decide whether the song of the Epizephyrian maidens
was motivated by the fact that the Lokrians had vowed to prostitute their
daughters in the temple of Aphrodite in case of victory over Anaxilas46. More
interesting for us is the person that Pindar compares to Hieron as a king
recipient of songs of gratitude. Kinyras appears as king of Cyprus already
in the Iliad (11,20 ff), where he gives to Agamemnon a breastplate as a xenion. Tyrtaeus associates him with Midas because of his wealth (12,7 W2), to
44
Two couples of inscribed dedications for a victory over the Lokrians of the Rhegians and Messenians, SEG 24,304-305 and 311-312 respectively, are the only surviving trace of this episode; for their
date, based on their archaeological context, see LURAGHI 1994, 216.
45
The evidence, provided by scholia to Pythians I and II, is quoted and commented upon by
BONANNO 2010, 75-77.
46
For a discussion of this long-debated issue, with full references to earlier scholarship, see now
CURRIE 2005, 261-275.
40
Nino Luraghi
which Pindar refers elsewhere, too (Nem. 8,18), while Anakreon mentioned
his longevity (Plin. NH 7,154)47. All this would be enough to make of Kinyras
a flattering comparison for Hieron, but the link between the two suggested
by Pindar is more specific: as the initial lines make clear, Kinyras is brought
in not only because he was an illustrious hero, but more precisely, because
he, like Hieron, was a king. At first sight, this is just a particular case of your
usual Pindaric association of heroes and victors, but the association between
Hieron and Kinyras may not be confined to the world of myth.
A borderland between Greece and the Near East, from the early seventh
century Cyprus had been divided in city-states ruled by kings, as shown by the
prism of Esarhaddon, dated 673/2, when the island was under Assyrian supremacy48. It is unclear whether we should regard these monarchies as a survival of the Mycenaean past or as a product of Near Eastern, Syro-Phoenician
influence49. In any case, at the time of Pindar and Hieron the kings of Cyprus
were legitimate rulers, who ruled their cities in a constitutional framework. As
an example, it suffices to look at the famous Idalion bronze, an inscription in
Cypriot syllabary dating to the first half of the fifth century, in which pa-si-leu-se ka-se a-po-to-li-se, that is, the basileus and the polis appear repeatedly side
by side as subjects of political deliberation (ICS 217 = Nomoi 31). The extensive involvement of Cypriot poleis in Greek politics, from the Ionian revolt to
the Delian League, assures us that any reasonably well-informed Greek would
be familiar, at least in general terms, with the island and its kings.
On top of their political and military prerogatives, Cypriot kings had also
a religious role. We cannot tell specifically what such role looked like in every
city, but luckily, the case that matters most for us is also the clearest. In Paphos, one of the main centers of the revolt against Persia in 498, inscriptions
from the fourth century show regularly the title ‘king of Paphos and priest of
the Wanassa,’ i.e., Aphrodite50. The aetiology of Paphian priestly monarchy
is narrated in a page of Tacitus’ Historiae (2,2-4). Its founder, first priest of
Paphian Aphrodites, is none other than king Kinyras, whose double role of
priest and king is referred to by Pindar himself.
It is precisely this double role, one may suggest, that made of Kinyras an attractive pendant for Hieron51, and the connection was supported not only by
47
On the mythic character of Kinyras and its development over time, see now ROSCALLA 1998, 6-9
with further references.
48
On the prism of Esarhaddon, with a list of Cypriot vassal kings and respective cities, see LIPIŃSKI
2003, 62-76. Cypriot kings subject to the Assyrian king are already mentioned some years earlier, in the
stele of Sargon II from Larnaca, dated to 707; on the Larnaca stele and parallel evidence from Khorsabad, ibid. 51-55.
49
For a discussion, see RUPP 1987 with further references.
50
See MAIER 1989, 377; TUPLIN 1996, 62-63.
51
As noticed by BELL 1984, 6-7.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
41
the mythic identity of Kinyras, but at least as much by the fact that in Kinyras,
whom Pindar is the first Greek author to describe as both king and priest, his
audience recognized the priest-kings of Paphos of the present day. In other
words, this time it is the historical institution, whose founder Kinyras was
supposed to have been, more than the hero, that functions as an alter ego for
Hieron. As the ancient commentators saw (Schol. Pind. Pyth. 2,27b), Pindar
is here alluding to the fact that Hieron came from a priestly family, and may
have been himself a priest. As Herodotus informs us (7,153,2-3), the Deinomenidai were hierophants of the Chthonian Goddesses at Gela, and Philistos
(FGrHist 556 F 49) and Timaios (FGrHist 566 F 96) apparently said that Hieron had inherited the priesthood52. A fragment of Pindar’s lost hyporchema
for Hieron, quoted for parodic purposes in Aristophanes’ Birds (926-927) and
then mentioned by many other ancient authors, calls Hieron ‘the man who is
named after sacred rituals’ (fr. 105a M.2): the pun on the name of the tyrant
refers probably to the priesthood.
Above and beyond the analogies, more or less contrived, between Hieron
and the priest-kings of Paphos, evoked by the reference to their archegetes
Kinyras, the differences that Pindar tries to elide should not be forgotten.
Apart from the fact that he was not a king of Syracuse, it is not even clear that
Hieron was a priest at Syracuse: the cult of which the Deinomenidai were hierophants was located in Gela, their hometown. Even if one were to venture
the hypothesis that Hieron might have transferred the cult to his new home
– and there is no reason to think that this was the case – the fact remains that
the priesthood had nothing to do with Hieron’s political power. The priestkings of Paphos, no less than the Spartan basileis, are just another mask that
disguises his tyrannical power.
The last mask worn by Hieron the tyrannical agonistes is the best known. It
brings us back to Pythian I, and at the same time, it gives us a chance to bring
in Pindar’s rival Bacchylides. It is the mask of the last Mermnad, Kroisos king
of Lydia.
At the end of Pythian I, Pindar invites Hieron to keep up his generosity, a
long-term investment guaranteed by the word of the poet. A double example
validates this general statement: Kroisos’ philophrôn areta is immortal, and
so is the hated memory of Phalaris, the savage roaster of men53. It cannot be
accidental if Pindar, in order to point out to Hieron a positive and a negative
model, has chosen not two heroes of myth but rather two characters from
52
53
See VAN COMPERNOLLE 1957.
On the figure of Phalaris and its development through the ages, see MURRAY 1992.
42
Nino Luraghi
the relatively recent past. On one level, they define implicitly Hieron’s status,
the status of an autocrat. Addressing an audience for which any sole ruler is
suspect in principle, Pindar contrasts a positive model of autocracy, which
tellingly has to be looked for outside of the Greek world, and a negative one,
one more familiar to the Greeks. In the aftermath of the Persian Wars, and
considering the importance of the theme in Pythian I, it may be relevant that
Kroisos had lost his throne, and possibly his life, fighting against the Persians.
Obviously, the comparison with Kroisos was pleasing to Hieron, as shown
by the fact that Bacchylides’ Epinician III, the victory ode for the last and most
prestigious of his victories obtained with the chariot at the Olympic games of
468, picks up this comparison and turns it into the main theme of the ode54.
At the beginning of the second strophe, after a teeming image of the feasts and
celebrations unleashed by Hieron’s victory, the scene shifts to Delphi and the
dazzle of the golden tripods dedicated in front of the temple by the Deinomenidai brothers. Apollo constitutes the link to another famous worshipper
of Loxias, who had been saved by the god in a moment of extreme danger:
Kroisos. The fall of Sardis is described with highly dramatic tones, until
Kroisos’ attempted suicide. At the climax of tension, when Kroisos complains
against the ingratitude of the gods, Zeus sends rain to quench the fire on which
the old king had climbed with his wife and daughters, and Apollo transports
them all safely to the land of the Hyperboreans, rewarding Kroisos’ eusebeia,
which had found expression in his offerings to Delphi, the most lavish that a
mortal had ever dedicated in the sanctuary. And this way we come full circle to
Hieron, Kroisos’ successor in the role of main benefactor of the shrine55.
Bacchylides expands and sharpens the comparison between Kroisos and
Hieron that Pindar had but sketched. At the beginning of the ode, the praise
of Sicily takes the place normally occupied in victory odes by the polis of the
laudandus. The rigidity of the convention of epinician poetry suggests that
here Bacchylides may be giving voice to Hieron’s aspiration to be recognized
as the lord of Sicily as a whole56. Then, as we saw earlier, Hieron is introduced
as the man who has received from Zeus the largest dominion among Greeks
(11-12). Next comes the indefinite image of the cheerful crowds, and finally,
the dazzling gold of the tripods evokes Kroisos. The splendor of the dedications to Apollo, material expression of piety, constitutes the link between Hi54
For an introduction to the ode, see CAIRNS 2010, 63-74. Cairns suggests (ibid. 71) that Kroisos
‘is undeniably a symbol of the vulnerability of despotic power.’ Contrast however KURKE 1999, 131-132,
who calls Kroisos ‘every aristocrat’s wish-fulfillment fantasy: fabulous wealth and power unconstrained
by civic order.’ In any case, the decisive fact is that, after Pindar, Bacchylides repeated the comparison,
which would hardly have happened if Kroisos had really been seen as such an ominous character.
55
On the ode going from Hieron to Kroisos and back, see CAIRNS 2010, 64; KURKE 1999, 141-142.
56
See the comments of MORRISON 2007, 59 on the analogous reference to Sicily in Pind. Ol. 1,12-13.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
43
eron and Kroisos on the surface of the text, but at the same time, the image of
Kroisos king of Lydia is in the air, and overlaps with Hieron, the lord of Sicily.
Just as the audience would have taken as a matter of course the now extinct
Mermnad monarchy of Lydia, Bacchylides invites it to take for granted in the
same way Hieron’s alleged monarchy over Sicily.
It is time to conclude. Victory odes for tyrants show interesting aspects of
the power of the patrons and of the genre itself. Praising a tyrant was no simple matter. If the patron chose to stick with the aristocratic values, he missed
the chance to showcase his power. Let us not forget that silence is not a friend
of charismatic forms of rule. However, also the opposite choice, consisting in
addressing explicitly the power of the victorious tyrant, created a number of
problems. Being a tyrant was not like being a basileus of Sparta or Cyrene, and
the value system of Greek social elites had no place for tyranny. Encomiastic
rhetoric could depict tyranny only as a bundle of connotations, while on the
level of denotation the poet was compelled to evasiveness, in the attempt at
navigating a safe path across the minefield of negative associations of tyranny.
In order to address an audience that considered tyranny negative as such,
the poet disguised his laudandus, dressing him in respectable clothes57. The
very diversity of the masks worn by Hieron in the victory odes confirms, if
it were necessary, that we are dealing with rhetorical strategies. The question
is, why did the choral poets engage in this tour de force for him and for him
only. As becomes a tyrant, the answer may turn out to be paradoxical. The
comparison between Hieron and Arkesilas brought out a surprising absence of
dynastic rhetoric or of any sustained reference to the lineage of the tyrant – all
the more surprising, since references of this kind are found in odes for Theron.
On the other hand, in Pythian I, where Hieron’s son Deinomenes does appear
clearly as his father’s intended successor, it seems that the succession was supposed to take place at Aitna: nothing points to the possibility that Deinomenes
57
At this point, it will not be out of place to recall that our knowledge of the modes and contexts
for the performance of victory odes is rather sketchy; for a recent summary, with references to earlier
scholarship, see CAREY 2007. In the present contribution, the audience of the odes is taken to be the
contemporaries of Hieron, especially in Sicily but also in Mainland Greece – at least some of the odes
were very likely performed in the very place where the victory had taken place. But the evidence is not
conclusive enough to recommend the attempt at differentiating, e.g., between the rhetoric of praise of
odes meant for performance in Sicily on the one hand and in Delphi and Olympia on the other. For a
perceptive attempt at individuating the place of performance of Sicilian odes, see MORRISON 2007. In any
case, recent scholarship has insisted that the very text of the odes provides hints of the fact that they were
meant to remain meaningful beyond the immediate occasion of the performance; see again MORRISON
2007; HUBBARD 2004.
44
Nino Luraghi
might one day succeed to his father in Syracuse58. All this acquires a precise
meaning in the light of other sources that suggest strongly that Hieron held
power in Syracuse as a regent of sorts for Gelon’s son, who was under age at
the time of his father’s death59. This had to be an internal arrangement within
the family and the supporters of the Deinomenidai, of course: ‘tyrant’ was itself
not an official title, much less ‘regent for a tyrant.’ But this latent precariousness might explain both the absence of dynastic claims in the odes and, more
interestingly, the very showcasing of Hieron’s autocratic power, by way of suggestive epithets and implicit parallels. The impressive discourse of legitimacy
mobilized by Pindar and Bacchylides in their praise of Hieron may turn out
to have been addressed to the very entourage of the tyrant as much as to the
Sicilian and Panhellenic audiences. In many ways, their loyalty was even more
important than the aquiescence of his subjects or Panhellenic acceptancy of his
glorious power. This is, after all, the logic of tyranny60.
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58
This would be all the more striking if the ode was indeed performed in Syracuse, as suggested by
MORRISON 2007, 66-67.
59
On this, see LURAGHI 1994, 325-328. The most explicit piece of evidence is Aristot. Pol.
5,10,1312b11 ff.
60
See BOIX - SVOLIK 2008. Notice the remarks of PRIVITERA 2003 on Hieron’s attempt at posing as
the true heir of Gelon by dedicating a golden tripod to Apollo in Delphi, precisely the golden tripod
evoked by Bacchylides, and connecting it to the one dedicated by his brother after the battle of Himera.
Hieron Agonistes or the Masks of the Tyrant
45
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EPICA ED EULOGIA.
DAI MODELLI MITICI DI ETÀ ARCAICA
ALL’EPOS STORICO ELLENISTICO
CARMINE CATENACCI
Tra i molteplici tentativi moderni di definizione del genere epico, due elementi sono ricorrenti. Il primo è la natura narrativa: l’epos come racconto
ritmico ed esemplare di fatti memorabili. Il secondo è il valore identitario di
questo racconto per un popolo, un gruppo o un capo1. Il ricordo delle imprese mitiche o storiche, lontane o recenti, porta in sé i semi della legittimazione
e della lode. Nella cultura occidentale l’epica assurge a genere politico e celebrativo. Basti pensare alla monumentale paradigmaticità dell’Eneide di Virgilio come poema nazionale della Roma augustea o, tra le varie reviviscenze
della poesia classica e classicistica, alla fortuna del poema epico-encomiastico
alle corti del Rinascimento.
È in Grecia dal IV sec. a.C. che la connotazione politica ed eulogistica
dell’epica si manifesta in forme più evidenti e istituzionalizzate, ma essa ha
una protostoria lunga e diversificata per tutta l’epoca arcaica e classica. In
questa relazione tenterò di delineare un quadro sintetico e certamente non
esaustivo dei rapporti tra epica, potere e formazione di una pubblica opinione
politica, dalle origini all’età ellenistica muovendo attraverso snodi essenziali.
Serrerò in breve le fila di molti argomenti (e di molti secoli), per riprendere le
parole di Pindaro.
1. Poesia micenea ed epica omerica
Cominceremo da lontano, dal mondo miceneo dietro il quale, a sua volta, già
può intravedersi, secondo gli studi di linguistica comparativa, una tradizione
di poesia eroica indoeuropea2. Il palazzo di Nestore a Pilo, scavato a partire
dall’aprile del 1935 da Carl William Blegen sulla collina di Epàno Englianòs in
Messenia, ha restituito una serie di affreschi la cui pubblicazione si deve a Ma1
Tra i più recenti tentativi di inquadramento del fenomeno e dei suoi complessi aspetti si possono
ricordare HAINSWORTH 1991; FORD 1997; utili e aggiornati sono diversi saggi contenuti in FOLEY 2005; vd.
anche MONTANARI - RENGAKOS 2006; KONSTAN - RAAFLAUB 2010.
2
WEST 1988, 152 ss.; KATZ 2005 che giustamente non manca di additare anche paralleli con tradizioni epiche orientali.
50
Carmine Catenacci
bel Lang nel 19693; la loro datazione è fissata al Tardo Elladico IIIB (1250-1200
circa). Il grande megaron era decorato sui quattro lati con dipinti murali. Sulla
parete nord-orientale, alle spalle del trono del wanax erano raffigurati a sinistra
un leone e un grifone, simboli della regalità e del potere; a destra, ciò che più ci
interessa, il celebre suonatore di lira (a cinque corde), seduto su una roccia, e
accanto a lui un uccello, dalle ali e dal collo screziato, in volo4.
Altri materiali figurativi, tra i quali spicca una pyxis della prima metà del
XIII sec. da Chania5, mostrano la compresenza di musicisti-cantori e uccelli.
Con buone argomentazioni Jane B. Carter ha proposto che tali scene riproducano contesti rituali e che gli uccelli rappresentino le divinità partecipanti alla
cerimonia cultuale6. Tuttavia, senza disconoscere la complessiva connotazione
rituale di queste scene, non escluderei un nesso diretto tra uccelli e poesia,
nel segno dell’associazione tradizionale tra il canto degli uccelli e l’arte del
poeta, di cui si troveranno elaborate attestazioni già nei primi testi d’età arcaica da Esiodo ad Alcmane7, non senza paralleli in rappresentazioni figurative
dall’Anatolia dei primi secoli del I millennio a.C.8 A sostegno del nesso si può
aggiungere che, nell’affresco di Pilo, i bracci della lira terminano a forma di
testa di cigno, altro uccello canoro e ‘poetico’ per eccellenza9. Faccio poi notare che l’uccello non sta arrivando né è fermo sul luogo, ma vola via, come gli
e[pea pteroventa («le parole alate») e il canto dalla bocca dell’aedo. Al di là
di altre osservazioni (come la possibile ambientazione esterna suggerita dalla
roccia o l’ipotetica identificazione con Orfeo)10, un dato è incontrovertibile:
3
LANG 1969.
La decorazione di questa parete sembrerebbe completata da due coppie di uomini, dipinti in
scala minore, intenti a un convito e, in dimensioni molto più grandi, un toro, forse parte di un sacrificio;
un tentativo di ricostruzione dell’intera scena come rappresentazione di una processione e di una grande
festa religiosa è in MCCALLUM 1987, ma vd. ora STOCKER - DAVIS 2004, 70.
5
Chania Archaeological Museum 2308; vd. CARTER 1995, fig. 18.5.
6
CARTER 1995, cui si rinvia per la raccolta completa e la discussione dei materiali.
7
Sull’apologo dell’usignolo e dello sparviero in Esiodo, Op. 202 ss. vd. infra, p. 57 ss.; Alcmane
paragona o mette direttamente in relazione la sua arte poetica con il canto degli uccelli nei frr. 39-40 Page
- Davies; Bacchilide, Ep. 3,98, poi, a proposito di usignolo, si autodefinirà «l’usignolo di Ceo» e Democrito 68 B 154 D.-K. teorizzerà che l’arte canora si fonda sulla mimesi del canto dell’usignolo e del cigno.
Del resto anche figure mitiche come le Sirene, dal canto dolcissimo e incantatore, erano rappresentate
per metà donne e per metà uccelli.
8
In una stele da Marash, ora al Metropolitan Museum di New York (91.34.2; l’immagine è consultabile nel database on-line del Museo), una figura femminile, seduta dinanzi a una tavola, tiene in una
mano uno specchio e nell’altra uno strumento a corde sul quale si trova un uccello. Inoltre un frammento ceramico da Gordion (VII sec. a.C.) raffigura un suonatore di lira al cui fianco vi sono due uccelli
(KOHLER 1995, 68-69, fig. 27d, al quale si rinvia anche per un frammento di dinos da Bayrakli su cui un
uccello è dipinto accanto a una lira).
9
Cf. p. es. Esiodo, Scut. 315 ss.; Alcmane 1,100 s. Page - Davies.
10
Che il suonatore di lira sia figurazione di un poeta mitico o di un’esperienza reale non cambia la
sostanza del documento, ovvero l’esistenza di una poesia accompagnata dal suono dello strumento a corde.
4
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
51
la presenza centrale dell’aedo tra le immagini rappresentative del potere e nel
luogo del potere per eccellenza del wanax.
«Vi furono poeti prima di Omero» scriveva Cicerone nel Brutus (71) con
riferimento agli aedi omerici Femio e Demodoco. Tra i predecessori di Omero dobbiamo annoverare anche il cantore di Pilo e i suoi omologhi micenei?
L’esistenza di una tradizione poetica che da Omero risale all’indietro all’età
del bronzo è ipotesi unanimemente, direi, condivisa, sebbene con premesse e conclusioni differenti sul suo peso complessivo nel mondo della tradizione epica11. Non si tratta tanto di fissare una rappresentazione realistica
della società micenea nei testi omerici quanto di mettere a fuoco la maniera
in cui elementi di cultura materiale (per esempio i cosiddetti ‘fossili’ quale
l’elmo con zanne di cinghiale, lo scudo a torre ecc.) e dati di ordine linguistico
(come l’origine micenea di alcune espressioni formulari o altri fenomeni)12
siano rilavorati di volta in volta nel continuo processo di riformulazione della
tradizione epica. In ogni caso, nella pluralità di posizioni critiche, anche tra
coloro che tendono a non attribuire agli elementi micenei un ruolo dominante
nel mondo di Omero l’aedo di Pilo è guardato con speciale interesse, come
«l’anello mancante»13 tra la documentazione poetica e quella iconografica. Un
ulteriore tassello in questa ricostruzione è offerto da una tavoletta in Lineare
B da Tebe pubblicata qualche anno fa, che tra il personale di palazzo registra
il termine ru-ra-ta-e, interpretato dagli editori come corrispondente al greco
*lurasthv" (al duale), «suonatori di lira»14.
Come mostra l’affresco, si trattava di epica lirica, ovvero cantata con l’accompagnamento dello strumento a corde. L’ordito ritmico era formato, secondo un orientamento critico che condivido, dall’associazione libera di quei
cola metrici, detti dattilo-epitriti o kat’enoplion-epitriti, che ritroviamo nelle
formule enucleate da Milman Parry e dai suoi continuatori, ma che poi nella
versificazione omerica si associano e si fissano nella struttura ripetitiva e normalizzata dell’esametro, con il progressivo passaggio dal canto alla recitazione; punti di articolazione dell’accostamento tra i cola sono le cesure dell’esametro. Quest’antica epica lirica sopravvivrà nelle forme della citarodia epica,
il cui erede ed epigono più rappresentativo sarà Stesicoro15.
11
Si veda l’efficace visione d’insieme di BENNET 1997 di cui però non condivido la retrodatazione
dell’esametro all’età micenea e persino minoica; cfr. CATENACCI 1997.
12
Per alcuni esempi si rinvia a DURANTE 1971; HORROCKS 1997; BENNET 1997, 524 ss.
13
BENNET 1997, 528.
14
TH. Av 106,7; ved. ARAVANTINOS - GODART - SACCONI 2002, 83 e precedentemente ARAVANTINOS
1996, 183; GODART 2001.
15
Su Stesicoro è chiara la testimonianza di Eraclide Pontico, fr. 157 Wehrli = Ps.-Plut. De Mus.
1132b; più in generale sull’epica lirica e sulla successiva normalizzazione esametrica si vedano CATENACCI
1997; GENTILI - LOMIENTO 2003, 279 ss.
52
Carmine Catenacci
Ma ciò che qui più interessa è il contenuto. Ci muoviamo nel regno delle
ipotesi, ma è del tutto plausibile che, accanto a odi di contenuto più strettamente religioso, gli aedi micenei intonassero i racconti delle gesta degne di
essere ricordate: aristeiai, battaglie e duelli, spedizioni e assedi, predazioni,
viaggi in terre lontane, battute eccezionali di caccia. Sono gli stessi temi che
troviamo espressi nel linguaggio delle immagini, dagli affreschi ad altri documenti figurativi. Un patrimonio di gesti e narrazioni, personaggi e luoghi,
modelli e valori, che è assai difficile immaginare relegati alla sfera della rappresentazione iconica e non affidati, come ha notato Massimo Vetta in un
importante saggio, anche al fascino e alla solennità del racconto ritmico16.
Ma chi erano i protagonisti delle imprese cantate? Quasi certamente erano
glorificate le prodezze dei guerrieri del passato e degli antenati fondatori: un
legame ideale e materiale tra le varie fasi del Tardo Elladico, che trova riscontri nei documenti archeologici e in particolare nella continuità dei complessi
funerari. Tuttavia ritengo probabile che il canto dell’aedo celebrasse anche le
imprese delle ultime generazioni, comprese quelle del wanax vivente e della
sua élite guerriera, in lode e a legittimazione delle loro prerogative di potere.
Vi sono, nei poemi omerici, alcuni indizi relativi all’intersezione tra epica
e gesta recenti. Nell’ottavo libro dell’Odissea Demodoco canta due episodi
della guerra di Troia: la contesa tra Achille e Odisseo e l’inganno del cavallo
di legno (vv. 73 ss.; 499 ss.). Ad ascoltarlo, sebbene ancora non riconosciuto,
vi è il protagonista di quegli eventi: Odisseo. Non diversamente a Itaca nel
palazzo di Odisseo l’aedo Femio, costretto dai pretendenti, compone su un
soggetto di storia ancora più recente e persino di attualità, vista la situazione
di Odisseo: il ritorno degli Achei da Troia17. Il canto allieta i pretendenti, ma
è penoso per Penelope, che invita Femio a scegliere dal suo repertorio altri
temi. A difesa del cantore interviene, però, Telemaco il quale afferma che
«maggiormente gli uomini lodano quel canto che più suona nuovo a chi ascolta» (Od. 1,351 s.). Un’affermazione programmatica che ribadisce la possibilità
di temi nuovi, ‘moderni’, di canto e anzi sottolinea il favore che questa poesia
riscuote presso il pubblico.
Una singolare vicenda di poesia e potere, di aedo e palazzo, è ambientata
nel terzo libro (v. 263 ss.) dell’Odissea a Micene, città morta per riprendere
un titolo dannunziano, cupo luogo d’ogni crimine archetipico. Nestore narra
che, alla partenza degli Achei per Troia, Agamennone aveva affidato Clitemnestra al cantore. Ma quando Egisto indusse la donna all’adulterio, l’uomo fu
portato su un’isola deserta e lì lasciato morire. Una fine orribile per questo
aedo senza nome, che nessuno osa uccidere con le proprie mani, abbando16
17
VETTA 2001, 20; in particolare sugli affreschi di Tera vd. MORRIS 1989.
Hom. Od. 1,153 ss.; 325 ss.
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
53
nato alla morte senza mezzi di sussistenza e senza pubblico. La storia, non
priva di tratti arcani quale il ruolo di custode della regina, mostra la funzione
sacrale, morale e anche politica dell’aedo: il cantore di storie come occhio e
memoria del signore del palazzo, il suo ruolo nella sanzione dei modelli di
comportamento, il contributo al processo di creazione e conservazione del
potere. Per cancellare il ricordo e la presenza del signore è fondamentale eliminare il depositario e l’interprete poetico della sua memoria18.
Naturalmente tutte le vicende interne ai poemi omerici devono essere considerate nell’ottica più ampia della costruzione mitopoietica. Ed è scontato
dire che l’eventuale valore storico va rivisto alla luce delle continue riformulazioni nella tradizione. La caratteristica precipua e intrinseca d’ogni racconto
tradizionale è quella di essere, in ogni sua manifestazione, conservativa e innovativa al tempo stesso. Ma, proprio in ragione dell’immancabile dimensione
conservativa e della funzione di memoria storica e culturale svolta dall’epica
pur nel suo riflesso col presente (un’«enciclopedia tribale» per sintetizzare il
concetto nella fortunata formula di Eric Havelock)19, questi squarci costituiscono una testimonianza preziosa sull’attività pre-omerica, come già gli antichi ritenevano. Del resto, nei casi in cui è possibile confrontare i dati dell’archeologia con quelli poetici, assai raramente i primi smentiscono i secondi;
quasi sempre essi si integrano e si confermano, ovviamente ciascuno in relazione alla propria natura documentaria e alle proprie convenzioni espressive.
Nell’VIII libro dell’Odissea, indicazioni interessanti sono offerte sui luoghi
della poesia. Quando Demodoco intona il canto ‘leggero’ degli amori di Ares
e Afrodite, egli si esibisce in uno spazio aperto di fronte a un uditorio allargato, riunito per una festa pubblica. Nelle altre due performance, invece, l’aedo
canta all’interno, nell’ufficialità rituale e politica delle élites nella grande sala
del palazzo di Alcinoo; tema delle due esecuzioni è l’epica bellica. Dodici
sono i basileis con speciali prerogative a Scherie che affiancano Alcinoo (Od.
8,390), ma l’invito alla festa appare più ampio sia nel palazzo sia ovviamente
al suo esterno20. Si è calcolato che il megaron di Pilo poteva contenere qualche
decina di persone. E il pubblico abituale di Femio nel palazzo di Odisseo,
ovvero i pretendenti che si intrattengono nel megaron del palazzo, contava più
di cento persone, se ci atteniamo alle parole di Telemaco nell’Odissea (16,245
ss.). Il palazzo, come per le altre attività dell’età micenea, è il principale –
anche se non unico – centro di gravitazione per l’aedo, investito di un ruolo
ieratico e politico. Una poesia connotata sacralmente, custode della memoria
di potere e autorevole modello di ruoli e comportamenti.
18
19
20
Sui vari spunti che l’episodio offre si veda ora BELLONI 2002 (con bibliografia).
HAVELOCK 1981, 13 ss. e, in particolare per l’enciclopedia tribale, 415.
Hom. Od. 7,189 ss.; 8,40 ss.
54
Carmine Catenacci
Ma che cosa accade dopo i secoli oscuri a partire dall’VIII secolo e per
l’epoca arcaica? Dal momento in cui si profila ai nostri occhi un contesto storico-culturale meglio definibile, l’epica con il suo valore celebrativo e politico
occupa spazi ampi. La caduta delle dinastie dominanti nel Medioevo ellenico
determina la fine della committenza palaziale. Fuori del palazzo, altre occasioni di canto e altri spazi collettivi, aperti e più estesi, diventano lo scenario
preponderante dell’attività aedica, più di quanto era accaduto in passato. Si
impone la figura del cantore itinerante. Dall’VIII secolo referente e destinatario privilegiati della sua voce sono l’organismo in espansione della polis, le cellule delle famiglie aristocratiche al suo interno e i complessi cultuali in via di
sviluppo. Un mondo da costruire e ri-costruire. Le poleis sono impegnate nello sforzo di plasmare un’identità civica: delle istituzioni, del territorio, degli
spazi sacri. I gruppi nobiliari si contendono il primato nelle nuove strutture.
Contestualmente al fiorire dei culti eroici di età geometrica presso antiche
tombe micenee, fiorisce la nuova poesia eroica. La distanza diventa un valore
assoluto. Il passato lontano, con il suo retaggio di tradizioni e di grandiosi resti
materiali, è ciò che produce il presente e lo garantisce, disegnando nelle comunità nuclei di aggregazione, ma anche di distinzione, attraverso linee di discendenza e di parentela. Non si tratta di una novità assoluta, ma ora possiamo dire con
certezza che la separazione tra il mondo dei personaggi cantati e il mondo del
poeta e del suo pubblico assurge a tratto costante e caratterizzante dell’epica. Lo
stacco assume principalmente la forma della distanza temporale, ma anche esistenziale, in una dimensione di vita eroica, diversa e grandiosa rispetto alla quotidianità. Un ulteriore aspetto è la distanza interposta dal medium, ovvero la sacralità del cantore. Connaturata a questo mondo altro è una lingua altra, distante
dal parlato, formulare e imponente nei suoi blocchi compositivi alla maniera dei
massi ciclopici del palazzo di Tirinto. La distanza, attraverso la quale ogni fatto e
ogni parola vengono proiettati rende la materia intangibile e oggettiva.
2. Oltre Omero
La nostra visione del fenomeno è condizionata e ostruita dai poemi monumentali e panellenici dell’Iliade e dell’Odissea. Intorno ad essi vediamo una
miriade di frammenti sparsi come cocci luccicanti di bottiglia, che possono
suggerirci solo un’idea dell’incommensurabile proliferazione dell’epica in relazione alle comunità cittadine, ai gruppi gentilizi e ai luoghi di culto. Le occasioni pubbliche e le singole realtà territoriali, religiose e sociali pullulavano
di tradizioni cosiddette locali o minori, che si collocavano al fianco delle saghe
più note e spesso si incrociavano con esse sovrapponendosi in alcuni passaggi,
ma anche percorrendo vie e varianti proprie.
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
55
Di questa epica sono evidenti le potenzialità, per così dire, encomiastiche.
Attraverso le tradizioni eroiche ogni comunità, dal genos alla polis, definisce le
proprie coordinate identitarie nello spazio e nel tempo e rivendica il proprio
ruolo nel presente. Concretamente quest’opera di rielaborazione e sistemazione, che si protrae per decenni e decenni dell’arcaismo, viene a incarnarsi
in diversi titoli e autori, che quasi sempre per noi restano semplici nomi. Un
caso esemplare è Eumelo di Corinto, datato tradizionalmente all’VIII secolo
a.C.21 A lui sono attribuite varie opere. Tra di esse l’epos intitolato Korinthiakà. Il poema celebrava la storia di Corinto dalle sue più lontane origini
mitiche, in un intreccio sequenziale di fatti, personaggi e discendenze, cui si
intersecavano in alcuni punti anche le saghe di respiro nazionale, quali l’epos
degli Argonauti o la spedizione contro Troia. La poesia di Eumelo occupa un
tempo e un ruolo particolari nella storia di Corinto. Non priva di un qualche
passato miceneo, Corinto esplode, nella sua importanza civica e sovraregionale, alle prime luci dell’epoca arcaica22. Nella fase decisiva di sviluppo si
avverte la necessità di un passato mitistorico illustre e legittimante. A elaborare e a conferire autorità a questa tradizione intervengono i versi epici di
Eumelo, della cui personalità non va taciuto un altro elemento decisivo. Egli
apparteneva alla stirpe dei Bacchidi o Bacchiadi23, che governarono Corinto
dalla metà dell’VIII alla metà del VII secolo a.C. Non vi è città o famiglia che
possa essere protagonista senza una tradizione eroica. Nel caso di Corinto,
dei Bacchiadi e di Eumelo le tre componenti (polis, genos, epos) si saldano
emblematicamente insieme.
Una delle maniere più diffuse ed efficaci per legare il presente al passato,
pur mantenendoli distanti e distinti, è la produzione di strutture genealogiche: un sistema straordinariamente efficace ed economico, conservativo e al
tempo stesso dinamico, nell’organizzazione e interpretazione delle realtà sociali, come la comparazione etno-antropologica non manca di confermarci.
L’epica genealogica è il settore in cui più forti e invasive dovettero essere le
influenze celebrative e politiche, ma è anche il genere più complicato e scivoloso per noi moderni a causa della nostra ignoranza dei referenti storico-mitici
e dei contesti poetici, oltre che in ragione di una certa fluidità nell’uso e riuso
degli stemmi familiari.
Una specifica forma compositiva, che l’epica genealogica può assumere, è
quella del catalogo. Un modulo poetico che, insieme alla trasmissione di dati
tradizionali, doveva generare uno speciale piacere e interesse nell’ascolto del
21
Una datazione diversa, nel contesto di una complessiva ri-definizione della figura poetica di Eumelo, è ipotizzata da WEST 2002.
22
CATENACCI 2011.
23
Pausania 2,1,1.
56
Carmine Catenacci
pubblico. Nella versificazione catalogica il cantore impegnava ai massimi gradi
tutte le qualità costitutive del suo essere poeta: la memoria, il rigore e l’ordine
espositivo, la linearità nella concatenazione ammaliante di nomi, di personaggi
e luoghi, di numeri. Wystan Hugh Auden consigliava anche agli aspiranti poeti
dei giorni nostri il catalogo come forma di apprendistato artistico.
3. Esiodo
Il genere catalogico evoca immediatamente Esiodo e il Catalogo delle donne24. L’opera di Esiodo è un passaggio rilevante del nostro discorso. In più circostanze egli affronta il tema del rapporto tra poesia e potere. Non abbiamo
tempo per discutere i diversi punti d’interesse. Ci limiteremo ad accennare
al proemio della Teogonia e all’apologo dell’usignolo e dello sparviero nelle
Opere e i giorni.
Nel proemio della Teogonia, nel solco dell’investitura sacra che Esiodo riceve dalle Muse, sono sancite le prerogative specifiche di aedi e basileis e le
relazioni intercorrenti tra queste due figure25. Per cominciare, le dee lasciano
a Esiodo come segno dell’incontro uno scettro d’alloro (v. 30): un oggetto
che non può non richiamare l’oggetto simbolo dell’autorità del re. In senso
inverso (v. 80 ss.), compagna dei basileis è la più illustre delle Muse, Calliope.
Tra tutti i re nutriti da Zeus, continua Esiodo, quello su cui le Muse volgono lo
sguardo al momento della nascita possiede l’eloquio più suadente ed amministra saggiamente la giustizia generando piacere tra il popolo con dolci parole.
Non diversamente dalla bocca del cantore prediletto dalle Muse scorre dolce
la voce e la mente di chi è addolorato s’allieta. Da Apollo e dalle Muse – conclude il poeta (vv. 94-96) – sono gli aedi, da Zeus i re26.
Il nesso tra Zeus e i basileis da un lato e le Muse e gli aedi dall’altro, ma
anche la relazione trasversale tra le Muse, i basileis e gli aedi, ovvero tra sacro, politica e poesia, costituiscono la base ideologica su cui si fonda, come è
stato osservato, ogni forma di poesia encomiastica per sovrani, come il carme
XVII di Teocrito per Tolemeo Filadelfo o l’Inno a Zeus di Callimaco sino alla
produzione eulogistica di età augustea e oltre27. Il canto, con cui al v. 40 ss. le
Muse rallegrano le dimore e la mente del padre, ripercorre la stirpe degli dei
e le vicende teogoniche che sfociano nel potere di Zeus. È il canto dell’ordine,
24
Per l’introduzione alle diverse questioni che il testo offre rimando al pregevole volume di HUNTER
2005.
25
Per l’analisi puntuale di queste relazioni vd. BERTOLINI 1995; BELLONI 2002, 106 s.
Sulla specifica associazione tra privilegio politico e privilegio poetico nella Teogonia vd. anche
VETTA 2006, 66 ss.
27
ROSATI 2009, 369.
26
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
57
dell’ordine cosmico e sociale: ed è anche il canto che Esiodo sta per levare di
fronte ai referenti umani di quell’ordine, i basileis.
Il nesso celebrativo tra basileis e giustizia sembra incrinarsi nelle Opere e i
giorni. Il poema, com’è noto, è incentrato proprio sul tema dell’ingiustizia che
Esiodo patisce dai basileis nella lite giudiziaria col fratello Perse. Varie soluzioni, ciascuna con una propria verosimiglianza ma nessuna definitiva, sono
state proposte per spiegare la diversità rispetto alla Teogonia. Sono intercorsi
fatti che hanno indotto il poeta a mutare il suo atteggiamento verso i giudici?
Oppure semplicemente le due opere erano destinate a pubblici differenti?
O i due canti non sono in contrasto, ma complementari, l’uno con valore
«apotropaico» e l’altro «protrettico»28? In quest’ultima direzione si potrebbe aggiungere che in effetti la critica delle Opere e i giorni è potenzialmente
implicita nel testo della Teogonia (v. 81 ss.) dove non a tutti i basileis è riconosciuto il dono della parola suasiva che con retti giudizi dirime le controversie,
ma soltanto ai basileis onorati alla nascita dalle Muse, così come del resto al
v. 225 ss. delle Opere è prevista la possibilità di una retta giustizia che genera
prosperità collettiva.
Resta tuttavia la differenza d’impostazione tra le due trattazioni. La difficoltà esegetica s’innesta, credo, sulla questione più generale della genesi e della struttura delle Opere e i giorni. Un quadro assai complicato e oscuro in cui
va collocata anche l’interpretazione di uno dei passaggi più enigmatici di tutta
la poesia greca arcaica: l’apologo dell’usignolo e dello sparviero (vv. 202-212).
Dopo aver narrato il mito delle cinque età, Esiodo si rivolge ai basileis con una
favola. Uno sparviero ha ghermito un usignolo. Ai lamenti di quest’ultimo lo
sparviero replica di essere più forte e di poter fare dell’altro uccello ciò che
vuole, divorarlo o lasciarlo andare. Senza nessun altro commento, il poeta
passa quindi ad apostrofare Perse e a introdurre la sezione di cui è protagonista Dike, maltrattata da giudici avidi e corrotti, con terribili conseguenze per
l’intera comunità.
L’interpretazione consolidata si fonda sull’identificazione tra sparviero e basileus da un lato ed usignolo e poeta dall’altro29. In particolare l’ainos fungerebbe da monito ed esempio contrastivo per i re: la legge del più forte governa il
mondo animale, ma non la società umana, come si affermerà apertamente ai vv.
276-280. Tuttavia anche questa lettura, che resta la più accreditata, non è però
aliena da alcune difficoltà. Il racconto termina con il successo incontrastato dello sparviero. Nella tradizione favolistica l’ultima parola è quella che conta in
relazione alla morale; e qui la morale è pronunciata dallo stesso rapace. Inoltre
28
VERDENIUS 1985, 39.
Così nei più recenti commenti di WEST 1978, 204 s.; VERDENIUS 1985, 117 ss.; ARRIGHETTI 1998,
389; 423 ss.; MOST 2006, xli.
29
58
Carmine Catenacci
il nocciolo sentenzioso («Stolto chi s’oppone ai più forti») appartiene pienamente ai valori dell’etica arcaica, da Omero ad Alceo a Pindaro30. Insomma,
mentre l’apologo appare formalmente conchiuso dalla considerazione morale
finale (epimythion), il suo contenuto non sembra immediatamente congruente
col messaggio generale e per ricavarne il vero significato bisognerebbe aspettare
più di cinquanta versi. Ma, soprattutto, in questo modo verrebbe meno il senso
stesso della favola, la cui caratteristica fondamentale è mettere in scena gli animali per illustrare concetti e valori umani. Che senso ha far parlare gli animali
come gli uomini per esprimere valori del mondo animale?
Così, negli ultimi anni, non sono mancati tentativi di interpretazione in
altre direzioni. Non abbiamo tempo per ripercorrere queste ipotesi, alcune
delle quali risultano ingegnose, troppo ingegnose31. A me pare che l’identificazione tradizionale sin dagli scoli antichi sia lampante e, direi, indiscutibile,
non solo nel rapporto simbolico dello sparviero col potere regale, ma anche
nell’associazione comune tra uccelli e poeta (fin dall’affresco di Pilo) e, soprattutto, nella qualificazione tanto tradizionale quanto puntuale dell’usignolo (ajhdwvn) al v. 208 come «aedo» (ajoidov"): una qualificazione che non può
non far identificare quest’uccello con il poeta32.
Dobbiamo ammettere, credo, la nostra ajmhcanivh esegetica. Ci sfugge qualcosa di essenziale per la comprensione dell’apologo e della sua contestualizzazione. Ma personalmente piuttosto che imputare a Esiodo, come talvolta
accade, il riuso maldestro della favola o alquanto paradossalmente una morale
nascosta che è opposta a quella della storia narrata, sono incline ad ammettere
che la soluzione a noi ignota della questione è nella storia, altrettanto ignota,
della composizione, formazione e fissazione del testo delle Opere e i giorni.
Ciò nonostante, voglio chiudere sull’argomento con una domanda che lascio intenzionalmente aperta. È proprio impossibile interpretare l’apologo
per ciò che appare essere in sé e nella sua compattezza enunciativa, ovvero
come il riconoscimento della preminenza del basileus sul cantore? Lo sparviero può anche lasciare libero l’usignolo; per fare un parallelo extratestuale, anche Odisseo nel finale dell’Odissea ha Femio in suo potere e lo lascia andare.
Tornando a Esiodo, va sottolineato che ai vv. 225 ss. delle Opere, in alternativa
30
Cf. p. es. Hom. Il. 21,485 s.; Alc. 130b,11 sg. Voigt; Pind. Ol. 10,39 s.; Nem. 10,72; Soph. El. 219 s.,
sino alla favola (p. es. Aesop. 5 Chambry).
31
Per un’incisiva rassegna si rinvia ora a STRAUSS CLAY 2003, 39 ss. e ERCOLANI 2010, 204 ss. che,
sulla scia di DALFEN 1994, propende per vedere nell’usignolo l’attore della hybris di contro alla quale si
staglia la giusta reazione del più forte (lo sparviero come incarnazione di Zeus già in SKAFTE JENSEN 1966,
20 ss.); per completezza d’informazione si aggiungano alla bibliografia i lavori di MORDINE 2006; ZANKER
2009.
32
Sui vari e inequivocabili rapporti tra usignolo e cantore insiste NAGY 1996; vd. anche supra, p. 50
n. 7. Non vi è potenzialmente estraneo il gioco verbale tra ajoidov" e ajhdwvn; cf. Teocrito 12,6 s. ed Ermesianatte 7,49 Powell.
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
59
alle rovinose conseguenze derivanti dall’ingiustizia dei basileis corrotti, è descritta la possibilità della retta giustizia e della prosperità che l’accompagna.
In altri termini, l’ainos non può significare semplicemente il riconoscimento
del potere superiore dei basileis da parte del poeta, con l’implicita esortazione
a una condotta giusta?
Questa impostazione parenetica, reverenziale ma anche dialettica nel tentativo di trovare un equilibrio nel rapporto asimmetrico tra potente e poeta,
trova interessanti paralleli nella poesia celebrativa di un altro autore, che cantò davanti a prìncipi e che fu maestro dell’ainos, un conterraneo di Esiodo,
più giovane di un paio di secoli: Pindaro. Al di là dei meri confronti linguistico-formulari, per esempio la discussa espressione fronevousi kai; aujtoi`" (v.
202) trova il suo confronto più calzante, dal punto di vista poetico-situazionale e retorico, negli enunciati che Pindaro rivolge a potenti interlocutori come
il tiranno Ierone per introdurre un discorso simbolico e istruttivo, un ainos33.
Un sentiero di ricerca che forse meriterebbe di essere esplorato più a fondo.
4. Omero, Atene, la recensio pisistratide
Tra VII e VI secolo le corti dei tiranni sono centro d’attrazione per le personalità della cultura, un laboratorio di tradizioni e forme poetiche. Un esempio illuminante dell’interazione tra tiranni ed epica è tramandato da Erodoto
(5,67). Clistene, tiranno di Sicione, è in guerra con gli Argivi. Nei canti di
Omero l’odiata Argo è continuamente celebrata, ed allora egli bandisce dagli
agoni rapsodici di Sicione i canti di Omero34. L’episodio non solo conferma
il peso politico e identitario del passato eroico sul presente, ma testimonia
anche la possibilità e i modi di condizionamento sulla tradizione in base a un
principio di verosimiglianza epica. L’attualità agisce sugli e[ph, può selezionarli e condizionarli, ma non stravolgerli. Clistene bandisce Omero da Sicione,
ma non Argo da Omero.
E Atene? A partire dallo storico Erea di Megara35 e dall’Ipparco (228b)
pseudo-platonico, diverse fonti antiche, piuttosto eterogenee e molto dibattute, riferiscono la notizia di una redazione dei testi omerici ad Atene per
volontà di Pisistrato o di suo figlio Ipparco. A questo testo dovevano attenersi
i rapsodi che si succedevano nella recitazione agli agoni panatenaici. Reinhold
Merkelbach ha mostrato la fondatezza della notizia36. Come ha scritto Gilbert
33
Emblematico Pind. Pyth. 2,72 ss., ma anche Pyth. 3,80; fr. 105a,1 ss. Maehler. E il suo collega
Bacchilide 3,98, per esempio, di fronte allo stesso Ierone si autodefinisce «usignolo di Ceo».
34
Sull’episodio vd. CINGANO 1985.
35
FGrHist 485 F 6 (ap. Diog. Laert. 1,57).
36
MERKELBACH 1952 cui si rinvia per la documentazione completa delle testimonianze antiche.
60
Carmine Catenacci
Murray, se una tradizione sulla recensio pisistratea mancasse, questa sarebbe
la congettura che quasi tutti farebbero37.
Che cosa, però, il passaggio per l’Atene di fine VI secolo abbia significato
materialmente per il testo omerico è oggetto di ampio contendere critico. La
questione è molto complessa e investe diversi aspetti dell’indagine storicoletteraria e linguistica38. In verità, se si considera il legame osmotico tra tradizione e attualità nella poesia arcaica, sembra quasi naturale che un’impresa
di enorme impegno come la redazione dei testi omerici rifletta elementi del
presente e abbia un significato ‘politico’. Tanto più se l’operazione riguarda
un genere come l’epica con la sua valenza pubblica e storico-identitaria e se
si svolge sotto il patronato di un tiranno e del suo potente apparato propagandistico.
Già nell’antichità specifici passi erano attribuiti all’influenza pisistratide e
a interessi ateniesi, per esempio la posizione di Aiace e del contingente di
Salamina nel Catalogo delle Navi (Il. 2,557-558)39 o l’intera Doloneia (Il. X)40.
Altri influssi sono stati additati dalla critica moderna. Ne cito solo alcuni.
A livello linguistico, è stata richiamata l’attenzione sulle forme attiche e sui
pochissimi ma sintomatici casi di atticismi difficilmente riducibili per ragioni
metriche alle corrispondenti forme ioniche: dunque non semplice normalizzazione ortografica o nella recitazione, ma tracce di una ricezione e di un
passaggio in cui la tradizione si mostra, sebbene solo in minima parte, ancora
aperta41. Similmente, al livello di contenuto, alcuni passi lasciano trasparire
piccole icastiche aperture su luoghi, culti e costumi di Atene che suonerebbero incongrui fuori di questa città. Soltanto due esempi: l’offerta di un peplo
ad Atena, probabile riproduzione del rituale delle Panatenee42, e il rientro
della dea nel suo buen retiro sull’Acropoli confidenzialmente definito «casa di
Eretteo»43. C’è poi nell’Odissea un figlio di Nestore di nome Pisistrato, altrimenti sconosciuto: una coincidenza quanto meno curiosa, dato che la famiglia
del tiranno vantava la sua genealogia discendente dai Pili e dai Nelidi, cioè
proprio da Nestore44.
37
MURRAY 1964, 358.
Per un’introduzione alla complessa questione SKAFTE JENSEN 1980; WEST 1981, xliii ss.; GENTILI
2006, 34 ss.; per quanto riguarda il versante iconografico vd. anche SHAPIRO 1993.
39
Strab. 9,1,10; secondo altre fonti, gli stessi versi furono interpolati a opera di Solone, ma quest’attribuzione è spiegabile con la tendenza a far risalire all’antico e savio legislatore le più diverse attività
ordinatrici.
40
Schol. Hom. Il. 10.
41
Classico è il lavoro di WACKERNAGEL 1916. Secondo NAGY 1998, anche gli iperionismi possono
derivare da una fase attica della tradizione performativa.
42
Hom. Il. 6,86 ss.; 269 ss.; 297 ss.
43
Hom. Od. 7,80 s.
44
Hom. Od. 3,36 ecc.; sull’ascendenza nelide dei Pisistratidi vd. Hdt. 5,65.
38
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
61
Infine colpiscono le singolari analogie tra la figura e le vicende di Odisseo nell’Odissea e quelle di Pisistrato nei logoi attici che, risalenti nei nuclei
originari all’età del tiranno, ritroviamo sedimentati nelle Storie di Erodoto
(1,59 ss.): analogie di immagini, di caratteri ed eventi, di presenze umane e
divine, di sanguinose vittorie e proposte di riconciliazione45. Le analogie si
intensificano quanto più ci si avvia verso il finale dell’Odissea. Un finale che
sin dall’antichità ha rappresentato una questione critica, se i grammatici alessandrini Aristofane e Aristarco ponevano il tevlo" del poema al v. 296 del
ventitresimo libro46.
La parte conclusiva dell’Odissea ha suscitato perplessità anche in tempi
recenti. Un esperto di poesia omerica quale Geoffrey Kirk l’ha definita «ridicola nei suoi salti di qua e di là, nella sua indigeribile mistura di campagnoli,
fulmini, vecchi uomini infiacchiti e divinità travestite e non»47. Eppure, quel
peculiare esito poematico si pone a compimento di una storia ben delineata
nelle sue strutture portanti. Un principe torna in patria e, sostenuto da Atena,
con l’aiuto del figlio e di uomini fedeli, riconquista il potere. Per fare questo,
vengono uccisi i più nobili dei cittadini. Di fronte all’imminenza di un conflitto, un nuovo patto di concordia e prosperità è stretto tra il principe e i
cittadini sotto lo sguardo tutelare di Atena. È il finale dell’Odissea, ma – se si
leggono i capitoli 62-64 del primo libro di Erodoto – è esattamente anche la
storia del definitivo ritorno di Pisistrato al potere.
Attraverso il piacere del racconto e l’autorevolezza del paradigma mitico
l’epica, abbiamo detto, si fa portatrice di un sistema di valori e modelli. Affinché questo sistema faccia presa, è necessario che esso dialoghi, in un rapporto di condivisione intellettuale ed emotiva, con le strutture di ricezione
e partecipazione che il pubblico ha maturato in base alle proprie categorie
culturali e al proprio vissuto. Se una recensio attica dei poemi omerici c’è
stata, sullo sfondo non si può non tenere conto che l’attualità e il vissuto collettivo dell’Atene della seconda metà del VI secolo coincidono con l’epopea
di Pisistrato. Ma al tempo stesso il gioco di proiezioni, per essere davvero
efficace, non può sottrarsi al criterio di verisimiglianza epica. L’innovazione
deve scivolare nella corrente lenta della tradizione epica, anche se essa è ormai
nella fase terminale di cristallizzazione scritta, evitando forzature ed eludendo
la censura che l’uditorio esercita in base all’evidenza tradizionale. Non è un
caso che le analogie tra il rientro di Odisseo e quello di Pisistrato siano più
marcate nell’ultima parte, una sezione strutturalmente più aperta ed esposta
all’inserzione di nuovi materiali.
45
46
47
Per gli approfondimenti si rinvia a CATENACCI 1993.
Schol. Hom. Od. 23,296; sul significato di tevlo" vd. ROSSI 1968.
KIRK 1962, 250.
62
Carmine Catenacci
5. Dal V secolo all’epica ellenistica
L’adozione di un testo ad Atene per le recitazioni panatenaiche segna un
passaggio importante di coagulazione nella tradizione dei poemi omerici,
che troverà poi, come si sa, la sua vera e definitiva fissazione nella Biblioteca
di Alessandria. Il fiume dell’epica, che dalle sue più lontane origini micenee
attraverso i secoli bui percorre l’epoca arcaica, giunge progressivamente ad
esaurire il suo corso creativo tra VI e V secolo. Naturalmente la poesia in
esametri a soggetto eroico-mitologico continuerà a vivere sia nella forma di
ri-esecuzione dei repertori tradizionali, in particolare dei testi omerici, sia
nella composizione di canti originali. Tuttavia il mutare degli orizzonti storico-politici e le radicali trasformazioni nei sistemi della comunicazione, con
il graduale affermarsi della scrittura, esigono e determinano l’esplorazione di
nuove possibilità poetiche.
I tentativi di rinnovamento tra V e IV secolo ci sono noti attraverso due
nomi: Antimaco di Colofone con la Tebaide e Cherilo di Samo con i Persikà.
Il primo, grammatiko;" kai; poihthv"48, poeta dotto e apprezzato da Platone49, continua a operare nel solco dell’epica mitologica; la novità è soprattutto
nella consapevolezza e dottrina letteraria50. Il secondo, Cherilo, si cimenta
in un’operazione originale e innovativa: l’epica storica51. Argomento dei suoi
Persikà sono le guerre persiane. La distanza cronologica, cui si aggiunge la distanza geografica e culturale del nemico persiano, è solo di pochi decenni. Ma
nella coscienza greca i fatti di Maratona e delle Termopili, di Salamina e Platea
sono subito elevati a una dimensione superiore, epocale ed esemplare. Nel
472 Eschilo tratta l’evento, al pari di una vicenda del mito, sulla scena tragica
nei Persiani, unico esempio certo di tragedia storica, preceduto dalla Presa di
Mileto e dalle Fenicie di Frinico, anch’esse costruite sul conflitto coi Persiani.
Dopo non molti anni Erodoto (1,1 ss.), l’autore fondamentale di confronto
per Cherilo, colloca le guerre persiane accanto a episodi mitici e alla guerra
di Troia. Ma già nei giorni successivi alla vittoria, Simonide nell’elegia per la
battaglia di Platea (3b Gent.-Pr. = 11 West) espressamente paragona le guerre
persiane alla guerra di Troia e mette in parallelo il suo racconto poetico col
canto di Omero52. Un punto importante è che la tradizione e la prassi dell’eleSuda, s.v. jAntivmaco".
Heracl. Pont. fr. 6 Wehrli; Plut. Lys. 18,5; Cic. Brut. 191.
50
Sulla personalità e sull’opera poetica vd. da ultimo MATTHEWS 1996.
51
Le testimonianze sulla vita e la produzione di Cherilo samio sono raccolte in RADICI COLACE 1979;
BERNABÉ 1996, 187 ss.; vd. ora anche BERNARDINI 2004 (con bibliografia).
52
Va aggiunto anche l’oJmhrikov" Empedocle che, secondo la notizia di Aristotele (fr. 70 Rose ap.
Diog. Laert. 8,57 = 31A1 D.-K.), cominciò, ma non portò a compimento un poema sulla spedizione di
Serse.
48
49
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
63
gia storica, culminanti nella celebrazione simonidea dell’impresa antipersiana,
sono una rilevante esperienza di riferimento per l’idea e lo sviluppo concreto
dell’epica di contenuto storico. L’elegia storica aveva già coltivato il concetto
di trasposizione dei fatti recenti nella poesia, dalle ktivsei" e dalle storie di
città53 a temi dell’attualità come per esempio la Salamina di Solone (2 Gent.Pr. = 1-3 West). E, altro elemento fondamentale, l’elegia aveva rilavorato in
questo senso i materiali linguistici costitutivi della dizione epica.
Non solo l’opera, ma la vita stessa di Cherilo rivela i cambiamenti in corso. Cherilo, informa Plutarco (Lys. 18,7 s.), era voluto sempre accanto a sé
dal navarca spartano Lisandro, affinché ornasse le sue imprese con la poesia.
Nel medesimo passo si legge che Lisandro, in un concorso poetico, proclamò
vincitore Nicerato di Eraclea a scapito di Antimaco, che per il disappunto distrusse la sua opera. Che si trattasse di un agone epico è reso molto probabile
dalla presenza di Antimaco.
La strada per l’incontro tra epica, storia contemporanea e lode personale
sembra ormai tracciata distintamente. Un tratto decisivo di questa strada passa per la Macedonia. La Suda riferisce che Cherilo, ancora lui, morì alla corte
di Archelao, re di Macedonia54. Un Papiro di Ossirinco ha tramandato frammenti di un poema sulle imprese di Filippo di Macedonia55. E, soprattutto,
un corteo di poeti epici seguiva Alessandro Magno col compito di celebrare
le sue res gestae: Escrione di Mitilene (1-12 Suppl. Hell.), Agide di Argo (17
Suppl. Hell.), Anassimene di Lampsaco (45 Suppl. Hell.) e Cherilo di Iaso
(333-335 Suppl. Hell.). Anassimene di Lampsaco e Cherilo di Iaso (da non
confondere con l’omonimo predecessore samio) hanno il merito, si fa per
dire, di contendersi nella tradizione il ruolo di destinatario di un’irridente
battuta di Alessandro, il quale affermò che avrebbe preferito essere il Tersite
di Omero piuttosto che l’Achille di Anassimene o di Cherilo56. Quest’ultimo,
comunque, prevarrà nell’immaginario culturale come simbolo di una mediocre poesia d’adulazione, da Orazio (Epist. 2,1,232 ss.; Ars poet. 357 ss.) sino
a Vincenzo Monti che, pur trovandosi egli stesso a elogiare non ingenerosamente Napoleone, si premurò di precisare: «Né io amo di essere il Cherilo di
Alessandro»57.
Da Alessandro in poi, per l’ellenismo e a seguire, si assiste al fiorire di
epica storica ed encomiastica. È superfluo qui prodursi in un elenco di nomi,
53
Si pensi, per fare un paio di esempi, all’Archeologia dei Sami di Semonide o alla Smirneide di
Mimnermo.
54
Suda, s.v. Coirivlo".
55
P. Oxy. 2520 = 913-921 Suppl. Hell.
56
45; 333 Suppl. Hell.
57
Nelle Note a La Palingenesi politica.
64
Carmine Catenacci
che rappresentano quasi tutto ciò che sappiamo sull’argomento58. Menziono
a mo’ di esempio Antigono di Caristo (III sec. a.C.), autore di un poema intitolato ad Antipatro, e Simonide di Magnesia, che cantò le vittorie di Antioco
sui Galati59. Sul versante del poema di storia regionale si segnala Riano di
Creta (seconda metà III a.C.), poeta studioso ed editore di Omero60. Nei suoi
Messeniakà, come ricorda Pausania (4,6,3), era narrata la seconda guerra messenica (di circa quattro secoli prima); l’eroe nazionale di quell’epico conflitto,
Aristomene, non «era in nulla meno illustre di Achille per Omero nell’Iliade».
Infine, per citare un caso di poetessa vagante, si può ricordare Aristodama di
Smirne che giunse a Lamia (218/217 circa.), insieme con il fratello, per esibirsi
in recitazioni epiche nelle quali erano celebrati gli Etoli e i loro antenati; il suo
successo fu tale che ottenne speciali onori61.
Si spalanca ormai, in linea con la contaminazione dei generi e lo sperimentalismo d’età ellenistica, una vasta serie di possibili realizzazioni del connubio
tra epica e politica, tra poesia in esametri e narrazione storica o mitologica a
scopo di legittimazione e di elogio: poemi di mitologia e storia locali; epica
cortigiana; componimenti per celebrare principi, condottieri e loro imprese;
carmi in onore di dei, ma anche di sovrani assimilati ormai alla divinità nel
segno di una convergenza sempre più marcata tra il genere dell’encomio e
l’inno62.
La vena eulogistica non manca di nutrire la poesia coltivata nell’ambito
ristretto delle corti, in contesti letterari ed eruditi, dall’Inno a Delo (v. 165 ss.)
di Callimaco, per esempio, agli encomi esametrici di Teocrito per Tolemeo
(XVI) e per Ierone II (XVII). Ma l’associazione tra epica ed eulogia appartiene soprattutto agli spazi ampi, all’agorà, ai teatri e ai santuari, in occasione
delle grandi feste pubbliche e dei certami poetici promossi dai sovrani stessi.
Ora, in conclusione del nostro excursus, i due termini vengono finalmente a
fondersi in un’unica espressione: accanto alle categorie del poihth;" ejpw`n
(l’autore/esecutore di epica) e del rJayw/dov" (interprete di opere altrui?), gli
agoni prevedono, come è attestato dalle iscrizioni, la specialità dell’«encomio
epico» (ejgkwvmion ejpikovn)63.
Qui si apre per noi una nuova zona oscura. Di tutta questa produzione,
58
Puntuale rassegna in FANTUZZI 1988, lv ss.; D’IPPOLITO 1988.
Suppl. Hell. 47. È discusso se si tratti di Antioco I Soter o Antioco III il Grande 223-187; cf.
FANTUZZI 1988, lxxxiv.
60
Suppl. Hell. 716.
61
IG IX 2,62 = Dittenberg, Syll.3 532; vd. GUARDUCCI 1927-1929, 655.
62
Per un’articolata discussione sulla polimorfia della poesia encomiastica in età alessandrina si veda
BARBANTANI 2001, 3 ss.
63
IG VII 416,9; 418,5; 419,11; 420,11; ved. PALLONE 1984. Gli agoni prevedevano anche il discorso
d’encomio (ejgkwvmion logikovn).
59
Epica ed eulogia. Dai modelli mitici di età arcaica all’epos storico ellenistico
65
che continua le antiche strutture spettacolari e agonali dell’epica precedente, non ci è conservato praticamente nulla. Non diversamente da tutto l’epos
post-classico, il genere storico-encomiastico, come si è mostrato a partire
dall’imprescindibile lavoro di Konrat Ziegler, godette di ampia popolarità e
contribuì in maniera considerevole alla formazione della cultura comune e
dell’opinione pubblica nei secoli dell’ellenismo64. Un fenomeno di vasta portata e grande successo, come testimoniano gli onori assegnati ad alcuni suoi
rappresentanti.
Un vezzo ironico e un po’ snob ha portato spesso la critica a non crucciarsi,
anzi a compiacersi, della perdita di questa poesia di ‘basso livello’65. Al di là
d’ogni ironico sussiego e di valutazioni estetiche dalle quali non si astenne
– come si è visto – neppure una personalità come Orazio, la sua conoscenza segnerebbe un progresso importante nella storia della poesia antica. Mi
riferisco non solo alla funzione sociologica di acculturazione cui abbiamo accennato, ma anche al ruolo di tramite che l’epica storica ed encomiastica poté
avere in relazione con l’epica romana. Ziegler e altri hanno postulato, com’è
noto, un’eredità in questo senso, in particolare negli Annales di Ennio66. Ed
Eduard Norden, per citare solo un altro illustre nome, ipotizzò un panegirico
di Alessandro come schema di riferimento della celebrazione di Augusto nel
sesto libro dell’Eneide67; ma in che rapporto, viene allora da chiedersi, erano
i panegirici di Alessandro circolanti a Roma con l’epica che ne esaltava le sue
imprese?
A questa e ad altre domande non siamo in grado di dare risposte certe.
Questa poesia di consumo, troppo strettamente legata all’occasione e priva di
quella distanza proiettiva che l’epica esigeva, si è rivelata alla fine una produzione effimera. Del resto il maestro di Alessandro, Aristotele, aveva ammonito
sulla differenza e sul rapporto non facile tra vero e verisimile, tra eventi reali
e accadimenti secondo verisimiglianza, tra fatti particolari e modelli oggettivi,
ovvero tra storia e poesia68.
64
ZIEGLER 1988; sull’epica ellenistica vd. ora CAMERON 1995, 263 ss., che rivede, anche in senso
critico, alcune posizioni di Ziegler.
65
Vd. la rassegna di FANTUZZI 1988, xxv ss.
66
Oltre a ZIEGLER 1988, un classico sull’argomento è il saggio di KROLL 1988.
67
NORDEN 1899.
68
Aristot. Poet. 1451a ss.; 1459a ss.
66
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IL CORPUSCULUM DEGLI EPITAFI ATENIESI
LUCIANO CANFORA
In un passo molto spiritoso della Retorica (III 12,5 = 1414a,7-10), Aristotele descrive il rapporto delle tre forme di oratoria – politica, giudiziaria,
epidittica – con la pratica della redazione per iscritto. «L’oratoria politica –
scrive – rassomiglia alla pittura con le ombre (= che vuol ottenere l’effetto
della prospettiva: skiagrafiva): quanto maggiore è la massa che ascolta, tanto
più da lontano avviene la visione, e perciò la precisione è superflua», «quella
giudiziaria – prosegue – è più precisa» (onde – osserva – non sempre lo stesso
oratore è adatto ad entrambe); «la composizione epidittica invece ha sommo
bisogno della scrittura (grafikwtavth): infatti viene letta (to; e[rgon aujth`"
ajnavgnwsi")».
Questo dato, che doveva essere noto ad Aristotele grazie alla diretta esperienza del suo lungo soggiorno ateniese, potrebbe far pensare che l’oratoria
epidittica (e dunque a rigore anche gli epitafi) fosse destinata a conservarsi in
larghissima parte appunto perché redatta per iscritto.
È ovvio che Aristotele si riferisse a composizioni come l’Erotico di Lisia
preso in giro da Platone nel Fedro, ma soprattutto all’oratoria isocratea: di
Isocrate e dei suoi scolari e imitatori (gli encomi di Teopompo per Filippo e
per Alessandro; Teodette, Naucrate etc.).
Per quel che riguarda gli epitafi invece possiamo osservare che semmai è
avvenuto tutto il contrario. Gli «epitafi» giunti a noi sono di fatto gli stessi di
cui disponeva, ad Alessandria, nel I d.C., Elio Teone autore dei Progymnasmata, e non molto dopo (ma la cronologia è difficilmente precisabile) lo pseudoDionigi autore della Techne Rhetoriké. Lo pseudo-Dionigi (VI 1 = II, p. 278,
4-7 Usener - Radermacher) fornisce questo elenco degli epitafi a lui noti: Tucidide, Platone, Lisia, Iperide e Demostene. E aggiunge alla lista «l’amico di
Isocrate Naukrates», cioè Naucrate di Eritre, che però non ha a che fare con
gli epitafi ateniesi bensì con la gara oratoria indetta ad Alicarnasso da Artemisia in morte di Mausolo (FGrHist 115 T 6; cfr. Fozio, Bibl. 176 = FGrHist
115 F 25). Gara in cui furono coinvolti anche Teopompo e lo stesso Isocrate, maestro di entrambi. E avrebbe potuto includere nella lista il più insigne
modello, l’epitafio (fittizio) di Gorgia (= frr. 5-6 Diels - Kranz) celebre per
audacie espressive quali gli avvoltoi definiti «tombe viventi» e Serse «Zeus dei
70
Luciano Canfora
Persiani», che indussero un tardo retore alessandrino di buon gusto, Atanasio
sofista, a parlare, a proposito di quella prova estrema di bravura gorgiana, di
«ridicolo risultato» e di «frastuono degno di fanciulli».
Teone parla ancora più chiaramente, quando elenca «gli epitafi di cui disponiamo». «Abbiamo – scrive – gli Encomi di Isocrate, gli Epitafi di Platone, Tucidide, Iperide, Lisia1» (Progymnasmata 2 = II, p. 68, 24-28 Spengel).
L’identificazione di Teone, autore dei Progymnasmata giunti a noi, con Elio
Teone di Alessandria, autore di numerosi commenti di prosatori (tra cui Senofonte) nonché di Progymnasmata, noto a Suidas, appare certa. E la cronologia è confermata dal fatto che Quintiliano lo cita (III 6,48).
Queste due testimonianze, provenienti dal cuore della cultura retorica di
epoca alto-imperiale e (nel caso di Teone) da un ambiente decisivo come Alessandria, epicentro bibliografico del mondo antico, ci danno la certezza che,
già allora, non più che questa fosse la «biblioteca» degli epitafi ateniesi2.
Questo significa che quel piccolo manipolo superstite (tre dei cinque, quello tucidideo, quello platonico e quello lisiaco, sono creazioni letterarie) era
un minuscolo frammento di un fenomeno imponente e ininterrotto, che palesemente non aveva quasi mai preso la strada della redazione scritta da serbarsi
“per i posteri”, da inserire nei corpora, nelle raccolte degli oratori e dei politici
che, in almeno un secolo di civiltà politico-oratoria ateniese, si erano impegnati in quel genere di discorsi. Una vastissima produzione effimera di cui
non si era conservata quasi affatto traccia scritta. La ripetitività dei motivi era
tale da scoraggiare, e le parole di Isocrate nel Panegirico (§ 74) e del Pericle
tucidideo al principio del suo epitafio (II 35) fanno ben intendere che vi era
una rigida tradizionale e doverosa fissità di motivi e di topoi, che sfidava la
capacità di ciascun oratore, anche il più grande o il più abile, di sviluppare
concetti originali. Già questo stato di cose aiuta a comprendere perché la redazione scritta a futura memoria di discorsi del genere, pur rilevantissimi nel
concreto della quotidianità politica, era sconsigliabile: non aggiungeva molto
(anzi forse ‘toglieva’) alla statura di un politico o di un oratore. Se poi si considera che, degli altri tre epitafi, superstiti per noi ma già nell’Alessandria di
1
Non menziona quello attribuito a Demostene, forse in omaggio al netto giudizio di Dionigi (Su
Demostene 44,3): «Non abbiamo discorsi epidittici di Demostene, quelli che gli vengono attribuiti non
sono suoi […] in particolare il rozzo vacuo e puerile Epitafio».
2
È noto che nella Retorica (I 7,34; III 10,7) Aristotele cita due volte, come ricavata «dall’epitafio
di Pericle», una frase che non ritroviamo nella riscrittura tucididea dell’epitafio pericleo per i morti del
431/430. Si è pensato ad un altro epitafio pericleo (quello per la guerra contro la ribelle Samo) o alla
‘vera’ parola di Pericle che Tucidide rielaborò. Lisia (VI. Contro Andocide, 10) cita la frase di Pericle sulle
“leggi non scritte” e questa la ritroviamo in Thuc. II 37. È difficile che Aristotele disponesse di una raccolta, poi perdutasi, di discorsi di Pericle (il quale – come è ben noto – “non scriveva”, non metteva per
iscritto i suoi discorsi per diffonderli). Si tratterà di “detti” rimasti celebri: forse anche Euripide, Supplici
447-449 allude a questo detto pericleo che metteva in relazione il «portar via i giovani» e la «primavera»
(«togliere questa gioventù dalla città è stato come togliere la primavera dall’anno»).
Il corpusculum degli epitafi ateniesi
71
Teone, quello di Lisia non può che essere una exercitatio (magari dello stesso
Lisia) essendo l’autore un meteco, mentre su quelli attribuiti a Demostene e
a Iperide si allunga l’ombra del prodotto di scuola avente come «materia da
trattare» la fine della grande Atene, risulta chiaro che la questione «l’epitafio
nella cultura politico-oratoria ateniese» va posta su base diversa: appunto in
ragione del tipo di materiale giuntoci3.
Materiale delicato da trattare. Nel caso di Tucidide e di Platone non si
dovrà perdere di vista l’ambiguità che complica le cose in entrambi i casi:
Tucidide si trova nella necessità di far parlare Pericle alla maniera degli epitafi (cioè nello stile più patriottico-tradizionalista-autocelebrativo che possa
immaginarsi) pur essendo Tucidide consapevole della lontananza siderale di
Pericle, del Pericle concretamente operante come leader politico, da quegli
stereotipi4 e pur deprezzando Tucidide stesso quegli stereotipi5; Platone è addirittura impegnato in una feroce parodia che investe contemporaneamente
sia Pericle che Tucidide. Nel caso di Lisia (se è lui l’autore) siamo di fronte ad
un intervento politico abilmente travestito da epitafio. Nel caso dei prodotti
di scuola l’ambiguità è nel genere stesso.
Per completare il quadro, non va trascurato il fatto che il bagaglio trito e
ripetitivo, che costituisce la materia degli epitafi, mentre pone i politici che
vi si cimentano nella necessaria ma fastidiosa condizione di fare propria –
mentendo a se stessi6 – l’autorappresentazione ideologica della città nella sua
forma più urtante, è bersaglio di una sottile critica che parte ad esempio dalla
scena7: magari ad opera di intellettuali (Euripide nelle Supplici, Crizia nel Sisifo) che sono umanamente vicinissimi a quei medesimi politici costretti dal
ruolo a ripetere le verità ufficiali.
Euripide nelle Supplici inquadra il dibattito sui discutibili fondamenti della
democrazia, tra Teseo e l’araldo tebano, in un dramma che ha per argomento
proprio un topos degli epitafi (il recupero dei corpi dei sette aggressori di
Tebe in violazione del divieto imposto da Creonte); e il dibattito mette in
difficoltà Teseo (personaggio topico degli epitafi) su di un tema anch’esso
topico di tutti gli epitafi superstiti (e cioè l’elogio dell’ordinamento politico
ateniese)8. Difficilmente l’attacco all’oratoria patriottico-demagogica avrebbe
3
È ben strano infatti che, tolti i tre testi sicuramente “fittizi” (Tucidide, Platone, Lisia), restano solo
Demostene e Iperide: i due sconfitti della interminabile guerra (348-322) contro la Macedonia.
4
Quando parla da politico, e non da retore, Pericle dice brutalmente che «l’impero è tirannide» (II 63).
5
Cfr. la rinuncia dei generali ateniesi nel dialogo coi capi dei Meli a far ricorso al tema “vittoria sui
Persiani” per giustificare il dominio imperiale (V 89).
6
L’epitafio pericleo, e perciò quello platonico, esaltano la forma politica vigente in Atene, ma un
Alcibiade ne parla (a Sparta) come di “follia notoria” (Tucidide VI 89).
7
A tacere delle cerchie “filosofiche”, per esempio quella socratica.
8
Cfr. Tucidide II 37; Platone, Menesseno 238cd; Lisia II 18-19; Isocrate, Panegirico 39-40; [Demostene] LX 25-26; [Iperide] VI 25.
72
Luciano Canfora
potuto essere più efficace. Tutto questo aiuta a comprendere la molteplicità
di piani nel cui intreccio si colloca questa singolare oratoria celebrativa, apparentemente così «naïve».
Basti qui osservare che quella del teatro è solo una delle forme di reazione
che l’oratoria da epitafio suscita. Il fatto stesso che Platone ne abbia redatto
una così feroce ed estesa parodia (Menesseno) facendola pronunciare da Socrate e presentandola addirittura come il collage, fatto da Aspasia, degli avanzi
dell’epitafio pericleo; il fatto che la pubblicistica coeva (a noi nota grazie al
cosiddetto pseudo-Senofonte)9 capovolga con puntigliosa distruttività l’immagine oleografica – topica negli epitafi – dell’ordinamento ateniese come
«regno della legge»; il fatto che lo stesso Pericle tucidideo non esiti, nell’epitafio, a dire smaccatamente e in contrasto con la realtà (per es. sui tribunali)
quello che ad es. lo pseudo-Senofonte riduce in pezzi: sono tutti elementi che
ci permettono di cogliere l’insofferenza, il fastidio, talvolta il sarcasmo che
codesta immobile e stantia oratoria celebrativa suscitava nelle cerchie colte e
intellettuali delle città: ivi compreso lo stesso ceto politico che all’occorrenza
era chiamato a celebrare quel rito; ma che in diversa e separata sede poteva
spingersi a definire la ufficialmente osannata democrazia «una follia universalmente riconosciuta come tale»10.
Una delle ragioni per cui quasi nulla11 già in antico si conservò di quel
genere letterario è da ricercarsi proprio nel suo essere strumento non amato,
o soltanto tollerato – ancorché considerato politicamente indispensabile – da
parte di coloro medesimi che dovevano praticarlo.
1. Tucidide [430 a.C.]
L’epitafio che Tucidide fa pronunciare a Pericle (II 35-46) può essere qui
trattato solo di passata. È evidente che Tucidide ha adottato, per Pericle, un
tono altissimo, degno della grandezza del personaggio. Ha anche scelto di
non fargli pronunciare alcuni dei topoi più logori di quel tipo di oratoria. Con
la consueta sinteticità geniale, Wilamowitz colse e apprezzò tale scelta: «Wir
wollen heute – scrisse nel rilevantissimo suo discorso ‘epidittico’ Neujahr
1900 – so wenig von Sadowa und Sedan reden, wie Perikles von Marathon
und Salamis, als er Athens Staat und Athens Kultur pries» (p. 12)12.
E nondimeno sui due punti nevralgici – l’ordinamento politico cittadino e
9
10
11
12
Ma certo più abbondante (Stesimbroto di Taso).
Alcibiade a Sparta in Tucidide VI 89,6.
O forse nulla come vedremo.
Cfr. Reden und Vorträge, II, Dublin - Zürich 19264, 43.
Il corpusculum degli epitafi ateniesi
73
la politica imperiale – non può farlo tacere. E gli attribuisce consapevolmente
pensieri topici ed esaltatori che fanno a pugni con la realtà effettuale: la falsità
del quadro “democratico” delineato in II 37 la fa emergere egli stesso nel
ritratto di Pericle (II 65). E difficilmente chi conosce le Vespe di Aristofane
per non parlare del duro pamphlet dello pseudo-Senofonte può pensare che
Pericle creda davvero al quadro, serenamente armonico ed ispirato al giusto,
che delinea, del funzionamento dei tribunali ateniesi. Con lucida paradossalità proprio su quei punti cruciali Tucidide fa parlare anche Pericle nella forma
illusoria-autocelebrativa dell’oratoria da epitafio. Fa profferire quei topoi proprio da chi ne incarna la diametrale negazione, anche sul piano istituzionale
(II 65,9: «a parole era una democrazia, in realtà il governo del princeps» è la
vera diagnosi tucididea, che sbriciola l’epitafio [II 37]).
Né va dimenticato che, in altra parte dell’opera tucididea, proprio Pericle
si incarica di impartire ai suoi concittadini quella dura pedagogia imperiale
che gli Ateniesi preferiscono velare dietro la retorica della grande vittoria sui
Persiani e del “diritto all’impero” (altro tema da epitafio), che Tucidide smaschera nel dialogo melio-ateniese.
2. Platone [394? a.C.]
Platone, nel Menesseno, instaura, con straordinaria efficacia, la parodia
non solo del genere epitafio in generale, ma di quello pericleo-tucidideo in
particolare. Nel Menesseno c’è molto altro (ad esempio il sarcasmo sanguinoso sull’esito della guerra civile [243e]): ma, per quel che riguarda la parodia
del Pericle tucidideo, il focus è nella descrizione del sistema politico ateniese,
definito addirittura una «aristocrazia»: «c’è chi lo chiama in un modo, chi in
un altro, ma in verità si tratta di una aristocrazia sostenuta dal consenso della
massa (met∆ eujdoxiva" plhvqou" ajristokrativa)13» [238d]. Il che è anche profondamente vero se ci si pone nell’ottica degli a[ristoi che dirigono il sistema.
Gli altri, come Alcibiade a Sparta [Tucidide VI 89], parlano direttamente
della democrazia come di una «follia universalmente riconosciuta come tale».
Non dimentichiamo che la critica al sistema ateniese si svolge di norma su due
piani: a) mancanza di gnwvmh (Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi;
Euripide, Supplici); b) il demos fa il comodo suo (Platone, Repubblica VIII).
Ma si veda anche 241c: paideuqh`nai tou;" a[llou" {Ellhna" [dove Platone
fa dire a Socrate, cioè ad Aspasia, cioè a Pericle che Maratona e Salamina hanno
insegnato a tutti gli altri greci a combattere!] e Tucidide II 41: Atene è JEllavdo"
13
Cfr. Tucidide II 37,1: kai; o[noma me;n dia; to; mh; ej" ojlivgou" ajll∆ ej" pleivona" oijkei`n
dhmokrativa kevklhtai.
74
Luciano Canfora
paivdeusi" [II 41,4 «Atene ha disseminato dovunque monumenti di bene e di
male»].
Ovviamente il ‘vero’ Pericle dei socratici è quello duramente attaccato da
Socrate nel Gorgia come il grande corruttore che ha reso gli Ateniesi peggiori
rispetto al momento in cui lui entrò in scena (anche a causa del salario per tutti…); è quello dei Memorabili senofontei (I 2) che spiega al giovane Alcibiade
che bisogna rassegnarsi al fatto che il plethos archon è al di sopra della legge…
Dunque la parodia platonica dell’epitafio tucidideo offre un duplice piano
di lettura:
a) Pericle disse quelle parole demagogiche (II 37; 41) ma noi sappiamo che la
vera prassi era tutt’altro;
b) Pericle disse quelle parole, ma non ci credeva egli stesso: sapeva di fornire
una strumentale idealizzazione (sia perché Platone sa cosa fu il vero Pericle, sia perché sa che Tucidide stesso [II 65] ne dava un ritratto apertamente ‘monarchico’).
3. Lisia [394? a.C.], Or. II.
In quanto meteco e logografo Lisia non può certo essere stato incaricato
dell’epitafio e tanto meno può averlo pronunciato egli stesso. Ci si è chiesto
se abbia scritto anche l’epitafio (come tanti altri suoi discorsi) per un cliente.
Dunque per un oratore che evidentemente non sapeva parlare ed aveva bisogno di un ghost-writer? Questo appare contraddittorio: si sceglie l’oratore
ufficiale in quanto noto tra l’altro per la sua capacità oratoria! Lo afferma con
molta chiarezza Isocrate in un noto passo del Panegirico [§ 74] composto tra
il 392 e il 380: «non mi sfugge – scrive Isocrate – quanto sia difficile, arrivando
buon ultimo, parlare intorno ad argomenti da sempre (pavlai) oggetto di trattazione ed intorno ai quali spesso hanno parlato i massimi oratori (oiJ mavlista
dunhqevnte" tw`n politw`n eijpei`n) in occasione delle solenni esequie pubbliche (ejpi; toi`" dhmosiva/ qaptomevnoi")». Dunque è molto probabile che
questa sia una ‘esercitazione’, forse dello stesso Lisia, forse di altri14.
Dionigi, negli ultimi tre capitoli dell’opuscolo Su Lisia, dà tre esempi (giudiziario, epidittico, demagogico) della sua oratoria: per il genere epidittico
non dà l’Epitafio, e conosce invece un testo assembleare (= Lisia XXXIV) che
immagina scritto «per un notabile (tw`n ejpishvmwn tiniv)». Anche questo testo
suscita molti interrogativi, ma non ne tratteremo qui.
Il problema dell’epitafio lisiaco viene ancorato di solito al dilemma se sia o
no autentico, cioè opera di lui o no. Invece il vero problema è se sia un epitafio
14
È comunque in sé strana l’idea di mettere in relazione un meteco con un epitafio…
Il corpusculum degli epitafi ateniesi
75
reale (cioè effettivamente affidato a lui e da lui pronunciato o da un suo cliente
ovvero fittizio [un esercizio eventualmente dello stesso Lisia!]). Ed è evidente,
in base a quanto s’è appena detto, che si tratta di un epitafio fittizio.
Kenneth James Dover approda, dopo molti tentennamenti, all’ipotesi che
a) sarà un esercizio;
b) può essere di Lisia.
E ovviamente non rimuove il macigno costituito dal fatto – di cui è ben
consapevole – che un meteco non poteva certo «essere eletto to deliver a funeral speech»: «To ask “Would the Athenians have elected a metic to deliver a
funeral speech?” or “Would an eminent politician, elected to deliver a funeral
speech, have got his text from a rhetorician?” is, I suggest, to ask questions
which do not deserve the time that has been spent on trying to answer them.
A funeral speech, like any enkomion or panegyric, belongs to a genre naturally attractive to anyone interested and skilled in oratory, and a rhetorician must
often have composed such a speech without even entertaining the possibility
that he himself or anyone else would deliver it at a real state funeral (cf. Blass,
i.437). Consequently I see no reason why Lysias should not have composed
the Epitaphios» (DOVER, Lysias and the corpus Lysiacum, Berkeley 1968, 193).
Quanto però alla grande quantità di contraddizioni e anacronismi indicate
da Blass (Attische Beredsamkeit, I, Leipzig 18872, 437-447), è davvero difficile
liberarsene. L’unica via d’uscita è, se si deve mantenere l’attribuzione a Lisia
(che può essere comunque rafforzata dalla evidente citazione dell’‘epitafio’,
ma senza indicazione d’autore, da parte di Aristotele nella Retorica 1411a30b1), quella di immaginare Lisia impegnato a far sentire la sua voce nel campo
politico tramite il collaudato strumento del discorso fittizio. Esso non è necessariamente mera exercitatio: è un intervento immaginato in una situazione
nota e rilevante ma avente come fine la diffusione di determinati punti di
vista, valutazioni politiche e storico-politiche, valori etc. Il discorso fittizio
consente, a chi se ne serve, una libertà di riferimenti non ancorata alla precisa situazione in cui un vero intervento (nella fattispecie un vero epitafio) si
sarebbe svolto.
C’è un rapporto tra i due epitafi, quello platonico e lisiaco: tanto l’epitafio
del Menesseno platonico quanto l’epitafio ‘lisiaco’ riguardano la guerra corinzia. Se l’epitafio lisiaco va effettivamente attribuito a Lisia (ovviamente come
sua exercitatio retorica e non certo come oratoria reale), in tal caso siamo di
fronte ad un’altra tappa della rivalità tra Platone e Lisia: essa non ci sorprende
affatto se si ha presente il Fedro. Lisia è amabilmente preso in giro da Platone nel Fedro (230e-234c), dove il filosofo inventa un discorso di Lisia peri;
e[rwto" e lo demolisce con le ‘armi’ socratiche dell’apparente ammirazione
per l’oggetto bersagliato.
Tra i due c’è il macigno della guerra civile e dei suoi effetti di lunga durata:
76
Luciano Canfora
Platone è stato con i Trenta (almeno per un certo tempo), Lisia è stato vittima
dei Trenta; la democrazia restaurata, di cui Lisia è attivamente partecipe, mette a morte Socrate e disperde «gli amici» di lui per qualche tempo (Senofonte
addirittura si auto-esilia). Peraltro la tradizione biografica conosceva un tentativo di Lisia di offrire a Socrate un eccellente ‘discorso in difesa’. E comunque
Platone ambienta la Repubblica in casa del padre di Lisia e nel Fedro si diverte
a parlare della attività retorico-sofistica di Lisia (il paivgnion sull’eros)15.
Che Lisia avesse messo in circolazione un suo epitafio per i morti ateniesi
della guerra corinzia è possibile (cfr. supra DOVER, Lysias, 193): un testo patriottico, antispartano, e soprattutto antipersiano al tempo stesso, è del tutto
comprensibile da parte sua; e, trattandosi di un testo fittizio, quella mescolanza di indizi cronologici che giustamente inquietava Blass diventa – come s’è
detto al principio – tollerabile16.
Che Platone nel Menesseno decida di inventare un epitafio parodico per
la medesima circostanza implica un intento allusivo che non può sfuggire.
Il parlante a quel punto è lo stesso Socrate: il che, viste le critiche di Socrate
all’Erotikós di Lisia nel Fedro, è particolarmente significativo. La nascita del
Menesseno si illumina ancor più. È chiaro che alla base c’è l’epitafio tucidideo-pericleo (nonché la novità molto significativa della diffusione dell’opera
tucididea ‘completata’ da Senofonte); altrettanto chiaro però è che deve esserci un nesso con l’exercitatio retorico-politica di Lisia inneggiante al rinnovato scontro Sparta-Atene che, questa volta, vede Atene non soccombente,
come nel 404, ma riscattata, grazie a quella guerra, dalla sudditanza a Sparta.
(Sembra forse meno probabile l’ipotesi contraria: che cioè Lisia abbia inteso
reagire alla exercitatio del Menesseno).
In ogni caso il fenomeno interessante è che si conservano gli epitafi fittizi,
non quelli realmente pronunciati. E che nel caso della guerra corinzia – cioè
della riscossa ateniese – a reagire ricorrendo alla forma-epitafio sono due intellettuali schierati in modo opposto: Platone e Lisia (non i politici professionali). Ricorrono entrambi allo strumento retorico tradizionale per eccellenza:
l’uno credendoci, l’altro parodiandolo. L’occasione della guerra corinzia appare così in tutto il suo rilievo: perché il 394/393 (compresa la rinascita delle
mura) è una vera svolta che inverte definitivamente la tendenza, e chiude il
decennio spartano 404-394. Anche per Teopompo è quello l’anno epocale (le
Elleniche giungevano appunto al 394). E anche Isocrate è nel 392 che si mette
a lavorare al Panegirico: che è una prosa tutta volta a significare la riscossa
15
Non è escluso che Lisia avesse composto davvero un Erotikós (come del resto se ne attribuiva uno
a Demostene).
16
Anche il caos cronologico dell’epitafio iperideo (su cui cfr. “QS” 73, 2011, 5-28) non può che
avere analoga origine.
Il corpusculum degli epitafi ateniesi
77
anti-spartana oltre che a giustificare l’impero a suo tempo sconfitto (lo dice lo
stesso Isocrate quando nell’Antidosis rievoca il Panegirico).
Lisia (se è lui l’autore), preso dall’obiettivo politico fondamentale (la rivendicazione di Atene non più suddita della potenza antagonista) non arretra
nemmeno dinanzi alle assurdità più evidenti: come quando parla bensì della
rinascita delle mura – che presenta come opera degli Ateniesi (§ 62) mentre
furono una realizzazione del denaro persiano! – e inveisce contro i ‘barbari’
Persiani (§ 59) che hanno instaurato ‘tirannidi’ dopo la ritirata di Agesilao
dall’Asia! Testo dunque, questo epitafio ‘lisiaco’, di aperta deformazione patriottico-panellenica, che non esita nemmeno dinanzi alle manipolazioni più
grossolane. È più un panegirico a forti tinte panelleniche che un mero epitafio,
o meglio un pamphlet politico travestito da epitafio.
Il ritratto di Lisia che viene fuori è quello di un meteco che interviene
nella politica. Anche per l’Olympiakos si dovrebbe porre analoga domanda
intorno ai vincoli che gli imponeva la sua posizione di meteco. Siamo autorizzati ad immaginare un Lisia che si precipita ad Olimpia per chiedere
un’azione panellenica contro il tiranno di Siracusa? A rigore in Olimpia non
ci sarebbe il problema dello status di meteco, ed un siciliano di origine può
ben aver sollevato il problema ‘Siracusa’ al cospetto dei Greci radunati nella
solenne circostanza. La domanda non può avere una risposta certa, perché
non è chiaro il ruolo che Lisia ha svolto nei decenni in cui è vissuto ad Atene
dopo la restaurazione del 403. Dovremmo fondarci su questi suoi interventi
pubblicistico-politici per tentare di farcene un’idea: di qui l’importanza della
discussione intorno alla loro autenticità.
4. Demostene [338 a.C.], Or. LX.
Nel 338, all’indomani della sconfitta di Cheronea, proprio Demostene, lo
sconfitto, viene incaricato della commemorazione ufficiale dei caduti, e parla in una situazione imbarazzante. Demostene celebra, in fondo, la propria
sconfitta. Nella Corona difenderà con rabbioso orgoglio la giustezza delle sue
scelte anche se avevano portato alla disfatta e addirittura proclama che rifarebbe le stesse scelte giurando «per i morti di Maratona». Nell’Epitafio c’è
invece una fiacca e convenzionale commemorazione esaltatoria dei caduti nel
disastro di Cheronea prodotto dalla sua politica.
Nella Corona c’è un ampio svolgimento (§§ 285-290) sul grande successo
politico che fu, per Demostene, nonostante la sconfitta sul campo di battaglia, il vedersi attribuire dall’assemblea popolare, e “confermare” dai parenti
dei caduti, il compito non solo simbolicamente significativo di commemorare
quei caduti. Demostene, nella Corona, sfrutta con molta determinazione quel
78
Luciano Canfora
riconoscimento della giustezza della sua politica. «Non affidarono quel compito – dice – né a te, Eschine, nonostante la tua bella voce, né a Demade, che
aveva appena stipulato la pace col vincitore, né ad Egemone, ma a me» (§
285). Ha perfettamente ragione perché quella scelta indicava la forte presa di
Demostene anche in un momento particolarmente sfavorevole: era un segno
chiaro della forza della sua parte politica. Un segno di peso almeno pari a
quello lanciato da Ctesifonte con la proposta – contestata ma alla fine vincente – di attribuire a Demostene la «corona» che ne premiava l’intera carriera.
Nella Corona Demostene si sofferma a lungo, e con toni da vincitore, sulle ragioni per cui il compito di commemorare i caduti non poteva essere affidato a
gente che sotto la tenda di Filippo aveva brindato alla sconfitta di Atene e che
si sarebbe poi con toni compunti e ipocriti presentata ad Atene a celebrare i
caduti (§ 287). Ricorda anche, e con compiacimento, la manifestazione di affetto popolare nei suoi confronti nella fase finale della cerimonia (§ 288: koinh`/
nessuno più di lui era più stretto congiunto dei caduti, e perciò i parenti si
recarono presso la sua casa a conclusione del rito). Quindi legge e commenta
il lungo epitafio iscritto sulla loro sepoltura (§§ 289-290), dove campeggia il
concetto che «solo agli dei è dato non sbagliare mai, mentre agli uomini non
è dato sfuggire alla Moira».
Orbene non può sfuggire che questo concetto, piattamente amplificato,
occupa la parte centrale dell’epitafio attribuito a Demostene (LX 19-24) con
il corollario – alquanto improbabile in un discorso di questo genere – dell’accusa ai Tebani di essere stati semmai loro i responsabili della sconfitta (§ 22).
Questi due elementi, l’ampio spazio che Demostene riserva nella Corona
al compito affidatogli dagli Ateniesi di celebrare i caduti di Cheronea ed il
testo, adeguatamente commentato, dell’epigrafe in memoria di quei caduti,
presenti entrambi nella Corona, cioè nella più celebre e celebrata orazione
demostenica, erano stimolo più che sufficiente, perché qualcuno «creasse»
l’epitafio demostenico17. Allo stesso modo Anassimene, nel VII libro delle
Storie filippiche, aveva creato il discorso demostenico della dichiarazione di
guerra, poi confluito nel corpus demostenico (dove già Didimo in età augustea
lo leggeva) come XI Filippica18.
Il drastico giudizio di Dionigi19 (epitafio «grossolano, vuoto e puerile») non
è elemento trascurabile20. Non è saggio liquidarlo come giudizio «based on his
17
La Corona (e il Contro Ctesifonte di Eschine) campeggiavano nelle scuole di retorica: lì nacquero
forse i “documenti falsi”. Cicerone tradusse i due discorsi e vi premise il De optimo genere oratorum. Ma
l’origine di D. LX può anche essere storiografica.
18
Didimo, Commento a Demostene, col. XI.
19
Su Demostene 44,3.
20
Esso appare condiviso da Arpocrazione (voci Aijgei`dai, Kekropiv"); Libanio, Sulle parti della retorica 6; Fozio, Bibl. 265 etc.
Il corpusculum degli epitafi ateniesi
79
impression of the text itself»21, tanto più che Dionigi rinvia ad una sua ulteriore
specifica trattazione (ta;" peri; touvtwn ajpodeivxei" oujc ou|to" oJ kairo;"
levgein) che avrà arricchito la dimostrazione di altri elementi. Sta di fatto che
poco dopo l’inizio di questo epitafio campeggia un errore che difficilmente potrebbe imputarsi a Demostene. Quando l’oratore, seguendo disciplinatamente
le tappe dell’antica gloria militare ateniese (Amazzoni, Eraclidi, Sette a Tebe!),
giunge a inneggiare alle guerre persiane, sfodera una affermazione insostenibile: che cioè si accinge a parlare di vicende, le guerre persiane appunto, per le
quali – diversamente che per quelle nominate prima – «non si è formata nessuna tradizione epica» (§ 9). Le parole che l’oratore adopera sono chiare: ou[pw
memuqolovghtai, oujd∆ eij" th;n hJrwiükh;n ejpanh`ktai tavxin («Have not yet found
their way into poetry or even been exalted to epic rank»)22. Hieronymus Wolf
annotava: «nondum a poetis celebrata sunt: quamquam inter Aeschyli tragoedias
est quae Pevrsai inscribitur». Gottfried H. Schaefer: «Vertendum nondum induta sunt ornatu mythico, nondum traxerunt ornatum mythicum» (Apparatus ad
Demosthenem, VIII, 1827, 609). La nota di Schaefer, che parla chiaramente di
un ingenuo «sophista» come autore di questo pensiero, fu riprodotta anche da
W. Dindorf nella sua grande edizione demostenica commentata (VII, Oxford
1849, 1406). È evidente che lo scrivente vuol dire che non si è formata ancora
sulle guerre persiane una tradizione poetica di carattere epico (hJrwiükh; tavxi"):
ciò è tanto più sicuro in quanto subito prima ha osservato che su Amazzonomachia, Eraclidi e Sette a Tebe c’è produzione epica e poetica e anche un gran
numero di opere in prosa. È dunque altrettanto chiaro che lo scrivente non solo
ignora l’epos di Cherilo sulle guerre persiane ma ignora anche la assunzione,
da parte ateniese, dell’epos di Cherilo sulla vittoria contro Serse tra i poemi da
recitare alle Panatenee su;n toi`" O
J mhvrou (Suidas, s.v. Coirivlo")23. È difficile
che il vero Demostene non fosse al corrente di tutto ciò.
C’è poi il singolare fenomeno delle coincidenze concettuali e verbali di
questo epitafio con il Menesseno platonico (237) – cioè con un testo parodico! – nonché la ripresa da Isocrate del raffronto con i dieci anni di guerra
impegnati a suo tempo per conquistare la sola città di Troia (D. LX 13 = Isocr.
Paneg. 23) ed altri ancora24. Cavarsela dicendo che se avessimo «la totalité
des discours prononcés» (ma gli antichi avevano solo questi cinque!) siffatta
«écholalie» sarebbe «vertigineuse»25 è semplicistico. Insomma questo epitafio – forse prodotto di scuola retorica meno probabilmente di provenienza
storiografica – appare sotto ogni rispetto indifendibile.
21
22
23
24
25
D.M. MACDOWELL, Demosthenes the Orator, Oxford 2009, 377.
È la traduzione dei due De Witt per la «Loeb Library» (VII, 1949, 13).
G. KINKEL, Epicorum Graecorum Fragmenta, I, 265.
Che segnaleremo più oltre.
N. LORAUX, L’invention d’Athènes, Paris - Lattaye, 1981, 255.
80
Luciano Canfora
Ma forse, proprio per questo epitafio bisognerebbe partire da una domanda ancor più basilare, tanto più necessaria se si considera che epitafi
veri già gli antichi non li avevano più. La domanda è: il testo che ci è giunto
in coda al corpus demostenico (o per meglio dire solo in una parte di esso)26
dobbiamo considerarlo «plaidoirie réelle» o «plaidoyer écrit» per usare la
ben nota terminologia di Jules Humbert (1925)? Si tratta insomma del discorso reale o della sua forma rielaborata? Partiamo dalla prima eventualità,
che, cioè, ciò che leggiamo in Demostene LX sia verbatim il puro e semplice
testo allestito per la recitazione. (In tal caso dovremmo esultare: avremmo, in
stesura scritta sopravvissuta sino a noi, un discorso reale e non riscritto après
coup: unico caso certo in tutto il corpus demostenico). Ma allora sorgerebbero due domande: (a) aveva davvero Demostene necessità di prepararlo per
iscritto un discorso del genere, sebbene in fondo non abbia fatto altro che
attenersi – con le necessarie varianti specifiche – ad un rigido schema tradizionale e ad una collaudata serie di topoi? (b) perché mai non lo rielaborò
pur essendo consapevole (cfr. Corona 285-288) dell’importanza politicamente grandissima dell’aver potuto pronunciare proprio lui quel discorso? Ha
ben ritenuto necessario rielaborare e diffondere la Corona. Mettiamo dunque alla prova l’altra eventualità: Demostene rielaborò quanto aveva detto nell’epitafio realmente pronunciato. E, ciò nonostante, mise insieme un
prodotto così gramo?27 Non è dunque per niente facile – da nessun punto
di vista – difendere la demostenicità di questo epitafio. E comprendiamo la
delusione dell’autore del Sublime, il quale giunse a concludere che Demostene, nell’oratoria epidittica, non era proprio capace (cap. 34)28. Non molto
lontano dalla valutazione di Dionigi.
In realtà, fatta eccezione per qualche sussulto novecentesco, il dubbio intorno a questo modesto prodotto è stato generalizzato e continuo. Chi pensò
di dirimere la questione con brevi e risolutive osservazioni fu Paul Maas29:
ma anche in questo caso, come nella ben nota sua dedizione al fantasmatico
“Cratippo”, la dimostrazione, che si pretendeva geometrica e conclusiva,
è fallita. Qualcosa va detto a proposito del tentativo di Maas. L’autenticità
di D. LX dovrebbe risultare dall’accostamento con passi della Leocratea di
Licurgo: ma nessuno di quegli accostamenti è cogente ed anzi in molti casi
ciascuno dei due testi che Maas accosta può essere, ben più efficacemente,
26
Cioè nel corpus tardo antico rispecchiato dal Marc. gr. 416; l’epitafio manca invece nell’Ambrosiano 112 (D), in A (Monac. gr. 485) e manca nelle Hypotheseis libaniane. Mi chiedo se figurasse nel corpus
demostenico noto a Didimo.
27
Oltre tutto non gli era ignoto, data la sua assidua frequentazione del testo tucidideo, il grande
modello “pericleo”!
28
Così come gli sembrava “iperepidittico” quello attribuito a Iperide.
29
“Hermes” 63 (1928), 258-260.
Il corpusculum degli epitafi ateniesi
81
accostato ad altri epitafi (a Lisia e a Iperide)30. Il che vanifica la dimostrazione.
Presentiamo qui alcune osservazioni analitiche sui deboli paralleli proposti
da Maas:
Lycurg. adv. Leocr. 48-50
Demosth. LX
(48) w{sper ga;r pro;" tou;" fuvsei
gennhvsanta" kai; tou;" poihtou;" tw`n
patevrwn oujc oJmoivw" e[cousin a{pante"
tai`" eujnoivai", ou{tw kai; pro;" ta;"
cwvra" ta;" mh; fuvsei proshkouvsa",
ajll∆ u{steron ejpikthvtou" genomevna"
katadeevsteron diavkeintai …
(4) … movnoi ga;r pavntwn ajnqrwvpwn
ejx h|sper e[fusan tauvthn w/k[ hsan …
w{ste dikaivw" a[n ti" uJpolavboi tou;"
me;n ejphvluda" ejlqovnta" eij" ta;" povlei"
… oJmoivou" ei\nai toi`" eijspoihtoi`" tw`n
paivdwn, touvtou" de; gnhsivou" govnw/ th`"
patrivdo" polivta" ei\nai.
(49) eij de; dei` kai; paradoxovtaton
me;n eijpei`n, ajlhqe;" dev31, ejkei`noi
nikw`nte" ajpevqanon: a} ga;r a\qla tou'
polevmou toi`" ajgaqoi`" ajndravsin ejstivn,
ejleuqeriva kai; ajrethv, tau`ta ajmfovtera32
toi`" teleuthvsasin uJpavrcei. e[peita
d∆ oujd∆ oi|onv t∆ ejsti;n eijpei`n hJtth`sqai
tou;" tai`" dianoivai" mh; pthvxanta"
to;n tw`n ejpiovntwn fovbon: movnou" ga;r
tou;" ejn toi`" polevmoi" kalw`" ajpoqnhv-/
skonta" oujd∆ a]n ei|" hJtth`sqai dikaivw"
fhvseie: th;n ga;r douleivan feuvgonte"
eujklea` qavnaton aiJrou`ntai.
(19) … oujk a]n ojknhvsaimi d∆ eijpei`n
o{ti moi dokou`sin oiJ teleutw`nte"
eJkatevrwn ejn tavxei th`" me;n h{tth"
ouj metevcein, nika`n d∆ oJmoivw"
ajmfovteroi. to; me;n ga;r kratei`n ejn
toi`" zw`sin, wJ" a]n oJ daivmwn paradw/`,
krivnetai: o} d∆ eij" tou`to e{kaston
e[dei parascevsqai, pa`" oJ mevnwn
pepoivhken: eij de; qnhto;" w]n th;n
eiJmarmevnhn e[sce, th/` tuvch/ pevponqe
to; sumbai`non, oujci; th;n yuch;n
h{tthtai tw`n ejnantivwn33.
(50) ejdhvlwse d∆ hJ touvtwn tw`n ajndrw`n
ajreth; movnoi ga;r tw`n aJpavntwn th;n
th`" E
J llavdo" ejleuqerivan ejn toi`"
eJautw`n swvmasin ei\con.
(23) … o} d∆ a{pasin oJmoivw" toi`"
ou\sin ajnqrwvpoi" gegevnhtai fanerovn,
o{ti hJ pavsa th` " JEllavdo" a[ra
ejleuqeriva ejn tai`" tw` nde tw` n ajndrw` n
yucai`" diesw/vzeto: ejpeidh; gou`n hJ
peprwmevnh touvtou" ajnei`len, oujdei;"
ajntevsth tw`n loipw`n.
30
Maas non sembra, in questo breve saggio, molto familiare con la ripetitività tipica degli epitafi.
«Dem. Philipp. 3, 1 blavsfhmon me;n eijpei`n, ajlhqe;" dev. 3, 5 paravdoxon me;n i[sw" ejsti;n
o} mevllw levgein, ajlhqe;" dev. Dem. 24 (an das unten Ausgeschriebene… ajnhv/rhtai anschließend)
megavlhn me;n ou\n i[sw" uJperbolh;n dovxomen levgein, rJhtevon d∆ o{mw", wirkungsvoll am Schluß des
Abschnittes. Bei Lyk. ist der Abschluß höchst matt» (Maas). Ma anche Diceopoli Ach. parla così: è una
tournure ovvia.
32
Non c’entra con ajmfovteroi, che si riferisce invece agli Ateniesi e agli avversari.
33
Un paradosso simile in Iperide, Epitaph. 27-28 (proprio perché morti sono nati!).
31
82
Luciano Canfora
Lycurg. adv. Leocr. 48-50
Demosth. LX
a{ma ga;r ou|toiv te to;n bivon
methvllaxan, kai; ta; th`" E
J llavdo" eij"
douleivan metevpesen: sunetavfh ga;r
toi`" touvtwn swvmasin hJ tw` n a[llwn
ejleuqeriva34.
(24) a{ma ga;r tav te touvtwn pneuvmata
ajphllavgh tw`n oijkeivwn swmavtwn, kai;
to; th``" JEllavdo" ajxivwma ajnh/vrhtai
… ejn skovtei kai; pollh/` duskleiva/
pa`" oJ pro; tou` zh`lo" tw`n JEllhvnwn
gevgonen36.
o{qen kai; fanero;n pa`sin ejpoivhsan oujk
ijdiva/ polemou`nte", ajll∆ uJpe;r koinh`"
ejleuqeriva" prokinduneuvonte".
(10 von den Athenern in den Perserkriegen)
dia; tw`n ijdivwn kinduvnwn koinh`"
swthriva" pa`si toi`" E
{ llhsin ai[tioi
katevsthsan.
w{ste w\ a[ndre" oujk a]n ijscunqeivhn
eijpw;n stevfanon th`" patrivdo" ei\nai
ta;" ejkeivnwn yucav"35.
(23) kai; fqovno" me;n ajpeivh tou` lovgou,
dokei` dev moiv ti" a]n eijpw;n wJ" hJ
tw`nde tw`n ajndrw`n ajreth; th`" E
J llavdo"
h\n yuch; tajlhqe;" eijpei`n37.
Il caso di questo epitafio suggerisce alcune considerazioni di portata più
generale.
Proprio questo intrecciarsi e sovrapporsi di formule («écholalie vertigineuse» secondo l’espressione di Nicole Loraux) che trasmigrano dall’uno all’altro
epitafio suggerisce un dubbio basilare a proposito di quel che ci è giunto sotto
i grandi nomi di Demostene e di Iperide nella generale perdita (o meglio non
conservazione ab origine) di tutto il resto della produzione di questo genere. Erano ingredienti usuali, montabili e smontabili in ogni circostanza (per
la commemorazione dei caduti ateniesi di qualunque guerra): topoi uditi dal
pubblico infinite volte; infiniti altri avevano parlato così. Non si vede perché
proprio Demostene e Iperide, e loro soltanto, avrebbero sentito il bisogno di
dare forma scritta e circolazione durevole a dei prodotti ‘montati’ con banali
«pezzi» di abituale consumo.
34
35
36
37
È, semmai, uguale a Lisia 2,60.
Cfr. Iperide, Epitaph. 19.
Somiglia a Iperide, Epitaph. 23.
Cfr. Tucidide II 41.
IS THERE PANEGYRIC IN CLASSICAL GREEK ART?
ROBIN OSBORNE
If we think to praise someone we will normally do so in words. We may
thank someone with a gift, but we expect praise not simply to register something about the disposition of the giver of praise towards the object of praise,
but to convey some information about the object of praise. Images do indeed
convey information, but can images convey praise? In this paper I briefly
outline some of the variables which determine whether an act counts as an
act of praise, and I then explore the circumstances in which ancient art managed acts of praise. I argue that praise is possible in art only within a highly
structured context, and that such stable contexts are absent from classical
Greek art.
The Structures of Praise
Three parties are involved in any act of praise: the one praised, the one
praising, and the audience of the praise1. Whether a given representation
counts as praise will be affected by the nature of these three parties. It will also
be affected by the nature of the occasion. A description which would count as
high praise to a student taking part in her first dramatic production might be
no praise at all to a professional actor. An audience of proud parents will hear
as praise what an audience of drama critics would not regard as praise at all;
Aristotle observed (Rhetoric 1415b27-29, tr. Rhys Roberts) that ‘In speeches
of display we must make the hearer feel that the eulogy includes either himself
or his family or his way of life or something or other of the kind’.
To praise requires being able to occupy a position from which what is said
will be heard as praise. If an academic goes into a high school and gives a
1
This paper would not have been conceived but for the kind invitation of the Fondazione Canussio
to the Convegno ‘Dicere Laudes: Elogio, Comunicazione, Creazione del Consenso’ in Cividale del Friuli
in September 2010, and it would not have taken the form that it does but for the stimulation of the other
papers and the discussion on that occasion. I am grateful to Gianpaolo Urso for his organisation of the
occasion, to all who took part in the conference, and to Ben Keim and Caroline Vout for comments on
earlier drafts.
84
Robin Osborne
talk, and a fifteen-year-old comes up privately afterwards and says ‘You are
wonderful, you know even more than I do’, this will not be received as praise
but as inappropriately pretentious. If the same student, however, stands up at
the end of the talk and, on behalf of the school, thanks the academic, drawing
attention to the fact that his knowledge surpasses what the school can otherwise command, that academic will receive this graciously as praise. In the first
case the student spoke only with his own insignificant authority, in the latter
he assumed the authority, and the collective expertise, of the whole listening
audience.
Private praise is possible, but only in circumstances where the giver of
praise commands a certain power in relation to the person to whom the praise
is given. The giver of praise in these circumstances carries with him or her
those over whom he or she has power – the words of praise may in fact be
given privately, but the fiction is created that there is a third party acceding
to the praise. Those who are effectively powerless cannot praise the powerful
privately, for they not only carry no implicit wider public with them, they also
have no alternative. They can, however, praise the powerful publicly, since
speaking in front of others enables them to assume the support of their audience, and the larger the audience or the more what that audience thinks matters, the greater their (potential) power.
If representations can be perceived as praise only in some circumstances
and from some sources, source and circumstances are not enough to turn a
representation into praise. To be perceived as praise, representations must
also take a particular form. The tropes of praise depend upon selection. Only
select qualities of the object of praise are described: praise is for virtue, according to Aristotle (Rhetoric 1366a23-24), and the Aristotelian virtues are
‘justice, courage, temperance, magnificence, magnanimity, liberality, gentleness, prudence, wisdom’ (Rhetoric 1366b1-3). More calculatingly, praise is
for what is esteemed: ‘Everything, in fact, that is esteemed [to timion] we
are to represent as fine [to kalon]. After all, people regard the two things as
much the same’ (Rhetoric 1367b11-12, based on Rhys Roberts’ rather wordy
version). Only some of the descriptors that might possibly be applied to a
particular person, object, or circumstance are employed: as Aristotle puts it
(Rhetoric 1367a35) ‘the stupid man is an honest fellow’ (tr. Rhys Roberts).
The later teacher of rhetoric Aristides (Ars Rhetorica 161(1 505 Sp.), using
the Greek terms auxesis, paraleipsis, parabole, and euphemia), detailed that
the way to do this was to exaggerate the meritorious features, suppress the
undesirable ones, make favourable contrasts with other things, and turn unpleasant into pleasant facts.
The objects of praise are, again following Aristotle, for preference, both
singular (‘only this man has…’ to paraphrase Rhetoric 1368a10-13), and de-
Is there Panegyric in Classical Greek Art?
85
liberately chosen by the object of praise (‘look at what this man does, and you
will see that he does not act at random, but regularly selects what is best…’
to paraphrase Rhetoric 1367b21-27). Praise is appropriate neither for qualities that are generally shared (one does not praise a man for having two legs
or for the fact that he is alive, nor an adult for having more knowledge than
a child), nor for qualities that are merely given by nature – though one certainly praises those who enhance qualities endowed by nature (athletes who
improve their performance by training, individuals who enhance their beauty
by the taste they display in their clothes or jewellery or the way they have their
hair styled)2.
Whether an audience hears a representation as praise is a complex question. Aristotle claims that ‘as Socrates used to say, it is not difficult to praise
the Athenians to an Athenian audience’ (Rhetoric 1367b8-9), but that claim,
derived from the beginning of the Menexenus, massively simplifies the situation. Socrates makes his claim in the face of precisely the contrary claim,
that delivering the Funeral Oration at Athens is difficult. Why the debate?
Funeral Orations at Athens presumably started off as praise of the particular
contingent of men who had died in the year that was being commemorated.
The Athenian Council chose an orator to praise a group of dead Athenian
citizens in front of the Athenian citizen body as a whole. The speaker on such
an occasion could expect to carry his audience with him as he lavished praise
on the war dead. They had, after all, voluntarily fought for Athens and given
up their lives – a choice that none of those who heard the oration had made.
But once the Funeral Oration changed from being praise of a select group
of Athenians who had died in battle, and became praise of the city, the task
became very much more difficult.
The problem of the Funeral Oration can be put like this: how could an
individual, whose authority for speaking derived only from the choice of (a
representative body of) citizens, turn round and praise those citizens? For this
not to be self-praise would depend upon the chosen individual claiming some
special authority – a claim that Athenian democracy was precisely required
to deny. Pericles gets round this problem by effectively turning the tables
to make the dead praise the city: the Athens which is worthy of praise is the
(imaginary) Athens for which these select citizens died. Lysias could take on
the role of giver of a funeral oration (whether or not historically delivered) because he was no citizen, but a metic; he spoke with the authority of the world
outside Athens. Socrates, to support his case that such praise is easy, quotes a
funeral oration that he ascribes to Aspasia – not merely a non-Athenian, and
2
I shall return below to the way in which praise of beauty selects parts of the body for praise rather
than praising the whole.
86
Robin Osborne
a woman, but a voice from the past who borrows the authority of Pericles3.
Despite Aristotle’s claim, the correct conclusion to draw from the Menexenus is not that it is easy to praise Athens to Athenians, but that it is easy
for a non-Athenian to praise Athens to Athenians. When Quintilian quotes
this passage of Aristotle he goes on to note that since praise is selected for a
particular audience ‘there will be no doubt about their judgement, because it
will have preceded the speech’ (Quintilian 3,7,23). But if the agreement of the
audience can be taken for granted, they still have to have someone to agree
with. There needs to be a triangulation: the audience of praise, the giver of
praise and the object of praise need to be conceptually distinct parties. Praise
given by someone who can claim independent authority reinforces the audience in their opinions, and the opinions of the audience then reinforce the
praise: as Aristotle rightly remarks ‘The ways in which to make them trust the
goodness of other people are also the ways in which to make them trust our
own’ (Rhetoric 1366a27-28).
Praise demands the creation of a compact between the giver of the praise
and those who hear the praise, and the denial of a compact between the giver
of praise and the person praised. Audience and speaker are complicit: those
who hear know that praise must take this form, and delight in familiar tropes
being employed about unlikely objects or in likely objects being praised in
unexpected terms; those who speak know that they are bound to say certain
things, and devote their energy to giving the impression that they are free to
speak differently. The skill of the person giving praise comes from giving the
impression both of knowing the rules and of not being constrained by them.
Where there is no compact between speaker and audience, words of praise
may be differently perceived by different listeners. At least part of the issue
in the reception of Cicero’s Pro Marcello lies in Cicero’s speaking to a body of
people whose opinions were divided: how can simple praise be given where
different listeners possess different, and violently opposed, values? Arguably
only if praise is bestowed on the one quality which demands complicity from
both sides – clementia4.
What the audience expects, and how the speaker’s words are heard, are
affected by what is known of the object of praise and by what is known of the
speaker. Isokrates notes, in the first part of his Encomium on Helen (10,13,
3
As to the other two surviving Athenian Funeral Orations, Hypereides turns his oration into a
praise of the general who was in command, and Demosthenes’ speech has a good chance of being a
school exercise, that is what a later generation would think it appropriate to utter in these circumstances
to the earlier generation of Athenians. (See further CANFORA, this volume, whose remarks have prompted
the reflections offered here).
4
See further CONNOLLY, this volume. It is not by chance that clemency turns out to be so important
a topic of discussion in a volume devoted to the giving of praise.
Is there Panegyric in Classical Greek Art?
87
tr. Norlin), that ‘while on famous subjects [subject that have doxa] one rarely
finds thoughts which no one has previously uttered, yet on trifling and insignificant topics whatever the speaker may chance to say is entirely original’.
When Pliny (Letters 2,1,6) praises Tacitus as ‘the most eloquent man to give
praise’ (laudatus est a consule Cornelio Tacito; nam hic supremus felicitati eius
cumulus accessit, laudator eloquentissimus) that eloquence surely stemmed
from the knowledge of the audience that Tacitus was the man readiest to voice
blame. No surprise then, that from as early as we have speeches of praise we
have speeches that draw attention to the means by which praise is conveyed –
as in Gorgias’ Encomium of Helen or Plato’s Menexenus.
Praise and the visual arts
Can paintings or sculptures take the place of written or spoken words of
praise? Can sculptors and painters persuade people to think well of persons
and things by the images they create? To do so, the images need to be able
to represent virtue and to be able to represent virtue as the deliberate choice
of the person or persons praised. They also need to persuade the viewer that
in so representing persons and their actions the artist possesses independent
authority, or operates as the agent of some independent authority.
Visual artists have no problem in picking out virtuous actions, for in what
they depict they necessarily select and are free to select for virtue. But, more
even than words, images depend for their significance upon comparison with
other images. And whereas the undesirable stands out in contrast to the rest
of the world, the desirable is that to which the world aspires. If the technology
of air-brushing is new, the phenomenon goes back to the earliest figurative
art. Exaggeration of meritorious features, suppression of undesirable ones,
favourable contrasts, these are the graphic artist’s techniques, not just the
wordsmith’s. But in art these are techniques that emphasise the typical, rather
than the exceptional. Not for nothing are artists who represent the beautiful
made to claim that they have selected and combined features from a whole
range of beautiful individuals5.
One difference between the artists in words and the artist in images is that
while a writer or speaker makes a person present by conjuring up their actions and so the qualities implicit in them, the visual artist can only conjure
up qualities on the basis of their visible appearance. When I am ‘economical
with the truth’ in describing a person’s past actions, or generous with the
truth in imputing to them virtues, my description will have no trouble insist5
A story first in Cicero De Inventione 2,1. For the long afterlife of this story see MANSFIELD 2007.
88
Robin Osborne
ing that the good qualities are the manifestation of a good character. When
the painter or sculptor makes a person or group more handsome by omission
or enhancement of features, he may be understood simply to be making them
more handsome, bestowing praise less on the individual depicted than on
Mother Nature.
More importantly, it is not the recital of past deeds which constitutes praise
of a person, but the claim that those deeds were a matter of choice and their
recital under the sign of virtue. The deliberate choice of Captain Oates on
Captain Scott’s Antarctic expedition to leave the tent (‘I may be some time’),
and the claim that this action constituted courage, is what turns the account
of Oates’ action into a laudation of Oates. But in providing an account of a
person’s physical features, and artist is not including them under any sign. No
amount of representation of gangrened feet, whether economical or generous
with the truth, will itself create praise of the polar explorers – not, at least,
outside the context of a monument to a polar expedition.
The painter or sculptor needs a context in order to turn selective description into a display of virtue, for it is only in the right context that the painter
or sculptor can make his viewer complicit. The complicity of audience to
speaker is complicity to judge this or that action a sign of this or that virtue6.
It is easy for someone standing outside the Athenian citizen body to praise
the Athenians at Athens in the Funeral Oration because, on that defined occasion, the qualities that the audience esteems are known, and because the
individual Athenians there praised have shaped their actions to acquire the
esteem of observers with those values. Only some painted or sculpted monuments can be reckoned to have carried similar contextual expectations. One
might reckon that the statues of the Tyrannicides carried such expectations,
but they did so because not only had this act of supposed tyrant-slaying been
itself honoured, but tyrant-slaying in general was something that the Athenians repeatedly enjoined upon citizens. With few other monuments can we
reckon viewers to have had constant and consistent values. Making clear what
people have done is not the same as making clear the qualities they displayed
in doing it. Complicity comes in the judgement of quality, not the judgement
of fact. As Quintilian put it ‘While therefore I do not agree that this encomiastic type of oratory is exclusively concerned with what is honourable, I do
agree that it is generally within the Issue of Quality’ (3,7,28, tr. Russell)7.
6
For a particularly complicated, and revealing, area of complicity at Rome see LEVENE 1997 on the
treatment of religious motifs in Roman panegyric.
7
This point is well brought out by Pacatus (Panegyrici Latini 11 (12) 44,4-5): sed utcumque uirtutis
tuae opera curiosae posteritatis oculis artificum manus reddet, cum te uel Alpium dorsa superantem uel
flumina obiecta tranantem uel agmen hostile triumphalibus uestigiis atterentem pictorum atque fictorum
adsequetur imitatio, clementia, imperator, tua quo caelo, quo pigmento, quo aere auroue ducetur? (But
Is there Panegyric in Classical Greek Art?
89
Classical art and praise
In the remainder of this paper I want to explore the circumstances in which
the context of viewing is or is not sufficiently constraining to allow the artist
to produce panegyric. For there are some circumstances in which a painter or
sculptor can show a person not merely doing something, but doing something in
a virtuous way. One way to do this is to take advantage of the established conventions observed by orators. Mario Torelli (1997) is able to read the Arch of Trajan at Beneventum as a panegyric because the episodes shown on the arch can
be identified with the episodes celebrated in Pliny’s Panegyricus. Contemporary
viewers, familiar with the structures of conventional praise, could map the scenes
on the arch against the commonplaces of imperial encomium. But that arch also
exploits a visual heritage. To quote Torelli, ‘The encomiastic discourse of the
arch appears to be carried out by the elaborate metamorphosis of an idéologie
imagée, created centuries before for the “historical” reliefs representing political status and political functions’8. The course and structures of political virtue
were long-established and firmly in place at Rome, and just as this peculiarly
enabled emperors to inhabit them, so too it peculiarly enabled sculptors to give
these imperial virtues visible form. The existence of visual conventions enables
description to become redescription under the sign of praise.
Within the Greek world the only topic of praise at all comparable to the
emperor celebrated in the Latin Panegyrics is the city of Athens invented
in the funeral oration. It is precisely because in such orations one does not
find ‘thoughts which no one has previously uttered’, to quote again Isokrates’
phrase, that they provide a framework to which sculptors (or painters) might
refer. But do they do so?
Both Jerome Pollitt and Henning Wrede have suggested that the frieze of
the Parthenon provides just such a visual equivalent of the Funeral Oration9.
Their case goes like this. In the cavalcade we can discover the Athenian citizen
body laid out according to its civic divisions, the tribal units distinguished10.
Although there is no allusion here to specific events of past history, such as are
discussed in every extant Funeral Oration bar the Thucydidean one, there is
allusion not merely to the civic structure but to the tribes whose particular conhowever the hand of visual artists present the achievements of your virtue to a curious posterity, whether
your likeness by the painter or the sculptor follows you as you overcome the ridge of the Alps, or swim
across rivers in your path, or wear down a hostile army with triumphant footsteps, emperor, with what
chisel, what pigment, what bronze of gold will they bring out your clemency?)
8
TORELLI 1997, 169.
9
What follows is not exactly as set out by POLLITT 1997 or WREDE 2008 but follows the spirit of
their arguments.
10
So most fully JENKINS 2005.
90
Robin Osborne
tributions to Athenian history Demosthenes was at pains to detail in his Funeral
Oration (60,27-31) (fig. 1). In the chariots and apobatai we see something of the
training and education of the Athenians regularly stressed in funeral orations,
something of the competitive glories of festival games to which Perikles is made
directly to allude (Thucydides 2,38,1), and something of the ‘obedience to the
magistrates and the laws’ (Thuc. 2,38,3). In the players of the kithara and the
aulos and the elderly officials more of the executive structure of the democracy
is displayed, allowing the eyes of the audience of the Funeral Oration to imagine here both the ‘ordinary citizens’ who ‘are fair judges of public matters’
(Thuc. 2,40,2), and those whose ‘advancement in public life falls to reputation
for capacity’ (Thuc. 2,37,1), and in the particular roles shown up by the red
cloaks of the metic tray-bearers we see Athens the host to the rest of the Greek
world. All contribute to the Athens that is a city of festivals and sacrifice, but
also ready for war, rehearsed by Thucydides’ Perikles (2,38,1; 2,39,1).
Fig. 1 – Cavalry arrayed in tribal groups on the south frieze of the Parthenon. American School of Classical Studies at Athens, Archives, Alison Frantz Photographic
Collection.
Is there Panegyric in Classical Greek Art?
91
How easy it is to see the Parthenon Frieze as a panegyric depends upon
what tense one thinks it is written in. The Arch of Trajan at Beneventum can
be easily read as a panegyric not least because it is in the past tense. Trajan’s
Arch includes a frieze showing a Roman triumph, and includes displays of
barbarian captives11. Victories and their celebration are necessarily hyperbolic
occasions and cannot but mark out the victor, whether city or emperor, as
special. But is Parthenon frieze also in the past tense? Answering this question
depends crucially on what one takes the overall programme of the Parthenon
sculptures to be.
The claim that is conventionally repeated is that the sculptures of the
Parthenon, like the enterprise of building the Parthenon as a whole, were
designed to celebrate Athens’ victory over the Persians12. The one substantial ancient discussion of the building of the Parthenon, in Plutarch’s Life of
Perikles (esp. chs. 12 and 17), does not in fact talk in these terms, but rather
conceives the Parthenon as a project designed to magnify Athens13. There is
no doubt that Athens’ ability to be all-victorious is on display in the Parthenon, not least in the image of Athena with Victory standing on her hand, but
by 447 Athens had been in conflict with other Greek states for more than a
decade, and in historical terms it is not obvious that at this moment the particular relationship to Persia should be privileged.
The desire to see the Parthenon as a monument to victory over Persia depends upon a particular reading of the sculptures of the metopes and of the
reprise of a number of similar themes on the cult statue of Athena Parthenos.
On this reading the conflict with the Amazons, in the west metopes, with
the centaurs, in the south metopes, with the giants, in the east metopes and
the sack of Troy in the north metopes should all be read as analogies for the
conflict between Athenians and Persians. That all four sides of the Parthenon showed scenes of conflict is undeniable, but the way in which they were
shown, as well as the political situation at Athens when they were sculpted,
makes mapping these scenes onto conflict with Persia to celebrate Athenian
victory very problematic. It is not simply that the choice seems to have been
made to represent the Amazons in normal hoplite costume, rather than as
Persian look-alikes, even though the latter option was available. It is also that
the scenes of the sack of Troy focus not on glorious victory but on scenes of
the Trojans fleeing the city or seeking refuge at a cult image (figs. 2 and 3).
Even on the south side, where conflict with centaurs might be taken to be
generic, there was a set of metopes in the centre whose subject, though en11
12
13
Cf. BEARD 2007, 46-47; 125-128.
This claim is worked out in most detail by CASTRIOTA 1992.
Cf. POWELL 1995; STADTER 1989 ad locc.
92
Robin Osborne
igmatic, seems to offer no analogies with conflict with Persia. On all sides
bar the east, issues of conflict between men and women seem to have bulked
large, in a way that they do not in any account of the conflict with Persia. Any
claim that what we see on the Parthenon is a rehearsal of victory of Persia
ignores the detail of the sculptural programme completely14.
If the metopes do not engage in particular with the Athenian conflict with
Persia, then the motivation for seeing the frieze as the representation of a
procession at some particular point in the past is much reduced. In terms
of the scenes shown on the frieze, the only visual motivation for taking the
representation to be in the past tense is the absence from the representation
of certain features which our textual sources indicate were present in the real
Panathenaia15. But unless one thinks that Athenians approached the frieze
with a check-list, it is hard to think that they would have found the absences so anomalous as to undermine their identification of the scene, let alone
enough to drive them to identify it as historic. The particular suggestion that
the number of figures shown in the procession would lead to an identification
of these Athenians with the Athenians who died at Marathon requires a manner of viewing that it is hard to credit16.
Fig. 2 - 3 – Helen and another woman taking refuge at the statue of Athena when approached by Menelaos and a companion: Parthenon north metopes 24 and 25. Photograph: Hellner. DAI Athens, Neg. Akropolis 2292 and 2308. All rights reserved.
14
15
16
I discuss these issues more fully in OSBORNE 1994a; OSBORNE 1994b.
See BOARDMAN 1984.
BOARDMAN 1977.
Is there Panegyric in Classical Greek Art?
93
Cavalcades and religious processions are particular past events, but they
are also ritual events whose power comes precisely from their recurrence.
Unless there are positive indications that we are dealing with a particular occasion, any representation of a procession will have a certain timelessness,
pointing back to past events, forward to future events and reflecting also on
current events. To represent a procession, as in the representation of family processions on votive reliefs, is to make ever present the act of worship
that the procession constitutes. Although such a representation does not capture a unique occasion, that does not mean that it brings out nothing unique.
The enigmatic central scene at the culmination of the processions on the east
frieze, whatever we take the precise allusion of that scene to be, was surely
unique enough to determine recognition. But the uniqueness upon which
Athenian Funeral Orations insist is not a matter of particular unique actions
but of unique patterns of life. The Funeral Oration stresses qualities that are
not visible as what marks Athens out: ‘In short, I say that as a city we are the
school of Hellas; while I doubt if the world can produce a man, who where
he has only himself to depend upon, is equal to so many emergencies, and
graced by so happy a versatility as the Athenian’ (Thuc. 2,41,1, tr. Crawley).
We inevitably read the Parthenon frieze as descriptive of Athens in particular,
descriptive indeed of the admirable festive display at Athens upon which the
Funeral Oration also insists, but is admiration enough to turn admiration of
Athens into panegyric?
Torelli notes that in the Arch of Trajan at Beneventum there is a historical
development of events, leading spatially from the borders of empire to its heart
and temporally from the beginnings of Trajan’s reign to his apotheosis17. If we
look for such development of events in the Parthenon frieze we can indeed
find one – not here in terms of historic allusions nor the mapping of the world,
but in terms of the processions that culminate at the east door. Where the
Parthenon frieze overlaps with the discourse of the Funeral Oration is in the
treatment in the Oration of Athenian relations with the gods. What the various
elements of the procession display is Athenian piety towards Athene. Simply
by the context of their display these sculpted representations of Athene’s birth
and interventions in the world constitute a panegyrical redescription of the
goddess’s virtues. If this is a panegyric, it is a panegyric of Athene. Or, rather,
one element of a panegyric of Athene, since the pediments, with the birth of
Athene and her contest with Poseidon for Attica, the metopes, with their gigantomachy involving Athene, sack of Troy in which the statue of Athene is a
place of refuge, amazonomachy which is probably set at Athens and the sculptures of the base and shield of the statue of Athene itself further contribute to
17
TORELLI 1997, 167.
94
Robin Osborne
a hymn to Athene’s virtue. Quintilian (3,7,4) was prepared to recognise as an
oratorical subject praise of Jupiter Capitolinus, noting that this proved that
one could have panegyrics where no doubt was involved, but we might prefer
to think of such praise as essentially constituting not so much a panegyric as a
hymn. The context of a temple makes hymns of praise for a god possible, perhaps even inevitable. Scholars who have worried that it does not befit a temple
to show a procession of contemporary human worshippers are correct at least
to the extent that temple sculptures are no place for praise of the city.
The Athenians did, of course, also display both sculpture and paintings in
secular contexts. Beginning with the Tyrannicides and then increasingly from
the early fourth century, statues of men to whom the Athenians had reason to
be grateful were erected in the Agora. No doubt fulsome praise celebrated the
award of such statues, but all that the inscriptions recording honour offer is a
routine parade of cardinal virtues18. Isokrates’ Evagoras offers us a panegyric
of a man who had indeed been awarded honours at Athens, but that comes no
closer to the experience of the Assembly. Nevertheless the formulaic sequence
in that speech of discussions of ancestry, followed by childhood and education,
charmed life and achievements, and finally virtues, shows something of the importance of the generic framework for the audience appreciation of the man.
Late in his treatment of Evagoras, Isocrates explicitly compares what can
be done in words and what in art. Isokrates claims that praise in words is more
valuable than praise in statues, since words can advertise to the whole world
the virtues which others desire to emulate, whereas statues make known locally only the appearance of the body which others cannot emulate (Evagoras
73-75). Isokrates’ comments confirm that while the statues of the tyrannicides
highlighted their action, fourth-century statues advertised appearance. We do
not possess statues erected in the early fourth-century in Athens, but surviving portraits make it clear that artists used clothing and pose to characterise
the honorand as soldier, orator, philosopher or tragedian, and otherwise explored the character of the individual only in their treatments of the head.
Honorific statues were essentially pegs upon which the laudation was hung.
They identified the individual by profession and by personal appearance, and
in doing so they set up some expectations about the sort of person he was,
but they said nothing further about the individual, either for praise or blame.
They offered description, but not the redescription essential to the discourse
of praise. When a set of honorific statues were viewed together comparison
between them would yield some sense of individual qualities as well as generic
ones, but while the context implied that it was for the way in which he dif18
On the editorial process in decrees see OSBORNE 1999. On the cardinal virtues celebrated see
WHITEHEAD 1993.
Is there Panegyric in Classical Greek Art?
95
fered from others that a particular man was honoured, the narrow focus of
this attention meant that even when seen en masse these statues fell well short
of anything that could be called panegyric (figs. 4 and 5).
Much the same might be said of the classical gravestone. Most commonly
attached to a text still more reticent than the text of a decree, Athenian gravestones were a means by which families advertised to a wider world the deaths
of their members. The grave reliefs indicated to that wider world the place
that the deceased had characteristically occupied, by presenting them as athlete, soldier, matron, priest or priestess. Rarely do the stones venture a narrative: the individuals whose lives are commemorated are fitted into slots rather
than given distinctive individual histories.
Fig. 4 - 5 – Portrait statues of the orators Demosthenes (Courtesy Ny Carlsberg Glyptotek 436a) and Aeschines (Schwanke, Neg. D-DAI-Rom 1985.0486); although carved two generations apart these statues draw attention by comparison to the different
characters of the two orators.
96
Robin Osborne
When a fuller narrative can be constructed, as with the famous monument
of Dexileos (fig. 6), whose inscription uniquely tells us about the date of his
birth as well as the circumstances of his death, it nevertheless remains the case
that these details contribute to pathos rather than to personal praise. The visual presentation of the mounted warrior triumphing over a naked fallen figure
magnifies the pathos: we see Dexileos at the same time in the triumphing cavalryman and in the fallen soldier, and the sympathy of the young cavalryman’s
downcast gaze turns out to be an invitation to turn a downcast gaze of sympathy at the record of Dexileos’ own death. The circumstances of Dexileos’
death are here turned into the big event of his life – almost certainly for bigger
political purposes19. The importance of emphasising his death precludes his
monument celebrating his life. Here is a case where we do have emphasis on
the unique circumstances, but used not to create the superlative picture of the
deceased that praising him would require.
Fig. 6 – Grave relief of Dexileos.
Courtesy of Hirmer Fotoarchiv,
Munich.
19
RHODES - OSBORNE 2003, no. 5; cf. also OSBORNE 2010a.
Is there Panegyric in Classical Greek Art?
97
On doing without an art of praise
We look in vain, I suggest, for panegyric in Greek art. And for good reason.
Panegyric depends on superlative statements and superlative statements can
only be established by apt comparisons. Such comparisons themselves require
a framework of expectations to be established, and this happens most readily
where there is a known and given pattern of achievements. The Roman triumph, and more generally the life of the Roman imperator, offered just such a
circumstance. Within the Greek city, however, lives took all manner of forms,
and such expectations as there were so broadly conceived as to preclude effective comparison. This is not an accident. Even outside the narrow range
of democratic cities, the Greek city constructed itself as a city of peers. Few
indeed were the occasions for singular praise of an individual; not by chance
that our surviving prose laudations are for such oddities as a Spartan king and
a Cypriot ruler. It was not the form of the statues of Demetrios Poliorketes
that displayed Athenian flattery of him but their material and number. But it
was flattery that those statues displayed, precisely because they revealed the
honouring of a man without revealing that man as worthy of praise.
Athenian writers and orators did celebrate the whole history of a city, and
sculptors might have done had there been occasion to do so. But the resources of the Greek city were primarily devoted to the gods, and such glorification
of the polity as there was through the glorification of the gods of the polity.
Individual monuments celebrated particular great achievements, especially
in battle, but, even such celebrations were tempered, as is emphasised by the
story of the Athenians granting permission to Kimon to celebrate his victory
at Eion with a monument only on the proviso that that monument carried no
names and took the form of three herms. The visual form of that monument
served to attract attention, and no one reading the accompanying texts could
doubt that a peerless achievement was being celebrated, but it is the achievement that is flagged, not the contribution of those who achieved it, whether
those responsible are conceived of narrowly as a particular set of soldiers or
more generally as ‘the Athenians’.
Encomia depend upon there being a gap in power between those offering
the encomium and those receiving it. The powerful will praise a fly more readily than praise their peers. The powerless negotiate their position by praise of
the powerful. But encomia and panegyrics alike depend upon a firm set of
expectations around and against which those making the praise, and those to
whom the praise is advertised, may understand that the great acts described
are actually being redescribed as virtuous. Greek art developed various generic expectations, but only exceptionally did it develop any context within
which painters or sculptors could redescribe individuals or groups in what
98
Robin Osborne
would be recognised as superlative terms. The political necessity for the establishment of permanent praise came only with the enduring imbalances of
power to be found in the Roman empire.
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Is there Panegyric in Classical Greek Art?
99
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FESTIVALS, CULTS, AND THE CONSTRUCTION
OF CONSENSUS IN HELLENISTIC POETRY
RICHARD HUNTER
The importance of festivals and public cult in the construction and reenforcement of social cohesion and political power in the Hellenistic age is a
familiar fact of the history of the period. Very few Ptolemaic events, for example, have been as much studied from these perspectives as the ‘Grand Procession’ of Ptolemy II1. It is a similarly familiar fact about Hellenistic poetry that
narratives and representations of song, of cult, and of festivals are (perhaps
surprisingly) common. This is often (and rightly) associated with the fact of
the greater spread of, and assumption of, reception through reading – to put
it banally, the further poetry gets away from live enactment in performance,
the more it scripts versions of such performances, as some kind of ‘compensation’ – and with changes in the nature of poetry itself (the separation of the
music from the words, the fact that elite poets now wrote predominantly,
though not of course exclusively, in hexameters and elegiacs etc). Other factors are, however, clearly involved also. Both representational art and the lyric
texts themselves which had survived from the archaic and classical periods
were suggestive of a past culture which was both very different from the conditions – social, political and literary – prevailing in the Hellenistic period, but
also suggestive of striking continuities. As the rich epigraphic record attests,
festivals and cultic performance of all kinds blossomed all over the Hellenistic
world, and the support for festivals, and the buildings and temples associated
with them, by rulers both great and small was a fact of life which, from the
point of view of the great poets of the third century, must have seemed a vital
part of the archaic and classical heritage which they sought to reconstruct. In
this paper I cast a brief glance at two themes in Hellenistic poetry which are
both related to this interest in festival and cult and also related to each other.
One is how this interest manifests itself in the representation of a participating audience in the act of observing and being drawn into cult and song, and
the other is cultic aetiologies, which are, of course, ubiquitous in Hellenistic
poetry, but whose function and resonance are not always as straightforward
as is sometimes made out.
1
Bibliography in HUNTER 2003, 2 n. 5.
102
Richard Hunter
In one of Theocritus’ best known poems, Idyll 15, two women of relatively
humble means have a day out to the Alexandrian palace to take part in the
Adonis-festival staged by Queen Arsinoe and to listen to the singing of the
‘Adonis song’ by a solo performer2. The women are what we might call participant observers, not really so far removed in fact from the voices of Callimachus’ so-called mimetic hymns to Apollo, Athena and Demeter, and this is,
as I have already observed, a position repeatedly dramatised and narrativised
in Hellenistic poetry. Of course, this is hardly new. The famous description of
the Delian festival in the Homeric Hymn to Apollo places both the poet and
his audience in the position of spectators and admirers of the performers and
also scripts the appropriate reaction: ‘anyone who was there when the Ionians
gathered together would say that they were immortal and ageless’ (151-152),
‘everyone would say that he himself was speaking [when the Deliades imitate
voices]’ (163-164). It is just such a reaction – an admiration for ‘lifelikeness’ –
that the women of Theocritus 15 give us, but this time in mimetic form: ‘Look
first at the tapestries, how fine and graceful they are! You will say that they are
the garments of the gods’ (15,78-79)3. The poet of the Homeric Hymn almost
makes the god too an observer – ‘they delight you with boxing and dancing
and song’ (149) – as indeed performers of any cultic enterprise would expect
the relevant god to watch them doing honour to him or her. Callimachus goes
one step further, and in more than one poem. In his Hymn to Apollo, the
Cyrenean rites and dances for Apollo which ‘we’ are now performing were
witnessed immemorially long ago by Apollo himself, who ‘was very delighted’
(85) at what he saw, as in the Homeric Hymn. What might be thought a ‘typically Hellenistic’ touch is that the god was not just a passive observer/member
of the audience, but he pointed things out to his new bride (90-91), just like
the excited women of Theocritus 15. In Hellenistic poetry the gods still look
on, but can be more animated about it. We may compare the scene in the
fourth book of the Argonautica (922-964) in which Thetis and the Nereids,
as like a maiden-chorus as Nausicaa and her friends on the beach, escort the
Argo through the Planktai, while Hephaestus takes a break to watch (like the
Syracusan women?) and Hera throws her arms around Athena in excited fear,
just like two teenagers watching a scary movie. Visualisation, our visualisation,
is at the core of such scenes. Apollonius has perhaps gone some of the way
towards breaking down the sharp Homeric distinction between the divine
2
The description of women visiting a shrine of Asclepius in Herodas 4 is standardly and rightly
compared, and if that shrine is indeed supposed to be the great Coan site, then the Ptolemaic dimension
of that poem is unavoidable, cf., e.g., ZANKER 2006.
3
Some might think it indicative of the shift from the archaic to the Hellenistic period that in the
Homeric Hymn what is being described is real cultic performance, whereas in Theocritus it is a work of
art, but I cannot pursue that subject here.
Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry
103
audience and the contemporary one, composed of ‘men of now’ who fail to
measure up to the great figures of the past, but it was always a distinction
which implied a complex and suggestive similarity. We may perhaps compare
the multi-faceted relationship between the watching chorus and the watching
spectators of Attic tragedy.
In his Hymn to Delos Callimachus produces yet another take on this. With
an extraordinary geographical perspective (or the perspective of one who has
been looking at a map), he imagines the islands performing circular dances
around Delos (as may well have been in fact re-enacted in historical times),
and it is again observer status which is emphasised: ‘Hesperos looks down
upon (katablevpei) you neither silent nor without sound, but always ringing
with noise’ (vv. 302-303). Examples of this interest in the observer could be
multiplied many times. When in a similar passage of Callimachus’ Hymn to
Artemis the nymphs honour Artemis with circular dances – obviously the divine
avatar of a very common form of human performance – Helios stops his chariot
to watch and the days become long: the sense of festival, of carnival time (cf.,
again, Ptolemy’s ‘Grand Procession’), affects the whole cosmic order. So too,
when Apollo is praised, even Thetis and Niobe cease from their lamentation:
eujfhmei` kai; povnto", o{te kleivousin ajoidoiv
h] kivqarin h] tovxa, Lukwrevo" e[ntea Foivbou.
oujde; Qevti" jAcilh`a kinuvretai ai[lina mhvthr,
oJppovq∆ iJh; paih`on iJh; paih`on ajkouvshi.
kai; me;n oJ dakruovei" ajnabavlletai a[lgea pevtro",
o{sti" ejni; Frugivhi diero;" livqo" ejsthvriktai,
mavrmaron ajnti; gunaiko;" ojizü urovn ti canouvsh".
20
The sea too keeps reverent silence, when bards celebrate the lyre or the bow, the
implements of Lycorean Phoibos. Not even Thetis, his mother, mourns wretchedly
for Achilles, whenever she hears ‘Hie Paieon, Hie Paieon’. And the tearful rock postpones its woes, the moist cliff standing in Phrygia, a marble block taking the place of
a woman crying piteously.
(Callimachus, Hymn to Apollo 17-24)
Here too we have a sense of festival/lyric time defying the laws of nature
– not because Helios is not moving, but because even the sea is silent, in a
familiar motif of divine epiphany. We move from the sea, to Thetis who dwells
in the sea and may even be a metonymy for it (so that in some senses v. 20
expresses the same thought as v. 18, but expresses it in a different mode)4, to
4
Williams’s helpful note ad loc. makes a similar, though differently directed, point. I discuss this
passage also in HUNTER 2011.
104
Richard Hunter
the watery rock which is Niobe. The ‘pun’ (though that is an unhelpful term)
in ajnabavlletai, ‘postpones’ but allowing the sense ‘strike up’ (musically) (cf.
Pindar, Pythian 1,4) to resonate also, encapsulates precisely this configuration
of lyric time – the time of music and dancing – as a time of postponement, of
watching and listening.
The evocation of cultic experience and the perspective of the viewer/participant is thus one way in which Hellenistic poetry both draws its audience
in and also offers (usually oblique) encomium of those responsible for these
public events. Less obvious perhaps is to what extent the concern with cultic
aetiology and history, which we find everywhere in Callimachus and Apollonius of Rhodes, serves similar ends. At least two, not mutually exclusive,
approaches to this material seem possible. On the one hand, we can plot the
areas of local cult against known areas of influence or interest to rulers, so that
such poetic material may be seen to have an inherently ‘political’ dimension,
even if any such explicit concern seems very far from the text. Very often of
course we will have to leave matters at the level of suggestion. Delian cults
under Ptolemy II are a special case, and certain other examples are hard to
resist. Ptolemaic interest in the Samothracian mysteries has long been connected with the fact that Apollonius’ Argonauts stop on the island on the voyage out in order to be initiated5. So too, H.W. Parke and Alan Cameron have
rightly drawn attention to Callimachus’ persistent interest in the oracular cult
of Apollo at Didyma, where the temple was rebuilt on a massive scale and the
cult reorganized, both to reflect the Delphic pattern, at the end of the fourth
century and the early part of the third6; from 279-259, in the reign of Ptolemy
II, Miletus was in the sphere of influence of Alexandria, and it is thus hard not
to see, as Wilamowitz already did, poetic concerns here moving in step with
major events of interest to the patron7. Callimachus celebrated (and perhaps
helped forge, at least for later ages) the ‘new’ foundation legend in his poem
‘Branchos’ (fr. 229 Pf.), which seems to have told of Apollo’s epiphany to a
lovely shepherd boy of Delphian descent and his foretelling of the cult that
Branchos would found on the site8.
Callimachus is here celebrating local traditions (of however recent re-in5
Bibliography and discussion in HUNTER 1995, 20.
Cf. PARKE 1986, 129-130; CAMERON 1995, 167-169.
7
A helpful survey of the arguments in EHRHARDT 2003.
8
Texts relevant to the myths concerning Branchos are gathered by LELLI 2005, 71-73. Both
ASPER 2004, 271 and LELLI 2005, 79 rightly raise the possibility (it can be no more) that ajnavktwn iJerh;n
genevqlhn at v. 17, near the end of the poem, refers not to, e.g., the Branchidai, but rather to the Ptolemaic
house. Lelli compares Sawthvrwn u{paton gevno" at Hymn to Delos 166, but a more suggestive ‘parallel’,
particularly given the possibility that ‘Branchos’ was the closing poem of a collection, is the prayer to
Zeus to preserve oi\kon ajnavktwn in the ‘epilogue’ to the Aitia (fr. 112,8 Pf. = 215,8 Massimilla).
6
Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry
105
vention) and local families, much as generations of ‘wandering poets’ had
done, and would continue to do, in the hope of rewards and honours from
the communities they had celebrated9. It is, however, unlikely that many such
poets used stichic ‘catalectic choriambic pentameters’ for their songs of praise
and commemoration10, and we must admit that it is very difficult to be sure
how this combination of rewritten cultic tradition and metrical experimentation actually ‘felt’ to its original audiences. Too often, the fact that a poem
of Philicus, which looks like a hymn to Demeter in choriambic hexameters,
another metrical ‘sport’ which Hephaestion cites alongside Callimachus’ choriambic pentameters, is explicitly offered to the grammatikoiv as an ‘innovative composition’ (SH 677) is taken as a sign that all such poems are just that:
literary games with no purchase at all in the realities or imagination of cult or
religious ideas (broadly understood). We must rather learn to be sensitive to
difference as well as to similarity. The tension between generic and linguistic
form, a tension found elsewhere in Callimachus (cf., e.g., the elegiac epinicians for Berenice and Sosibios), seems almost to reflect an acknowledgement
of the complex cultural signals which the public creation of tradition brings
with it.
Typical of the issues which arise in this area, though untypical in other
ways, is Callimachus’ account of the aetiology of the cult of Dictynna on Crete:
e[xoca d∆ ajllavwn Gortunivda fivlao nuvmfhn,
ejllofovnon Britovmartin ejuvskopon: h|" pote Mivnw"
ptoihqei;" uJp∆ e[rwti katevdramen ou[rea Krhvth".
hJ d∆ oJte; me;n lasivhisin uJpo; drusi; kruvpteto nuvmfh,
a[llote d∆ eiJamenh`isin: oJ d∆ ejnneva mh`na" ejfoivta
paivpalav te krhmnouv" te kai; oujk ajnevpause diwktuvn,
mevsf∆ o{te marptomevnh kai; dh; scedo;n h{lato povnton
prhovno" ejx uJpavtoio kai; e[nqoren eij" aJlihvwn
divktua, tav sf∆ ejsavwsan: o{qen metevpeita Kuvdwne"
nuvmfhn me;n Divktunan, o[ro" d∆ o{qen h{lato nuvmfh
Diktai`on kalevousin, ajnesthvsanto de; bwmouv"
iJerav te rJevzousi: to; de; stevfo" h[mati keivnwi
h] pivtu" h] sci`no", muvrtoio de; cei`re" a[qiktoi:
dh; tovte ga;r pevploisin ejnevsceto muvrsino" o[zo"
th`" kouvrh", o{t∆ e[feugen: o{qen mevga cwvsato muvrtwi.
190
195
200
Particularly above others you loved the nymph of Gortyn, deer-slaying Britomartis,
whose aim does not miss. Once Minos, crazed with love for her, roamed the moun9
Cf., e.g., HUNTER 2003, 26-27; HUNTER - RUTHERFORD 2009.
This is the ancient analysis; modern scholars describe the length rather as an aristophanean (-uuu--) expanded by the insertion of three choriambs.
10
106
Richard Hunter
tains of Crete. The nymph hid, now under the leafy oaks, now in the low meadows,
but for nine months he wandered over the crags and cliffs and he did not cease from
his pursuit; when she was all but caught, she jumped into the sea from a lofty headland and fell into fishermen’s nets (divktua) which saved her. As a result of this, the
Kydonians afterwards call the nymph Dictynna, and the mountain from which she
jumped Diktaion, and they set up altars to her and conduct sacrifice. On that day
garlands are made of pine or mastich, and hands do not touch myrtle; while she was
fleeing, a myrtle-branch became entangled in the girl’s robes, and for this reason she
conceived a great anger against myrtle.
(Callimachus, Hymn to Artemis 189-203)
A number of features make this passage particularly worthy of attention in
the current context. It is, for Callimachus, a relatively extended narrative, and
one which has a fair chance of being innovative11; there are clear indications,
moreover, that the value of Callimachus’ account was discussed in antiquity
(cf. below). Secondly, there are indications elsewhere that Callimachus was
well informed about Cretan cult, whether through personal observation, informants, written sources or a combination of all three12; this does not, of
course, of itself tell us anything about the nature of this particular narrative,
but it is a salutary reminder (if we needed one) that such cultic tales may
not be simply the result of an overheated scholarly imagination and thirst
for witty combinations. Third – and a cause for both particular interest and
particular frustration – is the fact that, although we know that several Cretan
cities had political ties to Ptolemaic Alexandria and that there was important
mercantile and intellectual exchange between Crete and Alexandria, the state
of the evidence makes it very difficult to track the relationship in any detail13;
the best evidence, beyond the presence of Cretans in Egypt and of Ptolemaic
officials in Crete, is for the development of Itanos in the far north-east of
the island as a Ptolemaic naval base, but Ptolemaic interest stretched much
further west than that also. Chance survivals show us what we are missing.
A treaty between Polyrrhenia and Phalasarna, recorded on a stone originally
placed in the temple of Dictynna near Kydonia (cf. below), shows the Spartan
interest in west Crete14; other powers were no doubt sniffing around also. The
treaty between Magas of Cyrene, whose shifting relationship with Ptolemy
II was an important fact in Alexandrian politics (and may well have been so
11
It is at least a peculiar misreading when CHANIOTIS 2001, 213 includes this passage among Cretan
stories which were ‘so well known to every educated Greek that Callimachus could content himself with
vague allusions to them’.
12
Cf. CHANIOTIS 2001.
13
Cf., e.g., SPYRIDAKIS 1970; BAGNALL 1976, 117-123; KREUTER 1992, 17-45.
14
ICret. II xi,1 = CHANIOTIS 1996, 179-181.
Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry
107
also for a Cyrenean poet resident in Alexandria), and a koinovn of west-Cretan
states, dating probably from the latter part of the first half of the third century, suggests a search for influence of a kind at which Ptolemy and his agents
were also past masters15; the treaty was mediated by Gortyn, which seems
to have been already allied with Magas, and the principal deity overseeing
the treaty and in whose temple at Lisos the treaty was recorded was indeed
Dictynna. It is not, of course, that this treaty has (necessarily) anything to do
with Callimachus’ Hymn to Artemis, where, in any case, we are hampered by
our ignorance of the date of the hymn16, but rather it starkly reveals both our
ignorance and the kind of question we ought at least to be asking. Britomartis
also had a cult on Delos17, and how important that island was to the evocation
of a specifically Ptolemaic world we have already seen.
The interrelations between the west-Cretan goddess Dictynna, the predominantly east- and central Cretan goddess Britomartis (or Britomarpis)18 and Artemis are fraught with problems, not all the result of the (lack of) evidence, and
cannot be pursued here in any detail19. Even if, moreover, we were able to sort
out the cultic history with some kind of clarity, we know that, not only were
ancient writers known to disagree widely about Cretan history and culture (cf.
esp. Diodorus Siculus 5,80,4), but for ancient poets and chroniclers Crete was
also very much a land of the imagination where invention and creative fantasy
were as much at home as hard ethnographic fact20. There is indeed a broad
consensus among historians of Cretan religion that Dictynna, Britomartis and
Artemis remained discrete deities on Crete through the Hellenistic period, and
that Callimachus’ conflation of Britomartis and Dictynna as a beloved nymph
of Artemis and ‘Dictynna’ as subsequently a name for Artemis (vv. 204-205) – a
syncretism indeed attested outside Crete – is, to put it simply, a literary fiction
which plays to familiar types of scholarly construction and to Callimachus’ particular interest in name-changes over the course of history21. So it might well be
15
ICret. II xvii,1 = SCHMITT 1969, n. 468; cf. KREUTER 1992, 35-36.
Cf. BORNMANN 1968, vii-xi.
17
Cf., e.g., GUARDUCCI 1935, 198-199; 202.
18
That marptomevnh in v. 195 alludes to this Cretan form (so, e.g., tentatively BORNMANN 1968, ad
loc.) is an attractive suggestion; the nymph’s leap marks the moment of transition from one name to
another.
19
For some guidance cf. GUARDUCCI 1935; GUARDUCCI 1939, 128-140; WILLETTS 1962, 179-193;
SPORN 2001; SPORN 2002, 323-325; FLINTERMAN 2009, 240-246.
20
There is much relevant information and bibliography in Chapter 4 of TZIFOPOULOS 2010.
21
In the geographical poem of Dionysius, son of Calliphon (cf. further below), it is stated that ‘men
say’ that there is a temple of Artemis at Phalasarna where the goddess is called Dictynna (vv. 118-122);
Phalasarna lies in the far north-west of Crete, not very far from Kydonia and the temple of Dictynna.
Dionysius’ source is unknown; I would be tempted to guess it to be this very passage of Callimachus, but
the specificity of the reference to Phalasarna gives pause.
16
108
Richard Hunter
(see further below), but that does not exhaust what we need to ask.
A striking feature of Callimachus’ narrative is what we might call its panCretanism. Britomartis is ‘correctly’ placed in the centre-east of Crete by her
identification as a ‘nymph of Gortyn’, whereas Dictynna is also properly associated with Kydonia (modern Chania) in the west, near where there was the
most famous shrine of the goddess, on the eastern side of the headland of Tityros or Psakon (the most northerly point of Crete); the temple is already mentioned by Herodotus (III 3,59,2)22. We know almost nothing of the history of
the temple in Callimachus’ day, though it would not be an unreasonable inference, if not strictly a necessary one, that the temple was under the control of
Kydonia; in Strabo’s day, on the other hand, it seems to have been under the
control of Polyrrhenia (10,4,13)23. How politically charged Callimachus’ references are, we cannot say. Be that as it may, the narrative is in part framed by
references to Crete (vv. 191, 205), and the nymph’s wanderings take her over
‘the mountains of Crete’, i.e. – or so we are to understand – over the whole
island. Geographical puzzles are, of course, a familiar feature of Callimachus’
poetry, but here the bringing together of Britomartis and Dictynna, of Gortyn
and Kydonia, and (perhaps) of Mt Dikte and the Kydonian Diktynnaion (cf.
below) draws the traditions of the island together, in an overt, because at first
puzzling, manner, and fashions a specifically Cretan pool of narrative traditions. Callimachus is by no means alone in this period in treating Crete as a
‘single unit’, but we would dearly like to know more of his motives.
Callimachus’ narrative appealed to, and gained authority from, his audience’s knowledge of or beliefs about Cretan practice. To what extent Callimachus’ identification of Britomartis - Dictynna (whose name very likely really
means ‘Lady of Dikte’) as a nymph-companion of Artemis, and his explanation both of the change of name and of the cultic practice of avoiding myrtle
garlands were innovative, it is no longer really possible to say, though this relatively full narrative does seem to have found wide resonance24. Two critiques
of versions of the story survive from writers quite close in time to each other,
and one of them (Strabo 10,4,12) is explicitly a criticism of Callimachus25; this
22
Both, e.g., GUARDUCCI 1939, 130 and BORNMANN 1968, ad loc. understand Kuvdwne" in v. 197 as
simply a learned way of saying ‘Cretans’ (cf. Hymn to Zeus 45), but this seems most improbable in view
of what we know of the shrine of Dictynna. Cf. further SISTAKOU 2005, 253-254.
23
On this temple and the problem of its control cf. SPORN 2002, 277-280.
24
Nicander, Alex. 618 Divktunna ... ejcqhvrato klw`na" (of myrtle) looks like an echo of v. 203 of
Callimachus’ hymn (note stevfo" in v. 619); this passage of Nicander may be a late interpolation, but that
does not affect the point at issue. Cf. further below on echoes in Roman poetry.
25
Callimachus is also named as the source for the story, though not necessarily the only one, by the scholiast on Eur. Hipp. 146. The scholiast on Ar. Frogs 1356 tells what might be a ‘cleaned up’ version: Britomartis
was out hunting and fell ‘by chance’ into nets from where she was saved by Artemis; she then established a
shrine of Artemis Dictynna. On Strabo’s criticism cf. further F. JACOBY, FGrHist, IIIA, 221-222.
Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry
109
too suggests that Callimachus himself was treated as the principal authority
for (and perhaps author of) the story. Strabo’s objection is, he tells us, not his
own but derived from unnamed others: Callimachus’ story, according to these
anonymous critics, cannot be correct, because Kydonia is nowhere near Mt
Dikte, and the mountain shrine of the goddess near Kydonia is not Diktai`on
but Diktunnai`on; clearly, then, it was the o[ro" ... Diktai`on which had most
roused Callimachus’ critics. Modern scholars see here rather a ‘typically Callimachean’ geographical conflation, based on similarity of names, between Mt
Dicte and the Diktunnai`on, to match the conflation of Britomartis and Dictynna into a single character, or understand that Callimachus’ Diktai`on actually stands for Diktunnai`on26, or (D’Alessio ad loc.) see a humorous linguistic
compromise between Divkth and Diktunnai`on; certainly, prhovno" ejx uJpavtoio
suggests the headland rather than a mountain. Diodorus Siculus 5,76,3-4 also
criticises the story as we find it in Callimachus (who is, however, not named)27,
but on the grounds that it is not piqanovn, not because it would take a pretty
extraordinary leap to reach the coast from Mt Dicte, but because a goddess
who was the daughter of ‘the greatest of the gods’ should not have got into such
a helpless state as to need help from men28, nor was it divkaion to ascribe such
an act of impiety to a man as renowned for his probity as Minos. It seems not
improbable that Callimachus is at least one of Diodorus’ targets here.
What was involved, and what at stake, in the criticisms of a poetic narrative?
The criticisms of Callimachus are of a very familiar kind, and we might think
that such activities, like other forms of philology, were one of the ways in which
a particular élite group marked out its own territory29, and there must indeed be
something in that. Nevertheless, the great interest in the story, and in Callimachus’ version of it, attested by Strabo and probably Diodorus Siculus, suggests
that such aetiological legend was not merely a poetic game, but one in which
the identity and ideology of cultic sites and narratives was very much involved;
‘getting it right’ was something that actually mattered, however fast and loose
a Callimachus could be with traditional tales. We perhaps tend to lose sight of
the authority that an Alexandrian text, and particularly one bearing the name of
Callimachus, might carry; the Nachleben of this passage in Latin poetry in fact
says much of the central role that Alexandria now played in the preservation
26
Cf. BORNMANN 1968, on vv. 199-200.
That Diodorus is here talking of Britomartis - Dictynna rather than Artemis - Dictynna seems
probable because he is taking issue with the aetiology of the name, having just given an alternative
aetiology which is explicitly attached to Britomartis - Dictynna. Moreover, although both Artemis and
Britomartis are daughters of Zeus, it seems unlikely that Diodorus would adduce the paternity of the
Olympian as one of the reasons for not believing the story.
28
Callimachus himself famously used this criterion to reject unwanted myths (Hymn to Zeus 65).
29
Cf. ASPER 2001, 109-110.
27
110
Richard Hunter
and dissemination of cultural knowledge. Callimachus’ mini-narrative may have
been taken up and expanded in Roman neoteric poetry (Valerius Cato’s Diana
/ Dictynna)30, if it had not already been so used in later Hellenistic poetry31, and
it may have contributed something to Ovid’s narrative of Apollo and Daphne, a
narrative full of allusions to the Hymns of Callimachus (including the Hymn to
Artemis). Here then, quite unusually, we can identify a Callimachean aetiological narrative which attracted the attention not just of fellow-scholars and poets,
but also of mythographers and students of cult; poet and audience share knowledge of a type of narrative and of a mode of explanation, and (as importantly)
of what such explanations are worth.
The aetiological mode itself appeals at more than one level32. Callimachus’
audience share not just in the myriad local cults of the Greek world, but also
in the stories that lie behind them; if it is true, as widely held, that Homeric
epic was a potent force in forging a pan-Hellenic identity, the sense of a shared
‘Greekness’, then the return to the local which we see everywhere in, particularly, Callimachus performs a similar function with very different tools.
The cult of the grand, rather remote Olympians gives way to very particular,
sometimes embarrassingly so, deities and near-deities; Homer is, as has often
been noted, notably short on the particularities of cultic detail, particularly as
expressed in aetiology33 – such ‘local’ detail would work against the kind of
poetic world which he created and which was, in its own way, so influential on
Greek culture. Explanation is a striking instance of this. Homeric characters
wonder (in both senses) at and about the gods, but they devote almost as little
time to their histories and particularities as they do to their statues34. The Hellenistic aetiological project is thus not merely the heir to Hesiod’s Theogony,
in moving from the gods themselves and the establishment of the Olympian
order to their cults on earth35, but it also seizes territory (deliberately) abandoned by Homeric epic. As is well known, Hellenistic poets often adduce – or
gesture towards (as Callimachus’ geographical epithets in the Britomartis nar30
Cf. LYNE 1978, 223-224; 229.
It is often thought that the version of the story in Antonius Liberalis 40 goes back to Nicander.
In this version, which links Britomartis to a number of Artemis cults in the Mediterranean, the nymph is
hidden by Cretan fishermen in their nets, rather than falling into them, and is then conveyed by a fisherman (Andromedes, presumably one of her Cretan rescuers) to Aegina, where he tries to rape her; she
escapes and disappears (‘becomes ajfanhv"’) at the place where is now the cult of Aphaia. The argument
of MAASS 1923 that an epodic poem, partially preserved on POxy 661 (= CA pp. 194-195), was on the
subject of Dictynna has not won much favour.
32
Cf. FANTUZZI - HUNTER 2004, 49-51; ASPER 2001 is an important discussion to which I am indebted.
33
Cf. recently LANE FOX 2008, 372-373.
34
Cf. HUNTER 2011.
35
Cf. FANTUZZI - HUNTER 2004, 51-60.
31
Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry
111
rative perhaps do) – alternative aetiologies for particular practices, and even
when they do not, the sense of competition, of histories which may compete
with each other and hence ask audiences to make choices, to exercise krisis
(which may of course range from the serious to the utterly frivolous), is always
lurking. Audiences give or withhold ‘consent’ to aetiological poetry in a quite
different way than ‘consent’ is offered to epic poetry, and this is not merely, I
think, a question of emotional ‘distance’ from what is being narrated. In the
present case, Callimachus’ reason for why myrtle is avoided in the cult of Dictynna invites an alternative explanation: myrtle is the plant of Aphrodite, associated with sex and weddings, and hence utterly out of place in the cult and
the event it commemorates36. The two explanations may of course be to some
extent combined. Was Aphrodite actually behind the impediment caused by
the myrtle as Britomartis fled? Minos’ sexual designs on the nymph were, after
all, honouring her. How loudly does silence speak? Are we in fact encouraged,
or – perhaps better – do we encourage ourselves, to see the gods at work in
narrative when other, more contingent, explanations may in fact be appropriate. Aetiology, no less than more traditional modes of epic narrative, raises
questions about how and why gods act, and leaves silences waiting to be filled;
in both cultic narrative and cultic performance there is an unexplained excess,
and we might think that it is that excess, as much as anything else, which builds
‘consensus’. Does what we believe about the history of ritual actually matter as
we perform it?37 Another kind of question which we might ask is: Was there
such a thing as a clear answer, or indeed any kind of answer, to the question of
whether in Callimachus’ day Artemis was ever called Dictynna on Crete? What
for Callimachus and his audience would constitute evidence?
One poem of Callimachus which addresses some of these same issues, and
with much the same divine personnel, seems to have been Iambus 10. The
diegesis gives us the opening verse (fr. 200a.1 Pf.) and informs us as follows:
‘The Aphrodites – for the goddess is not single’ (ta;" jAfrodivta" – hJ qeo;" ga;r ouj
miva). In Aspendos in Pamphylia pigs are sacrificed to Aphrodite Kastnietis for the
following reason: Mopsus, leader of the Pamphylians, when going out hunting vowed
to [the goddess] that if the hunt was successful he would sacrifice to her whatever he
first caught; when he caught a wild boar he fulfilled his vow. For this reason the Pamphylians too do this to this day, for if the goddess was not pleased, Mopsus would not
36
Cf. BORNMANN 1968, on v. 201, who however writes as though there were (real) reasons why
myrtle was avoided, although we do not know what they were; rather, of course, there were explanations,
all ‘real’ though in different senses. Andrew Ford has suggested that diwktuvn in v. 194 suggest yet another
possible etymology of Dictynna.
37
Important work in this area has been done on Roman literary representations of ritual and its
explanation; for a helpful orientation cf. FEENEY 1998, chap. 4.
112
Richard Hunter
have caught this animal. [The poet] also praises the Artemis of the Eretrians because
she rejects nothing that is sacrificed to her.
This account is partially confirmed by a passage of Strabo:
Kallivmaco" me;n ou\n fhsin ejn toi`" ijavmboi"38 ta;" jAfrodivta" (hJ qeo;" ga;r ouj
miva) th;n Kastnih`tin uJperbavllesqai pavsa" tw`i fronei`n, o{ti movnh paradevcetai
th;n tw`n uJw`n qusivan (kai; mh;n poluivstwr, ei[ ti" a[llo", ktl.)
In the Iambi Callimachus says that the goddess of Kastnie surpasses all Aphrodites
(for the goddess is not one) in good sense, because she alone accepts the sacrifice of
pigs (and Callimachus is a very learned man, if anyone is…)
(Strabo 9,5,17)
How closely Strabo follows Callimachus’ text is a difficult question, and
editors vary in the extent to which they are prepared to make further iambic
trimeters out of Strabo’s prose; fortunately, progress in understanding is not
entirely dependent upon certainty of reconstruction.
As the Diegesis says that this same poem referred also to the cult of Artemis
at Eretria, it is universally accepted that a scholium on Aristophanes, Birds
872 should also be referred to Iambus 10; the scholiast is discussing the cult
of Artemis Kolainiv":
…Euphronios says that Kolainiv" occurs at Amarynthos [in Euboea] because
Agamemnon sacrificed a hornless (kovlo") animal because of the difficult situation (ejk
tou` kairou`)39. Callimachus says about her:
th;n wJgamevmnwn, wJ" oJ mu`qo", ei{sato
th`i kai; livpoura kai; monw`pa quvetai
…whom Agamemnon established, so the story goes, to whom tailless and one-eyed
animals are sacrificed…
(Callimachus, fr. 200b Pf.)
This may, however, be an improvisation, for the people of Myrrhinous [in Attica] call
Artemis Kolainiv"…
38
KERKHECKER 1999, 208 proposed ijam
v bwi, but Radt ad loc. objects that we might then also have
expected the standard ou| hJ ajrchv; Kerkhecker’s point, however, that the parenthesis reads very oddly remains true, and I am not confident that Strabo’s text was indeed as transmitted. Presumably through a slip,
Kerkhecker also implies that the text of Strabo does not transmit ta;" jAfrodivta". Kerkhecker’s discussion
(pp. 207-213) is the principal contribution since Pfeiffer’s edition and I am much indebted to it; in particular,
Kerkhecker rightly stresses the importance of the fact that there were indeed two Aphrodites at Aspendos.
39
Cf. below.
Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry
113
Sorting out the various accounts and explanations of this cult title, which
is known certainly to have existed at Myrrhinous, is beyond the scope of this
paper40, but we must note that the standard title of Artemis at Amarynthos,
her major shrine not far from Eretria, was Amarousia and that there is no
confirmation in either the Callimachean couplet which the scholiast quotes or
in the Diegesis, which refers merely to the omnivorousness of the ‘Artemis of
the Eretrians’, that Callimachus actually mentioned the title Kolainiv". Moreover, for what it is worth, the account given by the Diegesis would sit well with
Pausanias’ account of a cult of Artemis at Aulis, just across the Euripos strait:
Here there is a temple of Artemis and images of white marble, one holding torches
and the other like a woman shooting a bow. They say that when the Greeks were
about to sacrifice Iphigenia on the altar in obedience to the soothsaying of Calchas,
the goddess made the victim a deer rather than her … It is also said that at Aulis the
Greeks did not receive a favouring breeze, but when a favourable wind suddenly got
up, they sacrificed to Artemis whatever each had, alike female and male victims; from
that time it has remained the case that at Aulis all victims are acceptable.
(Pausanias 9,19,6-7)
There is some unclarity surrounding the chronology of the various strands
of Pausanias’ narrative here, but certain points may be drawn out. Although
Pausanias is talking about Aulis, not Amarynthos or Eretria, it is very hard to
believe that both he and Callimachus are not referring to essentially the same
cultic practice of the acceptance of ‘imperfect’ sacrificial victims; Pausanias
says nothing of any cult title for Artemis. The practice for which Pausanias
gives an aition and that for which the Diegesis says that Callimachus praises
the Eretrian Artemis are the same: ‘all victims are acceptable’ ~ ‘no victim is
rejected’. The clear impression of Pausanias’ narrative is that the Greeks at
Aulis sacrificed ‘whatever each man had’ when the wind got up, not as the
result of a seer’s instruction (contrast the sacrifice of Iphigenia), but rather
because they were caught unawares by the sudden turn of events and (perhaps) so that they could catch the favourable wind before it died. Whether
or not Callimachus did call the Eretrian goddess Kolainiv", it is easy enough
to imagine a similar kind of narrative there: Agamemnon’s offering was one
usually disallowed, but he had no choice ejk tou` kairou`, ‘given the (difficult)
circumstances’. This phrase in the Aristophanic scholia is not necessarily to
be emended away, as it almost always is41. Despite the fact that we cannot be
40
Cf. esp. JACOBY on FGrHist 323a F 13; 325 F 3.
Holwerda proposed ejk tou` klhrou` ‘as a result of a prophetic lot’ (in other words, Agamemnon
was instructed to do this by, e.g., a seer); this is adopted by KERKHECKER 1999, 211 n. 79.
41
114
Richard Hunter
sure that Callimachus gave an aetiology for the Eretrian cult of Artemis, it is at
least worth considering the possibility that behind Pausanias’ account of the
cult at Aulis stands, precisely, Callimachus; it is curious, but perhaps no more,
that the verses dedicated to this cult in the geographical poem of ‘Dionysius,
son of Calliphon’ might (though, of course, need not) echo Callimachus:
Aujliv" te Boiwtw`n povli", pro;" h|i limhvn
kajrtevmido" iJero;n a{gion, o} levgetai ktivsai
jAgamevmnon∆, ei\t∆ ktl.
…and Aulis, city of the Boeotians, where there is a harbour and a holy shrine of Artemis, which Agamemnon is said to have founded…
(Dionysius Calliphontis 88-90)
Why is Aphrodite Kastnie surpassing in fronei`n? Speculation about this
cannot be divorced from the question of the goddess’ rôle in Mopsus’ successful hunt. Ever since the Diegesis was published it has been suspected that ‘for
if the goddess was not pleased, Mopsus would not have caught this animal’ is
a paraphrase of something in the poem itself, rather than a piece of reasoning
by the author of the Diegesis or his predecessors. This is very likely right, and
Arnd Keckhecker thus suspects that her fronei`n consists in ‘getting what she
wants’42. He must be right to look for an explanation which would suit the iambic mood, but perhaps we can narrow down a little the range of possibilities. If
Artemis is praiseworthy because she did not reject offerings which, though imperfect and unusual were nevertheless a mark of piety and all that the Greeks
had, might not Aphrodite reveal her common sense by taking a similarly broad
view, even though she normally finds pig offerings anathema? ‘If the goddess
was not pleased, Mopsus would not have caught this animal’ is a very ‘human’
piece of post factum reasoning, perhaps attributed in the poem to the Pamphylians. We, however, do not have to assume that Aphrodite actually sent the
boar Mopsus’ way or even that ‘Aphrodite seems to be rather keen on pork’43,
for her common sense may rather have manifested itself in not turning away
an offering which showed piety and brought her honour, even if it was very
unusual. In broad outline, the aetiology for this very unusual sacrifice which
Callimachus offers is almost certainly one offered by the people of Aspendos
themselves long before Callimachus; it adapts to a Greek mode of explanation
a practice which appears thoroughly un-Greek44. Nevertheless, it would be
42
KERKHECKER 1999, 213.
KERKHECKER 1999, 212.
44
Cf. esp. ROBERT 1960, 177-178 for the evidence from Aspendian coinage as early as the fifth century; LANE FOX 2008, 232.
43
Festivals, Cults, and the Construction of Consensus in Hellenistic Poetry
115
typical of Callimachus to drive a poetic wedge between aetiological explanation and ritual practice itself, or at least to make it clear that they do not necessarily stand or fall together. Callimachus indeed seems constantly to nudge us
towards ‘myth and ritual’ questions which seem surprisingly modern: does the
nature of the explanation adopted (and we may well have to make a choice
between aetiologies) actually have any effect in the world of the ritual? Do we
live in a world where things happen by divine design, or is ‘design’ one of the
patterns we impose upon events in order to persuade ourselves that they make
sense? How ‘self-serving’ is the reasoning of Mopsus and/or the Pamphylians
once confronted with the apparent requirement of making what was usually
an abhorrent offering? Is this indeed how we use the gods to justify ourselves
across a much broader field of activity? Moreover, how does the ascription of
such (very human) reasoning to the distant mists of aetiological time not just
make us smile with self-recognition, but also bind us in the same web of time
as this Pamphylian of long ago, in other words build a social consensus based
on shared identity?
In the state of our evidence it is of course impossible to say how the transition within Callimachus’ poem from one cult to the other was made; we have
already seen several motifs which they have in common. Further connections
can be imagined. Mopsus’ pig-sacrifice was the result of a vow while hunting,
Agamemnon’s problems at Aulis seem to have been the result of an intemperate
boast while hunting. More rewarding might be to pause for a moment on the
combination of a cult of Aphrodite in inland Pamphylia with a Boeotian cult of
Artemis, a goddess traditionally opposed to Aphrodite; the former cult seems
outlandish and ‘marginal’ (at best), the latter takes us into the heart of traditional Greece and the heart of perhaps the best known ‘sacrifice story’ of all
Greek mythology: it is probably not fanciful to see a manifold contrast between
the ‘old world’ and the ‘new’, a contrast which however is also a confirmation
of continuity. Shared Greek identity stretches from Boeotia to Pamphylia (and
presumably beyond); even the gods of epic and tragedy who are most opposed
to each other (Aphrodite and Artemis) share fundamentally similar, and very
Greek, values (fronei`n and frovnhsi").
What, if anything, did these cults mean to an Alexandrian audience? Pamphylia was a place of considerable interest to the Ptolemies45, and Aspendos
was believed to be a foundation of Argos, a city central to much Ptolemaic
self-fashioning; an Argive decree of probably the late fourth century offers
privileges to Aspendos, which not long before had been harshly dealt with
by Alexander46. For what it is worth, we know that there was an ‘Iseon’ at
45
46
Cf. HUNTER 2003, 165 with earlier bibliography.
Cf. STROUD 1984; LANE FOX 2008, 237-238.
116
Richard Hunter
Eretria visited by Egyptians (or Egyptian Greeks) at least from the beginning
of the third century47. This is, of course, not to suggest anything as definable
as a ‘Ptolemaic context’ for Iambus 10, but it is worth stressing that we must
not assume that what we are dealing with is simply learned and antiquarian Spielerei with no purchase in the actual experience or imagination of the
audience. We do not know why Callimachus chose to tell and link these two
aetiologies for an Alexandrian audience at a specific date in the third century,
and it would be rash to assume that his audience would have given a univocal
answer to the question of how and why (or indeed whether) they were linked
with each other. Enough perhaps that we can make a good guess at the questions to be asked, and assure ourselves that they are worth asking.
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DEN KÖNIG LOBEN? POSITIONEN UND AUFGABEN
DER DICHTER AN DEN HELLENISTISCHEN KÖNIGSHÖFEN
GREGOR WEBER
Der Dichter Herodas gestaltet seinen ersten Mimiambos als Gespräch zwischen einer jungen Frau namens Metriche, möglicherweise einer (ehemaligen?) Hetäre, und einer älteren Frau namens Gyllis, einer Kupplerin1. Gyllis versucht, Metriches Situation auszunutzen, deren Ehemann oder Freund
Mandris sich seit zehn Monaten in Ägypten befindet und noch nichts hat von
sich hören lassen. Im Bemühen, die junge Frau zu einem Seitensprung mit
dem Athleten Gryllos zu bewegen, legt Gyllis ihre Gesprächsstrategie so an,
dass sie in acht von 90 Versen die Vorzüge Ägyptens preist, denen Mandris
offenkundig erlegen ist. Dies geschieht mit Stichworten zu verschiedenen Lebensbereichen:
kei` d∆ ejsti;n oi\kj o" th`" qeou`: ta; ga;r pavnta, / o[ss∆ e[sti kou kai; givnet∆, e[st∆ ejn
Aijguvptwi: / plou`to", palaivstrh, duvnami["], eujdivh, dovxa, / qevai, filovsofoi,
crusivon, nehnivskoi, / qew`n ajdelfw`n tevmeno", oJ basileuv" crhstov", /
Moush`ion, oi\no", ajgaqa; pavnt∆ o[s∆ a]n crhvizhi, / gunai`ke", ojk≥ovsou" ouj ma;
th;n [A≥idew Kouvrhn / a≥js≥t≥e≥vra" ejnegkei`n oujran[o;]" kekauvchtai2.
Die Forschung geht davon aus, dass die Szene auf Kos spielt, von wo der
Dichter vermutlich stammt, so dass eine Außensicht auf Ägypten suggeriert
wird. Da keine externen biographischen Informationen über Herodas vorliegen, kann man ihn nur durch Anspielungen in seinen Werken in die Zeit
von Ptolemaios II. datieren. Der Hinweis auf das nach 272/71 v.Chr. entstandene Heiligtum der Qeoi; jAdelfoiv präzisiert die Datierung, wobei eine Entstehungszeit unter Ptolemaios III. nicht auszuschließen ist. Herodas scheint
ein Zeitgenosse von Theokrit, Kallimachos und Poseidippos gewesen zu sein,
1
Zur Namensform: ZANKER 2009, 1; zu Herodas: WEBER 1993, 422f.; GUTZWILLER 2007, 127-131.
Die dort vorgenommene, fast ausschließliche Konzentration auf die englischsprachige Forschung mindert den Wert des Buches erheblich. Für die Korrektur des Textes danke ich Lisa Hartmann (Augsburg).
2
Herodas, Mimiambos 1,26-33: „Dort aber ist der Göttin Heim; denn alles, was irgend auf der
Erde ist und wird, ist in Ägypten: Reichtum, Ringschulen, Macht, heiterer Himmel, Ruhm, Shows, Philosophen, Geld, junge Männer, der Geschwistergötter Heiligtum, der brave König, das Museion, Wein
– kurz, alles Gute, was man nur wünschen mag, und Frauen erst, so viel, dass selbst der Himmel – bei
der Hadesbraut! – so vieler Sterne sich nicht rühmen kann.“
120
Gregor Weber
doch lässt sich nicht sagen, ob er je am Königshof in Alexandreia gelebt hat
oder ob er nur versuchte, sich mit seiner Dichtung ein Entrée am Hof zu
verschaffen3.
Ich kann nicht auf die anspielungsreichen Stichworte im Detail eingehen,
möchte aber drei Aspekte betonen:
1. Es ist evident, dass es sich um eine positive und spezifische Außensicht
von Ägypten handelt, die weit über Allgemeinplätze wie Wein, junge Männer
und Frauen hinausgeht4. Die nicht systematisch angeordneten und deshalb
komisch anmutenden Stichworte im Staccato-Stil konzentrieren sich auf ‘Essentials’ der ptolemäischen Monarchie und deren Hauptstadt, auch wenn der
herrschende König, oJ basileu;" crhstov", nicht namentlich genannt wird und
somit auch nicht im Zentrum steht. Plou`to", duvnami", eujdivh (gutes Wetter
und/oder Beständigkeit), dovxa und crusivon sind Merkmale, die jede Monarchie gerne für sich in Anspruch nimmt, die ptolemäische aber besonders.
Qevai, filovsofoi, qew`n ajdelfw`n tevmeno" und das Moush`ion sind Kennzeichen, die sich auf Hauptstadt und Hof beziehen5, nämlich Feste und Feiern
zur ptolemäischen Selbstdarstellung, Philosophen und – man darf ergänzen
– andere Intellektuelle, die unter königlichem Patronat der Hofgesellschaft
angehörten, das Temenos für die göttlichen Geschwister und das Museion,
ein zur Zeit des Dichters schon etabliertes ‘Institute for Advanced Studies’.
2. Das Lob der ptolemäischen Herrschaft in diesem Mimiambos kommt
ganz unerwartet und dazu aus dem Mund einer Person wie Gyllis, die man
kaum der gebildeten Poliselite zurechnen kann. Dieses Lob stellt kaum den
alleinigen Zweck des Gedichtes dar, wenngleich der Verweis auf Ägypten und
die ptolemäische Herrschaft auch sparsamer hätte ausfallen können. Herodas’ gewählte Strategie ist nicht ungewöhnlich, denn eine solche, quasi beiläufige Kontextualisierung eines Herrscherlobs darf, betrachtet man andere
Dichter, als zeittypisches Kennzeichen gelten6.
3
Dies gilt nicht nur für ihn, sondern auch für etliche andere der in den biographischen Zusammenstellungen bei WEBER 1993, 420-426, genannten Dichter. ASPER 2004, 10, zufolge gehörten Herodas,
Theokrit und Sotades nicht der Hofgesellschaft an.
4
Im Gesamtduktus des Mimiambos ist die Ägypten-Passage ohne Zweifel negativ, denn es sind die
aufgezeigten Bedingungen, die Mandris in der Argumentation von Gyllis davon abhielten, zu Metriche
zurückzukehren.
5
Inwieweit mit oi\ko" th`" qeou`, womit durch den Kontext die Göttin Aphrodite gemeint ist (ZANKER 2009, 25), auf Arsinoe II. angespielt wird, lässt sich nicht sagen, jedenfalls sollte man die gegenwärtige Tendenz, jede Nennung einer Gottheit als Chiffre für einen König oder eine Königin zu nehmen,
nicht auf die Spitze treiben. Dazu wären zuerst einmal die jeweilige poetologische Konzeption und die
Definition von Patronage zu klären.
6
So auch MURRAY 2008, 20f., demzufolge genau solche Charakterisierungen wie bei Herodas am
Hof willkommen waren. Siehe dazu S. 132f.
Den König loben?
121
3. Gravierend ist, dass sich der ursprüngliche ‘Sitz im Leben’ des Mimiambos nicht mehr einholen lässt. Man könnte es sich einfach machen und
für unser Thema unterschiedslos alle Gedichte heranziehen, die den König
und seine Familie zum Inhalt haben, aber damit wird man der Komplexität
von Dichtung und historischem Kontext nicht gerecht. Nicht nur liegen verschiedene Meinungen dazu vor, ob der Mimiambos szenisch aufgeführt oder
rezitiert wurde, es lässt sich auch keine Aussage darüber treffen, ob die ‘Performance’ bei einem Symposion am Königshof, bei einem größeren Fest oder
bei einer privaten Zusammenkunft auf Kos stattfand. Denn es gab unabhängige Dichterzirkel, zumal auf Kos7, ebenso ‘wandernde Dichter’, die sich in
verschiedenen Poleis und an Höfen niederließen8. Ebenso wenig ist bekannt,
wer diesen Mimiambos eventuell in Auftrag gegeben hat, was Herodas damit
konkret bezweckte und wie das Publikum auf das Sujet und die poetische
Umsetzung reagierte: Ob gerade die Beiläufigkeit der Ägyptenpassage affirmativ sein sollte oder nicht doch als unangebracht empfunden wurde? Oder
die Aussage von Protagonisten außerhalb des höfischen Umfelds um so positiver wirkte? Allein die Komplexität des Textes in Komposition und Sprache
macht ein Primärpublikum wahrscheinlich, das die Aussageintention adäquat
verstehen und goutieren konnte9, so etwa die Bezugspunkte zu einigen Eidyllia Theokrits10.
Indem ich mich den Positionen und Aufgaben von Dichtern am Königshof
widme, versuche ich, aus historischer Perspektive die soziale Kontextualisierung von Dichtern und Dichtung in den Blick zu nehmen11, und zwar unter
Berücksichtigung des Kommunikationsaspektes und der Funktionsbestimmung12. Dabei ist sowohl zu klären, welche Positionen im Sinne von Tätigkeiten den Dichtern an den Höfen zukamen, als auch, welche Positionen im
Sinne von Einstellungen sie König und Hof entgegenbrachten. Denn darauf
zielt der Obertitel meines Vortrags „Den König loben?“ einschließlich des
Fragezeichens, wobei der Begriff ‘König’ alle Mitglieder der königlichen Familie einschließlich des gemeinsamen Auftretens als Herrscherpaar umfasst13.
Von Interesse ist schließlich, ob es Aufgabenfelder gab, die Dichter entweder
7
Dazu SBARDELLA 2000, 819.
Dazu GIOVANNINI 2005; BARBANTANI 2005, 160f. Zu Schwierigkeiten bei der Zuweisung auch BARBANTANI 2008, 15.
9
Zur elitären Exklusivität der Dichtung: EFFE 2007, 260-264. Hier sind die Könige, die selbst literarisch tätig waren, mit eingeschlossen; zu Ptolemaios VIII.: WEBER 1998-1999, 148; NADIG 2007, 14-23.
10
Theokr. 2; 14; 15; dazu die Diskussion bei ZANKER 2009, 36-39.
11
Die intellektuelle und kulturelle Kontextualisierung der hellenistischen Dichtung ist auch das
dezidierte Ziel von FANTUZZI - HUNTER 2004, vii.
12
Dazu auch STROOTMAN 2010, 33.
13
Zur Darstellung als Paar: MÜLLER 2009. Die Darstellung als Familiengruppe betont KOSMETATOU
2004, deren Argumentationen jedoch oft sehr spekulativ bleiben.
8
122
Gregor Weber
übernehmen mussten oder freiwillig übernommen haben. Im Folgenden werde ich zunächst einige, für den Fortgang der Untersuchung wichtige Begriffe
– ‘Hof’, ‘Patronage’, ‘Dichter’ und ‘Propaganda’ – klären, dann Positionen
der Dichter im beschriebenen doppelten Sinne in den Blick nehmen und
schließlich etwas über die Aufgaben der Dichter am Hof in Erfahrung zu
bringen versuchen. Dabei werden mehr Fragen offen bleiben als beantwortet
werden, aber man wird einige der Dichter mit ihren Werken unter die Repräsentationsbedürfnisse und -erfordernisse der Könige und mit Blick auf die
Spielregeln höfischer Interaktion einordnen können.
‘Hof’, ‘Patronage’, ‘Dichter’ und ‘Propaganda’ sind für unser Thema wichtige Begriffe bzw. Konzepte, weshalb kurze Reflexionen über ihre Bedeutung
angebracht sind:
a. Zur Organisation von Monarchien, wie sie sich im Hellenismus etablierten, erwies sich die Errichtung eines Hofes als unerlässlich: Der Hof, definiert
als erweiterter oi\ko" eines Monarchen, stellte das räumliche Zentrum dar, das
ein König bewohnte14. Von dort aus steuerte er seinen Herrschaftsbereich,
dort stellte er in Festen und Inszenierungen seinen Reichtum zur Schau15.
Auch umgab er sich mit Personen, die ihm bei der Bewältigung seiner Aufgaben halfen, denen er vertraute und mit denen er bei verschiedenen Anlässen
auftrat: Es handelt sich um die Gruppe seiner Freunde (fivloi), die mit der
königlichen Familie, den Bediensteten und Personen mit zeitweiligem Aufenthalt am Hof, etwa Gesandten, die Hofgesellschaft bildeten. Mit den fivloi, die
Aufgaben von Funktionseliten wahrnahmen, kam der König zum sunevdrion
zusammen und pflegte gesellige Formen des Zusammenseins beim Essen und
Trinken16. Dass hier konfliktive Konstellationen entstanden, ist evident, da
dieser keineswegs hermetisch abgeschlossene Personenkreis über keine kollektive Identität verfügte, sondern eine erhebliche Konkurrenz um die Gunst
des Königs vorherrschte17. Dieser musste durch Zuwendungen von Land und
14
Für das Folgende: WEBER 1993, 20-32; HERMAN 1997; WEBER 1997. Aufschlussreich ist, dass mit
den Begriffen to; basivleion und ta; basivleia, die zunächst nur „das königliche“ bedeuten und ein erklärendes Substantiv erfordern, ein dem König gehörender Bereich nach außen abgegrenzt wurde. Hingegen
setzte der Begriff aujlhv (‘Hof’), der für die hellenistischen Höfe aufgekommen zu sein scheint, ebenso einen
räumlichen Akzent, sein Wortfeld bezeichnete jedoch auch die Hofgesellschaft (FUNCK 1996, 52).
15
Dazu WEBER 2007, 102-111. Aufschlussreich ist insbesondere der bei Athenaios überlieferte Bericht des Kallixeinos von Rhodos über die große Pompé in Alexandreia (dazu RICE 1983), wohl anlässlich
der Ptolemaia, die Ptolemaios II. zu Ehren seines verstorbenen Vaters eingerichtet hat. Im Kontext dieses – von Athenaios wohl gekürzten – Berichtes ist nicht von der Aufführung von Hymnen etc. die Rede.
16
Zu den Formen des Hoflebens: WEBER 1997, 43-46; STROOTMAN 2005, 191f. Zum Symposion und
der damit verbundenen reichhaltigen anekdotischen Überlieferung: VÖSSING 2004, 86-92.
17
Dazu HERMAN 1997, 210f.
Den König loben?
123
Geld, durch Zuteilung prestigereicher Priesterämter oder durch prominente Statuenweihungen versuchen, den Erwartungen zu entsprechen, und das
Gefahrenpotential am Hof, das durch Favorisierung eines anderen Familienmitglieds entstehen konnte, zu minimieren18: Auch die Mitglieder der königlichen Familie stellten einen strukturellen Unruhefaktor dar, weil die Existenz
von Thronprätendenten aus verschiedenen Ehen zu Friktionen führen konnte19. Idealiter musste jeder König die Zusammensetzung der neuen Elite mit
Sorgfalt betreiben und klären, für welche Tätigkeiten er sie einsetzte und wie
nahe er Mitglieder der indigenen Oberschicht an sich heranließ20.
b. Eine weitere Qualität eines hellenistischen Königs bestand darin, Patron
und Mäzen zu sein21. Die Patronage, die Förderung von Kunst und Wissenschaft, fällt ihrerseits unter euergetisches Verhalten22. Das Konzept des Euergetismus gehört eigentlich in das Verhältnis zwischen Herrscher und Polis,
lässt sich aber in seinen Mechanismen auch hier anwenden: Der eujergesiva
entsprach im Sinne einer strikten Reziprozität der Dank, cavri"; dadurch
waren die sozialen Beziehungen geregelt, zumal für die gesellschaftliche Reputation, klevo" und dovxa. In enger Verschränkung von Freiwilligkeit und
Verpflichtung hat sich eine Geschäftsbeziehung etabliert, von der beide Seiten profitierten. Als Paradebeispiel gilt das eingangs erwähnte Museion einschließlich der Bibliothek23. Die Könige scheuten keine Kosten und versuchten, in allen Sparten die besten Gelehrten nach Alexandreia zu holen, wo sie
in ihrem Wissensgebiet bei exzellenten Arbeitsbedingungen wohl zweckfrei
forschen konnten. Dies traf auf die Medizin und Anatomie zu, auf die Astronomie mit einer Sternwarte, die Mechanik mit der Entwicklung innovativer
Apparate, die Biologie mit einem zoologischen Garten, die Geographie mit
entsprechenden Expeditionen24. Dadurch mehrten deren Vertreter Prestige
18
Zur Vergabe eponymer Priesterämter in Alexandreia: WEBER 2010, 63f., 66-68; zur Vergabe von
dwreaiv: SAVALLI-LESTRADE 1998, 11f., Nr. 9 (Aristodikides von Assos).
19
Hierzu OGDEN 1999.
20
Die Muster der Interaktion zwischen dem König und diesem Personenkreis blieben während des
Hellenismus nicht konstant, sondern durchliefen verschiedene Phasen, dazu WEBER 2007, 114-116.
21
Zum gestiegenen Forschungsinteresse: HOSE 1997; STROOTMAN 2001; AMBÜHL 2007, 275f.; MURRAY 2008; STROOTMAN 2010. Bemerkenswerterweise gibt es im ‘Neuen Pauly’ keinen Artikel ‘Patronage’,
nur – dann strikt im römischen Kontext verortet – einen Artikel ‘Patronus’, während für Patronage auf
‘Zirkel, literarische’ verwiesen wird, was den Bedeutungsinhalt kaum hinreichend abdeckt.
22
Dazu GEHRKE 1999a; VAN MINNEN 2000.
23
Dazu FRASER 1972, I, 305-335; WEBER 1993, 77f.; 82-86; ERSKINE 1995, 39f.; ASPER 2004, 11-13.
Die Beziehungen zwischen Museion und Bibliothek sind freilich alles andere als klar.
24
WEBER 1993, 84f.; HUSS 2001, 317-319; SCHOLZ 2007, 162-167. Nachweisbar unter Ptolemaios
II. sind z.B. die Mediziner Erasistratos von Keos, Herophilos von Chalkedon und Medeios, die Mathematiker Archimedes von Syrakus und Konon von Samos, der Architekt und Techniker Ktesibios von
Alexandreia, dazu etliche Philosophen, Grammatiker und Geographen, unter Ptolemaios III. die Ärzte
Philippos und Xenophantos, die Historiker Demetrios von Byzanz und Satyros von Kallatis und der
124
Gregor Weber
und Ruhm der Könige vor der griechischen Welt.
Betrachtet man das Verhältnis der geförderten Koryphäen zum König, dürfte mit der Freundschaft (filiva) für manche der Personen eine weitere Kategorie sozialer Beziehungen ins Spiel gekommen sein: Obwohl es kaum explizite
Belege gibt, etwa für Euphorion von Chalkis unter Antiochos III., ist davon
auszugehen, dass einige der Intellektuellen fivloi waren25, d.h. „im Prinzip egalitär und geleitet von zwei dominierenden Verhaltensnormen, den Pflichten der
Erwiderungsmoral … und der agonistischen Konkurrenzmentalität“26. Diesen
Regeln waren alle fivloi, auch der König, obwohl er das Gewaltmonopol besaß, unterworfen, was die Position der Intellektuellen erheblich aufwertete.
c. Die zum ‘Sitz im Leben’ der Herodas-Stelle getroffenen Beobachtungen
gelten auch für andere Dichter, nicht nur für solche, die, wie auch immer, mit
dem Ptolemäerhof verbunden waren, sondern die auch im Konnex mit anderen Höfen – Pella, Pergamon, Antiocheia – standen27. Explizite Hinweise auf
die Zugehörigkeit zu einem Hof sind eher die Ausnahme, und selbst dann lassen sich die Zusammensetzung des Publikums, dessen Befindlichkeit und die
Aufführungs-/Publikationssituation nie exakt einfangen28. Hinzu kommen
nicht wenige Werke, die nur fragmentarisch und/oder anonym überliefert
sind oder von denen sich nur die Titel erhalten haben, so dass über Inhalt und
poetische Umsetzung nur gemutmaßt werden kann29. Die Interpretationsprobleme werden durch die Entwicklung der literarischen Gattungen, besonders
durch die übliche Kreuzung der Gattungen30, noch verstärkt, wofür Herodas’
Mimiambos ein gutes Beispiel darstellt. Dies bedeutet für unsere Thematik:
Astronom Dositheos von Pelusion. Einzelne Personen, etwa Eratosthenes unter Ptolemaios III. oder
Philostephanos unter Ptolemaios IV., waren geradezu als Multitalente in mehreren Sparten – hier: Dichtung, Astronomie, Geographie, Geschichtsschreibung – tätig, dazu WEBER 1993, 427; bes. GEUS 2002.
25
Bereits für die frühe Ptolemäerzeit sind etliche Mathematiker, Astronomen, Philosophen, Historiker und Geographen bekannt, dazu WEBER 1993, 136f., mit Belegen und den Nummern aus der
‘Prosopographia Ptolemaica VI’; SONNABEND 1996; SAVALLI-LESTRADE 1998, 27, Nr. 30; ASPER 2004, 8.
26
GEHRKE 1999b, 669.
27
Die umfassendste Übersicht findet sich immer noch bei SUSEMIHL 1891-1892. Zu den Antigoniden: WEBER 1995; zu den Attaliden: KOSMETATOU 2000. Eine Studie zu den Seleukiden stellt noch ein
Desiderat dar, doch liegt hier nur sehr wenig Material vor; eine Bibliothek hat es in Antiocheia am Orontes aber in jedem Falle gegeben, dazu PACK 1993, 727ff., und DUBIELZIG 2005, 216, mit dem Hinweis auf
Euphorion von Chalkis als Vorsteher unter Antiochos III.
28
Die verschiedenen Positionen am Beispiel der kallimacheischen Hymnen bei UKLEJA 2005, 17-19;
278; PETROVIC 2007, 114-141; BULLOCH 2010, 166-168; außerdem ASPER 2001, 94f.
29
Vgl. dazu die Fragmente in SH und SSH; zum anonymen Aphrodite-Arsinoe-Hymnos (Powell fr.
9, BARBANTANI 2005, 138-140): BARBANTANI 2004, dort (142ff.) verschiedene Hypothesen der Situierung
und einem Vorschlag, den Hymnos in einer der Städte auf Zypern zu verorten, in denen es Heiligtümer
für Arsinoe gab – ein Beispiel jedenfalls für einen nicht-höfischen Kontext. Eine hilfreiche Übersicht weiterer Hymnen für verschiedene Götter auf Papyrus hat BARBANTANI 2008, 16-18, erstellt; zu Fragmenten
von Elegien enkomiastischen Charakters: BARBANTANI 2001, 49-61.
30
Dazu FANTUZZI - HUNTER 2004, 17ff.; HEERINK 2010, 394.
Den König loben?
125
Direkte oder indirekte Anspielungen auf Mitglieder der ptolemäischen Königsfamilie finden sich in Enkomien, ebenso in Hymnen, Epigrammen, Aitia,
Epyllien, Epinikien, Elegien und literarischen Mimen31. Das Enkomion als
prädestinierte Gattung ist im erhaltenen Material aber am schwächsten vertreten32. Vor allem macht die Literatur mit Königsbezug nur einen geringen
Teil der heute vorliegenden dichterischen Produktion aus33, wenngleich der
Neufund der 112 Poseidippos-Epigramme zur Vorsicht mahnt, dass sich die
Gewichtungen durchaus verschieben können34. Bemerkenswert für Alexandreia ist die Konzentration der dichterischen Aktivitäten unter den ersten drei
Ptolemäern: Sie kommen danach nicht gänzlich zum Erliegen, bewegen sich
jedoch auf reduziertem Niveau, was auch für andere Höfe gilt35.
d. Wenn es um die mediale Verbreitung von Inhalten geht, die, verstanden
als Werte und Normen, für die Ideologie eines Monarchen wichtig sind, wird
in der Forschung gerne der Begriff ‘Propaganda’ verwendet36. Ich vermeide
ihn bewusst – nicht nur, weil es sich um einen neuzeitlichen Terminus handelt und er durch die deutsche Geschichte des 20. Jahrhunderts negativ konnotiert ist, sondern weil das zugrunde liegende Konzept aus drei Gründen
problematisch erscheint37: Zum einen wird stets eine koordinierte Planung in
einer Zentrale unterstellt, die selten nachweisbar ist. Zum anderen suggeriert
‘Propaganda’ eine Verbreitung von Inhalten, die durch die historische Realität nicht gedeckt sind, zur bewussten Manipulation der Zielgruppe(n), was
31
Für Kallimachos vgl. die Zusammenstellung bei VESTRHEIM 2005, für Theokrit bei CUSSET 2009.
Zu nennen sind hierfür nur Theokrit 16 (Hieron II. von Syrakus); 17 (Ptolemaios II.); dazu MURRAY 2008, 17-19; CUSSET 2009, 89f.; BULLOCH 2010, 174-176.
33
Für den vorliegenden Kontext scheinen die dramatischen Gattungen gänzlich auszufallen; allerdings kann man davon ausgehen, dass sich im Repertoire der verschiedenen dionysischen Technitenvereine auch Texte befanden, die zeithistorische Anspielungen aufwiesen, vermutlich mit einer mythologischen Fundierung, dazu BING 1997, 142; BARBANTANI 2005, 159-161; GIOVANNINI 2005, 633f.
34
Dazu die Übersicht bei PARSONS 2002, 116-118; THOMPSON 2005; FANTUZZI - HUNTER 2004, 377403. Der Papyrus enthält Epigramme in den folgenden Sektionen (nach ALBIANI 2001, 200): Steine
(liqikav), Vorzeichen (oijwnoskopikav), Weihungen (ajnaqematikav), Epitaphien (ejpituvmbia), Statuen
(ajndriantopoiikav), Pferderennen (iJppikav), Schiffbrüche (nauagikav), Heilungen (ijamatikav), Verhalten
(trovpoi). Die Durchsicht ergibt, dass der – insgesamt sehr starke! – Bezug auf die ptolemäische Dynastie
quer durch alle Sparten geht, dazu AMBÜHL 2007, 276ff. und bes. 285f. Auf weitere derartige Sammlungen
verweist PARSONS 2002, 118-122.
35
Warum sich seit Ptolemaios IV. in Alexandreia die Zahl der Dichter so stark reduziert hat, obwohl
andere Wissenschaften, nicht zuletzt die Philologie, unverändert auf hohem Niveau fortgeführt wurden,
wäre ein eigenes Thema; vermutlich hat sich unter den nachfolgenden Ptolemäerkönigen das intellektuelle Klima am Hof merklich verändert.
36
Eine Übersicht und Problemanalyse bei WEBER 2001.
37
Dazu methodisch WEBER - ZIMMERMANN 2003, 11, mit der Definition: „Unter Propaganda wird
einerseits die intendierte und den Empfänger bewusst manipulierende Verbreitung von Ideologemen
verstanden, andererseits sind damit auch allgemein einem politischen Kontext angehörende parteiliche
oder tendenziöse Äußerungen gemeint“; anders z.B. MÜLLER 2009, 15.
32
126
Gregor Weber
oftmals auch nicht zutrifft. Schließlich wird nur selten darüber reflektiert,
wer mit der Propaganda überhaupt erreicht werden sollte und wie die Verbreitung bestimmter Inhalte erfolgen konnte38. Um Missverständnisse und
Anachronismen zu vermeiden, werden stattdessen die eindeutigeren Begriffe
‘Selbstdarstellung’ und ‘Repräsentation’ unter Einbeziehung des Kommunikationsaspekts verwendet39.
Der Vorgang des Dichtens geschieht ebenso wenig im luftleeren Raum wie
die Dichter kontextunabhängig sind. Deshalb kommt den Fragen, ob und
welche Positionen die Dichter an den Höfen innehatten und welche Einstellungen sie König und Hof entgegenbrachten, große Bedeutung zu. Zur
Beantwortung dieser Fragen müssen aufgrund der Überlieferungslage viele
Einzelinformationen zusammengetragen und ausgewertet werden.
Die Usancen des poetischen ‘Betriebs’ an den Königshöfen kennen wir nicht,
nicht einmal für Alexandreia, von wo über das Museion und die Bibliothek am
ehesten noch Informationen vorliegen, allerdings dann in anekdotischer Tradition40. Aus der bekannten Passage aus dem 17. Buch in Strabons Geographika
geht hervor, dass das Museion zum Palastareal gehörte und sich die dortigen
filolovgoi in einem sussivtion trafen41. Es ist nicht bekannt, ob es eine Begrenzung in der Zahl für ‘Planstellen’ oder Stipendien gab und ob eine feste Zahl
von ‘Fellows’ aufgenommen wurde42. Auch über mögliche Kriterien für eine
Aufnahme in das Museion lässt sich nur mutmaßen.
In der Anfangszeit der alexandrinischen Bibliothek gab es Ressortleiter für die
verschiedenen Literatur-Sparten, etwa Lykophron von Chalkis für die Komödien und Alexander Aitolos für die Tragödien, die beide auch als Dichter ausge38
Für eine typische Aussage vgl. KOSMETATOU 2000, 36f.: „Scholars provided the ideological ground for
the monarchic institution and promoted dynastic propaganda, thereby boosting their masters’ prestige.“
39
Vgl. die Definition von Selbstdarstellung bei WEBER - ZIMMERMANN 2003, 11: „Selbstdarstellung
betont dagegen mehr den Aspekt der Zurschaustellung von Reichtum und die Zustimmung zu einem
bestimmten Wertekodex und ist derjenige Begriff, der am meisten auch außerhalb des herrscherlichen
Kontextes angewandt wird.“ Vgl. die Definition von Repräsentation bei WEBER 1997, 32, als „die Inszenierung der besonderen Stellung des Monarchen sowohl für den Hof selbst und für Besucher verschiedenster Provenienz als auch durch Weisen des Transformierens von Zeichensystemen nach außen, in das
eigene Herrschaftsgebiet, in konkurrierende Herrschaftssysteme und in neutrale Zonen hinein.“
40
Vgl. WEBER 1993, 87ff.
41
Strab. 17,1,8: tw`n de; basileivwn mevro" ejsti; kai; to; Mousei`on, e[con perivpaton kai; ejxevdran
kai; oi\kon mevgan ejn w|/ to; sussivtion tw`n metecovntwn tou` Mouseivou, filolovgwn ajndrw`n. e[sti de;
th`/ sunovdw/ tauvth/ kai; crhvmata koina; kai; iJereu;" oJ ejpi; tw`/ Mouseivw/ tetagmevno" tovte me;n uJpo;
tw`n basilevwn nu`n d∆ uJpo; Kaivsaro". „Zum Palastviertel gehört auch das Museion mit einer Wandelhalle, einer mit Sitzen versehenen Halle und einem großen Gebäude, in dem sich auch der gemeinsame
Speiseraum der zum Museion gehörenden Gelehrten befindet. Ihre Vereinigung hat gemeinsame Einkünfte und als Vorsteher einen Priester, der einst von den Königen, jetzt vom Kaiser bestellt wird.“
42
MÜLLER-GRAUPA 1933, 809, geht von ca. 100 Stipendiaten aus, doch bleibt unklar, auf welchen
Zeitraum sich die Angabe bezieht.
Den König loben?
127
wiesen sind43. Einer Passage in den Deipnosophistai des Athenaios zufolge erhielt
ein gewisser Sosibios mit dem Beinamen Lytikos – vermutlich ein Grammatiker
ohne dichterische Produktion – von Ptolemaios II. eine suvntaxi" basilikhv;
auch ist von Papyrusrollen mit weiteren Empfängern solcher suntavxei" die
Rede44. Mitunter wird der Begriff suvntaxi" mit ‘Ehrenpension’ übersetzt,
aber es gibt etliche Beispiele im Sinne regelmäßiger Soldzahlungen, so dass
ein solches Verständnis am ehesten zutreffen dürfte. Die konkrete Tätigkeit an
den Forschungseinrichtungen wurde demnach wohl regelmäßig entlohnt45.
Mehr ist über die Erzieher der Kinder der Königsfamilie – und nach makedonischem Modell auch derjenigen der fivloi46 – bekannt. In einigen Fällen
waren die Erzieher mit dem jeweiligen Vorstand der königlichen Bibliothek
identisch. Als Vorstände fungierten der Philologe Zenodotos von Ephesos,
die Dichter Apollonios Rhodios und Eratosthenes von Kyrene47. Als Erzieher
43
Zu Lykophron: WEBER 1993, 423; COPPOLA 2002, 53-83; FANTUZZI - HUNTER 2004, 437-443. Einen
Bezug der ‘Alexandra’ eines (anderen, späteren) Lykophron zur attalidischen Geschichte am Beginn des
2. Jh.s v.Chr. stellt KOSMETATOU 2000 her, dazu CUSSET - PRIOUX 2009, 10f.
44
Athen. 11,493f-494b: tau`ta kai; oJ qaumavsio" lutiko;" Swsivbio", o}n oujk ajcarivtw" dievpaixe
dia; ta;" poluqrulhvtou" tauvta" kai; [ta;"] toiauvta" luvsei" Ptolemai`o" oJ Filavdelfo" basileuv".
lambavnonto" ga;r aujtou` suvntaxin basilikhvn, metapemyavmeno" tou;" tamiva" ejkevleusen, eja;n
paragevnhtai oJ Swsivbio" ejpi; th;n ajpaivthsin th`" suntavxew", levgein aujtw`/ o{ti ajpeivlhfe. kai; met∆
ouj polu; paragenomevnw/ kai; aijtou`nti eijpovnte" dedwkevnai aujtw`/ ta" hJsuciva" ei\con, o} de; tw`/ basilei`
proselqw;n katemevmfeto tou;" tamiva". Ptolemai`o" <de;> metapemyavmeno" aujtou;" kai; h{kein
keleuvsa" meta; tw`n biblivwn, ejn oi|" aiJ ajnagrafaiv eijsi tw`n ta; " suntavxei" lambanovntwn, labw;n
tauvta" eij" cei`ra" [oJ basileu;"] kai; katidw;n e[fh kai; aujto;" ajpeilhfevnai aujto;n ou{tw": h\n ojnovmata
ejggegrammevna tau`ta, Swth`ro" Swsigevnou" Bivwno" jApollwnivou [Divwno"]: eij" a} ajpoblevya" oJ
basileu;" ei\pen ‘w\ qaumavsie lutikev, eja;n ajfevlh/" tou` Swth`ro" to; sw kai; tou` Swsigevnou" to; si
kai; tou` Bivwno" th;n prwvthn sullabh;n [bi] kai; th;n teleutaivan tou` jApollwnivou, euJrhvsei" sauto;n
ajpeilhfovta kata; ta;" sa;" ejpinoiva"’. „Sosibios, der bewunderte Löser von Problemen, wurde von König
Ptolemaios Philadelphos wegen seiner viel besprochenen Lösungen von Widersprüchen bei Homer nicht
unwitzig verspottet. Er erhielt nämlich vom König eine Ehrenpension, und der ließ seine Kassenverwalter
kommen und befahl ihnen, wenn Sosibios erscheine, um seine Pension abzuholen, sollten sie ihm erklären,
er habe sie bereits bekommen. Als er nun wenig später kam und sein Geld verlangte, erwiderten die Verwalter, sie hätten es schon ausgezahlt, und ließen sich auf kein Wort mehr ein. Darauf wandte sich Sosibios
an den König und beklagte sich über die Verwalter. Ptolemaios schickte nach ihnen und ließ sie mit den
Buchrollen kommen, die die Listen der Pensionsempfänger enthielten, nahm sie in die Hand, sah sie durch
und versicherte seinerseits, Sosibios sei schon versorgt, nämlich: es ständen da die Namen Soter, Sosigenes,
Bion, Apollonios. Der König richtete seinen Blick darauf und sagte: ‘Du gewaltiger Rätsellöser, wenn du
von Soter das SO, von Sosigenes das SI, von Bion die erste Silbe, die letzte von Apollonios nimmst, wirst
du finden, dass du dein Geld bekommen hast, wie es deinen eigenen Spitzfindigkeiten gemäß ist.’“ Möglicherweise ist der genannte Sosibios mit dem Grammatiker, Chronographen und Kultschriftsteller Sosibios
oJ Lavkwn identisch, der allerdings von LÉVY 2007 an den Beginn der römischen Kaiserzeit datiert wird.
45
Athen. 12,442c überliefert, dass der sonst nicht bekannte Philosoph Panaretos von Ptolemaios
III. jährlich zwölf Talente erhielt, dazu FRASER 1972, II, 466, Anm. 35.
46
Dazu WEBER 1993, 74f., Anm. 4.
47
Von Kallimachos als Bibliotheksvorstand geht die moderne Forschung nicht mehr aus, dazu
ASPER 2004, 12f.
128
Gregor Weber
von Ptolemaios II. sind der Dichter Philitas von Kos sowie der Philosoph
und Naturwissenschaftler Straton von Lampsakos belegt48. Die ‘Berufung’
dieser Personen zeigt, welche Bedeutung der von ihnen vermittelten griechischen paideiva zukam, auch wenn keine Hinweise auf die Lerninhalte und
die Dauer des Unterrichts überliefert sind49. Vor allem aber standen sie in einem besonderen Vertrauens- und Verpflichtungsverhältnis zum König und zu
seiner Familie, außerdem in einem räumlich bedingten, engen persönlichen
Kontakt50. Dieser Kontakt hatte zur Folge, dass die Prinzenerzieher und vermutlich auch das höhere Bibliothekspersonal zweifellos über einen beträchtlichen Kenntnisstand verfügten, welche politischen Themen am Hof derzeit
aktuell waren und wie sich die Sozialbeziehungen zwischen den Mitgliedern
der Hofgesellschaft gestalteten. Ob solche Informationen in die Dichtung
einflossen, lässt sich kaum mit Sicherheit sagen, doch zeigen zumindest die
Epigramme für Sostratos, Kallikrates, Medeios, Neoptolemos und Sosibios,
dass die Dichter vom Agieren der genannten Personen Kenntnis hatten und
damit Teil der höfischen Kommunikationsprozesse waren51.
Weitere direkte Verflechtungen von Intellektuellen in das Hofgeschehen
lassen sich kaum finden – es gibt allenfalls einige Gesandte unter ihnen52. Unter den gut dokumentierten eponymen Priestern dieser Zeit für die vergött48
Vgl. MEISSNER 1992, 493-497; WEBER 1993, 74f. mit Anm. 3-4; 134; 418; HOSE 1997, 51f.; STRO2010, 33f. Dass Zenodot, der in der Bibliothek die Epen betreute, selbst Epiker war, ist eher
zweifelhaft, dazu WEBER 1993, 97, Anm. 1. Von Straton ist auch bekannt (Diog. Laert. 5,58), dass er von
Ptolemaios I. 80 Talente für die Erziehung des Thronfolgers erhielt, dazu STROOTMAN 2010, 39.
49
Das Vorbild von Aristoteles und anderen als Lehrer Alexanders des Großen drängt sich förmlich
auf, dazu GEHRKE 2003, 8f.; 144.
50
Wo exakt sich diese Erziehungstätigkeit abspielte, ist nicht überliefert. Es gibt aber keine Hinweise auf eine räumliche Trennung vom Hof, wie dies bei Alexanders Unterricht in Mieza der Fall war.
Zum persönlichen Interesse der ersten Ptolemäerkönige an den Belangen von Museion und Bibliothek:
WEBER 1993, 79f.; 82-87.
51
In einem Epinikion (frr. 384 und 384a Pf.) besingt Kallimachos die Siege des Sosibios bei den
isthmischen und nemeischen Spielen sowie in Athen und Alexandria. Er wird damit als Mann des Volkes
dargestellt, der in geradezu idealer Weise dem Ideal des Euergeten entspricht. Es ist nicht zu sagen, wie
sich diese Darstellung zum ‘realen’ Sosibios verhält, und eine solche Beschreibung ist unter literaturgeschichtlicher Perspektive auch nicht neu, doch wird damit vielleicht eine erwünschte Außensicht von der
Hofgesellschaft evoziert, dazu WEBER 2011.
52
Ptolemaios I. sandte den Philosophen Theodoros von Kyrene zu Lysimachos (OLSHAUSEN 1974,
Nr. 15). U.a. der Astronom Dionysios wurde von Ptolemaios II. mit einer Gesandtschaftsaufgabe nach
Indien betraut (OLSHAUSEN 1974, Nr. 19; WEBER 1993, 140, Anm. 4). Ebenfalls nach Indien wurde der
Historiker Megasthenes von Seleukos I. gesandt (OLSHAUSEN 1974, Nr. 127; SAVALLI-LESTRADE 1998, 8f.,
Nr. 6); von Antiochos I. wurde der Historiker Daimachos nach Indien gesandt (OLSHAUSEN 1974, Nr.
126); unter Antiochos III. ist der Historiker Hegesianax aus Alexandreia in der Troas anzusetzen (OLSHAUSEN 1974, Nr. 136; SAVALLI-LESTRADE 1998, 29, Nr. 32). Der Philosoph Krates von Mallos wurde von
Attalos II. nach Rom gesandt (OLSHAUSEN 1974, Nr. 171; SAVALLI-LESTRADE 1998, 149f., Nr. 39). Kallimachos wird nachgesagt, zumindest zeitweilig die ptolemäischen Interessen in seiner Heimat Kyrene
vertreten zu haben.
OTMAN
Den König loben?
129
lichten Ptolemäer scheint es, soweit sich die Personen identifizieren lassen,
keine Intellektuellen und somit auch keine Dichter gegeben zu haben53.
Wie lange die Aufenthalte der Dichter am Hof dauerten und welche Gründe bzw. Vorkommnisse zu ihrer Beendigung führten, überliefern die Quellen
in aller Regel nicht, doch wird man nicht fehlgehen, zwischen Dichtern mit
längeren Aufenthalten, wohl in Verbindung mit einer Position an der Bibliothek bzw. am Museion, und solchen mit einem kurzen Aufenthalt zu unterscheiden. Verabschieden sollte man sich aber von der Vorstellung, die Könige
hätten die Dichter im Sinne eines ‘kreativen Schreibbüros’ als Propagandisten um sich versammelt54.
Dies führt zur Frage, welche Einstellungen die Dichter König und Hof entgegengebracht haben. Zunächst ist evident, dass die dargelegte Patronage-Situation in aller Regel zu einem wohlwollenden Blick der Dichter auf die ptolemäische Monarchie und ihre Vertreter geführt hat; außerdem wurde versucht,
mit entsprechenden Themen von außen bei Hofe zu reüssieren. Dies wird etwa
an den Gedichten auf Siege bei panhellenischen Spielen deutlich, die Mitglieder der ptolemäischen Dynastie errungen haben55. Die Intensität und thematische Breite der dichterischen Akzeptanz ptolemäischer Themen dürfte unterschiedlich ausgefallen sein, ebenso die konzeptionelle poetische Umsetzung,
die ein Spiel mit Formen, mit Witz und Ironie beinhaltete56. Nicht unmittelbar
unser Thema betreffend, aber als Gegenprobe signifikant sind die Positionen,
die Kritik, Ablehnung oder auch Neid zum Ausdruck bringen57. Es handelt sich
dabei nicht um antimonarchische Diskurse, sondern eher um punktuelle Nadelstiche, mit denen Facetten der Herrschaft oder Merkmale eines konkreten
Herrschers attackiert wurden58. Hier tritt uns – besonders greifbar in der Person des Sotades – ein Typus an Dichter entgegen, der an mehreren Höfen ver53
Das Material bei CLARYSSE - VAN DER VEKEN 1983. Über die Gründe kann man nur mutmaßen:
Zum einen ist es möglich, dass die Intellektuellen, zumal diejenigen, die im Museion und in der Bibliothek arbeiteten, aus Zeitgründen auf diese Tätigkeit keinen Wert legten, zum anderen lässt sich zumindest für die prosopographisch besser erschlossenen Priester der früheren Ptolemäerzeit vermuten, dass
es sich überwiegend um Personen gehandelt hat, die zuvor in militärischem Kontext aktiv waren.
54
Ähnlich auch STROOTMAN 2010, 34f.
55
Zu den Gedichten: FANTUZZI - HUNTER 2004, 377-379; 391-403; THOMPSON 2005, 272-279; zu den
Siegen und deren Chronologie: BENNETT 2005.
56
Vgl. die treffende Charakterisierung der hellenistischen Dichtung durch RENGAKOS 2006, 16:
„Ein ausgesprochen gelehrter Inhalt, ein sehr dichtes Netz von direkten und indirekten Beziehungen zur
Haupthandlung, mit poetologischen Konnotationen überfrachtet, eine komplexe Filiation, kein univoker Sinngehalt, eine betonte Vorliebe für trompe l’oeil-Effekte, wie man sie aus der hellenistischen Kunst
kennt.“
57
Hierzu zählen auch poetische Respektlosigkeiten gegenüber dem Königshaus, wie man sie u.a.
bei Kallimachos finden kann, dazu DURBEC 2009, 111-113.
58
Bekannt sind etwa Theokrit von Chios bei Antigonos I. Monophthalmos, Sotades von Maroneia
bei Ptolemaios II. und Daphidas von Telmessos bei den Attaliden, dazu WEBER 1998-1999; PRIOUX 2009.
130
Gregor Weber
kehrte und sich dort jeweils am Hof des einen Königs über den anderen negativ
ausließ59. Man gewinnt den Eindruck, dass die Toleranzschwelle der Könige
recht hoch war, zumal Spott seit jeher in den Kontext der Symposien gehörte,
dass sie aber bei großer Renitenz der Dichter auch hart durchgegriffen haben60.
Offenkundig gab es also keine eigenen Planstellen für Dichter, sondern
Intellektuelle am Hof verfassten Gedichte neben ihren eigentlichen Aufgaben
an den wissenschaftlichen Einrichtungen, oder aber – das wäre der zweite
Typus – sie versuchten, sich über ihre Werke am Hof zu empfehlen61. Weil
aber die Dichtung mit Blick auf Symposien und Feste sowie die inner- und
außerhöfische Kommunikation alles andere als unwichtig war62, dürfte eine
erhebliche Konkurrenzsituation zwischen den Dichtern bestanden haben –
und zwar um die Gunst des Königs und um die eigene Position innerhalb
der Hofgesellschaft, denn gerade das Symposion war traditionell mit einer
kompetitiven, geradezu agonistischen Atmosphäre verbunden63. Diese Konkurrenz wurde über das Medium der Dichtung ausgetragen, weshalb nun die
Themen bzw. die Inhalte der verschiedenen Gedichte von Interesse sind64.
Diesen sozialen und institutionellen Kontext für die Dichter an den Höfen vorausgesetzt, ist nach Aufgabenfeldern oder Themen zu fragen, die die
Dichter zu übernehmen hatten oder freiwillig übernahmen. Geht man davon
aus, dass die Dichter innerhalb des Hofes und nach außen hin mit ihren Werken das Prestige des Königs vermehrten, drängt sich zunächst die Vorstellung
von Auftragsdichtung auf, etwa in dem Sinne, dass für festliche Anlässe Werke bestellt wurden, wie die Situation des Adonis-Hymnos in Theokrits XV.
59
Detailliert für Sotades: PRIOUX 2009, 115-119, allerdings mit dem Verständnis einer hellenistischen Monarchie, die alles auf dem Verordnungsweg zu regeln vermag.
60
Ein beabsichtigter Wechsel des Hofes konnte zu harschen Reaktionen des königlichen Patrons
führen, wie man am Beispiel von Ptolemaios IV. und Aristophanes von Byzanz sehen kann, der zu Eumenes II. nach Pergamon wechseln wollte, dazu KOSMETATOU 2000, 37f.
61
Vgl. PARSONS 2002, 109: „We have no way of telling from such ‘court poetry’ what sort of position either poet occupied in regard to the court: salaried dependent, or an independent with privileged
entrée?”
62
Ein Überblick bei WEBER 1993, 165-182; vgl. außerdem den Beitrag von R. HUNTER.
63
CAMERON 1995, 71-103; BING 1997, 144-147; HOSE 1997, 54f.; BARBANTANI 2001, 16f.; 41-43;
VÖSSING 2004, 154-158; STROOTMAN 2010, 39.
64
Manche scharfen Töne innerhalb der Gedichte erklären sich durch diese Konkurrenz, wobei
man immer versucht ist, sie auf individuelle Aversionen zurückzuführen, vgl. etwa SH 786 (= fr. 12 Di
Marco) aus den Silloi des Timon von Phleious, wenn die Metapher des Vogelkäfigs auf die Gelehrten im
Museion angewandt wird, dazu DI MARCO 1989, 139-143; CAMERON 1995, 31; CLAYMAN 2009, 11; 93f.
Einen detaillierten Vergleich zwischen Kallimachos und Poseidippos führt LELLI 2005 durch; zur Konkurrenz zwischen Kallimachos und Apollonios Rhodios: KÖHNKEN 2008; zu verschiedenen Attacken des
Kallimachos auf andere Dichter: DURBEC 2009, 103-110.
Den König loben?
131
Eidyllion nahelegt. In aller Regel finden sich in der Überlieferung aber keine
entsprechenden Vermerke. Anekdoten wie diejenige über Archimelos, die
Athenaios am Ende der Beschreibung von Hierons Syrakosia-Schiff berichtet, sind eher die Ausnahme: Hieron II. habe den Dichter, der auf das Schiff
ein achtzehnzeiliges Epigramm verfasst hatte, mit 1.000 Medimnen Getreide
geehrt65. Allerdings geht aus der Passage nicht klar hervor, ob das Epigramm,
dem eine eher bescheidene Qualität bescheinigt wird66, von Hieron in Auftrag gegeben war oder ob es sich um ein Angebot des Dichters handelte, das
entlohnt wurde. Angesichts der Überlieferungslage wäre es vermessen, Auftragsdichtung ganz auszuschließen, aber vielleicht hat Alexander der Große,
der etliche Dichter auf seinem Zug mit sich führte, gerade in diesem Punkt
negativ gewirkt67: Die enkomiastischen Epen auf Alexander, die den überlieferten Versen zufolge keine poetischen Spitzenleistungen waren, gingen
allesamt verloren, so dass Arrian am Beginn seiner Anabasis urteilen konnte:
oujde; ejxhnevcqh ej" ajnqrwvpou" ta; jAlexavndrou e[rga ejpaxivw", ou[t∆ ou\n katalogavdhn,
ou[te ti" ejn mevtrw/ ejpoivhsen: ajll∆ oujde; ejn mevlei h[/sqh jAlevxandro", ejn
te kai; Gevlwn kai; Qhvrwn kai; polloi; a[lloi oujdevn ti jAlexavndrw/
o{tw/
65
Athen. 5,209b-e (= SH 202): oJ d∆ JIevrwn kai; jArcivmhlon to;n tw`n ejpigrammavtwn poihth;n
gravyanta eij" th;n nau`n ejpivgramma cilivoi" purw`n medivmnoi", ou}" kai; parevpemyen ijdivoi"
dapanhvmasin eij" to;n Peiraia`, ejtivmhsen. e[cei d∆ ou{tw" to; ejpivgramma: tiv" tovde sevlma pevlwron
ejpi; cqono;" ei{sato… poi`o" / koivrano" ajkamavtoi" peivsmasin hjgavgeto… / pw`" de; kata; druovcwn ejpavgh
saniv", h] tivni govmfoi / tmhqevnte" pelevkei tou`t∆ e[kamon to; kuvto", / h] korufai`" Ai[tna" parisouvmenon
h[ tini navswn / a}" Aijgai`on u{dwr Kuklavda" ejndevdetai, / toivcoi" ajmfotevrwqen ijsoplatev". h\ rJa Givgante"
/ tou`to pro;" oujraniva" e[xesan ajtrapitouv". / a[strwn ga;r yauvei karchvsia kai; trielivktou" /
qwvraka" megavlwn ejnto;" e[cei nefevwn. / peivsmasi d∆ ajgkuvra" ajpereivdetai oi|sin jAbuvdou / Xevrxh"
kai; Shstou` disso;n e[dhse povron. / manuvei stibara`" kat∆ ejpwmivdo" ajrticavrakton / gravmma,
tiv" ejk cevrsou tavnd∆ ejkuvlise trovpin: / fati; ga;r wJ" JIevrwn JIeroklevo" JEllavdi pavsa/ / kai;
navsoi" karpo;n pivona dwroforw`n, / Sikeliva" skaptou`co" oJ Dwrikov". ajllav, Povseidon, / sw/`ze
dia; glaukw`n sevlma tovde rJoqivwn. „Hieron ehrte auch Archimelos, den Dichter von Epigrammen, der
auf das Schiff ein Epigramm verfasst hatte, mit 1.000 Medimnen Getreide, die (der König) auch noch
auf eigene Kosten zum Piräus transportieren ließ. Das Epigramm hat folgenden Wortlaut: Wer hat das
gewaltige Schiff auf Kiel gelegt? Welcher Herrscher hat es mit unermüdlichen Tauen umgeben? Wie ist
das Verdeck auf den Eichenstützen befestigt worden und von welcher Axt sind die Planken geschnitten,
die den Schiffsleib spannen? Den Gipfel des Ätna erreicht er, und die Wände auf beiden Seiten gleichen
der Breite einer Kykladeninsel, die das Ägäische Meer umgibt. Wirklich, die Giganten haben dies Schiff
bis ans Himmelszelt getürmt. Die Masten berühren die Sterne, und der dreistöckige Aufbau reicht in die
großen (Wolken). Mit solchen Ankertauen ist es vertäut, womit einst Xerxes die doppelte Bahn zwischen
Abydos und Sestos verband. Vom starken Bug künden frisch eingekerbte Lettern, wer von trockenem
Land dies Schiff (in die Flut) ziehen ließ. Sie künden, dass Hieron, der Sohn des Hierokles, dem ganzen
Hellas und den Inseln üppige Frucht als Gabe sendet, der Beherrscher Siziliens, der Dorer. Doch du,
Poseidon, bewahre das Schiff auf den blauen Wogen!“
66
Dazu DEGANI 1996.
67
Vgl. WEBER 1992, 68f., zu Agis von Argos, Aischrion, Anaximenes von Lampsakos, Pranichos
oder Pierion, Pyrrhon von Elis und Choirilos von Iasos.
132
Gregor Weber
ejpeoikovte", w{ste polu; mei`on gignwvsketai ta; jAlexavndrou h] ta; faulovtata tw`n
pavlai e[rgwn68.
Auch wenn sich dies wie eine Rechtfertigung von Arrians eigenem Werk
liest, hat Alexander vielleicht etwas erkaufen oder gar erzwingen wollen bzw.
die Dichter zu sehr unter Druck gesetzt, denn an Inhalten hätte es mit Blick
auf sein mythisch-heroisches Selbstverständnis kaum gemangelt.
Wird man also die Bestellung von Gedichten, gerade von Epigrammen und
Epinikien, keinesfalls ausschließen wollen, so haben sich die entscheidenden
Themen aus der innerhöfischen Kommunikation und aus der Selbstdarstellung der Ptolemäer quasi von allein ergeben und dürften nicht eingefordert
worden sein. Das Ambiente bot eine unerschöpfliche Fülle an poetischen Anregungen und eine Atmosphäre permanenter Resonanz, vor allem aber war
der Charakter des Hofes als politisches, administratives, intellektuelles, repräsentatives und soziales Zentrum thematisch prägend. Die Themen, die sich
aufgrund der Quellenlage am besten dem ptolemäischen Kontext entnehmen
lassen, seien katalogartig angeführt und nicht in ihrer Umsetzung bzw. ihren
quantitativen Anteilen im Einzelnen analysiert69:
1. die Person des Königs mit den militärischen Erfolgen70, der Bewährung als
Herrscher, der Förderung der griechischen Kultur und der Dynastiebildung einschließlich der Geschwisterehe.
2. der Herrscher- und Dynastiekult einschließlich der Hinweise auf die göttliche Abkunft des Königs71.
3. Geschehnisse und Personen innerhalb der Hofgesellschaft und in der
Hauptstadt72. Einige Namen von fivloi sind bereits gefallen, die insbeson68
Arr. Anab. 1,12,2: „und man hat Alexanders Taten nie der Menschheit so kundgetan, wie sie es
verdienten, dies weder in Form historischer noch epischer Darstellung. Von Alexander sang man noch in
keinem Lied, obwohl auf diese Weise selbst ein Hieron, Gelon und Theron verherrlicht wurden und viele
andere, die in keiner Hinsicht ihm auch nur von ferne ähnlich waren. So kommt es, dass Alexanders Taten
weit weniger bekannt sind als die kümmerlichen Quisquilien einer früheren Zeit.“ Dazu MURRAY 2008, 16f.
69
Vgl. dazu das Inhaltsverzeichnis von WEBER 1993, Xf.; auf Einzelnachweise wird verzichtet.
70
Auseinandersetzungen wie die mit den Kelten/Galatern, die in irgendeiner Form alle großen
hellenistischen Monarchien zu bestehen hatten, boten sich für die literarische Umsetzung geradezu an,
dazu BARBANTANI 2001.
71
Die Behauptung von SCHLEGELMILCH 2009, 220f., „daß Kallimachos in seiner Dichtung Wegbereiter der später selbstverständlich werdenden Wahrnehmung der Thea Philadelphos … in ihren viele
Göttinnen (also auch Artemis) verkörpernden Wesen gewesen sein könnte … . Es ist jedenfalls durchaus
plausibel, daß die Hofdichtung, Produkt eines Museions, ihrem ‘Apoll’ Philadelphos ein Bild seiner
göttlichen Schwester entwerfen konnte“, lässt sich kaum schlüssig nachweisen, weil die Dichtung nicht
in ein chronologisches Raster zu bringen ist.
72
Der Ort, an dem sich die Hofgesellschaft befand, mit seinen kulturellen Einrichtungen, d.h. Hof
in seinen räumlichen Strukturen als Teil der basivleia, hat keine intensivere Wahrnehmung erfahren,
schon gar nicht durch Kallimachos; anführen lassen sich nur zwei Passagen: die Beschreibung des Palastinnern in Theokrit 15 und die Nennung des Moush`ion in Herodas 1,31.
Den König loben?
133
dere wegen ihrer Stiftungen im Kontext der ptolemäischen Selbstdarstellung prominent waren73. Hierher gehört auch, dass die Dichter ihre Kollegen
oder andere Intellektuelle – direkt oder indirekt – erwähnen, auch wenn sich
die genannte Person nicht immer sicher mit dem Hof verbinden lässt74.
4. die Götter und die religiöse Praxis einschließlich des neuen Gottes Sarapis.
5. die ägyptischen Untertanen, das Land Ägypten und die ägyptische Königsideologie.
Charakteristisch für die Dichtung ist die vielfach nur beiläufige Implementierung von König und Königin, sieht man von Enkomien, konkreten
Widmungen und Epigrammen ab75. Mythen und Facetten eines idealen Königtums spielen hierbei eine wichtige Rolle. Vielfach findet man dazu in der
ptolemäischen Selbstdarstellung jenseits der Dichtung – in Bauten, Bildern,
Stiftungen, Festen, Inszenierungen und Maßnahmen in schriftlich übermittelter Form (prostavgmata) – die zugehörigen Entsprechungen.
Kontrovers wird in der Forschung die Verarbeitung der Ägypten-Thematik
innerhalb der Dichtung diskutiert: Obwohl nur selten auf das Land und seine
indigenen Bewohner verwiesen wird, gibt es Tendenzen, hinter etlichen Formulierungen vor allem von Kallimachos und Theokrit Aspekte der ägyptischen
Königsideologie zu sehen76. Dass es motivische Anregungen gab, die punktuell auch eine griechische und eine ägyptische Lesart zulassen, macht bei aller
Prävalenz des Griechischen durchaus Sinn77, da am Hof zweifellos auch die
Selbstdarstellung des Ptolemäerkönigs als Pharao diskutiert wurde und etwa
eine Ausstattung mit ägyptischen Statuen in der Hauptstadt durchaus präsent
73
Dazu GUTZWILLER 2007, 193f.; WEBER 2011; außerdem AMBÜHL 2007, 289: „Epigrams addressing
Ptolemaic issues should therefore not be interpreted in the sense of a one-way communication in which
court poets function only as mouthpieces for propaganda, but as reciprocal process of exchange assigning the epigrammatists a crucial role as mediators between the court and the public.“
74
Dazu WEBER 1993, 285-293: Genannt werden etwa von Kallimachos Timarchos (PP VI 16792),
Herakleitos (PP VI 16689) und Theaitetos (PP VI 16692), auch manche Stellen der Iamben lassen sich
auf Kollegen deuten. Bemerkenswert ist auch das Ep. IV GP von Hedylos auf ein Weihegeschenk in
Form eines goldenen Rhython, das Ktesibios mit einer Mechanik versehen hatte, die zum ausfließenden
Wein Musik ertönen ließ.
75
Für ein differenziertes Verständnis plädieren FUHRER - HUNTER 2002, 166: „rather, we must consider the occasion-specific rhetoric of Greek praise and always be prepared to ask after the function of
praise, rather than after some (probably illusory) ‘essential meaning’ for the terms in which the praise is
couched“; außerdem CUSSET 2009, 93-95.
76
Bes. KOENEN 1993; SELDEN 1998; STEPHENS 2003; HEERINK 2010.
77
So auch ASPER 2001, 102f. Nicht zu vergessen ist außerdem, dass gerade die ersten Ptolemäer vor
allem ihre makedonische Abkunft betonten (Paus. 6,3,1; 10,7,8), dazu BEARZOT 1992, 43f.; SCHLEGELMILCH 2009, 183f. In einer Inschrift aus Thermos (IG IX I² I 56, dazu BENNETT 2002) ist bei Ptolemaios
III., seiner Frau Berenike (aus Kyrene) und den sechs gemeinsamen Kindern jeweils (!) Makedovna bzw.
Makevtan hinzugefügt. Zu Reflexen auf den makedonischen Kontext in den Epigrammen des Makedonen (!) Poseidippos: FANTUZZI - HUNTER 2004, 69f.; THOMPSON 2005, 269f.
134
Gregor Weber
war78. Mitunter wurde aber die These vertreten, der Dichtung sei geradezu die
Aufgabe zugekommen, dem griechischen und makedonischen Publikum die
ägyptische Seite des ptolemäischen Königtums zu vermitteln79. Dem stehen
viele Probleme entgegen, nicht zuletzt die Frage des Verstehenshorizonts80.
Die Wirkung dieser Dichtung scheint jenseits der Beiträge für Feste und
Symposien darin gelegen zu haben, dass sie die Themen, die am Hof und
auch in der Außensicht aktuell waren, zementiert, poetisch variiert, in weitere, z.B. mythologische Kontexte versetzt und im Einzelfall auch umakzentuiert hat81. Insofern lässt sich hier sicherlich eine Funktion als „creazione del
consenso“ festmachen, der allerdings die ägyptische Facette nicht so deutlich
und explizit akzentuiert hat, wie die Ptolemäer dies offenbar selbst taten.
Ptolemäische Selbstdarstellung und dichterisches Wirken standen somit in
einem dialektischen Verhältnis. Die Dichtung war Teil eines Systems, das sich
zumindest in diesem Segment als selbstreferentiell, d.h. auf den Hof bezogen,
darstellte, aber gleichermaßen durch die ‘weltweite’ Vernetzung der Dichter
eine beträchtliche Außenwirkung entfalten konnte82, was nicht zuletzt durch
die Existenz verschiedener Rezeptionsebenen möglich war83. Die Fixierung
auf den basileuv" ist nicht verwunderlich, weil der König und der Hof den
integrativen Fixpunkt für alle Mitglieder der Hofgesellschaft darstellten. Die
dichterische Umsetzung der Großzügigkeit der fivloi oder das Lob auf die
78
STEPHENS 1998, 168; 179; HUNTER 2003, 46f., zu den materiellen Befunden aus dem Hafen der
Stadt: YOYOTTE 1998, 202.
79
MERKELBACH 1981; außerdem REED 2000, 342: „We have there a complex, compound syncretism,
once again justifying a reduction of Egyptian elements to Greek tradition“; ähnlich HEERINK 2010, 402f.
SCHLEGELMILCH 2009, 172, spricht von der unerreichten Fähigkeit des Dichters, „zentrale, die ptolemäische Königsideologie formulierende Themen auf eine Art und Weise in seinen griechischen Hymnos
einzublenden, daß nur der Kundige die Anspielungen auf die ‘Aegyptiaca’ versteht, jeder ‘normale’ Leser dagegen eine zuweilen durch die offensichtlich überdurchschnittliche Gelehrsamkeit des Dichters
verdunkelte, aber doch stringent griechische Interpretation des eigenen Mythos vorfindet. … Kallimachos verkleidet also in seiner komplexen Mythendeutung das Fremde als Variante des Griechischen.“
Und: „niemals aber ist es alleiniges Ziel, ägyptische Vorstellungen zu einem Gegenstand der ‘Vermittlung’ zu machen“ (236). Zum Thema prägnant: ASPER 2004, 18-20.
80
Unterschätzt von GUTZWILLER 2007, 192. Das Problem wird auch nicht dadurch behoben, dass
man ägyptische Mitglieder der Hofgesellschaft konstatiert (dazu WEBER 2012), denn hier stellt sich die
Frage, inwiefern sie in der Lage waren, hochkomplexe griechische Dichtung zu verstehen. Es gibt keine
vergleichbaren Texte aus dem ägyptischen Kontext, wie ohnehin kaum bekannt ist, was die Ägypter, insbesondere die Elite, über die neuen Herrscher, deren Umgebung, die sozio-ökonomischen Neuerungen
und die Bestrebungen in religiöser Hinsicht wirklich dachten.
81
Beispiele unter dem Label ‘Tradition und Innovation’ bei FANTUZZI - HUNTER 2004, 350ff.; CUSSET
2009, 90-93.
82
ASPER 2001, 94-97; PARSONS 2002, 105-107; bes. STROOTMAN 2010, 40.
83
Dazu WEBER 2011, außerdem CUSSET 2009, 102: „Le jeu de différents niveaux de discours permet
de manipuler différents degrées et différentes formes d’irréverence et cette variété même offre au poète
la plus grand liberté.“
Den König loben?
135
Kunstfertigkeit (tevcnh) der Intellektuellen vermehrte wiederum das Prestige
des Königs84. Auch „die Bibliothek war gleichzeitig Instrument der und Symbol für die ptolemäische Macht, kein entrückter Ort für ‘Wissen an sich’.“
Die Macht der Dichtung lag also nicht zuletzt in ihrer politischen Rolle, die
auch eine kulturelle Integrationsleistung darstellte, mittels derer es gelang,
„die Macht der Griechen in Ägypten zu sichern und das Ansehen der Ptolemäer im Ausland zu mehren“85.
Ich fasse zusammen: Ausgehend von der Passage im ersten Mimiambos
des Herodas wurde die Frage nach Positionen und Aufgaben der Dichter
an den hellenistischen Königshöfen gestellt. Es konnte gezeigt werden, dass
sowohl Personen, die in verschiedene (intellektuelle) Funktionsbereiche am
Hof eingebunden waren, Gedichte verfassten, dass Dichter aber auch von
außen kommen konnten. Die Übergänge dürften fließend gewesen sein, erschließen sich uns aber kaum. Durch die Situierung am Hofgeschehen bzw.
ihre Intention, am Hof Fuß zu fassen, standen sie der jeweiligen Monarchie
grundsätzlich positiv gegenüber, wenngleich es durchaus auch kritische Stimmen gab. Dass diese Gruppe aber – zumindest nach dem erhaltenen Material
zu urteilen – sehr klein war, dürfte nicht zuletzt durch die ‘Macht der Dichter’
bedingt gewesen sein. Ein wesentlicher Faktor, der die Dichtung beeinflusste,
stellte die Konkurrenz zwischen den Dichtern um die Gunst des Königs dar,
während sich die Themen aus dem höfischen Geschehen heraus ergaben, jedenfalls nicht gesteuert erscheinen. Dichter und Dichtung konnten jedenfalls
das klevo" eines Königs steigern und integrativ wirken.
An ein bekanntes Problem sei zum Schluss nochmals erinnert: Unsere
Kenntnisse beziehen sich vorwiegend auf die Situation am Ptolemäerhof. Dabei sind für die anderen Höfe sowohl Dichter als auch Bibliotheken bekannt,
aber es haben sich weitaus weniger Werke erhalten. Diese auf Themen, Personen und Situationen genauer zu analysieren, wäre eine lohnende Aufgabe
für künftige Forschungen86.
84
85
86
Dazu STROOTMAN 2010, 38f.; 45.
Beide Zitate bei ASPER 2004, 12.
Ansätze zur Zeit von Antiochos III. bei COPPOLA 2002, 122-127.
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LA PROPAGANDE DE POMPÉE :
CONCEPTION, DIFFUSION ET RÉCEPTION
GILLES SAURON
Mon propos concernera ce qu’il est convenu d’appeler la propagande de
Pompée, même si le terme de propagande, mis à la mode par les régimes totalitaires qui ont prospéré sur le sol européen des années vingt aux années
quarante du dernier siècle, n’évoque que de très loin les mises en scène très
raffinées des chefs de la noblesse romaine des années soixante aux années quarante du dernier siècle avant notre ère. La propagande qui a entouré la longue
carrière du Grand Pompée est connue par des images monétaires (en particulier par les deniers émis par son gendre Faustus Cornelius Sylla en 56 avant
J.-C.1), par des inscriptions et par divers textes qui célèbrent autant les qualités
proclamées du personnage, comme sa « probité » (probitas, d’après Salluste ap.
Suétone, De grammaticis 15, et Pline, NH XXXVII 14) ou sa « chance » (felicitas, d’après Cicéron, De imperio Cn. Pompei 47, et César cité par Suétone, Divin Jules 35,3), que ses ambitions de pacificateur et de conquérant. Exprimée
sur le mode épique, comme lors du concours de Mytilène organisé par son ami
Théophane (Plutarque, Pompée 42,8), cette propagande n’hésitait pas à comparer Pompée à Alexandre, voire à Hercule ou Dionysos (Pline, NH VII 95).
Je centrerai mon propos sur le complexe monumental construit à l’initiative de
Pompée au centre du Champ de Mars, au lendemain de son retour d’Orient en
63 et de son triomphe en 61 avant J.-C. et qu’il dédia en deux temps, au cours
de son deuxième (55 avant J.-C.) puis de son troisième consulat (52 avant J.C.). Cet ensemble d’édifices introduisait dans le paysage urbain de Rome deux
équipements jusque-là inconnus, le parc public et le théâtre permanent2. Mais
ce qui va nous intéresser ici, c’est qu’il offrait au regard du monde la mise en
scène de Pompée sur le mode héroïque.
1
CRAWFORD 1974, 449-451 (n. 426-4 a/b).
Maren-Grischa Schröter est revenue récemment sur l’argument (SCHRÖTER 2008, 29-44). Elle
conteste ma thèse d’une influence directe de modèles hellénistiques (p. 39), pourtant explicitement affirmée par Plutarque (Pompée 42,9), et qu’une comparaison avec l’aménagement de l’acropole de Pergame,
dont le théâtre était dominé par le temple d’Athéna Nikephoros, rend si évidente. Pour elle, les opera
Pompeiana se situent au contraire dans la droite ligne des aménagements de Tivoli ou de Préneste ! Par
ailleurs, elle ne s’intéresse nullement à la signification de l’aménagement statuaire du parc… qui n’est
pourtant pas sans rapport avec « le contexte de la politique de Pompée », qui est censé faire la matière
de sa contribution !
2
144
Gilles Sauron
Les opera Pompeiana étaient composés d’une séquence monumentale inédite, formée, d’ouest en est, d’un vaste théâtre, puis, derrière la scène, d’un
parc entouré d’un quadriportique, et, enfin d’une curie s’ouvrant sur le portique, en conclusion de l’axe longitudinal du complexe. Le cratère des gradins
du théâtre était surmonté d’un temple dédié à Vénus Victrix (« Victorieuse »),
encadré de deux chapelles, l’une dédiée à Honos (dieu de l’« Honneur », patronnant les carrières officielles) et Virtus (déesse du « Courage »), et l’autre
à Felicitas (déesse de la « Chance »). Contrairement à une tradition historiographique marquée par la restitution graphique due au talentueux architecte
français Baltard, Antonio Monterroso Checa a démontré que le sanctuaire
ne comportait pas d’abside, mais devait avoir l’apparence d’un temple à plan
barlong et comportant trois cellae3. Pompée réunissait ainsi toutes les divinités
qui patronnaient depuis toujours les généraux vainqueurs de Rome, Vénus,
la mère du lointain ancêtre troyen Énée, « victorieuse » du Jugement rendu
par Pâris, le fils de Priam, le roi de Troie, Honos et Virtus, les dieux préférés
de ceux qui s’opposaient à la noblesse, comme Marcellus, ou de ceux qui n’y
appartenaient pas, les « hommes nouveaux » (homines noui), comme Marius,
et enfin Felicitas, la déesse des hommes d’exception choisis par le destin.
Cette innovation dans le paysage urbain de Rome sauvegardait en partie les
équilibres politiques antérieurs. D’abord parce que le public était strictement
réparti à l’intérieur du théâtre en fonction de son rang dans la société : les sénateurs étaient installés sur leur siège portatif autour de l’orchestra et les chevaliers
occupaient les quatorze premiers rangs de gradins. D’autre part, la nouvelle
curie réservée aux réunions du Sénat était placée à un endroit stratégique du
complexe, puisqu’elle en concluait la perspective. Mais il est certain que ces
constructions ont marqué une étape importante sur la voie de l’instauration
d’un régime monarchique à Rome. La curie contenait une statue de Pompée,
aux pieds de laquelle César devait être assassiné aux ides de mars 44 avant J.-C.
(Cicéron, De la divination II 9 ; Plutarque, César 66 ; Brutus 17 ; 37). Pompée lui-même était autorisé à porter dans son théâtre une couronne d’or et la
prétexte (Velleius Paterculus II 40,4 ; Appien, Mithridatica 113 ; Dion Cassius
XXXVII 21,4). Mais surtout, l’imperator avait probablement fait de son parc
la mise en scène permanente de son incomparable dimension héroïque, qui,
nous disent les sources, « l’égalait à la puissance d’Alexandre le Grand, mais
aussi presque à celle d’Héraclès et de Dionysos » (Pline, NH VII 95 : aequato
non modo Alexandri Magni rerum fulgore, sed etiam Herculis prope ac Liberi
patris). Grâce à une étude très ingénieuse de Filippo Coarelli4, qui a eu l’idée de
3
MONTERROSO CHECA 2006, 27-58.
COARELLI 1996, 360-381 (réédition d’une étude de 1971/1972). Voir BERNARD 1985 ; SAURON
1994, 249-314.
4
La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception
145
croiser les sources épigraphiques (IGUR I 210-212), littéraires (Pline, NH VII
34 ; Tatien, Discours aux Grecs 33-34) et archéologiques (la découverte d’une
statue de femme assise), nous savons qu’on y trouvait trois séries de statues féminines, d’une part des hétaïres, célèbres courtisanes qui avaient laissé un nom
dans l’histoire grecque, comme Phryné, d’autre part des poétesses grecques,
comme Sappho, et enfin des femmes ayant connu des accouchements miraculeux, comme Pasiphaé, la mère du Minotaure. Le choix de ces trois catégories
de femmes correspondait à la nature des divinités qui surmontaient le théâtre.
La beauté et l’activité des premières les reliaient à Vénus Victrix, victorieuse
d’un concours de beauté, les secondes, qui devaient leur célébrité à l’exercice
de leurs talents, à Honos et Virtus, et les troisièmes devaient tout à Felicitas, qui,
pour les femmes, était la déesse de la Fécondité. Mais surtout, la représentation
de Pompée, sans doute sous l’apparence d’un héros, nu et armé5, face à des
femmes disparues, regroupées par catégories de destin terrestre (fig. 1), plaçait
le général à l’intérieur d’une évocation traditionnelle du héros visitant les Enfers de son vivant (Homère, Odyssée XI 1 sq., à propos d’Ulysse ; Virgile, Géorgiques IV 475-477, à propos d’Orphée = Énéide VI 306-308, à propos d’Énée).
Il ne s’agissait pas évidemment de faire croire que Pompée avait suivi les pas de
ses illustres devanciers, Héraclès et Dionysos, au royaume des ombres (PseudoPlaton, Axiochos 371 d-e : « Héraclès
et Dionysos qui sont descendus chez
Hadès », ÔHrakleva te kai; Diovnuson
kativonta" eij" A
{ idou), mais de signifier, sur le mode épique d’une transposition mythique, que, comme eux, il avait
atteint les limites de la terre habitée,
l’Océan où la tradition situait l’entrée
des Enfers. Car tel était bien le sens de
sa propagande, selon Plutarque : Pompée voulait « n’avoir pour borne de ses
victoires que l’Océan qui entoure de
tout côté la terre » (Pompée 38,4 : wJ" tw`/
periiovnti th;n oijkoumevnhn pantacovqen
prosmivxeie nikw`n). Une telle Fig. 1 – Le complexe pompéien du
mise en scène assimilait le parc de Pom- Champ de Mars vu de la statue de
pée aux Champs Élysées de la tradition Pompée dans la curie (Albéric Olivier
del.).
mythologique.
5
Il s’agirait du « Pompée Spada » selon COARELLI 1996, 378 sq. Contra, FACCENNA 1956, 173-201,
qui reconnaît Domitien dans cette célèbre statue, et LA ROCCA 1987-1988, 265-292, qui suppose que
Pompée était représenté selon le type du Poséidon de Lysippe.
146
Gilles Sauron
Nous savons que l’impact de ces constructions sur les esprits fut considérable, y compris sur celui de Pompée lui-même, qui aurait fait un cauchemar à la veille de Pharsale en se voyant rendre hommage dans son théâtre à
Vénus, dont la famille de César prétendait descendre (Lucain, Pharsale VII
9-12 ; Appien, Guerre civile II 69 ; Plutarque, Pompée 68,2). Plus tard, Néron
rêvera « que les statues des Nations inaugurées près du théâtre de Pompée
l’entouraient et lui barraient le passage » (Suétone, Néron 46,2)6. Au siècle
suivant, l’apologète chrétien Tatien, originaire de Syrie, tira de la surprenante
vision de la triple galerie d’effigies féminines qui ornaient le parc de Pompée
une longue invective à l’égard de l’immoralité de l’art grec7. Parmi les nombreux témoignages dont nous disposons sur les diverses façons dont cet ensemble monumental et son décor ont pu impressionner les esprits, je voudrais
aujourd’hui insister sur les échos très précis que l’on en rencontre sur des
fresques réalisées pour des membres de l’aristocratie romaine de l’entourage
plus ou moins proche de Pompée.
On observe, par exemple, au centre de la mégalographie de Boscoreale,
de part et d’autre d’une image de Vénus, la présence de divinités abstraites,
à gauche Fortuna, et à droite deux Erotes et une Psyché, ce qui rappelle les
divinités abstraites, Felicitas, d’une part, et Honos et Virtus, d’autre part, qui
encadraient Vénus au-dessus de la cauea du théâtre de Pompée. Et cet écho
est d’autant plus sensible que la signification de la grande fresque de la villa de
Boscoreale m’a paru en rapport avec la « théologie physique » imaginée par
Varron pour Vénus Victrix, considérée par cet ami intime de Pompée comme
la « puissance de liaison » (uinctionis uis) entre toutes les parties contraires
du cosmos, comme le masculin et le féminin, l’âme et le corps, la terre et le
ciel etc.8 À Boscoreale, l’opposition entre Fortuna, d’une part, et le couple
Eros et Psyché, d’autre part, renvoyait probablement à une opposition de tradition platonicienne entre le destin terrestre de l’âme, soumise aux caprices
de la Fortune, et la possibilité d’échapper aux vicissitudes de l’incarnation si
l’âme, psyché, s’enflamme de désir, éros, pour les réalités célestes. Et les deux
parois latérales de la pièce développaient chacun de ces thèmes, par exemple,
à gauche, celui de Fortuna, par la représentation du philosophe Démétrios
de Phalère, suivi de l’illustration d’un passage très célèbre de son traité Sur la
Fortune, cité successivement par Polybe (Histoires XXIX 21) et par Diodore
(Bibliothèque historique XXXI 10), où il prenait l’exemple de la victoire ré6
Il s’agissait d’une série de XIV Nationes (allégories féminines symbolisant sans doute les nations
dont Pompée venait de triompher en 61) qu’un certain Coponius, au témoignage contemporain de Varron, rapporté par Pline (NH XXXVI 41), avait sculptées en marbre et que l’on disposa sur le pourtour
de l’enceinte.
7
Citée supra, p. 145.
8
En dernier lieu SAURON 2007, 73-87.
La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception
147
cente et inattendue de l’obscure Macédoine sur l’illustre Perse.
Mais je voudrais insister ici sur la peinture qui orne un grand salon de réception de la villa dite « de Poppée » à Torre Annunziata, l’antique Oplontis
mentionnée sur la carte de Peutinger. Cette vaste pièce apparaît sous le numéro 15 sur les plans publiés par Alfonso De Franciscis. Son côté occidental n’a
hélas pas pu être dégagé, ce qui nous prive sans doute de la connaissance d’un
document de première importance sur les questions qui nous occupent ici.
Le décor principal de la fresque montre une composition illusionniste qui
se répartit sur deux plans.
Au premier plan, on voit une façade animée de quatre colonnes corinthiennes
réparties deux par deux sur deux podiums qui encadrent une haute ouverture
au sommet cintré, curieusement divisée en deux parties égales par un entablement surmonté d’un fronton, qui couronne une porte dont les deux grilles sont
aux trois-quarts ouvertes. Dans l’encadrement de cette porte, on voit un dispositif doublement étrange, par sa position d’abord, qui paraît interdire le passage,
par sa nature ensuite, puisqu’il s’agit d’une belle torchère en bronze, dont la
pointe acérée n’est pas enfoncée dans le faisceau d’une torche et qui repose
contre un empilement de pierres plates en même temps qu’un crâne de bovidé9.
Les parties latérales de cette façade présentent trois niveaux superposés : au
niveau inférieur, un mur plein surmonté d’une corniche dorée, puis un premier
vide limité par une corniche rouge, puis un deuxième vide couronné par l’entablement que supporte l’ordonnance corinthienne du premier plan. Un certain
nombre de décors et d’accessoires sont disposés sur les trois niveaux de chacune
des parties latérales de la façade. Sur chacun des podiums, on voit disposé un
long rameau de laurier (fig. 2 f-f’), tandis que deux petits oiseaux sont visibles
chacun à l’extrémité d’un des deux podiums, de part et d’autre de l’ouverture
centrale, un blanc à gauche, un noir à droite (fig. 2 g-g’). Au niveau intermédiaire, un paon est représenté de chaque côté, perché sur la corniche dorée, en
avant d’un rideau noir abaissé qui dévoile la perspective sur les portiques placés
à l’arrière-plan (fig. 2 e-e’). Aux extrémités de la façade et à travers les deux
ouvertures superposées, on aperçoit à droite et à gauche une paroi perpendiculaire au front de scène et peu profonde. Ces deux parois latérales sont reliées
par un plafond et dotées de deux petites corniches, l’une placée au tiers, l’autre
aux deux tiers de leur hauteur. Les corniches situées sur la partie inférieure de
ces murs latéraux servent de support à un masque tragique (fig. 2 d-d’), celles
du niveau supérieur à un tableau dont les volets de protection sont largement
ouverts et qui représente un bord de mer peuplé de personnages, parmi lesquels
9
Les torchères luxueuses de ce genre étaient désignées par le mot lychnuchus, transposé du grec
(lucnou`co"). César en fit disposer de chaque côté du corps de quarante éléphants au cours de la montée
au Capitole au terme d’un de ses triomphes en 46 avant J.-C. (Suétone, Divin Jules 37,3).
148
Gilles Sauron
un pêcheur à la ligne figuré au premier plan du tableau de droite (fig. 2 c-c’).
À l’arrière-plan, on aperçoit à travers les nombreuses ouvertures de la façade un grand péristyle encadrant un parc. Sur l’axe longitudinal du parc,
une base circulaire supporte un haut trépied à l’éclat doré dont le bassin (la
cortina), qui apparaît sous l’arc disposé au centre du front de scène, est orné
de godrons sur la panse, tandis que son rebord est décoré de gemmes et surmonté de trois étoiles (fig. 2 b). Le péristyle présente une apparence des plus
étranges. Son ordonnance inférieure est dorique et sa couleur est une sorte de
rose orangé qui pourrait évoquer l’éclat d’un marbre blanc comme le pentélique, mais patiné par le temps. L’ordonnance supérieure ionique surprend,
surtout du fait que le ciel apparaît entre les colonnes que l’on aperçoit à l’arrière du trépied, mais aussi par la différence de couleur avec l’ordonnance du
bas (ici, il s’agit d’un gris bleuté), par le fait que la hauteur même de ces colonnes ioniques est disproportionnée pour une ordonnance supérieure, sans
parler du fait encore plus surprenant encore que cette ordonnance supérieure
paraît disposée en retrait par rapport à l’ordonnance inférieure, avant de se
retourner au fond de la composition. Pour se convaincre au premier coup
d’œil de l’extravagance de ce qui nous est montré ici, il suffit de comparer
ces colonnades superposées à celles d’un monument réel, comme le por-
Fig. 2 – Fresque du salon 15 de la villa « de Poppée » à Torre Annunziata (Oplontis) :
interprétation graphique (Albéric Olivier del.).
La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception
149
tique d’Attale sur l’agora d’Athènes tel qu’il a été fidèlement reconstitué par
les archéologues américains, où les colonnes de l’ordre supérieur sont d’un
module nettement inférieur à celles de l’ordre inférieur et sont évidemment
placées dans le prolongement de ces dernières. La difficulté de comprendre
cette représentation d’architecture a donné lieu à des restitutions fantaisistes
de ce qui nous est montré ici10. Or il convient d’interpréter cette dernière
ordonnance, qui apparaît presque évanescente à l’arrière du trépied, comme
le retour des deux ordonnances ioniques latérales, ainsi que le montre une
interprétation graphique de la fresque réalisée par Albéric Olivier (fig. 3).
Au lieu de chercher à rectifier ce qui nous est montré ici, on est contraint soit
Fig. 3 – Fresque du salon 15 de la villa « de Poppée » à Torre Annunziata (Oplontis) :
restitution graphique des architectures représentées (Albéric Olivier del.).
10
Donatella Mazzoleni vient de publier une restitution axonométrique des architectures ici représentées où les colonnes des deux ordres superposés sont disposées, comme il est normal dans une architecture réelle, dans le prolongement les unes des autres. Elle imagine de plus que les colonnades latérales
se prolongent au-delà de la colonnade ionique parallèle au plan du tableau, qu’elle suppose d’ailleurs
privée de liaison avec les deux colonnades ioniques latérales : MAZZOLENI - PAPPALARDO - ROMANO 2004,
136-137 (fig.) ; 406-408. De son côté, Wolfgang Ehrhardt assimile cette colonnade à « un portique isolé »,
terme mal choisi pour une ordonnance qui ne supporte aucun toit, tandis que, selon lui, les deux portiques latéraux finiraient sur les côtés de la composition, sans se retourner pour former un portique en
U : EHRHARDT 1991, 48.
150
Gilles Sauron
d’imaginer la colonnade ionique flottant au-dessus et en retrait de l’ordonnance du rez-de-chaussée, soit de supposer qu’elle est fondée par le mur de
fond du portique dorique, comme le suggère Albéric Olivier, et comme en
plus elle ne supporte aucun toit, force est d’admettre qu’elle contrevient dans
toutes les hypothèses aux finalités fonctionnelles qui sont la justification de
toute architecture.
Comment interpréter un tel décor ? La présence du trépied au centre de la
composition a miraculeusement réconcilié les commentateurs autour de l’idée
que nous serions en présence d’un sanctuaire d’Apollon, et certains ont mis ce
décor en rapport précis avec la dédicace par Auguste de bassins (cortinae) en
or, installés probablement sur des trépieds, au sanctuaire d’Apollon Palatin
vers 28 avant J.-C. (Res Gestae Diui Augusti 24,2 ; Suétone, Divin Auguste
57,1)11. Ceux qui ont vu dans cette fresque une allusion à l’initiative d’Auguste ont dû évidemment en abaisser l’exécution aux années 25 avant J.-C.,
faisant fi des connaissances pourtant bien établies sur l’évolution stylistique
du « deuxième style pompéien », qui placent la réalisation de ce décor au
plus tard une vingtaine d’années avant la dédicace du temple augustéen, qui
survint le 9 octobre 28 avant J.-C. Rolf A. Tybout a justement critiqué cette
incongruité chronologique12. Or, indépendamment de l’erreur de datation
qu’elle suppose, il est non moins grave qu’une telle interprétation se dispense
de produire la moindre confrontation avec d’éventuels modèles qui auraient
pu inspirer le peintre. Où a-t-on le témoignage d’un sanctuaire d’Apollon
constitué d’un trépied placé au centre d’un péristyle ? Sûrement pas dans
le sanctuaire d’Apollon Palatin (area Apollinis), en tout cas, et de plus cette
identification néglige tous les détails d’une composition qui devrait frapper le
regard le moins averti par son étrangeté.
Or si l’on considère l’ensemble de la composition, il apparaît clairement
que l’on a voulu ici évoquer un modèle architectural bien connu dans la Rome
de l’époque, une frons scaenae de théâtre en avant d’un parc entouré de portiques, ce que Vitruve appelle des porticus post scaenam (De l’architecture V
9,1 sq.). À la frons scaenae, notre façade du premier plan emprunte la caractéristique de n’être qu’une façade, un pur décor ne donnant accès à aucun
espace construit. La présence des deux masques tragiques pourrait être un
11
Affirmée indépendamment l’un de l’autre par Gilbert-Charles Picard (PICARD 1977, 247) et Erika
Simon (SIMON 1978, 217-218), cette identification a été reprise par Arnold et Mariette De Vos (DE VOS DE VOS 1982, 252), encore récemment par Lorenzo Fergola (FERGOLA 2004, 40) et développée par Paul
Zanker (ZANKER 1987, 265-266 et fig. 209). John R. Clarke a proposé d’identifier ici un sanctuaire de
Junon, hypothèse qu’il n’appuie que sur la présence des paons qui « habitent » la composition, sans tenir
compte de la fonction des architectures ici représentées (CLARKE 1991, 116). Rolf A. Tybout de son côté
prétend rattacher le décor du grand salon 15 au monde du luxe (luxuria) en général (TYBOUT 2001, 52).
12
TYBOUT 1989, 361 et n. 1309 ; TYBOUT 2001, 35.
La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception
151
argument supplémentaire, mais nous n’envisageons pas pour l’instant les éléments de décor étrangers à l’architecture. Quant au parc entouré de portiques
et disposé à l’arrière d’un front de scène, c’est exactement le dispositif que
présentait le complexe monumental dédié par Pompée au milieu du Champ
de Mars en 55 et 52 avant J.-C. (supra, fig. 1). Mais évidemment, cette peinture ne reproduit pas avec fidélité un modèle réel : le front de scène romain
comportait trois portes, les scénographies comblaient les vides de l’architecture, et surtout que viendraient y faire deux paons disposés symétriquement
en avant des rideaux noirs en partie baissés ? Pour le regard romain contemporain de la réalisation de cette fresque, une représentation qui ne reproduit
pas un type générique ou singulier de réalité appartient ipso facto au vaste
domaine de l’allégorie.
Ici, la citation du modèle de la frons scaenae a une valeur évidemment toute
symbolique. Or justement, la scène antique était devenue un symbole courant de la vie humaine13. Un élément du décor, situé exactement au centre
de la composition, dans l’encadrement de la porte qui s’ouvre au milieu de
la façade, et donc à une place privilégiée, apporte à cette interprétation une
confirmation décisive. Il s’agit de la torchère en bronze, qui devrait jouer le
rôle de symboliser la mort. Pour Virgile, les morts sont « ceux qui sont privés
de lumière » (Géorgiques IV 472 : luce carentum).
Sur le même axe, mais cette fois à l’arrière-plan, sur un fond de bleu céleste,
on observe le bassin étoilé qui repose sur un trépied. Or ce motif, bizarrement
privé de ses étoiles sur le dessin exécuté par W. Aulmann sur les instructions
de W. Ehrhardt14, ne trouve de confrontation pertinente qu’avec une image
13
La célèbre formule « la vie est un théâtre » (skhnh; oJ bivo") apparaît sur un gobelet en argent du
trésor de Boscoreale (HÉRON DE VILLEFOSSE 1899) et se retrouve presque identique sous la plume d’un
poète de l’Anthologie palatine (X 72,1: « Toute la vie est un théâtre », skhnh; pa`" oJ bivo"), et sous celle
de Clément d’Alexandrie (Protreptique II 12,1 : « …comme sur la scène de la vie », …oi|on ejpi; skhnh`"
tou` bivou). Diomède, un grammairien latin du IVe siècle, mentionnait la définition du mime par les
Grecs comme « une imitation de la vie » (Grammatici latini III 491 Keil : mi`mo" ejstin mivmhsi" bivou).
Bion, cité par Télès (deuxième diatribe, Sur la nécessité de se suffire à soi-même [peri; aujtarkeiva"], p.
5 sq. Hense), assimilait la Fortune à une faiseuse de pièces. Dans un de ses dialogues, Cicéron fait de
la vieillesse « pour ainsi dire, le dernier acte de la vie, comme d’une pièce de théâtre » (Cicéron, De la
vieillesse 85 : aetatis est peractio tanquam fabulae) et parle même un peu auparavant de la « pièce de la
vie » (64 : « ceux qui ont usé avec panache des avantages de l’autorité, ont achevé, à mon avis, la pièce
de leur vie, sans s’effondrer au dernier acte comme les acteurs sans expérience », quibus [scil. auctoritatis
praemiis] qui splendide usi sunt, ei mihi uidentur fabulam aetatis peregisse nec, tanquam inexercitati histriones, in extremo actu corruisse). Il y a aussi le fait qu’Auguste aurait cité un comique grec sur son lit de
mort: « Si la pièce vous a plu, donnez-lui vos applaudissements, et tous ensemble, manifestez votre joie »
(Suétone, Divin Auguste 99,2), après avoir déclaré: « J’ai bien joué le mime de la vie (ecquid iis uideretur
mimum uitae commode transegisse) » (ibidem 99,1; cf. Dion Cassius LVI 30,4).
14
EHRHARDT 1991, 47, fig. 7. C’est privé de cette information essentielle que les lecteurs de l’article
d’Antike Kunst, où le dessin a été publié, ainsi que du second supplément à l’Enciclopedia dell’arte antica
(DE FRANCISCIS 1996, 78, fig. 109) et de l’ouvrage récent sur les Fresques des villas romaines où il a été
152
Gilles Sauron
monétaire qui apparaît sur les deniers émis en 65 avant J.-C. par L. Manlius
Torquatus. Au droit on voit la tête de la Sibylle vue de profil, avec l’inscription
SIBYLLA ou SIBVLLA, et au revers, à l’intérieur d’un encadrement formé par
un torque qui était le blason des Manlii Torquati, un trépied surmonté par
deux étoiles encadrant une amphore15. Le trépied est sans doute un symbole
bien connu de la prêtrise du monétaire, qui était quindecimuir sacris faciundis16.
Mais la présence des deux étoiles encadrant une amphore est unique. Andreas
Alföldi a reconnu dans les deux étoiles un symbole des Dioscures, notamment
dans l’iconographie spartiate17, et les deux étoiles font évidemment allusion à
l’identification traditionnelle des Dioscures avec la constellation zodiacale des
Gémeaux. Fernand Chapouthier a, de son côté, reconnu dans l’amphore un
symbole du commerce maritime et de l’abondance garantis par les Dioscures
/ Gémeaux, puisque cette constellation était, comme on le sait, très utile aux
navigateurs de cette période18. Sur la fresque, ce n’est pas une amphore qui
s’interpose entre les Gémeaux, mais une étoile, disposée sur l’axe de symétrie
de l’ensemble du décor, ce qui la met en relation évidente avec la torchère sans
torche du premier plan. Si l’on se rappelle la signification vraisemblable de
cette torchère privée de lumière qui devrait symboliser la mort d’une personne
précise, il faut sans doute conclure que l’étoile disposée entre les Gémeaux est
une allusion à l’apothéose astrale de l’âme de ce défunt dans la constellation
des Gémeaux. On songe à Ovide, se plaignant de l’absence à Sulmone de la
femme qu’il aime, et qui s’écrie dans son recueil élégiaque des Amours : « Non
vraiment, même si l’on me plaçait entre Castor et Pollux, sans toi je ne voudrais
pas habiter le ciel » (II 16,13-14 : non ego, si medius Polluce et Castore ponar, /
in caeli sine te parte fuisse uelim)19. Point n’est besoin de revenir ici sur les origines et l’histoire de cette croyance dans la translation astrale des âmes pures et
valeureuses. Nous sommes ici à l’époque où Cicéron possédait une propriété à
Pompéi à partir de 60 avant J.-C. et jusqu’à sa mort20, en sorte que le Romain
reproduit (MAZZOLENI - PAPPALARDO - ROMANO 2004, fig. p. 406), sont invités à prendre connaissance de
notre fresque ! Et cet oubli est d’autant plus choquant que le bassin étoilé qui surmonte le trépied est
mis en valeur, sur l’axe central de la composition, par le fait qu’il apparaît au milieu d’une sorte de cercle,
formé pour une moitié par l’arc qui couronne la porte de la façade, et pour l’autre par la courbure du
rideau noir abaissé qui libère la perspective sur lui.
15
CRAWFORD 1974, 439 et pl. L (n. 411). On retrouve une image semblable d’un trépied dont le
bassin est surmonté de deux étoiles encadrant une amphore sur trois bases néo-attiques d’époque augustéenne : GOETTE 1984, 573-589.
16
GAGÉ 1955, 463.
17
ALFÖLDI 1975, 184-185, et pl. 28 (3-8 et 12), pl. 29 (1-8 et 10-12) pour les monnaies de Manlius
Torquatus, et pl. 28 (9-11) pour les monnaies spartiates.
18
CHAPOUTHIER 1935, 4 ; 150 n. 1 ; 315-316.
19
Éd. et tr. H. BORNECQUE, Paris 1930, 63.
20
CARCOPINO 1957, 83-92 ; D’ARMS 1970, 39-72 ; 198.
La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception
153
qui a fait peindre cette fresque était à la fois le contemporain et le voisin de
l’auteur des Tusculanes et du Songe de Scipion.
Il convient de se demander maintenant ce que symbolise la colonnade supérieure du portique de l’arrière-plan, celle qui encadre le bassin aux trois
étoiles et qui laisse apercevoir le ciel entre ses colonnes. Ce portique privé de
toit, qui est un des leitmotive des décors de deuxième style alors que ce thème
architectural était rarissime dans les constructions réelles dans le monde méditerranéen de l’époque, fait songer à l’Olympe décrit par Homère comme
« la demeure toujours stable des dieux. Ni les vents ne l’ébranlent, ni la pluie
ne la mouille, ni la neige n’y tombe, mais toujours s’y déploie une sérénité
sans nuage et partout y règne une éclatante blancheur » (Odyssée VI 42-45),
en une évocation fameuse qui sera imitée par Lucrèce pour décrire les résidences tranquilles des dieux selon Épicure (De la nature III 18-22). Je songe
aussi à un curieux passage de son dialogue De l’orateur (III 180), où Cicéron
imagine « que le temple de Jupiter Capitolin se trouve au ciel, bien au-dessus
des nuages et des intempéries » (…ut etiam si in caelo Capitolium statueretur,
ubi imber esse non potest…), et prétend que, même dans cette hypothèse, il
devrait conserver son toit « parce que, sans lui, le monument semblerait avoir
perdu sa dignité » (…nullam sine fastigio dignitatem habiturum fuisse uideatur). Mais sur notre fresque, la colonnade sans toit a évidemment une valeur
allégorique et devrait délimiter un de ces « temples bleus du ciel » dont parlait
Ennius dans ses Annales (fr. 48 ; 54-55 Skutsch).
Il convient de plus de se rappeler que cette composition picturale qui dispose
l’évocation d’un front de scène en avant d’un portique encadrant un parc est une
allusion certainement concertée au complexe monumental du Champ de Mars,
que Pompée avait dédié quelques années avant la réalisation de cette fresque.
Or cette allusion ne s’applique pas qu’à l’apparence des aménagements romains
de Pompée. Nous avons vu que le parc (ambulatio Pompeiana) entouré des portiques (porticus Pompeiana) était assimilé aux Champs Élysées par la présence de
statues d’héroïnes regroupées par catégories de destins terrestres, face à la statue
de Pompée le Grand qui les « regardait » du fond de la curie (curia Pompeia),
dans une évocation traditionnelle de la visite du héros vivant aux Enfers (supra,
fig. 1). Comment interpréter dès lors la composition de cette évidente transposition picturale du portique pompéien ? On observe que l’image est divisée verticalement en deux niveaux superposés : au niveau inférieur, nous reconnaissons bien
les portiques entourant un parc à l’arrière d’un front de scène, mais au-dessus,
le portique que l’on voit n’est sûrement pas l’évocation d’un portique en étage
représenté d’une façon réaliste, mais une évocation allégorique des Champs Elysées célestes du mysticisme astral, ce qui explique que, à ce niveau, apparaisse au
centre le bassin du trépied avec ses trois étoiles se détachant sur l’azur du ciel,
symbolisant l’âme du défunt à l’intérieur de la constellation des Gémeaux.
154
Gilles Sauron
J’en conclus que celui qui a imaginé ce décor voulait explicitement se référer à l’architecture du complexe pompéien du Champ de Mars, en connaissait
la signification symbolique, et a voulu superposer aux Champs Elysées homériques qu’il évoquait les Champs Elysées célestes où il croyait devoir situer
l’âme du grand personnage défunt qu’il commémorait.
Mais de quel grand personnage s’agit-il ? Je ne fais que résumer ici une
enquête qui a duré une dizaine d’années. On se rappelle que le front de scène
symbolisait probablement la vie du défunt, je veux dire sa vie « terrestre », au
sens où l’entendait le mysticisme de tradition pythagoricienne et platonicienne
auquel se rattachaient, dans la Rome de cette époque, ceux qui croyaient en
une destinée possible de l’âme au ciel. On peut alors supposer que les décors
accessoires que nous avons vus accrochés au pseudo front de scène symboliseraient certains aspects de la vie du personnage qui a été jugé digne d’une
apothéose astrale dans les Gémeaux. Une telle composition ne s’inscrit certes
pas à l’intérieur de la tradition iconographique de la peinture grecque, mais
se réfère au procédé mnémotechnique bien connu des orateurs antiques sous
le nom d’ars memoriae. Il s’agissait, selon la terminologie utilisée par Cicéron (De l’orateur II 351-354) et l’auteur anonyme de la Rhétorique à Herennius (III 16-24), de disposer mentalement des « représentations » (imagines)
à l’intérieur d’un lieu (locus). L’identité du personnage ici commémoré m’a
paru se déduire des différentes imagines que l’on voit disposées sur le front
de scène, un locus, qui passait depuis longtemps pour un symbole de la vie
humaine. Les deux petits tableaux représentant des bords de mer tranquilles,
et dont l’un figure un pêcheur à la ligne, se situent au même niveau, mais
non sur le même plan que les trois étoiles représentant l’apothéose astrale du
défunt dans la constellation des Gémeaux. À la même époque, P. Nigidius
Figulus écrivait dans sa Sphère grecque (Sphaera Graecanica) que les Dioscures
« ont reçu l’honneur de la constellation des Gémeaux parce qu’ils ont été les
premiers à pacifier la mer des méfaits des pirates » (Nigidius Figulus, fr. 91
Swoboda = Sphaera Graecanica, fr. 9 Liuzzi : Castorem et Pollucem Tyndaridas Geminorum honore decoratos, quod ii principes dicantur mare tutum <a>
praedonibus maleficiisque pacatum reddidisse). J’ai supposé que le personnage
commémoré par cette fresque avait mérité aux yeux de sa famille de rejoindre
les Gémeaux parce que, tout comme les Dioscures, il avait dû contribuer
à la pacification des mers et des côtes, pacification symbolisée par les deux
petits tableaux figurant des bords de mer paisibles21. On peut supposer alors
21
Il convient de rapprocher la formulation de Nigidius Figulus de celle qui concernait la victoire
piratique dans la déclaration officielle (praefatio) du triomphe de Pompée en 61 avant J.-C. (d’après
Pline, NH VII 98 : « Comme il avait libéré le rivage maritime des pirates et restitué l’empire de la mer
au peuple Romain… », cum oram maritimam praedonibus liberasset et imperium maris populo Romano
restituisset…). On peut noter de plus dans ce dernier texte l’insistance sur la libération du « rivage ma-
La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception
155
que le personnage honoré par cette fresque était considéré par ses héritiers
digne de rejoindre les Dioscures dans la constellation des Gémeaux, lui qui
avait, à leur imitation, contribué à chasser les pirates des côtes et des mers. La
croyance dont il est question ici ne considérait pas la survie du défunt comme
une simple récompense des hauts faits accomplis au cours de sa vie terrestre,
telle que l’exprimait Cicéron dans le Songe par la bouche de Scipion l’Africain
(Cicéron, De la république VI 13). Au contraire, la conception de l’immortalité bienheureuse qui se manifeste sur notre fresque fait de cette seconde vie,
éternelle celle-là, l’occasion de poursuivre l’action bienfaisante amorcée icibas. Nul n’a exprimé plus nettement cette doctrine que Virgile à propos d’Auguste, en envisageant pour le prince diverses possibilités de destin posthume
(Géorgiques I 24-35). Il demande d’abord à ce dernier s’il espère devenir un
dieu protecteur de la terre ou de la mer, puis, à une époque où on se souvenait
que le Scorpion avait longtemps été étiré sur l’emplacement de deux constellations zodiacales22, si Auguste ne deviendra pas la constellation de la Balance,
entre la Vierge (Érigone) et le Scorpion, à la place des Pinces de ce dernier.
Mon enquête s’est donc orientée vers un des treize légats (legati pro praetore)
qui ont secondé Pompée pour sa « guerre piratique » (bellum piraticum) de 67
avant J.-C., et dont Florus (I 41 sq.) et surtout Appien (Mithridatica 95) nous
ont conservé la liste avec l’indication de leur zone de commandement.
Le seul personnage qui m’a paru répondre à tous les critères qui se déduisent de l’analyse de la fresque (participation au bellum piraticum, fidélité à
Pompée, descendance susceptible de lui offrir l’hommage de cette commémoration, croyance affichée dans le spiritualisme de tradition pythagoricoplatonicienne) est M. Pupius Piso Frugi Calpurnianus, le consul de 61 avant
J.-C.23. Légat en Bithynie et en Thrace, chargé d’une flotte dans l’Hellespont
et la Propontide au cours de la guerre contre les pirates24, il était d’une éducaritime » (ora maritima), que nos deux petits tableaux, notamment celui qui représente un pêcheur à la
ligne, illustrent précisément. Une inscription romaine concernant les victoires de Pompée, notamment
celle sur les pirates, transcrite en grec par Diodore (Bibliotheca historica XL 4), précisait que l’imperator
avait délivré des pirates « le littoral de la terre habitée » (th;n paravlion th`" oijkoumevnh") et « toutes les
îles en deçà de l’Océan » (pavsa" ta;" ejnto;" jWkeanou` nhvsou").
22
LE BŒUFFLE 1977, 169-173.
23
GUNDEL 1959, 1987-1993 ; HOFMANN-LÖBL 1996, 130-143.
24
Au témoignage formel d’Appien (Mithridatica 95 : « Publius [correction de Borghesi : Pupius]
Pison était chargé de la Bithynie, de la Thrace, de la Propontide et du détroit commandant le Pont »,
Biqunivan de; kai; Qravkhn kai; th;n Propontivda kai; tou` Povntou stovma Pouvplio" [emendauit Borghesi, Opera, VI, 401 : Pouvpio"] Peivswn), curieusement contredit par Florus, qui affecte Caton le Jeune à ce
secteur de la Méditerranée (I 41,10 : « Porcius Caton ferma comme une porte le détroit de la Propontide
en le bouclant avec ses navires », ipsas Propontidis fauces Porcius Cato sic obditis nauibus quasi porta[m]
obserauit), mais confirmé par une inscription de Samos qui le désigne comme « patron et évergète »
de l’île (IGRRP IV 1709 : oJ dh`mo" … / Mavrkon Pivswna … / presbeuth;n [kai; ajntistrathgo;n] to;n
pavtrwna k[ai; eujergevthn) et par la poursuite de ses fonctions de légat de Pompée en Orient jusqu’en
156
Gilles Sauron
tion extrêmement soignée, qui conduisit le père de Cicéron à lui confier son
fils pour une sorte de « monitorat »25, parce que, nous signale Asconius, « il
imitait la vie des Anciens et possédait une grande culture » (in Pisonianam 62,
p. 15 Clark : quod in eo et antiquae uitae similitudo et multae erant litterae). Sa
profonde culture grecque a été saluée d’ailleurs par Cicéron (Brutus 236), et
nous savons qu’il put la développer chez lui grâce aux leçons du philosophe
péripatéticien Staséas de Naples et l’enrichir à Athènes auprès d’Antiochos
d’Ascalon (Cicéron, De la fin des biens et des maux V 8 ; 75), au point de
se voir confier par l’auteur du dialogue De la fin des biens et des maux (le
De finibus bonorum et malorum) la défense et illustration de la conception
péripatéticienne du souverain bien tout au long du Ve livre de l’ouvrage. M.
Pupius Piso eut un fils, sur lequel on possède de rares renseignements26. Cicéron nous apprend dans une phrase de sa IIIe Philippique qu’il était son ami
intime tout en partageant l’amitié de Marc Antoine, qu’il était préteur en 44,
et que, lorsque Marc Antoine procéda, après la mort de César, en tant que
consul, au tirage au sort des provinces prétoriennes, il déclara s’en remettre
à la décision du Sénat (Cicéron, Phil. III 25). J’ai donc supposé que c’est ce
M. Pupius Piso, le préteur de 44 et le fils du consul de 61, qui fit construire
et décorer la villa de Torre Annunziata vers 45 avant J.-C., et qui conçut et fit
exécuter la fresque en hommage à son père. Les rameaux de laurier qui font
partie des imagines symbolisant la vie du défunt devraient dès lors faire allusion au triomphe espagnol obtenu en 69 par M. Pupius Piso à la suite de son
gouvernement de l’Hispania Ulterior (Cicéron, Contre Pison 62 ; Asconius, in
Pisonianam 62, p. 15 Clark). Son fils aurait ainsi fait représenter le laurier du
triomphe sur cette fresque, comme il avait déjà fait représenter une couronne
de laurier entourant la représentation d’un glaive et d’un bouclier espagnols27
sur les monnaies émises par lui en 61 en hommage à son père consul cette
année-là. Quant aux deux paons qui ornent le front de scène fictif de cette
extraordinaire composition picturale et qui en sont évidemment un des ornements les plus singuliers (fig. 2 e-e’), ils devraient faire allusion à l’élevage
de paons que M. Pupius Piso possédait dans l’île de Planasia (Varron, Res
rusticae III 6,2 : Transmarini esse dicuntur in insulis, Sami in luco Iunonis,
item in Planasia insula M. Pisonis). Faut-il rapprocher les masques tragiques
qui ornent le front de scène du fait que nous connaissons un Pupius auteur
62, marquée en particulier par sa participation à la prise de Jérusalem en 63 (Flavius Josèphe, Ant. XIV
59 ; Guerre I 143).
25
GRIMAL 1966, 183.
26
SYME 1960, 15 ; BROUGHTON 1986, 177 ; HOFMANN-LÖBL 1996, 140 sq.
27
CRAWFORD 1974, 442-443 et pl. LI (n. 418). L’identification ici d’armes espagnoles est due à A.
Alföldi (ALFÖLDI 1951, 198-200 ; ALFÖLDI 1975, 186). Elle me paraît plus pertinente que l’évocation des
emblèmes du pontife et l’hypothétique allusion à la prêtrise d’un ancêtre que retient Crawford (p. 443).
La propagande de Pompée : conception, diffusion et réception
157
de tragédies grâce à un hémistiche d’Horace, qui parle de ses « compositions
poétiques larmoyantes » (Horace, Epîtres I 1,67 : lacrimosa poemata Pupi) et
au commentaire du scholiaste qui désigne ce Pupius comme un « auteur de
tragédies » (tragoediographus)28 ? Mais rien dans nos sources ne vient confirmer cette hypothèse, et les masques de notre fresque pourraient aussi bien
s’interpréter comme des symboles du « rôle » que joue tout homme dans son
existence, pour reprendre une image popularisée dans tout le monde hellénisé par les Cyniques.
Les rideaux noirs baissés qui dévoilent en plusieurs endroits l’arrière-plan
de la composition et qui sont un des leitmotive de ce genre de décor de deuxième style, ne sont évidemment pas là de simples accessoires, mais introduisent le thème symbolique du « dévoilement ». Ces rideaux noirs baissés
signalent que l’arrière-plan de la composition donne une image analogique
de réalités qui se dérobent au regard des hommes, ils qualifient cette fresque
comme une allégorie picturale29.
Je voulais, par cette brève intervention, tenter de faire ressortir la complexité de ce qu’on appelle commodément la propagande des imperatores de
la fin de la République romaine. Il s’agissait pour ces derniers de rallier à
leur personne, non seulement leurs soldats, mais aussi de larges secteurs de
l’opinion romaine, italienne et même mondiale. Il leur fallait élaborer avec le
premier cercle de leurs conseillers des discours multiples, aptes à convaincre
les esprits les plus divers. Et, on vient de le voir avec la villa d’Oplontis, la
présence d’un Varron auprès d’un Pompée pour la conception de l’ensemble
monumental du Champ de Mars ouvrait la voie à une intériorisation de ces
discours par les esprits les plus cultivés de leur temps.
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BERNARD, P. 1985, Les rhytons de Nisa. I. Poétesses grecques, “JS”, 25-118.
28
SCHANZ - HOSIUS 1935, 292. Mais évidemment, le scholiaste a pu tout aussi bien déduire la qualité
de ce Pupius de la formule horatienne.
29
J’ajoute que les deux petits oiseaux dont j’ai signalé la présence à l’extrémité des deux podiums
qui supportent l’ordonnance corinthienne de la façade (fig. 2 g-g’), font partie des leitmotive de ce genre
de composition de « deuxième style » et pourraient symboliser l’âme des propriétaires vivants de la villa
au moment où ces fresques ont été peintes.
158
Gilles Sauron
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FANTASTICAL REALISM IN CICERO’S POSTWAR PANEGYRIC
JOY CONNOLLY
1. Seeing the unseen
In her post-war novel The Mandarins, Simone de Beauvoir explores the
moral and psychological dilemmas of intellectuals who, despite their good
intentions, frequently act in bad faith to their friends, their political allies,
and themselves. The two characters she fleshes out most fully, writer Henri
Perron and psychiatrist Anne Dubreuil, confront what is for de Beauvoir the
key point about human action: that one acts always in conditions that are not
and cannot be fully known, so actions resemble wagers or leaps in the dark –
but one is responsible for them nonetheless. The novel returns repeatedly to
action’s unforeseen consequences, especially unexpected or unwanted obligations of love, family, and friendship.
Alongside these familiar existentialist concerns, The Mandarins brilliantly
illuminates how the choices of its characters, which they discuss with one
another almost exclusively in political terms, are shaped by other powerful
forces they tend to overlook, ignore, or dismiss as “private” concerns. Most
significantly, Henri and his friends repeatedly long for (but in postwar Paris
only occasionally secure) good food and wine, fashionable clothes, reliable
transportation, and other comforts; they pursue painful, sometimes deeply
damaging love affairs. Though they almost always brush off their deprivations and erotic distractions with self-deprecating humor, the frequency of
scenes of frustrated desire and its effects on the plot make it clear that the
characters’ most pressing political dilemma – the choice of whether to throw
support behind a French alliance with the United States or with the USSR – is
intimately bound up with their personal tastes and frustrations. As we follow
Anne’s passionate doomed affair with an American and Henri’s abandonment
of his bohemian lover for a much younger woman with whom he has a child,
de Beauvoir suggests that the notional line between political sensibility and
personal desire is not easily maintained, and that the way Henri and Anne actually see the political landscape is not so much in tension with their personal
concerns as it is a product of them.
162
Joy Connolly
The Mandarins ultimately rewrites its characters’ choice between communism and capitalism into a richer and ethically challenging narrative about the
field of action under the conditions of modernity, where radically expanded
access to goods and services create new modes of empowered, individual selfhood whose realization depends heavily on consumption. Henri and Anne
neither explicitly acknowledge this development, nor do they take it seriously
as a major force in their political vision and life choices. But the novel’s foregrounding of desire and consumption subtly suggests that the source of their
struggles lies precisely here: not in a choice between conflicting pure ideologies, but in an unresolved, unexamined, vain hope to reconcile old belief
systems with the bourgeois, consumerist, individualist worldview that has engulfed them. By showing how her characters fail to see the true challenges of
modern politics, de Beauvoir prompts us to examine more closely the ways we
understand the crises through which we live, to see how certain values, habits,
and purposes we unseeingly adhere to may incubate the drive toward political
or social conflict, and to identify what values, habits, and purposes may assist
in creating a secure future.
In this essay, engaged with a drastically different political context, I argue
that Cicero’s pro Marcello raises similar questions. Cicero’s orations entered
the Western curriculum in the earliest stages of modernity because they were
considered to be a vital part of civic education. They do not simply transmit
ideologies, values, and dispositions; they open up space for critical reflection
on moral dilemmas and uncomfortable spaces of politics, especially compromise and deceit and other tensions that inject political life with tragedy1.
The proto-panegyric pro Marcello probes the delicate transition between
resistance and submission to Caesar. It memorializes the death and suffering
of recent civil war and establishes the limits on action in the political conditions of the postwar present, creating a space of shared pain and complicity.
Within this space, the speech diagnoses its senatorial audience’s complicity in
the war, and sketches new values and habits of self-regard that will help them
emerge from long silence (diuturni silenti, 1) and preserve themselves and
their community (32-33).
1
On the early modern investment in reading a morally complex Cicero, see V. COX, Ciceronian
Rhetoric in Italy, 1250-1360, “Rhetorica” 17 (1999), 239-288; Ciceronian Rhetorical Theory in the Volgare: a Fourteenth-century Text and its Fifteenth-century Readers, in C.J. MEWS - C.J. NEDERMAN - R.M.
THOMPSON (edd.), Rhetoric and Renewal in the Latin West: Essays in Honour of John O. Ward, Turnhout
2003, 201-202; also J. RICHARDS, Assumed Simplicity and the Critique of Nobility: or, how Castiglione read
Cicero, “Renaissance Quarterly” 54 (2001), 460-486.
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
163
2. The discomfort of praise
In recent years many scholars of poetry have demonstrated a sensitive
grasp of the dynamic oscillation between terms like “reconciliation” and “resistance” that colors much Roman writing from the civil war and the JulioClaudian period. For them, the old bipolar approach appears largely dead2.
But this sensitivity is less frequently found in scholarly discussions of prose,
including what some consider the first significant Roman experiment in the
genre of panegyric, Cicero’s three Caesarian orations of 46 and 45 BC, the pro
Marcello, the pro Ligario, and the pro rege Deiotaro3. Panegyric is an uncomfortable genre, and contemporary scholarship on these speeches continues to
avoid approaches that allow for deep and unresolved ambiguities in favor of
comparatively straightforward questions about Cicero’s intentions and credibility. In 1802, Friedrich August Wolf set the tone for modern criticism when
he found the flattery in the pro Marcello so insupportable that he published an
edition denying its authenticity. As the author of the Notes in the 1813 Classical Journal anxiously reports:
Markland had already suspected some of the orations to be apocryphal, but the
learned began to murmur when M. Wolf, with more hardihood, attacked the celebrated oration pro Marcello, on which the admirers of Cicero found his strongest
claims to immortality. It was in 1802, that M. Wolf printed, at Berlin, this oration,
with a preface, in which he boldly stated his reasons for doubting its authenticity. M.
Olaus Wormius, the Danish Professor of Eloquence and Ancient Literature, at Copenhagen, first undertook to answer M. Wolf ... M. Kalau, of Frankfort, next entered
the lists in 1804. The Literary Journals at first gave an account of the controversy with
reserve, and a kind of fear. At length, in 1805, an adversary worth of Wolf appeared:
M. Weiske published his ‘Commentarius perpetuus et plenus in Orationem Ciceronis
pro Marcello.’ In his preface, M. Weiske indulges in some pleasing raillery against the
world of his adversary, and endeavours to demonstrate, in a happy strain of irony, that
the world of M. Wolf, on this very oration of Cicero, could not be written by him, but
by one who had assumed his name. In a graver tone, however, he proceeds to show,
that we might on the same grounds dispute the authenticity of the oration pro Ligario,
which M. Wolf himself admits, is genuine beyond all question.
Defending the speech against Wolf, Michael Winterbottom interprets it as
a frank gratiarum actio for Caesar’s clemency. Giovanni Cipriani reads it as a
2
D. KENNEDY, ‘Augustan’ and ‘anti-Augustan’: Reflections on Terms of Reference, in A. POWELL
(ed.), Roman Poetry and Propaganda in the Age of Augustus, London 1992; M. LOWRIE, Writing, Performance, and Authority in Augustan Rome, Oxford 2009, esp. 342-348.
3
On the place of the Caesarian orations in the history of Latin panegyric, see S. BRAUND, Praise
and Protreptic in Early Imperial Panegyric, in M. WHITBY (ed.), The Propaganda of Power: The Role of
Panegyric in Late Antiquity, Leiden 1998, 53-76.
164
Joy Connolly
didactic suasoria intended to encourage Caesar to exercise his power honorably: this is panegyric as Erasmus would define it, as the “mirror of princes.”
Taking the opposite tack, Paola Gagliardi ingeniously argues that it is a veiled
exhortation to tyrannicide, with R.R. Dyer going so far as to suggest that it
celebrates, and was even composed after, the Ides of March4.
What are the costs of interpreting the speech in these binary terms? In an
essay composed for the 2009 Friuli convegno Cesare: precursore o visionario?
William Batstone probed the temporal and intepretative significance of labelling Julius Caesar with either title. Call Caesar a “visionary,” Batstone pointed
out, and one ascribes to the Roman dictator an uncanny awareness of history before the fact. Call him a “precursor” and a more troubling suggestion
emerges that Caesar is one of a chain of figures locked in place by immutable
and ineluctable forces of history. For Batstone, neither approach holds much
historical or humanistic interest: not only do they “always lie outside the evidence to the extent that they require access to Caesar’s desires, intentions,
and self-knowledge” but worse, as de Beauvoir would also claim, they take
for granted a coherence and predictability in human psychology and relationships that we would do well to suspect.
For the same reasons that Batstone questions the utility of evaluating Caesar’s
intentions, I want to close the door definitively on the reductive habit of reading
a text like the pro Marcello as either authentic or sincere. Like de Beauvoir’s Parisian mandarins, who cannot know and are unable to control the consequences
of their actions, including their speech and writing and others’ interpretations
of their words, Cicero could exert only limited power over his utterances and
their effects. Better, I think, to reflect on how and why the speech has presented
such a hermeneutic puzzle – why, that is, the speech appears to keep both options decisively open: praise and blame, celebration and critique.
To this end, I will pursue two separate but related readings of the pro Marcello. First, I will show that the text should be understood as an exercise in
political fantasy. I frame my reading with that term because scholars of politics
are often reluctant to consider the role that fantasy plays in politics; but drawing on work by Jacqueline Rose, Slavoj Zizek, and others, we can understand it
as the structure in which we project our desired relations with others5. We see
that, far from being strictly opposed to our public, political, social, “real” exis4
M. WINTERBOTTOM, Believing the pro Marcello, in C. DAMON et al. (edd.), Vertis in usum, Chapel
Hill 2002; G. CIPRIANI, La Pro Marcello e il suo significato come orazione politica, “A&R” 22 (1977),
113-125; R.R. DYER, Rhetoric and intention in Cicero’s pro Marcello, “JRS” 80 (1990); P. GAGLIARDI, Il
dissenso e l’ironia: per una rilettura delle orazioni ‘cesariane’ di Cicerone, Napoli 1997.
5
See, for example, J. ROSE, States of Fantasy, Oxford 1996; D.E. PEASE, States of fantasy: Barack
Obama versus the Tea Party movement, “Boundary” 2 (2010), 37.2; S. ZIZEK, Living in the End Times,
London 2010.
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
165
tence, fantasy plays a central role in the real world, or to put it more precisely,
in making the world comprehensible to its inhabitants. We shall see that the
entwined fantasies of revenge, obedience, and future security that Cicero articulates in the pro Marcello do not offer an escape from reality. Woven together
and expressed in terms that underscore the language of perception, especially
seeing and hearing – and here we may recall Cicero’s first sentence dwelt on his
rising to speak after a long period of silence – these fantasies compel their audience to acknowledge real traumas of civil war and defeat, and incorporate past
trauma into a vision of future Caesarian peace. Ironically, historically speaking,
this vision will never come true: new civil wars are just around the corner. But
locked in its particular time, Cicero’s speech imagines both the victor and the
vanquished, the triumphant and the guilty, to have a share in the world to come.
Second, I will argue that the pro Marcello confronts head-on the challenge
of Caesar’s victory and the question of what the Pompeians will do in response
by acknowledging the responsibility of both senatorial factions in the recent
civil strife. His exhortation to his fellow senators to join him in praise of Caesar reminds them of their role in the Pompeian cause and in its failure. This
acknowledgment is not passive and it does not look exclusively backward in
time. It calls for action and orientation toward the future, for Cicero suggests
that efforts to preserve the sovereignty of action as it ostensibly existed under
the old republican order can end only in that order’s utter destruction.
Recent work in political theory over the past half century has borrowed
the term “sovereign” from the statist frame and transferred it to the realm of
the self. Drawing on this work, we may say that, by sharp contrast with his
later Philippics, Cicero does not play at being sovereign in the pro Marcello6.
Instead, most prominently by repeatedly returning to the trope of panegyric
incapacity (“I cannot praise Caesar as he deserves”), Cicero pursues an uncomfortable experiment in articulating his acknowledgment of the new limits
on sovereignty. He replaces traditional claims of self-determination and freedom (in Roman terms, the cluster of characteristics and capabilities captured
in the terms dignitas, auctoritas, and libertas) with a self-consciously ironic
embrace of unpredictability – the literal unpredictability of what Caesar will
do next, and the open-ended unpredictability of the type of action Cicero
proposes to pursue in the new conditions of Caesarian domination, that is,
the action of speech rather than the contest of arms, whose tragically finite
outcomes his audience knows all too well.
6
Relevant work on sovereignty and its limits: H. ARENDT, The Human Condition, Chicago 1958,
esp. 234; I. BERLIN, Two concepts of liberty, in Four Essays on Liberty, Oxford 1969; M. ORLIE, Living
Ethically, Acting Politically, Cornell 1997, esp. 143-168; I borrow the phrase “play at being sovereign”
from P. MARKELL, Bound By Recognition, Princeton 2003, esp. 34-38; 183-189; M. FOUCAULT, The Government of Self and Others, New York 2010, esp. 61-73.
166
Joy Connolly
3. Hyperbole, pain, and unexpected resemblances
With its title, the pro Marcello suggests that it is pressing the case for Marcellus’ return from exile, but in fact this is not the case. Caesar has already
guaranteed the safety of the Pompeian partisan, who was living in self-imposed exile on the island of Lesbos, so Cicero is praising and thanking Caesar
for a deal already done. He opens by giving an account of himself, explaining
his choice to speak after a long silence (diuturni silenti) not because of fear
(timore) but rather pain and shame (dolore, verecundia) – an important theme,
as his audience will soon realize. The second sentence introduces a frequent
tactic throughout the speech: using hyperbole as a response to the challenge
of expressing that which is impossible to express. Cicero praises Caesar’s
“unusual, unheard-of clemency” (tam inusitatam inauditam clementiam), his
“incredible wisdom, practically divine” (tam incredibilem sapientiam paene
divinam), which is so overwhelming that Cicero does not have the capacity
to ignore it (praeterire nullo modo possum) – though he will soon add, and
repeat, that he cannot describe it either (4, 9, 12).
Let us consider this programmatic paradox seriously for a few moments.
The central thesis of the opening paragraphs, and indeed of the speech as a
whole, can be summarized in these two expressions of the impossible. It is
important for my reading to distinguish here between the kind of flattery that
records a truth to which the audience can easily testify (for example, Caesar
is praise-worthy because he has not killed all the Pompeians) and the kind
that veers into the literally false. Cicero is uttering a literal falsehood when he
says it is not possible for him to describe Caesar’s greatness, since of course
he proceeds to describe it in the following sentences. But he is making a surprise sound like a falsehood when he says of Caesar that it is not possible
that Caesar can act in this way, by granting clemency to his defeated enemies,
but he is nonetheless doing it. It is virtually a rule of the panegyric genre to
acknowledge the speaker’s incapacity in the face of the difficult task of praise
(cf. Isoc., Evagoras 8-10). What bursts forth as unusual here is the way Cicero
ties the impossibility of describing Caesar with the impossible scale of Caesar’s achievements – above all, his clemency. “I cannot be saying these things;
he cannot be doing these things”: in the repetitive statement of the two linked
impossibles, rhetorical form conveys shock at Caesar’s action and the sense of
profound confusion it has generated among those opposing him.
Caesar’s clemency is not just a welcome surprise, it is “unheard-of,” and Cicero’s incapacity to describe it is not just his, it applies to everyone in the present and even the future. Caesar’s achievements are so far beyond belief that
they prompt insanity: “And if I did not admit that these deeds are so great
that virtually no one’s mind or cognition is able to grasp them, I’d be crazy:
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
167
but there are things even greater” (quae quidem ego nisi ita magna esse fatear,
ut ea vix cuiusquam mens aut cogitatio capere possit, amens sim: sed tamen sunt
alia maiora, 6). Cicero’s shock at this greater deed, the granting of clemency,
gives rise to one of the most convoluted sentences in the speech (12):
Et ceteros quidem omnis victores bellorum civilium iam ante aequitate et misericordia
viceras: hodierno vero die te ipsum vicisti. Vereor ut hoc, quod dicam, perinde intellegi
possit auditum atque ipse cogitans sentio: ipsam victoriam vicisse videris, cum ea quae
illa erat adepta victis remisisti. Nam cum ipsius victoriae condicione omnes victi occidissemus, clementiae tuae iudicio conservati sumus. Recte igitur unus invictus es, a quo
etiam ipsius victoriae condicio visque devicta est.
And indeed all the other victors in civil wars you had already vanquished in fairness
and pity: this day, you vanquish yourself as well. I fear that what I am saying cannot be
understood when it is heard as thoroughly as I understand it myself as I reflect on it:
you appear to have vanquished victory itself, since you have given up those things that
are taken away from the vanquished. For although, by the condition of victory itself,
all of us who had been vanquished would have fallen into ruin, we have been preserved by the judgment of your clemency. Rightly, then, you alone are unvanquished,
by whom the condition and power of victory itself have been utterly vanquished.
In these sentences, Cicero makes Caesar’s clemency into something, as American college students say these days, “unreal.”
This tortured hyperbole is the style of expression that made Friedrich Wolf
want to exile the speech from the legitimate Ciceronian corpus. But before
we file the passage away as an exceptionally excessive example of flattery, let
us ask again: what political work is this aesthetic experience carrying out?
Quintilian reminds us that there is meaning in hyperbole. He defines it in the
following terms (Inst. Orat. 8,6,75-76):
Tum est hyperbole virtus cum res ipsa de qua loquendum est naturalem modum excessit:
conceditur enim amplius dicere, quia dici quantum est non potest, meliusque ultra quam
citra stat oratio.
And so hyperbole is a virtue when the thing of which we speak exceeds the natural
limit: for we are allowed to amplify, because the exact extent cannot be described, and
speech is better when it goes beyond than when it stops short.
By Quintilian’s definition, hyperbole is the proper figure for the state “exceeding natural limits” in which Cicero’s audience finds itself. Cicero asserts
that he must speak nullo modo (1); he suggests no one will ever be able to
praise Caesar adequately; he compares Caesar to a god (simillimum deo, 8); he
says he thinks of Caesar day and night (22). Such hyperbolic terms constitute
168
Joy Connolly
a discourse of simulation. They disclose the world anew in terms that are not
strictly, simply true, and in their excess of truth, as Quintilian says, they better
represent an “unreal” reality that no one expected, though everyone ought
to have expected it, for it is the reality of autocracy experimented with by
Marius and Sulla half a century earlier. Hyperbolic speech assumes the task of
absorbing the shock of living in the end times of the republic – and further,
its unreal dimension propels its listeners into new identities and relations in a
world where identity and relations have profoundly changed. By adopting hyperbole as the governing figure of this new style of senatorial speech, Cicero
holds out the promise not of a morally legible universe, but of a recognition
that every Roman now lives in conditions virtually “impossible to believe”:
the emergence of one ruler, under whom the chains of traditional obligations
do not consistently hold. Hyperbole is the supremely appropriate figure for
the state of emergency “exceeding natural limits” in which Cicero’s audience
finds itself.
Here we may usefully turn to Peter Brooks’ recent work on French melodrama, which examines the Parisian theater after the suspension of the moral
and legal order in the Revolution and suggests that its hyperbolic style is born
of “the anxiety created by the guilt experienced when the allegiance and ordering that pertained to a sacred system of things no longer obtains”7. In
the Roman postwar context, hyperbolic praise summons an unusual kind of
consensus, one based not on a logical, sensible order, but rather on disbelief
and irreducible uncertainty.
Oddly enough, hyperbolic fantasy is a profoundly inclusive rhetorical strategy. Cicero’s image of Caesar is an image in which each part of his partisan
audience may invest in different ways: pleasure and pain, glee and envy. In
the space of hyperbole everyone is invited. Of course Cicero’s Caesarian audience will share in the hyperbolic celebration of their leader, even as they are
reminded of the costs of his victory. But there is real pleasure here for the
Pompeians in the audience, too. Recall Quintilian’s statement that hyperbole
knows that it asserts that which is not, from the consciousness of falsehood:
that is, it is always accompanied by irony. Paul De Man, commenting on irony,
argues that irony splits the self into two, “an empirical self that exists in a
state of inauthenticity and a self that exists only in the form of a language
that asserts the knowledge of this inauthenticity”8. Hyperbole enables the
self-delusion not only of Caesar, but of the resistant listeners, whose envy
and resentment are eased by their ironic awareness of it. Hyperbole preserves
a space in which they may say “I don’t believe this” without saying “I will
7
8
P. BROOKS, The Melodramatic Imagination, New Haven 2008, esp. 4; 12; 200.
P. DE MAN, Blindness and Insight, Minneapolis 1971, 214.
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
169
not obey.” The double consciousness by which the irony of hyperbole allows
the acknowledgement of inauthenticity mediates the experience of domination by reinstating the speaker and the listener as agents even as they give up
agency. It allows the resistant listener to distance himself from the assent to
power at the same time that he assents to limits on his political sovereignty.
By harnessing the power of fantastical untruth, Cicero becomes what Shelley
calls the poet, an “unacknowledged legislator,” exercising the power he and
his audience has to remake the world in light of the new understanding of it
which his literally, self-consciously false words unlock9.
We begin to see how the speech aims not only to praise Caesar, but to bury
civil war. As he speaks in the aftermath of the bitter zero-sum game that the
Roman senatorial order had made of republican politics by the middle first
century, a game that had produced Big Men with big armies on a scale never
seen before, Cicero’s grief at the collapse of the republican libertas vies with
the desire to negotiate the uncertain future under the current Big Man. His
speech reveals how praise addresses past and present breaches in the body
politic, but not simply by establishing conditions for the formation of consensus (“now we must all praise Caesar, and woe to those who don’t”). He configures the politics of the new post-civil war era by summoning up images and
emotions in which each part of his partisan audience may invest: the hyperbole
and pathos of his language make it possible for his audience to “feel” the shock
of life in the new world of Rome after the civil wars. In short, he creates a collective aesthesis – what Jacques Rancière calls the “sensible texture” of the
community. Aesthesis, because it involves the generation of affective reactions,
is multivalent by nature: even within the experience of the individual subject,
each of us feels pity, fear, and many other things in the course of a single play.
The complexity of the aesthesis, the sensible texture, of the speech transcends
the classical generic categories of praise and blame as well as the late antique
and modern interpretive categories of sincerity and “figured” irony.
But we have not yet exhausted the significance of the programmatic prologue. The second theme introduced in the proemium is suffering, dolor. Suffering is the motivation for Cicero’s decision to speak (dolore, 1). His suffering derives from his recognition that Marcellus was suffering unjustly: “I was
intensely grieving and feeling violent pain, senatorial fathers, that such a man,
though he had stood on the same side as I, was not in the same happy condition” (dolebam enim, patres conscripti, et vehementer angebar virum talem,
cum in eadem causa in qua ego fuisset, non in eadem esse fortuna, 2). The
theme recurs repeatedly, most memorably in the images of the devastation
caused by civil war.
9
Further remarks on Shelley in PEASE, States…, 100.
170
Joy Connolly
In her subtle reading of the pro Marcello, Paola Gagliardi argues that Cicero’s emphasis on dolor is a central element of his “figured” ironic strategy.
For her, the juxtaposition of praise for Caesar’s clemency with repeated reminders of the suffering he caused, both in making war against Pompey and
offering clemency to the losers, makes a “sincere” reading of his panegyric
impossible. I see other dynamics at work here. First, suffering is part of the
consensual aesthesis of the speech: it unfolds as an experience that links the
Roman community, inside and outside the senate. Marcellus has lost many
members of his family (iam ad paucos redactam, 10); Caesar suffers from his
own clemency because it requires him to put aside private resentments (doloribus, 3); the Roman people suffered in the war (18; cf. 23, 24, 31, 34); Cicero
himself feels pain repeatedly (doleo, 16, 22). By suggesting that the experience
of suffering ties the entire audience together, Cicero installs suffering at the
heart of the identity of the senate in its post-civil war form, both Caesarian
winners and Pompeian losers. This tactic (a classic of identity politics) works
to stabilize a collective whose traumatic formation would otherwise render it
unstable; it forges a “politically coherent, continuous, and conscious identity”
out of past and present antagonism and shared pain10. This scene of trauma
goes on to become the heart of the historical narrative that reduces autocracy
into an ethical and personal crisis for the senatorial order, best known to us
from Tacitus.
Second, as Cicero explains when he compares Caesar’s clemency to his fearful anticipations in the past of the excessive form Pompeian vengeance might
take (18), it becomes clear that his suffering also derives from the pain of recognition that Caesarian clemency bears out his fears about the limits of the
Pompeians’ virtue. So his praise is also an expression of guilt at his collusion
with an order in which the dominant element abandoned its concern for the
common good, and thus ended up “rushing on, without desire or hope, prudently and knowingly, to voluntary death” (nulla non modo cupiditate, ne spe
quidem, prudens et sciens tamquam ad interitum ruerem voluntarium, 14). As
Cicero makes guilty accommodations to power, he acknowledges that guilt for
his past failures spurs his desire for security – while he still tries, painfully, to
do a certain justice to the doomed Pompeian resistance by memorializing it.
The question now, as Cicero sets it up, is what the Pompeians will choose
to do. This brings us to the other laudandus in the speech, Marcellus, to whom
no one is “superior in good birth, or honesty, or in zeal for study, or purity of
life, or any other excellence” (4). Cicero repeatedly assimilates Marcellus to
himself: at the beginning, when he identifies him as his rival and imitator (illo
aemulo atque imitatore, 2); throughout the speech, when he identifies Marcel10
W. BROWN, Politics Out of History, Princeton 2001, 55.
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
171
lus as the beneficiary of Caesar’s favor (nam num M. Marcellum deprecantibus
vobis rei publicae conservavit, me et mihi et item rei publica … reddidit, 13,
33-34); and most importantly, when he contends that he and Marcellus agreed
in hating violence and loving peace (16). But this is another element of the
speech’s unreal aspect: this Marcellus is scarcely recognizable. As Giusto Picone has pointed out in an essay that examines the letters between the two
men as well as the younger Seneca’s account of Marcellus in his Consolation
of Helvia, Marcellus is no Cicero11. He resisted accepting Caesar’s clemency
and resisted returning to Rome. Seneca describes him as “nobly enduring his
exile; his change of place made no change at all in his mind” (Cons. Hel. 9,6 10,2). Cicero falsifies his Marcellus, tendentiously transforming the ex-consul
into another Cicero capable of sacrificing his Pompeian convictions in the
name of the collective good.
When Cicero identifies himself with Marcellus as a lover of peace while
speaking in conditions that identify himself as Marcellus’ opposite, as the one
who quickly accepted Caesar’s offer of clemency, Cicero both acknowledges
and displaces the problem of his own submission by praising Marcellus as
inferior to none and punishing Marcellus by falsifying his identity. The suggestion is this: to resist is to die, or live in exile, to lose yourself; to accept
clemency is to be Cicero. But when Cicero assimilates Marcellus to himself
in front of an audience who knows the truth of the matter, they see that the
consequences of accepting clemency are the same as resisting: either way, you
lose yourself.
The second significant doubling in the speech links Cicero and Caesar.
Like Cicero in the Catilinarians, Caesar is the savior of the day who must
guard himself against assassination (this is the main theme of the longest sustained section of the speech, sections 21-32); Cicero assimilates Caesar to
himself at the beginning of the Post Reditum Populo, when he “got back the
republic when it was almost lost” (5). There is some self-glorification here,
but the pattern of assimilation also draws attention to men’s resemblances
to, relations with, and responsibilities toward one another. The doublings of
Cicero and Marcellus, Cicero and Caesar, highlights the lines of communal
interdependence even, and especially, post-war. It also puts a de Beauvoirian
question mark after these actors’ self-sovereignty: none of us can be in perfect
control of who we are, and we can rarely be quite what we say we are, under
conditions of severe political stress.
11
G. PICONE, Il paradigma Marcello: tra esilio e Clementia Caesaris, in Clementia Caesaris: modelli
etici, parenesi e retorica dell’ esilio, Palermo 2008.
172
Joy Connolly
4. Realism, perception, and an alternative self-sovereignty
Cicero writes in his letters to Marcellus that though Marcellus refused to
see out the end of a hopeless civil war, he yet retained his allegiance to the old
order (Fam. 4,8 et al.). In the pro Marcello, by falsely assimilating Marcellus
to himself, Cicero suggests that no one is as he once was: both the civil war
and Caesar’s victory have changed everything. Marcellus and the Pompeians
cannot depend on old political identities or relationships – and there is pain
and guilt in Cicero’s acknowledgement of this, particularly in his reference to
the diminution of Marcellus’ family (10) – but they can invent new political
identities and relationships.
To learn to be subjects, in the sense of selves as well as subordinates, Cicero
exhorts his audience to look clearly at their political situation. They must see
the present situation and the immediate past. Here is the explanation for the
repeated emphasis in this speech on seeing the present situation and the immediate past: “As for you whom we gaze upon, present among us, whose minds,
feelings, and countenance we at this moment see…” (te vero, quem praesentem intuemur, cuius mentem sensusque et os cernimus, 10); “I saw, along with
you, his tears, and the memory of all the Marcelli filled my breast” (lacrimas
modo vobiscum viderem, omnium Marcellorum meum pectus memoria obfudit,
11); “For which reason your generosity ought to be more welcome to us, who
have seen (vidimus) these things [the violence of civil war]. We saw (vidimus)
your victory … we did not see (non vidimus) your sword unsheathed in the
city” (16-17). Caesar, too, must look into the dark spots in the souls of those
who might wish to kill him (in animis hominum tantae latebrae sint et tanti
recessus, 22) so that he fully understands his role and duties.
Once Cicero’s addressees see the post-civil war world clearly, they must understand their past, the pitfalls of the system they used to live by, which led
them “knowingly” to ruin (14). They must then look to the future without immediate recourse to violence; they must think of themselves anew. Remembering that they are preserved by the choice of Caesar, a fact Cicero repeats several
times, he and the senatorial audience are compelled to proceed from that fact,
with a sense of ironic good fortune. To maintain both moral and political sovereignty in exile in Athens or Mytilene is not supportable, because it is a lie:
“wherever you may go,” Cicero writes to Marcellus, “you are under that man’s
power” (Fam. 4,7). Some abdication of sovereignty is required – the refusal of
the violent defense of political sovereignty in its familiar form, which is to say,
clemency for Caesar and obedience for the senators. Picking up and transforming the language of his post reditum speeches, Cicero here underscores the necessity of replacing the old republican model of sovereignty – individual striving
for glory – with a new model of collective endeavor: as the senate had begged
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
173
for Cicero’s return, now Cicero and Marcellus’ brother and other senators have
worked collectively to influence Caesar and securing Marcellus’ return.
The task of understanding how to become subjects is not as simple as recognizing Caesar as victor and dictator and perhaps a future king and god.
As recent work on self-sovereignty emphasizes, exploring alternatives to traditional conceptions is as risky and painful as it is necessary. In the context of the
fatal but apparently eternally recurrent cycle of civil war, Cicero’s hyperbolic
act of praise replaces an ethico-political code that inscribes the individual at
its center with a new one. The code implicit in the pro Marcello puts first the
relations of amicitia and obligation among the senators, relations facilitated by
the exchange of communication, from which Cicero withdrew during the war:
Diuturni silenti, patres conscripti, quo eram his temporibus usus – non timore aliquo,
sed partim dolore, partim verecundia – finem hodiernus dies attulit, idemque initium
quae vellem quaeque sentirem meo pristino more dicendi. Tantam enim mansuetudinem, tam inusitatam inauditamque clementiam, tantum in summa potestate rerum omnium modum, tam denique incredibilem sapientiam ac paene divinam, tacitus praeterire
nullo modo possum.
To a long silence, senatorial fathers, which I have taken advantage of in recent times –
not due to any sort of fear, but partly due to suffering, partly to a sense of shame – this
day has brought an end, and similarly it has brought the beginning of saying what
I like and what I think, according to my old habit. For such mildness, such unaccustomed and unheard-of clemency, such moderation in the exercise of the highest
power over all, and finally, such unbelievable wisdom, nearly divine, I am in no way
capable of passing over in silence.
Returning to speech is not (only) a celebratory strategy, though Cicero colors his return to speaking in celebratory terms. It also involves painful loss
– the abandonment of the old code and the ethical exemplars that embodied
it, most prominently, as we shall see, the younger Cato and everything he
represents. Here and in his letters to Marcellus, Cicero redefines the role of
the senator from seeking glory and defense of dignitas to a much more limited
role: seeking to contest authority when it is exercised unjustly. He raises what
must have been a deeply uncomfortable question for his audience, namely:
they desire freedom, but if this desire is not truly emancipatory, if it demands
violence on the broad scale of civil war, where are they to turn? This speech in
praise of a man who chose to preserve another man’s life reconfigures republican politics as a system of mutually responsive “relations of dependence”
where the question is not, what do I gain?, but to whom I am responsible?12
12
MARKELL, Bound…, 188.
174
Joy Connolly
Cicero refuses to adopt Cato and his suicidal sacrifice as an exemplary
model. “As for the Cato,” he writes to Atticus, referring both to the book and
the man, “it’s a problem for Archimedes” (Att. 12,4,2). To Papirius Paetus, he
writes, “Cato died well; let’s die well too, but let our death be not so necessary
to us as it was to him!” (Fam. 9,18). Cato kills himself: he embraces necessity
and chooses to end the play of chance. Given what he has to say about sight
in the pro Marcello, it is no surprise that Cicero casts Cato as a figure who
literally cannot see the new conditions of Caesarian politics. In De Officiis,
Cato cannot “look upon the face of tyranny” (Off. 1,112). Writing to Atticus,
Cicero remarks, “but really, that man cannot be praised sincerely unless these
things are mentioned, namely that he saw the way things are now and will be
in the future, and he struggled lest they come about, and he gave up his life so
that he would not see them done” (Att. 12,4,2). He warns Marcellus in similar terms: “You preferred being absent perpetually than to see those things
which you did not want to see” (ut abesse perpetuo malles quam ea quae nolles
videre, Fam. 4,7). “Perhaps you may see many things that you do not wish to
see, but they are no more than what you hear daily. And it is not your habit to
be affected by the sense of sight alone … You may not be able to say what you
think, but you may certainly be silent” (multa videbis fortasse, quae nolis, non
plura tamen quam audis cotidie. Non est porro tuum uno sensu solum oculorum
moveri … dicere fortasse, quae sentias, non licet, tacere plane licet, Fam. 4,9).
With regard to Cato, Cicero takes Adorno’s stand in Problems of Moral
Philosophy (163): “We may say in general – and this is what is valid about this
critique – that it is right to feel a certain wariness toward people who are said
to be of pure will (die sogennante reinen Willens) and who take every opportunity to refer to their own purity of will. The reality is that this so-called pure
will is almost always twinned with the willingness to denounce others, with
the need to punish and persecute others, in short, with the entire problematic
nature of what will be all too familiar to you from the various purges that
have taken place in totalitarian states.” The pro Marcello turns instead to the
difficult encounter with a new form of power and a venture into “making an
uncontrollable future”13.
As I argued earlier, the figure of impossibility, hyperbolic adynaton, embodies Cicero’s sense of risk and disbelief moving forward in an uncertain
world: in a darker tone, the speech’s operatic gestures of submission to Caesar
suggests Cicero’s and his fellow senators’ self-disempowerment. Cicero draws
to his conclusion by reminding his Pompeian audience that like himself, they
owe their lives to Caesar. I suspect that part of the resistance to Ciceronian authorship among readers like Wolf derive from this part of the speech, because
13
BROWN, Politics…, 46, discusses freedom and trusting to the future in these terms.
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
175
it openly acknowledges the limits on Cicero’s sovereign agency that have arisen out of his vulnerability to Caesar’s unpredictable actions. This is not to say
that Cicero is invested in submission for its own sake, but that he sees that the
avowal of his own finitude, signified by Caesar’s role in fixing the terms of his
life, amounts to a sort of abdication of self14.
The effort to find a way forward requires the construction of an ironic sensibility that acknowledges the falsity and the necessity of praise. When Cicero
refers to the fact that “all dissension is crushed by the arms and extinguished
by the justice of the conqueror” (31), his irony does not express or speak to
the standpoint of resistance, but rather what the philosopher Richard Rorty
calls “the capacity to identify illusions that overstate the social-moral goods
human beings have to offer15.” His speech is “world-disclosing” in Rorty’s
sense: its language of praise loosens the hold on us of the world we desire, by
calling attention to the ways our own unrecognized or unacknowledged fictions structure that world.
5. Prosaic patterns in poetry
Before closing, I want to point out that understanding the pro Marcello in
these terms helps us better understand certain aspects of Augustan poetry
– specifically, the appeal to Bacchic poetics in Horace’s odes, especially the
Roman odes of book 3. Consider Horace Odes 3,25:
Quo me, Bacche, rapis tui
plenum? Quae nemora aut quos agor in specus
uelox mente noua? Quibus
antrum egregii Caesaris audiar
aeternum meditans decus
stellis inserere et consilio Iouis?
Dicam insigne, recens, adhuc
indictum ore alio. Non secus in iugis
exsomnis stupet Euhias,
Hebrum prospiciens et niue candidam
Thracen ac pede barbaro
lustratam Rhodopen, ut mihi deuio
ripas et uacuum nemus
mirari libet. O Naiadum potens
Baccharumque ualentium
proceras manibus uertere fraxinos,
14
15
5
10
15
I was prompted to consider the relationship of finitude and abdication by MARKELL, Bound…, 36.
R.L. SMITH, Morals and Their Ironies, “Journal of Religious Ethics” 26 (1998), 379.
176
Joy Connolly
nil paruum aut humili modo,
nil mortale loquar. Dulce periculum est,
o Lenaee, sequi deum
cingentem uiridi tempora pampino.
20
Where, Bacchus, do you tug me,
full of you? Into what groves and what caves am I brought,
fast, in a novel mood? In what
caves shall I be heard
practicing to graft the everlasting glory of pre-eminent Caesar
into the stars and the council of Jove?
Let me speak of what is great and new and as yet
unspoken by another mouth. Just as on the ridges
the unsleeping Bacchant gapes,
gazing at the Hebrus, and white with snow
Thrace, and Rhodope marked
by barbarian tread, so I delight
in gazing at off-road riverbanks and the quiet grove.
O ruler of Naiads
and of vigorous Bacchants
with hands that uproot tall ash trees,
let me say nothing trivial or humble,
nothing merely mortal. It’s a sweet risk,
o Lenaeus, to follow the god
binding our temples with green vine-tendrils.
Egregii Caesaris at line 4 comes as a shock. Commentators have accounted
for the appearance of Augustus in a poem initially “about” Bacchic frenzy
as a sign of intense excitement at a new theme (Williams), a protreptic excuse of divine madness for any missteps Horace might take as he embarks on
the challenging new task (nova mente) of panegyric (Fraenkel, West), or as a
bid to establish the grandiose aesthetics of Horace’s new Augustan poetics
(Schiesaro)16. If we read 3,25 against 2,7, a different set of concerns emerges.
In 2,7, Horace welcomes his friend Pompeius back to Italy after Philippi. Nisbet and Hubbard find little to admire in Horace’s “whimsical” greetings to a
friend in such uncomfortable conditions. Tarrant remarks more sympathetically on his “frantic jollity,” especially in lines 26-27:
…non ego sanius
bacchabor Edonis. recepto
dulce mihi furere est amico.
16
Discussion and bibliography in A. SCHIESARO, Horace’s Bacchic Poetics, in L.B.T. HOUGHTON - M.
WYKE (edd.), Perceptions of Horace, Cambridge 2009.
Fantastical Realism in Cicero’s Postwar Panegyric
177
…no more sane than
an Edonian, I will run wild like a Bacchant.
It’s sweet to go mad at the return of a friend!
Horace never speaks of Philippi with open regret or anger. He represents
civil war in a different register. The “sweet” madness described in both poems describes the symptoms of a body afflicted by trauma. To begin with,
this body belongs to the poet, but the invocations of Bacchus and his implied
invitation to his friend suggest that the social body of his readers is implicated
too. When this inspired body speaks, it uses the hyperbole and irony of Bacchic poetics to redirect the pain of defeat at Philippi evoked in 2,7 toward
imagining a new world ruled by egregius Caesar. The ironic dissonance created by the images of practicing panegyric in a Bacchic frenzy and of inviting
a partner in civic disaster to join the poet in mad drunkenness articulates the
shock of a world turned upside down by the emergency of Augustan autocracy, and calls for an ironic sensibility that can accommodate this new world.
I have argued that this first speech in the Roman panegyric tradition defies attempts to define it as “pro-“ or “anti-” Caesar. Its praise for Caesar as a
peace-bringer is sincere; it is also resentful, guilty, collusive, quietist, sarcastic,
resistant. The speech is inclusive in its quiet insistence on the remainders left
behind in the construction of a new consensus. It is visionary in its refusal to
play at the old republican game – refusing to claim sovereign agency in the
face of tyrannical power when claiming sovereign agency means death (the
death Cato chose) or more violence. It works in both directions at once: it relies on, and works the interval between, registers of sincerity and irony, praise
and blame, in its effort to speak to all parties across the fractured political
spectrum within the senate: the Caesarians, the Pompeians, and the rest. This
is a eulogy that attempts to come to terms with the loss of the republic; it is
an attempt to fix a certain tragic memory of the republic; it clarifies to Cicero
and his audience his view of “the nature and stakes of the shared situation”17
and their duties in it; it is also an attempt to remind Caesar of what Cicero
is, and what the other senators are, in an effort to define his responsibilities
and to demarcate “limited limits” to Caesar’s potentially tyrannical freedom
of action.
The speech also contains provocative normative claims. It establishes a
moral imperative to respond to tyrannical conditions with a new form of selfenvisioning that preserves within itself potential practices of future liberation,
namely the spoken word, which Cicero implicitly claims as his central weapon
in the struggle against domination. It also calls on its audiences to cultivate
17
MARKELL, Bound…, 186.
178
Joy Connolly
two habits that pull in what first appears to be opposite directions: sharing in a
collective act of imagination, fantasy if you will, as a tactic in healing breaches
in the civic order; and seeing conditions of Caesarian power for what they are.
Cicero is punished for this at the hands of Wolf and others who cannot see
the pro Marcello because it disobeys the rule of republican ethics, but he too,
in this speech, anticipates the irreducible play of pleasure, desire, rage, and
hope that characterize a community wounded by but still in love with an outdated model of itself, uncertain as to what the future will bring, and divided
on the rightness of consensus itself under conditions hitherto unthinkable in
the republic – unthinkable, that is, before Cicero speaks out. Cicero summons
up images in which each part of his partisan audience may invest in different
ways; he stages emotions that some will watch with pleasure and some with
pain, including the glee of Caesarian triumph, and Pompeian grief at defeat
and even vengeful rage at the victor, the object of praise. It is Cicero’s inclusive acknowledgement of these various mental and political states that makes
his speech worthy of study, because it reveals the accommodations Cicero
believes both losers and winners must make in order to live under the new
conditions of Caesarian domination.
DAL CULTO DI OTTAVIANO ALL’APOTEOSI DI AUGUSTO
EUGENIO LA ROCCA
Ottaviano/Augusto, come i suoi successori, aveva ben chiaro quale fosse il
destino di tutti i mortali, ma sapeva altrettanto bene che, una volta rinsaldato
il suo potere effettivo, prima con la non facile vittoria nel 36 a.C. su Sesto
Pompeo a Naulochos e in seguito, nel 31 a.C., su Marco Antonio ad Azio, per
i suoi incommensurabili benefici al mondo intero, avrebbe potuto ottenere
onori isotheoi nel mondo ellenizzato e una consecratio ufficiale dopo la morte
a Roma stessa, seguendo una tradizione non priva di modelli esemplari, come
potevano testimoniare i casi di Romolo/Quirino e Cesare. Era solo questione
di tempo e di modi. Dopo Naulochos, quando era divenuto, secondo un epigramma di Cornelio Gallo, “maxima Romanae pars historiae”, Ottaviano si
presentò ufficialmente in senato e davanti al popolo romano come colui che
aveva definitivamente debellato le guerre civili, e come il campione della pace.
Sulla base della statua dorata eretta in suo onore nel foro era scritto: “Ha
restaurato la pace, per molto tempo turbata dalle discordie, per terra e per
mare”. La pace, e l’abbondanza che scaturisce dalla pace, sarebbero divenuti
i suoi slogan prediletti. Aveva 28 anni, e le città italiche, come ricorda Appiano, lo venerarono insieme con i loro dei: probabilmente, se bene si intende il
testo, non da solo, ma associato al culto di altre divinità, cioè come synnaos
o symbomos. È l’immagine del pacator orbis che ormai possiamo vedere nel
tiberiano rilievo dal Sebasteion di Afrodisia (fig. 1).
A seguito della vittoria su Marco Antonio e Cleopatra ad Azio, il senato
stabilì che si svolgessero feste in suo onore ogni quattro anni e cerimonie di
ringraziamento agli dei il giorno del suo genetliaco e nell’anniversario dell’annuncio della vittoria navale, che i senatori e le vestali e tutti i cittadini gli
andassero incontro in occasione dei suoi futuri ingressi in città, che avesse il
diritto alla proedria, che gli fossero erette statue e che si celebrassero supplicationes in suo onore. A seguito della conquista di Alessandria, fu decretato
che quel giorno fosse considerato fausto, che ad Ottaviano fosse assegnato
il diritto di essere tribuno a vita, di salvare chiunque avesse invocato il suo
aiuto dentro il pomerio e fuori Roma per una distanza di sette stadi e mezzo,
di giudicare nei processi di appello, con un voto determinante come quello
di Athena nel processo di Oreste davanti all’Areopago. Si decretò inoltre che
180
Eugenio La Rocca
i sacerdoti e le sacerdotesse pregassero anche in suo favore durante le supplicationes per il popolo e il senato, e che nei banchetti, sia pubblici che privati,
fosse celebrato con libagioni. Poco dopo, al sopraggiungere delle informazioni sui felici eventi partici (Fraate, in lotta con Tiridate, e bisognoso della
non belligeranza dei Romani per non aprire un nuovo fronte di guerra, aveva
inviato come ostaggio un suo figlio a Ottaviano), il senato decise che il suo
nome fosse aggiunto negli inni sacri a quello degli dei (sappiamo ad esempio
che il suo nome fu inserito nel carmen Saliare), che una tribù si chiamasse
Iulia, che Ottaviano cingesse in tutte le feste la corona trionfale, che i senatori
lo seguissero nel trionfo con le toghe purpuree, che il popolo facesse festa
con sacrifici il giorno del suo ingresso a Roma, ritenuto sacro, che potesse
eleggere sacerdoti in numero superiore a quello tradizionale, che finalmente
si chiudesse il tempio di Giano.
Il potere politico di Ottaviano non aveva più eguali. In quanto decreti del
senato, queste onorificenze valevano per Roma, anche se ebbero forti ripercussioni in tutto l’impero. Esse non creavano ufficialmente un nuovo dio nel
firmamento olimpico, ma indubbiamente costituivano la premessa essenziale
per una futura divinizzazione, e comunque spianavano la strada per determinate forme di omaggio al principe vivente che rasentavano talora il culto
statale. Tale doveva essere l’inserimento del suo nome nel carmen Saliare, cantato dai Salii durante il trasporto degli ancilia e destinato alla preservazione
ed all’eternità dello stato romano. Probabilmente l’imperatore non vi era impetrato alla pari delle divinità olimpiche: lo si pregava in qualità di garante della salvaguardia e della protezione dello stato, come documentato per i
periodi seguenti dagli acta fratrum Arvalium. In essi si parla di vota annuali
e di sacrifici del collegio in occasione dei compleanni degli imperatori o di
membri della famiglia imperiale, per la loro accessione al trono, per la loro
morte ed eventuale divinizzazione, nonché per la loro salus (a seguito di una
cospirazione opportunamente sventata, o in occasione del loro felice rientro
in città da viaggi o da campagne militari). In questi casi non si effettuavano
mai sacrifici agli imperatori viventi, bensì di solito a Giove, Giunone e Minerva, alla Salus publica, ai membri divinizzati della famiglia imperiale, inoltre al
genius dell’imperatore vivente e alla iuno dell’imperatrice, dinanzi al tempio
di Giove Capitolino, di Marte Ultore, del divo Augusto. Allo stesso modo, le
libazioni, effettuate durante i banchetti pubblici, potevano certamente essere
destinate ad impetrare Ottaviano come un dio, ma potevano essere anche
celebrate a favore di Ottaviano e della sua salus.
La medesima ambiguità, anzi accentuata, emerge nel culto privato. È nel
comune sentire degli uomini credere nell’essenza superumana di coloro che li
beneficano hic et nunc: e poco importa se la convinzione poggi o meno su basi
religiose sicure e accettate da tutti. In Grecia il fenomeno era ormai attestato
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
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da lungo tempo, e il culto di personaggi viventi si presenta come un’espressione spontanea di gratitudine per i favori ricevuti. Secondo un inno dedicato a
Demetrio Poliorcete di ritorno ad Atene da un viaggio a Leucade ed a Corcira, il principe appare agli Ateniesi, desiderosi di ricevere un salvatore, come
una divina epifania. Egli è il solo vero dio: “Egli, come conviene a un dio, è
qui in allegria, bello e sorridente. Mostra alcunché di semnos [il termine in
seguito adottato per tradurre in greco augustus] … O figlio del più possente
dio Poseidon e di Afrodite, salve. Gli altri dei sono lontani o non ascoltano,
o non ci sono, o non ci danno retta; ma tu sei visibile in carne ed ossa, non in
legno e non in pietra, ma in verità. Perché tu hai il potere…”.
Ottaviano/Augusto riuscì ad ottenere qualcosa di simile: uno spontaneo
omaggio ammantato di religiosità da parte della popolazione dell’impero in
cambio di tutti i benefici ottenuti con il ripristino di una pace duratura. Il
suo culto che, stante l’attestazione di Appiano, e contrariamente a quanto si
suppone di solito, si affermò rapidamente in Italia e nelle province, libere di
celebrare lui, e in seguito i membri della sua famiglia secondo il loro gradimento, sarebbe divenuto un fondamentale collante dell’impero: si pregava
l’imperatore o sull’imperatore si giurava, e sotto il suo sguardo vigile si svolgevano le transazioni commerciali ed i processi. Non meraviglia che, come
afferma Appiano, ben prima che il divus Augustus fosse inserito, dal 14 d.C.,
nel novero delle divinità olimpiche, il culto dell’imperatore, associato a quello
di altre divinità olimpiche o personificazioni come la dea Roma o il genio del
senato, oppure, come si vedrà, l’omaggio offerto direttamente al suo genius
o al suo numen, fossero già ampiamente diffusi. Evitando probabilmente di
offendere città amiche con un rifiuto rispetto ai costumi locali, il principe permise ai Greci di procedere al culto nel ruolo meno impegnativo e già da lungo
tempo adottato per i sovrani greci, di associato al culto. Ciò è avvenuto ad
esempio a Olimpia, dove Augusto fu venerato nel Metroon come synnaos di
Cibele, a partire dagli anni immediatamente posteriori al 27 a.C. La scelta di
questo tempio, dedicato alla dea che simbolicamente commemorava le origini
troiane di Roma, è sintomatica. Il principe, secondo uno schema iconografico
già adottato dai sovrani greci – è documentato il caso di di un Attalide, forse
Attalo I, synnaos di Hera nel tempio dedicato alla dea a Pergamo – è raffigurato come Zeus stante (fig. 2), non solo in riferimento al dio di Olimpia, ma
anche secondo il comune raffronto tra il padre degli dei (e sovrano indiscusso
dell’Olimpo) e il reggitore assoluto dell’impero romano.
Anche in Italia non mancavano forme di culto, già in età precoce. Templi al principe ancora vivente sono documentati ancor prima del 15 a.C. a
Terracina e a Pola (dove Augusto è associato alla dea Roma); a Benevento è
testimoniato un Cesareo. Al 10 a.C. è databile il primo tempio del culto imperiale a Narona, in Croazia, mentre anteriore al 2 a.C. è l’Augusteo di Pisa.
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Eugenio La Rocca
Di datazione ancora discussa, ma comunque precedente alla sua morte, è il
tempio destinato al suo genio a Pompei. È probabile, inoltre, che su uno dei
lati lunghi della basilica di Lucus Feroniae fosse inserito un sacello dedicato
ad Ottaviano (fig. 3) già in un periodo compreso tra il 36 e il 27 a.C. La struttura architettonica dell’edificio è coerente con questa datazione, ma parla a
favore anche il ritrovamento nell’ambiente di una testa di Ottaviano (fig. 4)
secondo uno schema iconografico anteriore a quello del più noto e diffuso
tipo già detto “Azio”, ed ora detto “La Alcudia” (per non vincolare la nascita
di codesto tipo ritrattistico alla battaglia del 31 a.C.). C’è infine l’informazione
di Svetonio che, durante il trasporto della salma di Augusto da Nola a Roma,
il feretro fu deposto ad ogni tappa nella basilica o nel tempio principale della
città. Potrebbe non avere torto Saliou quando suppone che codeste basiliche
contenessero uno spazio dedicato al culto dell’imperatore, sia pure entro i
limiti cui si è già accennato.
A Roma, adeguatasi rapidamente, almeno nei più importanti testi letterari,
a queste forme apologetiche che individuavano nel benefattore dell’umanità
un emissario degli dei, o dio egli stesso, sembrava impossibile, al contrario,
procedere ad un culto ufficiale controllato dallo stato, con riti e sacerdozi
specifici, per l’innata ritrosia di un senato che non vedeva di buon occhio
il predominio continuativo e duraturo di un magistrato sull’intera classe dirigente, se non in determinate occasioni sapientemente vincolate. Eppure, i
versi dei poeti, alcune emissioni monetali e gemme in pietra dura o semipreziosa, specialmente del periodo compreso tra la vittoria di Naulochos e la
vittoria di Azio – ma in determinati casi anche in seguito – dichiarano, almeno
in apparenza, una posizione meno moderata. È chiaro che in poesia l’assimilazione del principe a un dio ricalca formulazioni retoriche che avevano i loro
precedenti nell’ambiente delle corti greco-ellenistiche. In quanto produzioni
a carattere non peculiarmente statale e rientranti in un genere specifico di
ormai lunga tradizione, le apologie poetiche non sono affatto un documento
ufficiale dell’epoca, ma rispecchiano, piuttosto, quello che poteva essere il
sentire comune del popolo nei confronti del loro benefattore, secondo l’opinione che la “tangibilità” di benefici ottenuti rapidamente in vita per merito
di un principe può valere talvolta assai di più della sostanziale “indifferenza
con la quale gli dei guardano tanto alle buone, quanto alle cattive azioni”,
secondo un’amara constatazione di Tacito. Anche le gemme e i cammei rientrano in una produzione che non può definirsi strettamente “ufficiale” e/o
“pubblica”, in quanto destinata ad un ambiente colto, che sapeva leggere con
il dovuto distacco i modi di assimilazione simbolica tra principi e dei secondo
una ormai usuale prassi di tradizione greca. Ben differente è il caso delle rappresentazioni sulle emissioni monetali che, al contrario, possono essere considerate uno dei più efficaci mezzi di comunicazione tra i potenti e il popolo.
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
183
In virtù di un’oculata scelta dei programmi figurativi, le monete in ambiente
occidentale possono talvolta alludere a valenze superumane del principe, specialmente durante i momenti cruciali della lotta tra più pretendenti al potere,
ma quasi mai con avventata ostentazione, e comunque con scelte iconografiche che evitano di scompaginare apertamente il sistema repubblicano. Sono
pochissimi, ma significativi, gli esempi nei quali i magistrati romani sono rappresentati in veste o attributi divini, e tra essi solo alcuni denari coniati da Ottaviano prima del 27 a.C. appaiono per certi aspetti “eversivi”, al punto che il
principe si guardò bene dal proseguire lungo questa strada, abbandonandola
definitivamente dopo l’acquisizione del cognomen Augustus, a favore di schemi iconografici più in linea con la tradizione repubblicana. In un denario coniato probabilmente tra la battaglia di Naulochos e quella di Azio, Ottaviano
compare eretto, in nudità eroica, con scettro, con un attributo caratteristico
di Nettuno, l’aplustre, e con un piede poggiato sul globo celeste, simbolo del
dominio sul mondo (fig. 5). È forse una rivalsa nei confronti di Sesto Pompeo
che si era atteggiato a novello Nettuno, indossando un mantello blu e facendo
coniare denari nei quali il padre, Pompeo Magno, era rappresentato in posizione reclinata, con aplustre e piede poggiato sulla prua di una nave, secondo
una celebre formula iconografica già adottata per il dio delle acque (fig. 6).
Ma Pompeo era morto da tempo, e la sua immagine sulle monete vale come
formula di eroizzazione post mortem, mentre Ottaviano era vivo e vegeto! Ancora più drastica è la soluzione adottata in un’altra emissione a ritmo binato,
nella quale, cioè, le rappresentazioni sulle due facce di due monete si relazionano a schema incrociato. Sul verso del primo denario è raffigurata un’erma
nella quale si riconosce di solito il dio Terminus giovanile, con una corona
d’alloro sul capo e con un fascio di fulmini giacente ai piedi del pilastrino (fig.
7). Ad essa corrisponde sul recto del secondo denario il busto-erma di Ottaviano con corona di alloro sul capo e fascio di fulmini alle spalle (fig. 8). Non
c’è alcun dubbio che il rapporto tra le immagini vuol suggerire l’assimilazione
di Terminus con Ottaviano, secondo una tipologia non priva di agganci iconografici e ideologici anche con Hermes/Mercurio, una delle divinità predilette
dal principe, evidentemente in relazione alla sua funzione di messaggero di
Giove, come si desume dalla celebre Ode I 2 di Orazio.
In modo più ostentato, come conviene a tale produzione, alcuni magnifici
cammei mostrano Ottaviano/Augusto assimilato alle principali divinità olimpiche. In una sardonica a Vienna, databile poco dopo il gennaio del 27 a.C., è
come Nettuno dominatore dei mari, trionfatore, in toga, su un carro tirato da
quattro tritoni, due dei quali reggono suoi attributi specifici: uno il clipeus virtutis entro la corona civica su un supporto composto da un globo celeste e da
due capricorni, l’altro una vittoria su globo (fig. 9). In una sardonica a Boston,
forse più antica, è di nuovo simile a Nettuno: il suo carro marino travolge il
184
Eugenio La Rocca
corpo di un personaggio maschile, Sesto Pompeo oppure, se la gemma è più
tarda di qualche anno, Marco Antonio (fig. 10). Assimilato ad Hermes/Mercurio, come indica la presenza del caduceo in primo piano, davanti al volto
di profilo, Ottaviano compare nella celeberrima sardonica già Marlborough,
poi Ionides, ora al British Museum, in un’immagine di eccezionale cristallina
purezza, incisa probabilmente da Solon (fig. 11). In una corniola già nella
collezione Medici, ora a Napoli, si è voluta ravvisare l’immagine di Ottaviano/Augusto assimilato a Sol (fig. 12). Il personaggio, che regge una fiaccola
nella mano sinistra, guida con un movimento impetuoso una scattante quadriga verso l’empireo, al di sopra di Oceano e Teti. Infine, in una sardonica di
Vienna, è simile a Giove, nudo con corona sul capo, egida, scettro e fascio di
fulmini, con l’aquila al suo lato, e dall’altro un trofeo presso il quale giace un
barbaro legato (fig. 13).
Ove si escludano, in virtù della loro circolazione, le monete con l’immagine
di Ottaviano/Terminus (figg. 7-8), nessuno di questi eccezionali documenti si
scosta da un sistema elogiativo che ha nei testi panegirici dell’epoca, di ascendenza culturale greca, un preciso raffronto. Entro quest’iniziale indeterminatezza, in un momento in cui, al fulgore del suo potere militare, Ottaviano sembrava poter dominare la situazione politica e permettersi di proporre a Roma
stessa, ancor vivente, una sorta di divinizzazione seguendo le mosse del padre
adottivo, Giulio Cesare, si potrebbe interpretare la presenza di una sua statua
acrolitica colossale di circa 11 m – la testa con il collo raggiunge l’altezza di
m 1,50 –, proveniente, sembra, dall’Aventino (fig. 14). Poiché raffigura Ottaviano secondo il tipo eroico La Alcudia, che restò in vigore non oltre i primi
anni dopo il trionfo del 29 a.C., l’acrolito deve essere stato eretto in una fase
precoce, comunque prima della diffusione del tipo Prima Porta, la cui pacata
compostezza meglio si addiceva alla costruzione di un’immagine semidivina:
infatti, quasi tutti ritratti colossali di Augusto finora noti appartengono al tipo
Prima Porta. Un acrolito di un personaggio ancora in vita nella Roma della
prima età imperiale non doveva essere usuale. La colossalità è infatti sintomo
di una parvenza simile a quella degli dei. La statua poteva essere nel tempio
di Iuppiter Libertas, ricostruito o restaurato da Ottaviano per aver ripristinato
– almeno formalmente – la libertà del popolo romano dopo decenni di vere
e mascherate dittature. Si tratterebbe, perciò, della prima documentazione,
a Roma stessa, dell’associazione del principe al culto di un dio dell’Olimpo.
Ma l’iniziale tendenza di Ottaviano per forme più palesi di divinizzazione
si manifesta con tutta la sua evidenza visiva nel ruolo ricoperto dal mausoleo
che aveva iniziato a costruire negli anni posteriori a Naulochos nelle immediate vicinanze del Tevere, nel Campo Marzio settentrionale, e nel suo rapporto
con il Pantheon. Il monumento funerario, a carattere dinastico, era collocato
a immediato ridosso di quel settore della città che lui stesso e il fidato Agrippa
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
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avrebbero ristrutturato nel decennio dopo Azio al punto da trasformarlo, a
dire di Strabone, in uno dei parchi più belli del mondo. Con il suo diametro
di circa 90 m, contava tra i più grandi edifici funerari del mondo antico. A tumulo erano le tombe degli eroi ed anche, forse, il Sema di Alessandro Magno,
secondo la tradizione macedone ora meglio nota attraverso i trovamenti delle
tombe di Verghina.
Non può essere dovuto al caso che il Pantheon di Agrippa, dedicato il 27 o
il 25 a.C. alle principali divinità olimpiche, cui erano affiancati Romolo/Quirino e il divo Giulio, e collocato a fianco ai Saepta verosimilmente nel luogo
stesso dove Romolo, secondo la tradizione, era asceso al cielo divenendo dio
con il nome di Quirino, fosse stato costruito fin dall’origine – come hanno
dimostrato recenti indagini di scavo – in asse con il mausoleo di Augusto, di
modo che le due porte d’ingresso fossero l’una di fronte all’altra (fig. 15). È
anzi verosimile che fin dall’origine un percorso rettilineo, rimasto intatto a
lungo, collegasse i due monumenti. Agrippa avrebbe voluto inserire la statua
di Augusto direttamente nella cella del tempio, ma il principe rifiutò, permettendo solo la collocazione delle due statue, sua e dello stesso Agrippa, nel
pronao. L’episodio, avvenuto quando Ottaviano aveva assunto ormai il nome
Augusto, rivela tra le righe il fine ultimo del Pantheon che, nelle intenzioni
iniziali rivelate dal suo stretto rapporto con il mausoleo, doveva prevedere
l’ampliamento del culto a Ottaviano ed alla sua dinastia, così come il mausoleo era destinato ad accogliere le spoglie del principe e dei membri della
sua famiglia. Probabilmente questa era anche la funzione di molti Pantheia e
Dodekathea diffusi in ambiente greco: il tentativo di affiancare al culto delle
principali divinità olimpiche quello della dinastia regnante, come nel caso del
Grande Altare di Pergamo, destinato, secondo una possibile lettura dei documenti superstiti, al culto dei Dodici Dei e dei principi Attalidi. Il progetto,
certamente avviato prima del 27 a.C., fu virato, negli anni seguenti, verso una
soluzione più morbida, in attesa dell’inevitabile consecratio post mortem. A
parziale conferma di questa funzione del Pantheon, nei Larari l’immagine dei
Dodici Dei fu molto spesso affiancata a quella del genio di Augusto (fig. 16),
in una sorta di coinvolgimento che ribadiva la qualità divina del nume che
ispirava le azioni del principe e che lo poneva già quasi al rango delle divinità
olimpiche.
La decisione di Augusto apparve saggia, ma procrastinava solamente i tempi della sua consecratio. Egli era già destinato come Romolo ad ascendere agli
astri ed a prendere il posto che gli spettava di diritto entro la cella del Pantheon. La prodigiosa apparizione di un’aquila scesa, poche settimane prima
della morte di Augusto, sopra la lettera A del nome di Agrippa su un tempio
collocato nelle vicinanze dell’ara Martis, dove il principe, insieme con Tiberio,
era in procinto di chiudere i riti connessi con il censimento, fu interpretata sia
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Eugenio La Rocca
come annuncio della sua morte imminente, sia della conseguente ascensio ad
astra. Il tempio non può essere altro che il Pantheon. Parlano in suo favore la
vicinanza con la sede dell’ara Martis, collocata non lontano dai Saepta, la dedica di Agrippa, conservata anche nel rifacimento adrianeo, la presenza nella
decorazione frontonale di un’aquila entro una corona, e principalmente la
sua ubicazione nel luogo simbolico che già aveva visto svolgersi, in un lontano
passato, l’apoteosi di Romolo/Quirino.
Il traguardo finale di questa, come di molte altre operazioni, era di legittimare il nuovo regime con forme di omaggio a carattere religioso che innalzassero il principe al di sopra di tutti i mortali. Augusto nel suo tentativo di
procedere ad una rivoluzione costituzionale dando tuttavia l’impressione di
ripristinare la tradizionale res publica, aveva compreso che il consolidamento
della sua costruzione politica e il passaggio indolore del potere ai suoi discendenti esigevano a priori la sacralità divina della persona del principe, per
offrire al nuovo regime il necessario supporto simbolico e ideologico.
Nell’arco degli anni 20 del I secolo a.C., Augusto propose il ripristino delle
antiche forme religiose come antidoto al crollo di tutti gli ideali durante le
guerre civili: un tracollo che aveva condotto all’abbandono e alla rovina della
maggioranza dei santuari ancestrali. Restaurando i templi e ripristinando riti
ormai desueti, egli si costruiva un’immagine veneranda e inviolabile; tuttavia
molti degli edifici sacri ebbero il loro dies natalis mutato al 23 settembre,
compleanno del principe che, così, era celebrato, anche in questo caso, insieme con le divinità olimpiche. Al suo ritorno dalla Siria nel 19 a.C., quasi da
trionfatore per l’astuta acquisizione delle insegne romane perdute da Crasso e
ottenute dai Parti non con una campagna bellica ma con un accordo pacifico,
accettò invece che fosse dedicata un’ara alla Fortuna Redux sulla via Appia,
dove prendeva avvio la transvectio equitum, a memoria imperitura del suo
ingresso a Roma, e che il sacrificio e le celebrazioni festive connesse con la
sua inaugurazione, il 12 ottobre, fossero chiamati Augustalia e non Fortunalia. Sebbene solamente a partire dal 14 d.C. si celebrassero veri e propri ludi
con il nome Augustalia, l’omaggio collocava de facto Augusto al rango degli
dei, non solo perché si sacrificava, tramite l’interposizione di una personificazione divina, a memoria imperitura del ritorno del principe dalla Siria, ma
anche perché mai prima di allora un giorno dell’anno era stato attribuito a un
mortale ancora vivente. Al suo ritorno dall’Occidente nel 13 a.C. gli fu dedicata l’ara Pacis Augustae, collocata sulla via Flaminia, da dove era entrato a
Roma, a poca distanza dal suo mausoleo e dal Pantheon, in un’area, quella del
Campo Marzio settentrionale, che simbolicamente parlava solo di Augusto
e delle sue imprese. Il giorno della dedica, il 30 gennaio, chiusura del mese
di Giano, si celebravano supplicationes per l’imperium di Augusto, custode
dell’impero romano. Questi due altari, come le posteriori arae Providentiae e
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
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numinis Augusti, erano dedicati a concetti astratti divinizzati, ma Augusto era
ad essi associato attraverso le festività congiunte, attraverso i luoghi della loro
collocazione, e naturalmente attraverso l’aggiunta ai loro nomi del cognomen
del principe con tutta la sua eccezionale pregnanza simbolica. Augusto perciò
beneficiava da vivo del privilegio di un’associazione, che esprimeva compiutamente la qualità delle sue azioni capaci di renderlo già da vivo simile a un dio.
È possibile che già all’inizio degli anni 20 del I secolo a.C., avesse preso
avvio lo spontaneo inserimento, a carattere non centralizzato né controllato
dallo stato, del genius di Ottaviano – e qualche tempo dopo, del genius di
Augusto – tra i Lari familiari, garanti della continuità del nucleo familiare,
come omaggio dei Romani e degli Italici verso il loro protettore, quasi come
riflesso di quel vincolo che legava i clientes con il loro patronus. Così almeno
si potrebbe evincere dal testo di Cassio Dione (LI 19), che ricorda, tra le onorificenze offerte ad Ottaviano a seguito della vittoria alessandrina, libazioni
alla sua salute durante i banchetti pubblici e privati. La critica è concorde nel
supporre che le libazioni fossero offerte non direttamente al principe, ma al
suo genius, come già era avvenuto nel caso di Gaio Mario, celebrato in molte
case italiche con libazioni, come terzo fondatore della città dopo la sua vittoria sui Cimbri e sui Teutoni, o nel caso di M. Mario Gratidiano, celebrato
dalla plebe nei vici con statue cui erano offerti incenso e vino. È probabile
che nella realtà quotidiana dei piccoli sacrifici nelle case private la distinzione
tra l’uomo e il suo genio avesse scarso significato. La celeberrima Ode IV 5 di
Orazio, che prelude al ritorno di Augusto a Roma nel 13 a.C. – ritorno che,
nella più perfetta tradizione greca, significa la ricomparsa, nella città troppo a
lungo privata della sua guida, della felicità, della prosperità e della pace –, offre un quadro assai preciso dei modi in cui il principe è ormai universalmente
venerato nelle mense private dagli uomini che già lo chiamano dio (almeno
in poesia non attraverso l’intermediazione del suo genio), che versano vino
dalle coppe con molte preghiere, che infine uniscono il suo numen a quello
dei propri Lari.
Non va comunque sottovalutata la base giuridica di tali offerte, in quanto
erano la premessa per la trasformazione di un culto privato, e personale, in
un culto pubblico, fosse esso destinato, appunto, al principe vivente oppure al suo genio, come effettivamente avvenne poco tempo dopo. Un decreto
del consiglio municipale di Forum Clodii del 18 d.C., ad esempio, adattando
al principato di Tiberio norme già stabilite per Augusto vivente, prescriveva
libazioni ai genii di Augusto e di Tiberio prima dei banchetti pubblici in occasione del loro compleanno. Poco dopo la morte di Lepido nel 13 a.C., ma
prima che il principe rivestisse finalmente la tanto agognata carica di pontifex
maximus, fu probabilmente deciso che il genio di Augusto fosse inserito tra
le divinità testimoni dei patti e dei giuramenti. Era già abitudine giurare negli
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Eugenio La Rocca
atti privati in nome del genio del pater familias, ma ora il giuramento al genio
di colui che reggeva l’impero assumeva una valenza ufficiale. Nello spazio fino
allora occupato solo dagli dei della religione romana si veniva ad aprire una
ulteriore breccia.
Nel 12 a.C., una volta divenuto pontifex maximus, Augusto poté procedere
alla mossa seguente, di organizzare il culto capillare del suo genio, ripristinando l’antico culto pubblico dei Lari Compitali, divinità protettrici del territorio
urbano, celebrate lungo le strade o nei crocicchi. Il culto ufficiale era stato
soppresso negli anni 60 del I secolo a.C. per la potenziale minaccia di rivolte
popolari. Ebbene Augusto riplasmò anche questo culto tradizionale trasformando i pericolosi Lares Compitales in pacifici Lares Augusti. Seguendo un
disegno che fu definitivamente compiuto nel 7 a.C., con la suddivisione della
città in 14 regioni e 265 vici, ma avviato qualche anno prima, poiché il Larario
del vicus di Iuppiter Fagutal è datato nel 12 a.C., e il Larario del vicus di Honos
et Virtus nel 9 a.C., ad ogni crocicchio fu eretto un piccolo santuario dedicato
ai Lares Augusti, raffigurati come giovani danzanti con cornucopia in mano.
Ad essi, solitamente due, fu aggiunto il culto del genio di Augusto, raffigurato
di solito in toga pretesta, a capo coperto, con una patera nella mano destra
in procinto di libare, o con il lituo, alla maniera della statua di culto del divo
Cesare come sulle monete che raffigurano il suo tempio nel foro Romano, e
talvolta con una cornucopia o una acerra nella mano sinistra.
Così il genio di Augusto cominciò a ricevere un culto pubblico, perché
pubbliche erano le feste destinate ai Lari Compitali, dette Compitalia. Anche
i sacrifici a lui dedicati salirono di peso. Se fino allora al suo genio erano offerti
sacrifici incruenti, a partire dal 12 a.C. gli fu sacrificato un toro, alla pari con
alcuni tra gli dei più importanti del pantheon romano, tra cui Giove e Marte,
mentre ai Lari si sacrificava un porco.
Il culto dei Lari e del genio di Augusto non si arrestò a Roma, né fu circoscritto all’ambiente degli schiavi e dei liberti, ma si diffuse nelle città italiche
dove già da tempo erano state impostate forme non omogenee di celebrazione del principe, come confermano non solo le parole di Appiano, ma anche
documenti epigrafici e resti monumentali. Numerose iscrizioni attestano la
presenza di templa, edifici sacri, sacerdozi e feste dedicati al genio di Augusto
ed ai Lari. Importante, in tal senso, è anche il c.d. tempio di Vespasiano nel
foro di Pompei, in realtà dedicato dalla sacerdos publica Mamia al genio di
Augusto ed ai Lari Augusti. Uno dei rilievi della casa di Cecilio Giocondo con
raffigurazione del terremoto del 5 febbraio 62 d.C. mostra il lato est del foro
pompeiano al momento culminante della scossa sismica, mentre era in atto un
sacrificio di un toro per il genio di Augusto e di un maiale per i Lari (fig. 17),
forse in occasione dell’anniversario dell’offerta ad Augusto del titolo di pater
patriae nel 2 a.C. Ma si può ricordare anche l’iscrizione metrica dall’anfiteatro
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
189
di Acerrae che, nella traduzione di Cesare Letta, suona: “Questo tempio è
consacrato agli Eroi (cioè ai Lari). Il nome di Augusto che essi portano (scil. i
Lari) possa felicemente rimanere ai figli (scil. Gaio e Lucio Cesari), perché il
padre si rallegri della crescita della propria stirpe”. L’iscrizione, naturalmente
anteriore al 2 d.C., anno della morte di Lucio, attesta, al pari del sacello che
Mamia aveva dedicato nel foro di Pompei al genio di Augusto e ai Lari, la
presenza precoce del culto del genio al di fuori dei limiti della cinta urbana.
Se tuttavia, come afferma Appiano, già a partire dal 36 a.C. Ottaviano era
celebrato in Italia con culti divini, vuol dire che esistevano fuori di Roma
differenti soluzioni, equiparabili o alternative al culto del genio, che permettevano di onorarlo come dio vivente: ma quali fossero specificamente, al di
là della più comune associazione al culto di una delle divinità locali, non è
dato saperlo con assoluta precisione. È solo possibile sostenere che, quando
Vitruvio ha scritto il suo trattato, non oltre il 23 a.C. ca., alle basiliche era
talora annessa una aedes Augusti, uno spazio di varia misura talora absidato,
che poteva fungere da curia, o da sede per attività giuridiche o per riunioni
ufficiali, e/o destinato nello stesso tempo a celebrare il principe. È possibile
che la presenza imperiale rappresentata simbolicamente da una sua statuaritratto volesse inizialmente garantire, nella logica clientelare così fortemente
radicata nella mentalità romana ed italica, la fedeltà nei confronti del patronus, che non era più uno degli esponenti delle principali famiglie al potere, né
un magistrato locale, ma il principe egemone. Forse, già prima del 13 a.C. era
invalso in Italia l’uso di giurare in nome di Ottaviano/Augusto. Nell’affiancare alla sua statua quella di altre divinità, poi dei membri della sua famiglia, si
potrebbe riconoscere un’evoluzione della formula di giuramento, sulla quale
purtroppo i programmi figurativi finora ricostruiti – di solito databili ad epoche posteriori, o comunque ampiamente rielaborati in funzione dinastica –
non offrono risposte sicure. Vani simili alla vitruviana aedes Augusti, o edicole
con alto podio, erano annessi alle basiliche già a partire dalla fine del II secolo
a.C., ad esempio nella basilica di Cosa e in quella di Pompei. Destinati forse
alla commemorazione delle più eminenti personalità cittadine benemerite per
le loro azioni, era inevitabile che, con l’avvento del principato, il loro assetto
ne subisse una radicale trasformazione, con la presenza dominante della statua imperiale cui le statue dei magistrati locali si affiancarono in posizione subordinata, ma in modo da riceverne lustro di riflesso. Basiliche e aedes, dette
anche Augustea o Caesarea, diventarono in breve tempo i luoghi nei quali era
consueta la presenza dell’immagine dell’imperatore e dei membri della sua
famiglia. Oltre la basilica di Fano, che è il modello su cui si basa la descrizione
di Vitruvio (fig. 18), esempi significativi del sistema basilica / aedes Augusti
sono presenti a Lucus Feroniae (fig. 3) – il cui assetto scultoreo, sulla base del
rinvenimento della testa di Ottaviano di piena età triumvirale (fig. 4), forse
190
Eugenio La Rocca
inserita in una statua loricata, e di due statue tardo-repubblicane di magistrati
locali, una delle quali con una testa affine all’Agrippa, potrebbe persino risalire ad un momento anteriore al 27 a.C. –, a Iuvanum, a Ordona, a Saepinum e,
fuori d’Italia, a Tarragona, a Conimbriga ed a Sabratha.
Vani molto spesso absidati ed eretti nelle immediate vicinanze del foro,
potevano non essere collegati direttamente con le basiliche. Erano destinati
alle riunioni di associazioni, non esclusivamente religiose, che qui svolgevano
i loro uffici, libando durante i banchetti, e dichiarando così la loro lealtà nei
confronti del principe. A Tivoli, affacciata sul foro, è stata rinvenuta una di
queste sale absidate, dedicata da M. Varenus Diphilus, liberto già schiavo del
potente propraetor Marcus Lartidius e di sua moglie Varena, e magister Herculaneus, membro cioè del collegio sacerdotale preposto al culto di Hercules
Victor, il più importante santuario extraurbano dell’antica Tibur. Allo stesso
personaggio si deve la costruzione, pro salute et reditu di Augusto, di un edificio limitrofo, un ponderarium, contenente i pesi e le misure-campione tarati
a norma di legge secondo i prototipi conservati sul Campidoglio a Roma. La
dedica, riferibile al ritorno del principe a Roma nel 19 o nel 13 a.C., permette
di stabilire un termine abbastanza preciso per la costruzione di ambedue gli
edifici. E proprio nell’ambiente absidato, al centro della nicchia, una base
reggeva una statua ora acefala di Augusto seduto in sembianza di Giove con
un mantello che gli copre i fianchi e la coscia destra (fig. 19): forse il primo
esempio noto – e sotto molti aspetti assai precoce – per l’uso di tale iconografia in funzione di Augusto in occidente, sempre che possa confermarsi la
contemporaneità tra dedica della sala e statua al suo interno. In età imprecisata i magistri Herculanei furono addetti anche al culto dell’imperatore, divenendo così magistri Herculanei Augustales. Forse questo ambiente, nel quale
è possibile che i magistri si incontrassero in determinate occasioni nel centro
di Tibur, piuttosto che nel ben più distante santuario di Hercules Victor, documenta che nel penultimo decennio del I secolo a.C. ai magistri fosse già stato
attribuito dal senato locale tale ruolo, sebbene non ancora stabilizzato con la
nuova titolatura, oppure che essi lo svolgessero ancora a livello privato, indipendentemente da un’assegnazione ufficiale. L’iconografia iovia non intende
affatto identificare il principe con il padre degli dei, ma imporre l’equivalenza
tra i due poteri, divino e terreno, mantenuti con lo stesso rigore ed equilibrio.
Riprendendo motivi di età ellenistica, Augusto è analogamente assimilato a
Giove, ma con la ben più impegnativa egida sulle spalle, nel Cammeo Strozzi
al British Museum (della bottega di Dioskurides?) (fig. 20) e nell’onice Marlborough a New York (del figlio Eutyches?) (fig. 21), che anticipano la complessa simbologia della Gemma Augustea.
Nell’8 a.C., con decreto del senato, il nome del mese Sextilis mutò in Augustus: e fu un ulteriore importante passo verso l’impostazione di onori quasi
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
191
divini. Ormai Augusto era il padre e il tutore di tutti gli uomini, pronto a diventare, come effettivamente avvenne nel 2 a.C., più o meno all’unisono con
il completamento e la dedica del foro di Augusto, pater patriae, assumendo il
ruolo simbolico, come ha giustamente osservato Pierre Gros, di pater familias
non più solo dei Romani, ma di tutti i cittadini romani dell’impero. Le statue
dei re di Alba e dei summi viri componevano una sorta di galleria degli antenati nel larario personale di Augusto, quasi che il foro fosse la sua domus. In
una magnifica sala del foro, collocata al fondo del portico nord-occidentale,
era situata una statua colossale, alta circa undici metri (fig. 22). L’aula, interamente rivestita di marmo, aveva sulla parete posteriore un elegante tendaggio
dipinto su lastre di marmo, mentre le pareti laterali avevano incassi entro i
quali dovevano essere applicate tavole dipinte con ante di protezione. Per
quanto si voglia essere scettici, è questo il luogo più plausibile nel quale erano
ricoverate due famose tavole di Apelle raffiguranti l’una Alessandro in trionfo, incoronato da una Nike e con i Dioscuri ai suoi lati, e l’altra l’immagine
del furor bellico, con le mani legate, presso Alessandro trionfante su carro. I
due dipinti, cui Claudio fece ridipingere il volto di Alessandro con le fattezze
di Augusto, erano in fori sui (scil. di Augusto) in celeberrimis partibus: e come
sembrerebbe precisare Servio in maniera poco chiara, entrando nel foro, a
sinistra. Della statua colossale che, realizzata in tecnica acrolitica, era stante e agganciata alla parete di fondo, sono conservati alcuni frammenti della
mano destra, che reggeva un oggetto a sezione circolare, il dorso della mano
sinistra e parte di uno dei polsi: troppo poco per definire l’iconografia della
statua che, solo per ipotesi, si può supporre che reggesse un rotulo o un lituo.
Data la collocazione dell’aula sul fondo del porticato che, in base ad uno
degli atti vadimoniali rinvenuti ad Ercolano, potrebbe essere identificato con
la porticus Iulia, e che, come l’altro porticato sud-orientale e, forse, le ampie
esedre annesse, aveva funzione di basilica per le attività dei pretori urbano e
peregrino (fig. 23), appare probabile che essa svolgesse una funzione analoga
a quella delle aedes Augusti nelle basiliche italiche e provinciali, e che quindi
fosse destinata alla collocazione di una statua di Augusto, o meglio, del genio
di Augusto.
Anche se non totalmente condivisa a favore di una recente, ed a mio parere
inaccettabile ipotesi che si tratti di un’immagine del divo Cesare in posizione
privilegiata rispetto ai summi viri, reputo che la presenza di una statua colossale di Augusto, o meglio del suo genio, potrebbe poggiare su una serie di
dati non privi di una forte valenza simbolica. Nell’aula, in primo luogo, erano
i dipinti di Apelle, il cui riferimento ad Augusto – accentuato dal rifacimento
dei volti di Alessandro – mi sembra molto più vincolante rispetto a Cesare.
Durante il I secolo d.C., poi, il foro era uno dei luoghi deputati per il sacrificio
di un toro al genio dell’imperatore vivente, in occasione di un felice evento
192
Eugenio La Rocca
tra i quali il suo ritorno a Roma dopo un viaggio, o il fausto svolgimento
di una campagna bellica, fosse o meno coronata da un trionfo. Almeno un
importante monumento conferma il dettato degli acta. I rilievi della c.d. ara
Pietatis sono pertinenti appunto ad un recinto d’altare dedicato a Claudio in
occasione del suo ritorno dalla Britannia, celebrato con un trionfo nel 44 a.C.
Su una delle lastre è rappresentato il sacrificio di un toro davanti al tempio di
Marte Ultore (fig. 24), mentre sul frammento di un’altra lastra, nell’ambito di
una processione, emerge in primo piano l’immagine di un giovane che regge
una statuetta di Lare.
Ma il tempio di Marte Ultore era anche il luogo nel quale si assegnavano
ai magistrati le provincie, e dal quale essi partivano per la loro nuova sede.
Sempre nel tempio, probabilmente, si discuteva sui difficili rapporti con le
popolazioni ai bordi dell’impero e con gli stati vassalli. Svetonio ricorda, infatti, che imperatore e senato ricevevano nel tempio le ambasciate straniere e
i principi barbari che avevano dichiarato di voler restare in fide e in pace con
i Romani. Proprio negli anni intorno al 2 a.C. Augusto riprendeva la politica di scontro contro i Parti, affidandone la direzione militare al nipote Gaio
Cesare. Non sappiamo dove fosse avvenuta l’assegnazione, ma è verosimile
che il foro di Augusto avesse offerto le condizioni più idonee, sotto il profilo
ideologico, per l’assegnazione dell’incarico. D’altronde, una delle tavole di
Apelle nell’Aula del Colosso, raffigurante Alessandro tra i Dioscuri, avrebbe
potuto avere un riferimento simbolico alla posizione dei due principi, Gaio
e Lucio, ormai definitivamente proclamati eredi di Augusto e suoi potenziali
successori.
Quando nel 54 d.C., a seguito della ripresa delle campagne belliche contro
i Parti, Nerone affidò con le insegne reali l’Armenia minore ad Aristobulo e
la regione di Sofene a Soemo, e inoltre prepose al governo dell’Armenia il
grande generale Domizio Corbulone, il senato dedicò nel tempio di Marte
Ultore una statua all’imperatore, collocata a fianco delle statue di culto, e di
pari misura, forse proprio a causa di questa specifica funzione del tempio di
Marte Ultore. Si è voluto riconoscere questa statua, non senza qualche obiezione più o meno fondata, su un rilievo da Cartagine, ora ad Algeri, nel quale
un personaggio maschile, in veste eroica con stella sul capo, è raffigurato a
fianco di Venere e di Marte Ultore (fig. 25); c’è una non remota possibilità che
il giovane imperatore fosse raffigurato nelle sembianze del suo genio.
Il rapporto tra il genio dell’imperatore e il foro di Augusto traspare anche da un altro nesso simbolico, un comune denominatore basato sulla data
del 1° agosto. I magistri vici, depositari del culto presso gli altari compitali,
assumevano l’incarico il 1° agosto, il mese già chiamato Sextilis, e dall’8 a.C.
Augustus, più o meno all’unisono con la riorganizzazione della città e con
l’istituzione del culto dei Lari Compitali e del genio di Augusto. Nel medesi-
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
193
mo mese Ottaviano aveva inaugurato il suo primo consolato, aveva celebrato
tre trionfi, aveva condotto dal Gianicolo le legioni che avevano seguito fedelmente la sua causa, aveva ridotto l’Egitto a provincia romana, aveva concluso
le guerre civili. Inserito nel calendario romano come giornata festiva, il 1°
agosto, giorno dell’ingresso vittorioso di Ottaviano ad Alessandria, era considerato come l’inizio del suo potere. Forse proprio per questi motivi il 1°
agosto fu scelto non solo per la dedica dell’altare di Augusto a Lugdunum, ma
anche, probabilmente, per il dies natalis del tempio di Marte Ultore, sempre
che faccia fede il testo di Cassio Dione e non i Fasti di Ovidio che, al contrario, pongono il compleanno del tempio il 12 maggio, datazione privilegiata da
Géza Alföldy nella sua impegnativa integrazione dell’iscrizione dedicatoria
collocata sull’architrave dell’edificio. La duplice tradizione potrebbe essere
nata dal fatto che le gare equestri note come ludi Martiales si svolgessero il
12 maggio e il 1° agosto. Comunque sia – e c’è anche la possibilità che una
delle due datazioni possa riferirsi al dies natalis del tempietto di Marte Ultore
sul Campidoglio –, il collegamento tra il foro di Augusto, il primo giorno del
mese dedicato al principe e il culto del genio imperiale, mi sembra che poggi
su basi indiscutibili, rafforzate in seguito dalla nascita di Claudio proprio il
1° agosto.
Attraverso l’associazione al suo genio e a concetti astratti divinizzati; attraverso le numerose feste celebrate in suo onore; attraverso la modifica del dies
natalis di molti templi, tra i fondamentali, con lo spostamento al 23 settembre,
giorno della sua nascita; attraverso il suo nome prestigioso e ricco di valenze
religiose; attraverso il suo cognomen dato ad un mese dell’anno, privilegio offerto fino allora solo agli dei, Augusto occupava pian piano buona parte degli
spazi religiosi della città e dei tempi del calendario dedicati alle celebrazioni
sacre. Fu una costruzione sapiente e geniale, che ha il suo traguardo nelle celebrazioni del suo funerale e della sua apoteosi e che, a livello figurativo, ha le
sue espressioni più compiute in alcuni cammei risalenti alle ultime fasi del suo
principato. In una sardonica fiorentina con il purissimo, come decantato, profilo del principe con acconciatura apollinea della chioma ricadente a riccioli
sulle spalle (fig. 26), è Apollo a mostrare, forse per l’ultima volta, i tratti facciali di Augusto, secondo quelle formule iconografiche che rendevano già in antico difficile distinguere il principe dal dio in una statua posta nella biblioteca
del tempio di Apollo sul Palatino. Ma il quadro più compiuto, databile negli
anni immediatamente precedenti la morte di Augusto, è offerto dalla Gemma
Augustea di Vienna (fig. 27), nel cui impianto cosmologico Augusto si identifica con Giove, pur preservando il suo attributo specifico, il lituo, in luogo
del fascio di fulmini. La composizione non dà adito ad equivoci. Augusto e la
dea Roma dominano su un trono comune al centro della fascia superiore, con
i piedi poggiati su un cumulo di armi. Un’aquila resta vigile sotto il trono. Il
194
Eugenio La Rocca
Tempo e la personificazione del mondo abitato pongono sul capo di Augusto
una corona. La Terra sdraiata, con la cornucopia e due fanciulli al suo fianco – i frutti da essa prodotti –, poggia pensosa il braccio sul trono. Dall’altro
lato Tiberio scende trionfatore da una quadriga retta da una Vittoria. Al lato
del carro è Germanico, speranza futura dell’impero, in corazza. Alle spalle di
Roma ed Augusto appare la costellazione del Capricorno, il segno che vede
la nascita del sole, del nuovo anno e, per traslato, l’avvento di una nuova età
dell’oro; il segno sotto il quale Augusto era stato generato per il bene comune
dei Romani. Sebbene la splendida sardonica debba essere stata eseguita in occasione del trionfo di Tiberio, festeggiato il 10 d.C., la composizione celebra
Augusto. Nulla sarebbe stato possibile, sembrano dire le immagini, non le
vittorie di Tiberio e di Germanico, non il trionfo di Tiberio, senza il principe,
motore immobile da cui tutto si diparte. Così, tutti guardano verso il principe
già assurto nell’Olimpo al rango degli dei, e non verso il trionfatore.
Il programma religioso così sapientemente impostato dal principe avrebbe
regolato la vita ufficiale dell’impero e degli imperatori nei secoli a venire, fino
all’avvento del cristianesimo.
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
195
Fig. 1 – Afrodisia, Museo. Rilievo
dal Sebasteion: Augusto signore
assoluto e pacificatore.
Fig. 2 – Olimpia, Museo. Torso della statua di Augusto, dal Metroon. A fianco, disegno ricostruttivo.
196
Eugenio La Rocca
Fig. 3 – Pianta della basilica di
Lucus Feroniae.
Fig. 4 – Roma, Museo di Villa Giulia.
Ritratto di Ottaviano, dal vano absidato
nella basilica di Lucus Feroniae.
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
197
Fig. 5 – Denario di Ottaviano, anteriore
al 31 a.C. Ottaviano vincitore con scettro, aplustre e piede su globo celeste.
Fig. 6 – Denario di Sesto Pompeo, coniato
in Sicilia tra il 42 e il 40 a.C. Pompeo Magno vincitore, con aplustre e piede sulla
prua di una nave, tra i Fratelli Catanesi.
Fig. 7 – Denario di Ottaviano, anteriore
al 31 a.C. Recto: effigie di Ottaviano.
Verso: erma di Terminus.
Fig. 8 – Denario di Ottaviano, anteriore
al 31 a.C. Recto: erma di Ottaviano come
Terminus, con corona di alloro.
198
Eugenio La Rocca
Fig. 9 – Vienna, Kunsthistorisches Museum. Agata chiazzata: Ottaviano come
Nettuno su carro tirato da tritoni.
Fig. 10 – Boston, Museum of Fine Arts.
Sardonica, attribuita a Solon. Ottaviano
come Nettuno su quadriga di cavalli marini.
Fig. 11 – Londra, British Museum. Sardonica, attribuita a Solon. Ottaviano
come Mercurio (dal calco).
Fig. 12 – Napoli, Museo Archeologico
Nazionale. Corniola. Ottaviano come Sol
su quadriga.
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
Fig. 13 – Vienna, Kunsthistorisches Museum. Sardonica: Ottaviano come Giove
(dal calco).
Fig. 15 – Pianta del
Campo Marzio settentrionale. La freccia
indica la connessione
tra mausoleo di Augusto e Pantheon.
199
Fig. 14 – Città del Vaticano, Musei, Cortile della Pigna. Ritratto colossale di Ottaviano del tipo “La Alcudia”.
200
Eugenio La Rocca
Fig. 16 – Pompei, Larario dipinto sulla facciata della casa Regio IX, 11 (dall’acquerello).
Fig. 17 – Rilievo dal larario della casa di Cecilio Giocondo: scena del terremoto del
62 d.C. nell’area del foro.
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
201
Fig. 18 – Pianta della basilica di Fano, ricostruita in base alla descrizione di Vitruvio.
Fig. 19 – Tivoli. Statua acefala di Augusto, nell’aula absidata presso il foro, dedicata da Marcus Varenus Diphilus.
Fig. 20 – Londra, British Museum. Sardonica, c.d. Cammeo Strozzi, attribuita
a Dioskurides: ritratto di Augusto con
benda sul capo ed egida sulle spalle.
202
Eugenio La Rocca
Fig. 21 – New York, Metropolitan Museum. Onice bianco su fondo bruno,
attribuito a Eutyches: busto di Augusto
con egida sulle spalle.
Fig. 22 – Disegno ricostruttivo dell’Aula Absidata nel foro di Augusto (Studio
InkLink).
Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto
Fig. 23 – Pianta aggiornata del foro di
Augusto (M.L. Vitali
e N. Russo).
Fig. 24 – Roma, Villa
Medici. Rilievo dall’ara reditus Claudii,
con rappresentazione
del sacrificio di un
toro presso il tempio
di Marte Ultore (dal
calco a Roma, Museo
della Civiltà Romana).
203
204
Eugenio La Rocca
Fig. 25 – Algeri, Museo Archeologico. Rilievo da
Cartagine. Venere, Marte Ultore e il genio di Nerone.
Fig. 26 – Firenze, Museo Archeologico. Sardonica: profilo di Augusto come Apollo.
Fig. 27 – Vienna, Kunsthistorisches Museum. La c.d. Gemma Augustea.
NICOLÁS DE DAMASCO, UN INTELECTUAL SINGULAR
EN LA CORTE DE HERODES Y EN LA ROMA DE AUGUSTO
SABINO PEREA YÉBENES
Nicolás decía que la cultura, apreciada en su totalidad, es como
un viaje: viajando las personas hacen un largo camino para quedarse aquí una sola noche, allí para hacer una sola comida, más
allá para pasar algunos días; y hay paisajes que la gente contempla sin apartarse del camino, porque sabe que éste ha de ser la
vía de regreso a sus hogares; del mismo modo, para contemplar
la cultura en su totalidad, es necesario prestar mucha atención
a algunos autores, menos a otros, para captar bien la totalidad,
una parte, o únicamente los elementos. Pero es necesario no
apartarse de la filosofía, que es el medio más útil para encontrar
lo que es verdaderamente el hogar ancestral de cada uno.
Suda, «Nicolaos Damaskenos», 393 (Jacoby 90 F 132,4)
Nicolás de Damasco, contemporáneo de Augusto, es un gran intelectual
de su época. Dedicó parte de su vida a la labor diplomática, como embajador
en Roma del rey judío Herodes. Su obra escrita, en griego, sin embargo, no
es reflejo su experiencia personal como “político profesional” sino que es una
aventura intelectual que podríamos calificar de “multicultural”, y muy innovadora en su época. Por desgracia, toda ella nos ha llegado fragmentada.
Al evaluar la figura de Nicolás de Damasco generalmente se ha puesto
el acento en su “filorromanismo” por haberse mostrado abiertamente
como “filo-augusteo”. Esto se percibe con claridad cuando leemos la Bivo"
Kaivsaro" (Vida del joven César, o Vida de Augusto, como solemos traducir).
Este panegírico es, en todo caso, sólo una parte de su producción, sólo una
parte de su personalidad.
En este trabajo pretendemos “re-ubicar” y reivindicar la figura de Nicolás
como intelectual que nunca estuvo al margen del poder político, trayendo a
primer plano su obra histórica principal, su Historia General, de cuyos 144
libros quedan restos, y su Autobiografía, de la que doy al final una versión en
español.
Una evaluación global de la obra de Nicolás de Damasco debe mejorar su
imagen actual – que, como indico, le presenta apenas como un “lacayo del
206
Sabino Perea Yébenes
régimen de Augusto” – , hasta situarlo, o tener que situarlo, precisamente,
“fuera del círculo de intelectuales augusteos”, no sabemos si por voluntad
del príncipe o porque su obra – más anclada en el pasado que en la bullente
actualidad de la política romana – puede parecer que no era precisamente
un instrumento de gran utilidad para el régimen del principado tal como se
configuró a partir del año 27 a.C. La realidad es que Nicolás, queramos o no,
sí forma parte de la cohorte literaria filoagustea que directa o indirectamente
agrandó la figura del princeps y nos ayuda a conocer mejor la historia de Roma
de los últimos años del siglo I a.C.
En todo caso, merece la pena traer a primer plano la labor intelectual de
este hombre, que en su tiempo (ca. 64/63 a.C.-4 a.C.) prácticamente inauguró – o potenció, dándoles una personalidad propia – géneros literarios tan
interesantes como el panegírico biográfico-político y la historia universal determinista (cuyo sentido y colofón era el Principado augusteo), por no hablar
de la importancia que tuvieron sus escritos para transmitir y comentar la obra
aristotélica, así como el mérito intrínseco y la singularidad de haber sido un
peripatético “superficial”, es decir, un “filo-filósofo”, en la Roma de Augusto.
Apuntes biográficos1
En uno de los fragmentos conservados de la obras de Nicolás de Damasco
él afirma de sí mismo que a la muerte del rey Herodes (es decir, año 4 a.C.), él
tenía casi 60 años: kai; ga;r h\n peri; xV e[th2. Por tanto nació en el 64 o 63,
el mismo año que Augusto.
Había nacido Nicolás en una familia aristocrática de Damasco. Su padre,
Antípatro, había ocupado allí puestos políticos muy significativos, ajrcav" te
pavsa" diexh`lqe ta;" ejgcwrivou"3. Esta posición acomodada le permitió ser
educado en retórica griega, música, matemáticas, y “todo tipo de filosofía”4,
aunque en sus obras se percibe claramente, más que ninguna otra, la huella de
Aristóteles, y de Teofrasto.
Tenemos pocas noticias que nos indiquen hechos o fechas clave en la vida
de Nicolás. Citaré dos de ellas:
1
En el presente estudio cito los fragmentos de Nicolás de Damasco por la edición de Felix Jacoby,
FGrHist 90 F 1-102 (Historia General), F 125-130 (Bivo" Kaivsaro") y F 131-139 (Autobiografía). Todos
los fragmentos menores y los testimonia se citan igualmente por la misma edición de Jacoby. A estas
fuentes hay que añadir los textos siríacos y árabes de la obra filosófica de Nicolás, reunidos y estudiados
por DROSSAART LULOFS 1965.
2
Jacoby 90 F 36,8.
3
Jacoby 90 F 131.
4
Jacoby 90 F 131.
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
207
Nicolás de Damasco fue tutor, pedagogo, didavskalo", de los hijos de Antonio y de Cleopatra5. La noticia es tardía. Está tomada de Sofronio de Damasco,
patriarca de Jerusalén en el siglo VII (muerto en 638)6. Estos niños serían los
gemelos Alejandro Helios y Cleopatra Selene II, nacidos en el año 40, y quizás
el tercer vástago, Ptolomeo Filadelfo, nacido el año 36. Muertos los padres,
Antonio y Cleopatra en el año 30, estos hijos vivieron en Roma. Octavio los
dejó al cuidado su hermana Octavia, que fue siempre su guardiana, al ser, además de la hermana del emperador, la primera esposa de Antonio. Después de
esta fecha no tenemos noticia de los dos niños varones, que quizás murieran
asesinados, pero sí de Cleopatra Selene. Augusto preparó un matrimonio “de
estado” con el rey Juba II de Mauretania, asegurándose así la alianza de este
reino con Roma. Nicolás de Damasco fue instructor y maestro de estos niños
en fecha imprecisa, supuestamente en Alejandría7, entre los años 43-30.
• Otro episodio corresponde al año 20, cuando Augusto visitó Siria. En Antioquía, Augusto recibió en audiencia a una embajada de indios. De ello nos
habla Estrabón (XV 73), afirmando que Nicolás estaba en la sala de embajadores, haciendo de traductor o como cronista. Estrabón sigue literalmente
una crónica de Nicolás, prosqeivh d∆ a[n ti" touvtoi" kai; ta; para; tou`
Damaskhnou` Nikolavou. El asunto de la embajada permite a Nicolás de Damasco hacer una incursión literaria en un campo que le era grato: el de aportar detalles pintorescos de tierras lejanas, mezcla de leyenda y de historia, al
estilo de Ctesias. Nicolás es también un etnógrafo o mejor un paradoxógrafo,
como leemos en los fragmentos de la Peri; ejqw`n sunagwghv8. Lo importante
de este episodio es que, en este año 20 a.C., Augusto y Nicolás se conocieron.
Entre el 19-16 a.C. Herodes viajó para entrevistarse con Augusto y para
ver a sus hijos, Alejandro y Aristóbulo, que estaban recibiendo en Roma una
educación digna de su rango9. Augusto se mostró amistoso con Herodes, y
éste regresó a Judea con sus hijos. En esa fecha, Nicolás aún no estaba al servicio de Herodes, pero es posible que, a no mucho tardar, el 15 o 14 Herodes
se hiciera con los servicios del Damasceno. Quizás para esta fecha no hay que
descartar que con la ayuda de Nicolás, Herodes buscase cierta continuidad en
la calidad de la educación que sus hijos habían recibido en Roma.
La crítica moderna admite que Nicolás no era judío, ni de nacimiento ni de
religión. A lo largo de toda su vida Nicolás se mostró como un griego erudito,
•
5
BOWERSOCK 1965, 135.
Jacoby T 2 = Sofronio, Narratio miraculorum SS. Cyri et Johannis [ jEgkwvmion eij" tou;" aJgivou"
Ku`ron kai; jIwavnnen] 54 = Migne PG 87,3 col. 3621d: ou|per ajrch; kai; rJivza Nikovlao" h\n oJ filovsofo",
oJ JHrwvdou paideuth;" kai; paivdwn tw`n jAntwnivou kai; Kleopavtra" didavskalo".
7
GOLTZ HUZAR 1978, 166.
8
Jacoby 90 F 103-124; GÓMEZ ESPELOSÍN 1996, 145-157.
9
Josefo, Ant. Iud. XVI 6. Sobre estos aspectos, HADAS-LEBEL 2009, 54-56.
6
208
Sabino Perea Yébenes
un “oriental muy helenizado” – aunque en el marco de un helenismo decadente – , muy interesado en la cultura, primero, y en la política después. Hizo
fortuna al lado del rey Herodes10 durante el periodo 17-4 a.C., en que estuvo
a su lado, y su pragmatismo político y su amor a los viajes, como embajador –
un oficio que había heredado de su padre11 – , le llevó a Roma, para arbitrar o
tratar problemas entre Roma (Augusto) y Judea (Herodes). Nicolás se había
demostrado ya como eficaz defensor de los judíos de Jonia12. Nos importa el
hecho de que Nicolás consultara los archivos oficiales de Herodes, donde se
conservaban varias copias, tanto de “asuntos romanos” como de “asuntos judíos” como sabemos fehacientemente por la noticia que trasmite Josefo sobre
este episodio jonio, tomándolo de Nicolás13, o de una fuente oficial común.
En fin, Nicolás no fue un gran filósofo, pues sus obras “peripatéticas” de
Historia Natural parecen paráfrasis de obras parecidas del tándem Aristóteles-Teofrasto; tampoco fue un gran político, pues, al contrario que su padre,
no le interesó hacer carrera de gobierno en Damasco, en la provincia de Siria.
Fue un notable pedagogo y, seguramente, un buen consejero, como se deduce
de diez años al servicio del rey judío, aunque con altibajos. Y también fue un
notable historiador, quizás más ambicioso que eficaz; y muy prolífico.
De este personaje nos interesa, naturalmente, su obra intelectual, pero también su acción política, como consejero y diplomático. Incidiremos luego en
esa fase final de la vida de Nicolás, su relación con los romanos, y con el emperador Augusto.
Nicolás, entre Judea y Roma
Tras la participación exitosa de Marco Agripa en las Guerras Cántabras,
en el norte de Hispania el año 19 – liquidando finalmente un conflicto bélico que había durado 10 años: Hispanias provincia pacavi14 – la gran misión
10
Herodes del Grande, rey de Judea desde el año 40 a.C. (ECKHARDT 2007, 9-25), era obviamente un
rex iudaicus, de los judíos, pero también, en el sentido cutural lato, un rey helenístico, griego, de mente
abierta, no obcecado por los aspectos religiosos hebreos. Esa ideología no impidió, más bien al contrario,
que el progreso judío fuese más importante bajo su reinado que bajo cualquier otro rey de su dinastía,
empezando por la magna obra, bien conocida, de la construcción del (nuevo) templo de Jerusalén. Sobre estos aspectos ideológicos remito al reciente trabajo de WILKER 2007, 27-45. Sobre el ambicioso
programa edilicio de Herodes, RICHARDSON 1996-1999, 174-202; HADAS-LEBEL 2009, 48-54; 62-64 (texto
fundamental de Josefo, Bell. Iud. I 401-422).
11
BOWERSOCK 1965, 136. En efecto, esa era una de las misiones que tuvo Arquelao de Damasco, padre
de Nicolás, a lo largo de su vida, como leemos en las primeras líneas de la Autobiografía (Jacoby 90 F 131,2).
12
Josefo, Ant. Iud. XVI 48.
13
Jacoby 90 F 142.
14
Dice Augusto, RG 26,2.
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
209
que Augusto iba a confiar a su yerno Agripa fue la consolidación del nuevo
régimen augusteo en Oriente. Otra de las tareas de Agripa fue templar las
tensiones que había entre los judíos y otras etnias de la región, y a su vez entre
los judíos de la diáspora15 y distintas ciudades griegas de Asia, si hacemos
caso del relato de Flavio Josefo. Las relaciones políticas entre Roma y Judea,
entre el emperador Augusto y Herodes, fueron especialmente intensas entre
los años 17-4 a.C. Estas relaciones interestatales, desiguales por la primacía de
Roma sobre la región Palestina, se vieron afianzadas por los lazos personales
de “los segundos” por parte de Roma y Judea: por Roma, Marco Vipsanio
Agripa, yerno de Augusto, que desde el año 23 era de hecho corregente en
Roma; por parte judía, a un nivel más modesto, tenemos la figura de Nicolás
de Damasco, que actuará en todo momento como “lubricante” eficacísimo en
las relaciones entre Roma y Jerusalén en el citado periodo.
Marco Agripa llegó a Antioquía, la capital de Siria, en la primavera del año
15. Sabía que, antes o después, iba a entrevistarse (otra vez) con el rey judío
Herodes. Ambos habían coincidido antes, en el invierno del año 23, cuando
Agripa visitó Mitilene16, y quizás mucho antes en Roma, el año 4017. Pero las
relaciones políticas y la amicitia se consolidan en el segundo viaje de Marco
Agripa18, el 23-22, momento en que Agripa hace construir en su palacio hierosolimitano dos salas de banquetes a las que denomina, respectivamente,
Kaisareion y Agrippeion19 para honrar a los dos hombres más poderosos de
Roma. Fue posiblemente en estas salas, en Jerusalén, donde se entrevistaron
Agripa y Herodes. Mantienen una amistad personal y política de gran relevancia, pues, en efecto, Herodes no es solamente el rey de Judea, es también
ejpivtropo", administrador general de toda Siria20, y gobierna sobre los territorios, adjudicados por los romanos, de Chipre y Licia21. Nunca hay que olvidar
que Herodes era rey de los judíos gracias a Roma22.
En el año 14, Agripa y Herodes marchan a una expedición al Bósforo23,
donde el rey judío se muestra como un verdadero confidente24. Como indica
15
Sobre la diáspora judía en época de Herodes: RICHARDSON 1996-1999, 264-266; WILKER 2007, 43.
Josefo, Ant. Iud. XV 350.
17
Josefo, Ant. Iud. XIV 377-378.
18
RODDAZ 1984, 451 ss.
19
Josefo, Bell. Iud. I 402-404; Ant. Iud. XV 318. Ese mismo año 23 se comienzan las obras de reconstrucción del Templo de Jerusalén (Josefo, Ant. Iud. XV 388-425; Bell. Iud. V 184-237). Ver RICHARDSON 1996, 241-249, con estudio de fuentes griegas, romanas y rabínicas.
20
Josefo, Ant. Iud. XV 360; Bell. Iud. I 399.
21
Josefo, Ant. Iud. XVI 128; Bell. Iud. I 428; HADAS-LEBEL 2009, 56-58.
22
Sobre Herodes y los herodianos hay buenas monografías, a destacar: JONES 1938-1967; PEROWNE
1956; SCHALIT 1960; GRANT 1971; RICHARDSON 1996-1999; KOKKINOS 1998; LANDAU 2006. Este último
autor hace una crítica de la historiografía sobre la figura de Herodes en pp. 219-224.
23
Josefo, Ant. Iud. XVI 20.
24
GRANT 1973, 76; RICHARDSON 1996-1999, 270-272.
16
210
Sabino Perea Yébenes
Josefo, “Herodes fue su auxiliar en los asuntos públicos, agradable, también
en los momento de descanso; era el primero que estaba dispuesto a compartir
todo con él, las penas por afección, los placeres por cortesía”25. Estas mismas
palabras podríamos aplicarlas nosotros a la relación entre el rey Herodes y
Nicolás de Damasco, su consejero y amigo.
Una interesante acción diplomática, con intervención de Nicolás, la tenemos ese mismo año 14, en que éste defiende a los habitantes de Ilión. Lo que
cuenta sucede en Mitilene, donde Herodes, acompañado de Nicolás, se había
encontrado con Agripa. La presencia en Oriente de Julia, la hija Augusto
y esposa de Agripa, no se menciona en ninguna otra fuente26, salvo éste de
Nicolás27. El texto, poco conocido por los historiadores actuales, procede los
excerpta constantinianos que forman parte de la Autobiografía de Nicolás28.
El consejo y la mediación de Nicolás fue requerida seguramente por el propio Agripa cuando hubo que solucionar un conflicto con los judíos de Jonia,
como vemos puntualmente en el relato de Josefo, que se basa sin duda en páginas perdidas de los libros 123-124 de la Historia General del propio Nicolás:
En el momento en que ellos llegaron a la zona de Jonia una multitud inmensa de
judíos que habitaban las ciudades de aquella región se acercó a ellos, aprovechando
la ocasión que se les brindaba y la posibilidad de expresarse pública y libremente, y
refirieron las vejaciones de que eran objeto al no permitírseles hacer uso de sus propias leyes y ser obligados por la iniquidad de los jueces a someterse a juicio en días sagrados, y al ser despojados del dinero destinado a ser enviado a Jerusalén, por cuanto
que eran obligados a tomar parte en las expediciones militares y en la prestación de
servicios públicos y a gastar el dinero sagrado en estos menesteres, de los que habían
sido eximidos siempre al haberles permitido los romanos vivir en consonancia con
sus propias leyes. Como ellos criticaran a voz en grito tal suerte de vejaciones, el rey
intercedió para que Agripa escuchara sus alegatos y puso a disposición de ellos para
que expusiera la justicia de su causa a Nicolás, que era amigo personal suyo. Y una
vez que Agripa hubo sentado a su lado a las autoridades romanas y a los reyes y príncipes presentes, Nicolás, luego de ocupar el debido lugar, argumentó así en pro de los
judíos: «Oh, magnífico Agripa, a todos los hombres que se encuentran en apuros les
es obligado refugiarse en brazos de quienes puedan librarlos de las vejaciones de que
son objeto…» (siguen varias páginas del discurso de Nicolás).
(Josefo, Ant. Iud. XVI 27. Traducción de Vara Donado, 1987, p. 954).
25
Josefo, Ant. Iud. XVI 22.
Todo el episodio que Nicolás cuenta el texto lo resume Josefo, Ant. Iud. XVI 26: “(Herodes)
reconcilió a los habitantes de Ilión con Agripa, que se había encolerizado con ellos”. Así, sin más detalles.
27
PARMENTIER-MORIN 1998, 22 n. 75.
28
Jacoby 90 F 134. Ver el texto griego y la traducción de este fragmento en el apéndice documental
del presente estudio.
26
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
211
Ambas intervenciones de Nicolás favorecen y defienden los intereses de
los judíos de la diáspora asiática29, en tanto que éstos forman parte del koinovn judío. Nicolás lucha más por sus derechos civiles y políticos que por sus
reivindicaciones religiosas, disputas en las que el damasceno no entra, o al
menos no han quedado testimonios, como podría ser el caso de los conflictos
de Herodes con los fariseos. De haberse producido estas mediaciones “diplomáticas” o “ministeriales” de Nicolás sin duda Josefo se habría hecho eco de
ellas en sus Antigüedades.
Schwartz ha estudiado el lenguaje de Nicolás de Damasco y de Josefo en
estos discursos, concluyendo que el damasceno habla, como aspiración, de
la ejleuqeriva (la libertad) de los judíos, en tanto Josefo habla de aujtonomiva
(independencia)30. En cualquier caso, insisto, Nicolás pasa por alto las cuestiones religiosas, algo a lo que un judío no se hubiera sustraído.
Igualmente podemos aludir a la embajada de Nicolás a Roma31, ante Augusto para mediar sobre el asunto de la Nabatea: Herodes se opuso a Syllaios,
un árabe idumeo, por un asunto de política interna32 y a encender una guerra33 que llegó a enturbiar las relaciones entre Roma y Herodes cuando Syllaios marchó a Roma para comentar con Augusto el asunto de la condena de
Antípatro por la acusación de Nicolás34. Por este motivo, Nicolás se presentó
en Roma para aclarar el asunto35 e intentar restañar la imagen de Herodes ante
el emperador.
Estos episodios contribuyeron a afianzar la amistad entre Agripa y Herodes,
pero también la simpatía entre Agripa y Nicolás, que se conocieron en estos
29
RICHARDSON 1996-1999, 272: “Herod bettered Diaspora Jews’ conditions; sometimes he did this
directly – as in the suit of Ionian Jews and his visits to communities with substantial numbers of Jews –
but mostly he worked indirectly through benefactions. There was a close correlation between the places
benefitted and the locations of concentrations of Jews, yet he never made contributions, so far as we
know, to the Jewish communities themselves, only to the whole city or province. When he claimed that
Jews in the Diaspora would be unmolested in the future he did not mean that the underlying problems
had been resolved but that he had helped to change attitudes by his generosity”.
30
SCHWARTZ 2002, 69-71. Existe una amplia bibliografía sobre el uso que hace Josefo de la obra histórica de Nicolás, pero remito especialmente al trabajo de TOHER 1989, 159-172; TOHER 2003a, 427-447,
y más recientemente LANDAU 2006, 23-28; 74-92; 111; 220. La gran calidad y cantidad de información
que da Josefo sobre la época de Herodes en Antiquitates XV-XVII se debe al manejo directo por parte
del escritor flavio de la Historia de Nicolás. Precisamente por eso decae el discurso histórico de Josefo a
partir del año 4 a.C., comienzo del reinado de Arquelao.
31
En estros viajes transmediterráneos entre Judea y Roma, muchas veces con escala en Alejandría,
era fundamental el puerto de Caesarea, en la costa Palestina, que era la capital administrativa romana en
Judea. Sobre la importancia estratégica y política de Cesarea, GÜNTHER 2007, 79-89.
32
BOWERSOCK 1965, 56; 136; LANDAU 2006, 148-149.
33
Sobre la “guerra nabatea”, ver especialmente RICHARDSON 1996-1999, 165-169; 279-281 (para el
conflicto en la fase de los años 12-9 a.C.).
34
Josefo, Bell. Iud. I 574; el tema es citado por Nicolás, Autobiografía, Jacoby 90 F 136,1.
35
Josefo, Ant. Iud. XVI 335-355.
212
Sabino Perea Yébenes
viajes. Las palabras con que Nicolás se dirige a Agripa, «¡magnífico Agripa!»,
w\ mevgiste A
j grivppa, es una clara muestra de retórica política que aprendiera
en su juventud en Damasco, esa oratoria oriental propia de una corte regia,
que ensalza la figura de Agripa como la de un rey delante de los súbditos. La
oratoria de Nicolás juega a mostrar a Agripa como un co-regente de Judea, y a
Herodes como un “co-regente” del Imperio36, no como un súbdito de Roma,
sino como un amicus. El éxito del asunto de los jonios, puesto en manos de Nicolás, con toda seguridad aumentó la simpatía del general romano hacia aquel
veterano consejero de Herodes. En la primavera del año 13, Agripa regresaba
a Roma de vuelta de su legación siria37. En la Urbe esperaban a Agripa sus dos
hijos, Cayo (nacido el 20) y Lucio (nacido el 17), nacidos de su matrimonio
con Julia la Mayor. El gran general romano no los vería crecer, pues murió
unos años después, el 12. Los vástagos quedaron bajo la tutela de Augusto,
que los nombró herederos, pero tampoco tendrían larga vida: Lucio murió en
plena juventud, a los 19 años, en la Galia, y su hermano mayor, Cayo, a los 24
de edad, en Licia en el año 4 d.C. No sabemos si Nicolás de Damasco (que
llegó a Roma un año después, el 12) estuvo implicado en la educación de los
dos jóvenes. No tenemos fuente directa que lo diga, pero podemos sugerirlo:
la amistad con Agripa y con Augusto, y la experiencia pedagógica de Nicolás,
indica que esa circunstancia pudo darse circunstancialmente.
En el año 14 viajarían a la Urbe38 el rey Herodes (por segunda vez) y Nicolás (por primera vez). Que ambos viajaron juntos lo leemos en un fragmento
de la Autobiografía de Nicolás:
ejk touvtou plevwn eij" R
J wvmhn wJ" Kaivsara H
J rwvdh" ejph`ge to;n Nikovlaon oJmou`
ejpi; th`" aujth`" nhov", kai; koinh`/ ejfilosovfoun.
Después Herodes, para hacer la travesía hasta Roma, donde debía encontrarse con
César [Augusto], llevó a Nicolás a bordo con él, y juntos hablaban de filosofía.
(Jacoby 90 F 135 = Const. Porfyr., De virt. I 327,3)
Este viaje coincide con cierta caída en desgracia del rey judío ante Augusto
por causa de ciertos conflictos con los nabateos39. Este conflicto, en el que
Nicolás hizo de mediador diplomático, está contado también, y con mayor
extensión, por Josefo40.
36
37
38
39
40
RODDAZ 1984, 454.
SCHÜRER 1985, 53.
BOWERSOCK 1965, 135.
Jacoby 90 F 136,1.Ver este texto en el Apéndice al final del presente estudio.
Josefo, Ant. Iud. XVI 271-299; 335-355.
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
213
No menos importante es la mediación de Nicolás en el conflicto familiar
en la corte: los hijos de Herodes, enfrentados entre sí, planean asesinar a su
padre. De nuevo la narración de los hechos la leemos en la Autobiografía de
Nicolás41.
Esta luchas fratricidas se reproducirán años después, inmediatamente después de la muerte de Herodes, luchando por la herencia al trono; y de nuevo
será Nicolás quien medie para resolver el conflicto, como veremos un poco
más adelante.
En todos los casos, la labor diplomática de Nicolás interesaba no sólo a Herodes, sino también a Roma, a Augusto. Es natural, pues, que en los viajes de
Estado, el rey judío se hiciera acompañar de Nicolás, que era amigo, y hasta
quizás confidente, de romanos tan notables como Marco Agripa.
Es bien conocida la anécdota de que Nicolás, para facilitar el acercamiento
a Augusto y suscitar su simpatía, le llevaba como regalo abundantes dátiles
de Palestina. Ateneo42 cuenta que Nicolás de Damasco se los enviaba regularmente a Augusto. Éste, con cierta simpatía los llamaba “dátiles Nicolás”, quizás porque – bien o malintencionadamente le sacaba algún parecido “formal”
a los dátiles con el aspecto físico de Nicolás43.
La última, y quizás más importante, misión diplomática de Nicolás en
Roma se refiere a la resolución del testamento de Herodes, que murió el año
4 a.C. El trono se lo disputaban sus tres hijos44. El testamento, el séptimo45, de
41
Jacoby 90 F 136,2-7. Ver este largo texto en el Apéndice al final del presente estudio.
Deipn. XIV 66,16-23.
43
La noticia de la Suda (voz <Nikovlao"> Damaskhnov") de que Augusto daba el nombre de Nicolás
a unas pastas y no a los dátiles es un error. Este genitivo determinativo pasó a ser antonomásico y a denominar al género de los dátiles más exquisitos como genere Nicolai (como hace por ejemplo Plinio, N.H.
XIII 9,45). El hecho filológico aquí carece de importancia. Plutarco, asigna el nombre (o el mérito del
uso del nombre) al rey Herodes: Quaestiones conviv. 723,10. A este producto exquisito se refieren Plinio
(N.H. XIII 9,45) e Isidoro (Etym. XVII 7,1).
44
El estado de la cuestión lo sintetiza así SCHÜRER 1985, 432-433: «Arquelao y Antipas seguían en
Roma esperando la decisión imperial. Antes de que ésta llegara a proclamarse, una nueva embajada judía
se presentó a Augusto pidiéndole que ninguno de los herodianos fuera nombrado rey, sino que les fuera
permitido vivir de acuerdo con sus propias leyes. Más o menos al mismo tiempo, Filipo, el último de los
tres hermanos, a quien Herodes había dejado en herencia parte de sus territorios, apareció también en
Roma para hacer valer sus propios derechos y, en consecuencia, apoyar los de su hermano Arquelao.
Augusto se vio, pues, obligado a tomar una decisión. En una reunión convocada al efecto en el templo
de Apolo, comenzó a oír a la delegación judía. Esta le presentó una larga lista de hechos escandalosos
protagonizados por Herodes e insistió en su petición de que ningún herodiano volviese a reinar en
Palestina y les fuese permitido vivir en conformidad con sus propias leyes bajo la soberanía romana.
Cuando la delegación judía hubo terminado, Nicolás de Damasco se levantó y habló en nombre de su
señor Arquelao. Unos días después de haber oído a ambas Augusto hizo pública su decisión». Cf. una
recreación “oficiosa” del arbitraje de Augusto y el reparto de regiones y provincias en la región palestina,
en RICHARDSON 1996-1999, 315-318; HADAS-LEBEL 2009, 60-62.
45
Comentario sobre cada uno de estos siete testamentos en RICHARDSON 1996-1999, 33-36.
42
214
Sabino Perea Yébenes
Herodes fue confirmado en sus puntos esenciales: a Arquelao se le asignaron
los territorios de Judea, Samaría e Idumea, pero las ciudades de Gaza, Gadara
e Hipos fueron segregadas de su dominio y unidas a la provincia de Siria.
Todos estos acontecimientos, tan importantes para Judea y sus relaciones
con Roma, pueden leerse, de mano del propio Nicolás de Damasco, en los
fragmentos de su Autobiografía46. El discurso de Nicolás ante Augusto y los
príncipes judíos pretendientes al trono, se ha conservado, parafraseado, en
Josefo47.
Por tanto, a pesar de su avanzada edad, Nicolás de Damasco en Roma se
mostraba totalmente “en su salsa” haciendo algo en lo que era experto y había
hecho toda su vida: hacer labores diplomáticas de alta política, defendiendo
los intereses judíos en Roma, ante los romanos, pero siempre respetando ese
pacto de amistad que había presidido las relaciones entre Herodes y sus amigos Augusto y Marco Agripa.
Muerto Herodes, cabe suponer que Nicolás quedó todavía en Roma, como
se desprende de las indicaciones de su Autobiografía48, representando los intereses del sucesor, Arquelao, ante el emperador de Roma, como una especie
de embajador fijo en la Urbe para los asuntos judíos, aunque relegó ese papel
a un segundo plano, quizás por motivo de la edad y el cansancio, y la voluntad
de tener un poco de tranquilidad al final de su vida49. Se dedicó a escribir, sobre últimos años del siglo, los hechos contemporáneos, que corresponderían
los libros 124-144 de su Historia General. Aunque, realmente, se trata de una
suposición, pues no queda ni un solo fragmento de estos últimos 20 libros.
Quizás no llegó a escribirlos (llegando sólo a esbozarlos), pues fueron muy
turbulentos y conflictivos en Palestina, por cuestión de la sucesión50 al trono.
Nicolás historiador
a) La Historia General, Kaqolikh;
JIstoriva
Un fragmento muy interesante de la Autobiografía de Nicolás nos informa
de la pasión de Herodes por filosofía, primero, y luego por la retórica y final46
Jacoby 90 F 136,8-10. Ver este largo texto en el Apéndice al final del presente estudio.
Josefo, Ant. Iud. XVII 315, y recordado sumariamente en Bell. Iud. II 92.
48
Jacoby 90 F 138: …ta;" pleivou" diatriba;" ejpoiei`to meta; tw`n dhmotikw`n, ejkklivnwn tou;"
megavlou" kai; uJperplouvtou" tw`n ejn JRwvmhi…
49
Como leemos en su Autobiografía: Nikovlaon ajnacwrei`n h[dh wJ" eJauto;n ejgnwkovta. kai; ga;r
h\n peri; xV e[th (Jacoby 90 F 136,8).
50
Ver sobre este periodo, desde la muerte de Herodes hasta la muerte de Arquelao el año 10 d.C.,
SCHÜRER 1985, 429-435; MAIER 1992, 98-99; HADAS-LEBEL 2009, 58-60.
47
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
215
mente por la historia51, siendo esta última pasión la que impulsó a Herodes a
ordenar que Nicolás escribiera su Historia General.
Por tanto, esta tarea “hercúlea” fue escrita en su mayor parte, quizás hasta
el libro 116, en el palacio de Herodes, donde disponía de una extensa biblioteca. Las autoridades que manejó Nicolás son conocidas por citas directas, expresas, o indirectas, que analizó perspicazmente Jacoby, y más tarde
Wacholder (1962, 81-86). Los fragmentos que quedan de sus 144 libros52 de
Historia General53 muestran un interesante manejo de fuentes, y nos da idea
de la cantidad de información escrita – y casi en su totalidad perdida – sólo
comparable a la Historia de Roma de Livio, en 142 libros.
Los dos primeros libros narran la historia antigua de Oriente, Asiria, Babilonia y Media; el tercer libro habla de la mitología griega y de la Guerra de
Troya; los libros cuarto y quinto contienen la historia de Lydia, con disgresiones históricas sobre Siria, Palestina, Eolia y el Peloponeso; el libro 6 continua
con la historia de Lydia y su relación con la historia más antigua de Atenas y
las migraciones jonias; el libro 7 habla de Persia, Lydia, Corinto y Sición. De
los libros 8-95 apenas sabemos nada, salvo alguna mención a Armenia. Los
libros 103 y 104 narrarían las guerras de Mithrídates; el libro 107 sobre Sila; el
108 sobre Pompeyo, y el triunfo de Lúculo en el libro 110. El relato de la derrota de Craso en su guerra contra los partos sería el tema principal del libro
114, y las Guerras de las Galias de César en el libro 116. Los libros 123 y 124
narra el viaje de Herodes (y Marco Agripa) a Jonia, de cuya comitiva formaba
parte el propio Nicolás54. Los libros 125-144, tratarían el viaje de Arquelao a
Roma. Estos últimos 20 libros malogrados tratarían asuntos judíos y romanos
de primer orden, importantes para conocer (o haber conocido) mejor las relaciones entre Augusto y los reyes judíos, Herodes y sus herederos. Quedan una
docena de fragmentos que no sabemos a qué libro asignar. En la estructura
general de su obra, Nicolás sigue en general un criterio cronológico “with
the histories of individual territories and people divided into parallel periods,
51
Jacoby 90 F 135. Ver el texto griego y una versión española de este fragmento en el apéndice
documental del presente estudio.
52
Ateneo, Deipn. VI 39,12-14: Nikovlao" d∆ oJ Damaskhnov", ei|" tw`n ajpo; tou` peripavtou filosovfwn,
ejn th/` dekavth/ pro;" tai`" eJkato;n tw`n iJstoriw`n JRwmaivou" iJstorei`. Ateneo, Deipn. VI 54,13-16:
Nikovlao" d∆ oJ Damaskhno;" (ei|" d∆ h\n tw`n ejk tou` peripavtou) ejn th`/ polubuvblw/ iJstoriva/ – eJkato;n
ga;r kai; tessaravkontav eijsi pro;" tai`" tevssarsi. La Suda habla de 80 libros. Se trata sin duda de un
error. Quiero recordar que el emperador Juliano, en la carta a Temistio (11,12-14 = Jacoby 90 T 14) había
manejado, o conocía, algunas obras de Nicolás, y de él traza un retrato breve y ácido, cuando indica que,
“aunque él no protagonizó personalmente hechos significativos, sin embargo es conocido por las obras
que los cuentan” (Nikovlao" de; pravxewn me;n ouj megavlwn aujtourgo;" gevgone, gnwvrimo" dev ejsti
ma`llon dia; tou;" uJpe;r aujtw`n lovgou").
53
TOHER 1989, 159-172.
54
LANDAU 2006, 125; 140-142.
216
Sabino Perea Yébenes
each division being designed to coincide with an event of major import”55.
Este índice de contenido, necesariamente incompleto, nos permite hacernos
una idea de la desgracia que supone la pérdida de esta Historia.
Prácticamente todas las fuentes de Nicolás son griegas, salvo aquellos casos
en que Nicolás maneja algunos autores hebreos (como Ezequiel, que Nicolás
conoce a través de la obra de Alejandro Polihístor56), o el caso particular del
texto latino de César, De bello gallico III 20, que Nicolás reproduce (Jacoby
90 F 80), y una dependencia directa, en el fragmento 125 de la Bivo" Kaivsaro", tomado de la obra perdida de Asinio Polión57.
Ésta sería la bibliotheca graeca que manejó Nicolás para redactar su Historia General:
Fragmentos
de Nicolás de Damasco
(en la edición de Jacoby)
90 F 1 ss.
90 F 6; 10; 14; 25; 26
90 F 8
90 F 15; 47; 68
Ctesias de Cnido (s. IV)
Helánico de Lesbos (s. V)
Eurípides (m. 407-406)
Heródoto de Halicarnaso (ca. 484-428)
90 F 28-33
Éforo de Cyme (fl. ca. 350-330)
90 F 69-70
Dionisio de Halicarnaso (segunda mitad del s. I)
90 F 71; 104
Homero (s. VIII-VII)
90 F 72
Beroso de Babilonia (s. III)
90 F 72
Mnaseas de Patara (s. III)
90 F 83
Hesíodo (s.VII)
90 F 90 15-16; 22; 44-47; 62-65
90 F 91
55
Autor y fecha
(todas ante J.C.)
Janto de Lydia (ca. 400)
Apolodoro de Atenas (ca. 180-100)
TOHER 1989, 162.
Jacoby 273 F 19.
57
SCARDIGLI 1983b. C. Asinio Polión escribió una historia de las Guerras Civiles entre César y Pompeyo, hoy perdida, pero que usaron Nicolás de Damasco (en el citado fragmento), por Estrabón (según
Josefo, Ant. Iud. XIV 8,3, sobre la campaña egipcia de César), Plutarco (Pomp. 72; Caes. 46) y Apiano
(B.C. II 82).
56
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
Fragmentos
de Nicolás de Damasco
(en la edición de Jacoby)
217
Autor y fecha
(todas ante J.C.)
90 F 91
Castor de Rodas (mediados del s. I)
90 F 91
Timágenes de Alejandría (mediados del s. I)
90 F 95
Posidonio de Apamea (s. II)
90 F 103
Jenofonte de Atenas (430-354)
90 F 132
Aristóteles (384-322)
90 F 141
Laeto Moco (s. II)
90 F 142
Acusilao de Argos (ca. s. V)
90 T 13
Alejandro Polihistor de Mileto (ca. 80-35)
90 T 13
Conon (segunda mitad del s. I)
A estos autores hay que sumar otros (sugeridos por Wacholder)58, como
son: Aristóbulo de Casandrea (s. IV a.C.); Artapano, Cleodemo Malco, Eupolemo, Filón el Viejo, Teodoto, Teófilo, Timocares, y Demetrio (ca. 221-203),
conocidos por las citas que de ellos hace Alejandro Polihístor; Teofrasto de
Éreso (ca. 372-287), fuente principal de la obra peripatética de Nicolás. Aristeas (s. II-I); Polibio de Magalópolis (s. II); Apolonio Molón de Alabanda
(primera mitad del s. I). Más cercanos a su generación tenemos a Arquelao,
rey de Capadocia (ca. 41 a.C. - 14 d.C.), que escribió un opúsculo sobre Alejandro Magno; y Teodoro de Gadara, rétor, contemporáneo de Herodes, que
escribió una Historia de Siria59, enemigo personal de Nicolás60.
Esta bibliografía es natural: Nicolás es un historiador griego y – esto conviene enfatizarlo en todo momento – se dirige a un público griego, al que
quiere explicar la historia antigua de las regiones orientales y helenas, y – por
el propio diseño de la obra – explicar en los últimos libros cómo toda esta
historia y esta cultura converge en Roma, tomando como ejemplo el reinado
de Herodes como el mejor ejemplo de cómo la cultura helenística – y la judía
– podían y debían vivir y sobrevivir “al lado de Roma”, respetándose mutuamente en sus valores culturales profundos. Nicolás es uno de los grandes
escritores griegos de la época de Augusto, junto a Dionisio y Estrabón – y en
58
59
60
WACHOLDER 1962, 83-86.
FHG III 489 = Jacoby 850.
Cf. Quintiliano, Inst. Or. III 1,17 = Jacoby 90 F 137,6.
218
Sabino Perea Yébenes
menor medida Timágenes, cuya obra ha naufragado, y Crinágoras – interesados por la historia “universal” y la “historia de los pueblos” que conformaban el mosaico pluriétnico del Imperio romano61. Estos intelectuales están
en Roma62 (Dionisio, Timágenes, Nicolás al final de su vida) o acompañan a
Augusto en sus viajes y/o realizan misiones diplomáticas (Estrabón, Nicolás).
Vistas sus biografías en perspectiva, y en su totalidad, de todos ellos el que
pasa menos tiempo en Roma es Nicolás. Por eso su obra es, en conjunto, la de
un escritor filohelénico63, incluso cuando escribe la biografía del joven César
(Augusto), que es un largo exordio político con un trasfondo muy claro: la
necesidad que tiene todo buen príncipe, o rey, de adquirir una educación
superior en la que han de prevalecer los valores éticos.
Nicolás lleva a primer plano64 una idea ya recurrente en Polibio, una
de sus fuentes principales. Éste utiliza la expresión “escritos universales”,
ta; kaqovlou gravfein, que encontramos en numerosos pasajes suyos, por
ejemplo Pol. Hist. I 4,2,4; 16,11,4; V 33,2; IX 10,11,3; XII 23,7,7. En Pol.
Hist. XXIII 14,3,3 encontramos exactamente la kaqovlou koinwniva" pavntwn
tw`n ejn ajnqrwvpoi". En otras partes de su obra, Polibio utiliza la expresión
“acontecimientos históricos mundiales”, th`" kaqovlou tw`n pravxewn iJstoriva",
en Pol. Hist. VIII 2,7,1. La ajrchv de los romanos sobre la oikoumene surge
del enfrentamiento de la guerra contra Aníbal, y se establece hacia 167 a.C.65
La ecúmene significa “el mundo conocido por los griegos y romanos”. Para
Polibio la historia universal es una consecuencia de las gestas romanas, que él
se propone escribir66. Según Shatzman, “l’arche di Polibio significa «potere»,
«supremazia», «dominio», non impero territoriale costituito da province
amministrate. In concreto voleva dire che tutti gli stati ed i sovrani inclusi
nell’oikoumene dovevano conformarsi agli ordini di Roma”67. Este concepto
parece regir en la idea historiográfica de Nicolás de Damasco.
La noción de koinaí práxeis la vemos también en los primeros párrafos de
la Bibliotheca historica de Diodoro de Sicilia (Bibl. I 3,2: ojlivgoi d∆ ajpo; tw`n
ajrcaivwn crovnwn ajrxavmenoi ta;" koina;" pravxei"…). Diodoro es contemporáneo de Nicolás, pero éste no manejó la obra histórica del siciliota.
La admiración y el respeto de Herodes por Marco Agripa se hacen evidentes con el nombre que Herodes dio a su propio hijo. Esa optimización queda
explícita en la figura de Agripa, y por tanto también de Augusto.
61
62
63
64
65
66
67
BOWERSOCK 1965, 124.
BOWERSOCK 1965, 125.
BOWERSOCK 1965, 135.
MORTLEY 1996, 7.
SHATZMAN 2001, 22.
Pol. Hist. I 3,3-6.
SHATZMAN 2001, 23.
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
219
Para Josefo, que, como sabemos, se sirve abundantemente de la obra de
Nicolás, éste es fue un gran adulador de Herodes, y su discurso adolece de
un continuo y exagerado servilismo (un dicere laudes continuo) que Josefo
expresa así sobre el método histórico de Nicolás:
El propio Nicolás, el historiador que estaba a su servicio (touvtou kai; Nikovlao"
oJ kat∆ aujto;n iJstoriogravfo"), menciona esta construcción68, pero no que había
bajado también69, por constarle que se trataba de una acción indigna. Pero es que
él redacta permanentemente el resto de su obra siguiendo este mismo proceder,
puesto que, como vivía en palacio con el propio rey, escribía en la forma que le fuera
grata a aquél y en tono servil, tocando sólo los temas que le proporcionaran gloria y
modificando (zw`nti ga;r ejn th`/ basileiva/ kai; su;n aujtw`/ kecarismevnw" ejkeivnw/
kai; kaq∆ uJphresivan ajnevgrafen), en cambio, y ocultando con todo celo muchos
de sus comportamientos a todas luces inicuos, llegando Nicolás en su proceder
incluso a querer convertir en una bella acción el asesinato de Mariame y de sus hijos,
tan cruelmente cometido por el rey, lo que lleva al historiador a acusarla a ella de
impudicia y a los jóvenes de conspiración, al tiempo que Nicolás aprovecha siempre
su obra para elogiar demasiado desmedidamente al rey cuando sus acciones han sido
justas y para justificarle ardorosamente sus desaciertos (kai; diatetevleken th`/ grafh`/
ta; me;n pepragmevna dikaivw" tw`/ basilei` perittovteron ejgkwmiavzwn, uJpe;r de;
tw`n paranomhqevntwn ejspoudasmevnw" ajpologouvmeno"). Pues bien, uno podría
perdonarle a Nicolás grandemente este proceder, puesto que, como dije, interpretaba
su obra no como narración verídica para el común de las gentes, sino como servicio al
rey (ouj ga;r iJstorivan toi`" a[lloi", ajlla; uJpourgivan tw`/ basilei` tauvthn ejpoiei`to).
(Josefo, Ant. Iud. XVI 183-186. Traducción de Vara Donado).
Nicolás es, pues, un adulador de Herodes, aun cuando sabe que defiende causas injustas indignas70. Josefo, al contrario, se considera, ecuánime, al
“considerar indigno ofrecer referencias falsas, y exponer las acciones (de los
Asmoneos) de una forma limpia y justa”71.
Esta opinión, este método, es el que Nicolás iba a repetir a la hora de escribir la obra biográfico-histórica de Augusto, como la mejor y única forma de
ser aceptado en la corte de amici augusteos que de vez en cuando visitaban el
palacio, o de aquellos intelectuales y historiadores que, de un modo u otro,
apoyan a la persona de Augusto y a sus reformas políticas, los “aduladores”
del régimen, aquellos que, sin restarle méritos artísticos, como historiadores
o como poetas, sostuvieron enhiestos los ideales del princeps. Los opositores
68
La tumba de Herodes, que estaba en construcción.
A inspeccionar los subterráneos de la citada tumba.
70
Cf. Josefo, Ant. Iud. XIV 9.
71
Josefo, Ant. Iud. XVI 187. Sobre estos valores (o falta de valores) historiográficos de estos dos
historiadores, TOHER 2003a, 431-435.
69
220
Sabino Perea Yébenes
al régimen, como los historiadores Cremucio Cordo o Thrasea Peto, fueron
condenados al silencio, y sus obras destruidas; los que se extralimitaron o
hicieran mofa, con razón o sin razón, como Ovidio, fueron condenados al
exilio. Si nos atenemos a este criterio, Nicolás, que se quedó en la Roma, y
cercano a Augusto hasta el final de su vida, formaba parte de la columna vertebral de la ideología augustea.
b) La Vida de César (Augusto): Bivo" Kaivsaro"
Augusto (63 a.C. - 14 d.C.) escribió una autobiografía, hoy perdida – quedan fragmentos72 – que pudo servir de base, o de punto de partida para la
Bivo" Kaivsaro" de Nicolás de Damasco que éste escribió, quizás, a petición
del rey Herodes73, o bien, como hemos propuesto, a instancias del propio
Augusto o por iniciativa del propio Nicolás para agradar al príncipe74. De
esta obra interesa particularmente la segunda parte75, que se ha conservado
un amplio fragmento76 inserto en la obra histórica del emperador Constantino Porfirogénito (912-959 d.C.). Es “una sección continua, muy larga, que
aborda la época inmediatamente posterior al asesinato de César77 y, en forma
de excurso, añade una relación detallada de la conspiración contra el dictador
y las circunstancias de la misma. Este segundo fragmento nos permite una
evaluación justa de la obra que, a pesar de toda la adulación que contiene, no
está desprovista de méritos, puesto que ofrece una narración histórica detallada y coherente desde el comienzo de la conspiración contra César hasta el
alistamiento de un ejército por Octaviano”78. Nicolás como historiador hace
72
Que he reunido en mi trabajo PEREA YÉBENES 2006, 231-243.
WACHOLDER 1962, 83.
74
En tal sentido Nicolás es más “pro-Augusto” (a nivel personal) que “pro-augusteo” (defensor de
la ideología del principado en general) en el sentido de lo son otros intelectuales, principalmente latinos.
La relación literaria” entre Augusto y Nicolás se ciñe más al ámbito personal que al político. Sin que este
último, naturalmente, quede fuera de juego, queda minimizado ante el reto que tiene Nicolás al escibir la
biografía del joven César (Augusto): demostrar que el éxito político es el resultado – o incluso podríamos
decir la recompensa – a las virtudes naturales o cultivadas (la educación aprendida) y al sentido moral
que todo hombre de Estado ha de tener inexcusablemente. Esta relación entre el príncipe y Nicoláshistoriador no se dio en la relación de Augusto con otros historiadores contemporáneos. Sobre “Augusto
y los historiadores”, remito al estudio de GABBA 1984, 61-88. Para los “historiadores de Augusto”, contemporáneos y posteriores, remito a PEREA YÉBENES 2006, 39-43. En la Tabla 1 del presente estudio se
aprecia bien el conjunto de los principales historiadores pro y anti-augusteos.
75
Jacoby 90 F 130.
76
Jacoby 90 F 125-130. Que yo mismo he traducido al español recientemente: PEREA YÉBENES 2006.
Hay excelentes versiones a otros idiomas: italiano (SCARDIGLI 1983a), inglés (BELLEMORE 1984), y alemán
(MALITZ 2003).
77
Sobre la figura de César (comparada con la de Octaviano) en la obra de Nicolás de Damasco,
TOHER 2003b, 132-156.
78
SCHÜRER 1985, 56.
73
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
221
las veces de propagandista y consejero del príncipe, aplicando la experiencia
que, en el mismo sentido, había acumulado durante los años que pasó como
consultor áulico y embajador de Herodes. Conviene recordar que su apuesta
favorable por el príncipe – que se sustancia en una biografía – lo es todavía en
vida de Augusto, y que por tanto entrañaba enormes riesgos en un momento
en que la llama republicana aún podía “abrasar” a más de uno. Quizás por
eso Nicolás, deliberadamente, se propuso sólo escribir sobre la primera etapa de la vida del príncipe de su formación (ajgwghv) como persona, más que
presentar su vida como retazos biográficos de una vida desordenada (en sus
ideas) o de un político revolucionario. Subyace en toda la obra el sentimiento del intelectual que ha sido equilibrado consejero de reyes, y educador de
príncipes. Como dice de forma sumaria Jean-Michel Roddaz, “dans le Bivo"
Kaivsaro" Nicolas de Damas a bien mis en évidence le rôle du groupe d’amis
qui entourent le jeune Octave et le poussent à se lancer à la conquête du
pouvoir”79. Y no hay que olvidar las circunstancias en que escribió la biografía
– a mi juicio, en Roma, y en los últimos años de su vida, entre los años 8 y 4
a.C.80 – siendo respetuoso con Augusto, al que conocía, y, por su origen y por
su trayectoria anterior, con el suficiente distanciamiento de las facciones polí-
79
RODDAZ 1984, 502.
PEREA YÉBENES 2006, 28 y 31. Momigliano propone que la Vida de Augusto es del año 20 a.C.
(MOMIGLIANO 1974, 88-89 = MOMIGLIANO 1986, 109-110), argumentando que “sólo le interesa” el periodo de juventud. Pero del mismo modo pudo escribir “sobre la juventud” del príncipe con más distancia.
Más recientemente, Scardigli, en su traducción de la Vida de Augusto de Nicolás de Damasco, p. 19, haciéndose eco de otras propuestas (vid. 23 n. 76) propone tres fechas posibles para la redacción de la obra:
1ª) poco después de la instauración de la monarquía augustea (años 20) para presentar a los orientales
la figura del emperador romano como un rey (WACHOLDER 1962, 25-26; GABBA 1984, 62). Esta opción
tiene como fecha última los años 26-25 a.C. (“no antes del 25”, por su alusión a las Guerras Cántabras,
BOWERSOCK 1965, 136-137), en que Augusto escribiría su Autobiografía, que habría manejado Nicolás;
2ª) el año 8 a.C., momento en el que se deterioran las relaciones entre Herodes y el príncipe, viniendo la
obra a limar a “acercar posiciones”, y 3ª) finalmente, tras el ascenso al trono de Arquelao y el retiro de
Nicolás de la escena política. En cualquier caso, de ningún modo – a mi juicio – la Vida de Augusto pudo
ser escrita antes de que Nicolás y Augusto se conocieran (es decir, nunca antes del año 20).
De las opciones propuestas por Scardigli creo que la última es la más probable, como he indicado, es
decir, entre los años 8 al 4 a.C. El hecho de que el contenido de la Vita no vaya más allá de los primeros
años de vida, y de vida pública, de Augusto no es un argumento suficiente para retrasar la fecha. En este
sentido hay que recordar que lo conservado no es la obra completa, sino el resumen constantiniano, y que
realmente ignoramos hasta qué año de la vida de Augusto habría narrado Nicolás. La dependencia de la
Vida de Augusto de Nicolás y la Autobiografía del propio príncipe también ha sido sobrevalorada. Nicolás
pudo habe leído el De vita sua, y haberse servido de este escrito para algunas ideas o noticias, pero a
tenor de lo conservado por ambas obras, una y otra tienen carácter bien distinto, y no se conservan loci
paraleli en sendas obras, ambas fragmentarias (la de Augusto más que la de Nicolás). En resumen la Vida
de Augusto “no es” fuente para el De vita sua de Augusto. Por tanto la fecha de redacción de una obra y
de otra no tienen por qué coincidir en absoluto, ni ser dependiente la obra de Nicolás del De vita sua de
Augusto, salvo mínimamente, en detalles, además, que no se pueden precisar.
80
222
Sabino Perea Yébenes
ticas romanas para escribir un “elogio pedagógico”81 del príncipe sin irritar a
sus enemigos políticos.
Como acertadamente indica Arnaldo Momigliano, “los fragmentos [de la
Vida de Augusto] muestran signos de fidelidad a su escuela: describe tanto
sus propias cualidades como aquellas de Augusto, de acuerdo con la ética de
Aristóteles. Pero su aristotelismo es superficial. Se inclina a escribir un panegírico, tanto de él mismo como de Augusto, y está, de todos modos, lejos de
los hábitos eruditos de los aristotélicos. Lo que en sus obras no es encomiástico, es un relato honesto de acontecimientos políticos y sociales en los que
yo no veo nada específicamente aristotélico. Su Vida de Augusto es el ejemplo
mejor conservado de la tradición helenística de biografía de un rey. Evidentemente depende en gran medida de la propia autobiografía de Augusto, pero
Nicolás interpreta los datos de acuerdo con su propio gusto. El resultado, en
cuanto podemos juzgar, es una biografía dinástica, cuyo principal énfasis está
en la devoción de Octavio a la memoria de su padre adoptivo, César”82.
Tenemos noticias de que Herodes (37-4 a.C.) escribió unas Memorias83 que,
naturalmente, conocería Nicolás, si es que no intervino personalmente en su
redacción o revisión. Esta obra tuvo muy poca proyección, pues sabemos que
Josefo no pudo consultarla, y la cita de segunda mano. Agripa también habría
escrito unas Memorias. Este tipo de memorias “autógrafas” era relativamente
frecuente en el siglo I a.C. Generales como Rutilio Rufo, Catulo y Sila también escribieron autobiografías84. A su vez estos escritores “autógrafos” (si es
que admitimos, generosamente, que tenían la suficiente cultura literaria para
escribirlas ellos realmente) podían encargar a terceros que escribiesen “con
más imparcialidad” biografías suyas. Así, sabemos que Ptolomeo, a quien Nicolás llama “su hermano”85, escribió una biografía de Herodes86 basadas quizás en las memorias de aquél. Ptolomeo era, también, un hombre de confianza
de Herodes, hasta el punto de que, en el lecho de muerte, el rey le confió la
81
O si se quiere abiertamente un panegírico, que no fue objeto de la “censura” política.
MOMIGLIANO 1974, 119. En el mismo sentido, WACHOLDER 1962, 25.
83
Citadas por Josefo, Ant. Iud. XV 174: tau`ta de; gravfomen hJmei`", wJ" ejn toi`" uJpomnhvmasin
toi`" tou` basilevw" JHrwvdou perieivceto. También se le atribuyen algunos estudios filosóficos, retóricos
e históricos (Jacoby 90 F 135; SCHÜRER 1985, 51; WILKER 2007, 38 n. 82).
84
Jacoby, FGrHist, IIC, 288-289.
85
TOHER 2003a, 429. Todos los textos sobre Ptolomeo han sido reunidos por PARMENTIER-MORIN
1998, 67-72.
86
Jacoby 199 F 1. Sobre Ptolomeo, hermano de Nicolás, TOHER 2003a, 429. El único fragmento de
Ptolomeo se encuentra en la obra de Ammonio el gramático, titulada Peri; oJmoivwn kai; diafovrwn levxewn
243 (= Jacoby 199): < jIoudai`oi> kai; < jIdoumai`oi> diafevrousin, w{" fhsi Ptolemai`o" ejn prwvtw/
Peri; JHrwvdou tou` basilevw". jIoudai`oi me;n gavr eijsin oiJ ejx ajrch`" fusikoiv. jIdoumai`oi de; to;
me;n ajrch`qen oujk jIdoumai`oi ajlla; Foivnike" kai; Suvroi, krathqevnte" de; uJp∆ aujtw`n kai; ajnagkasqevnte" peritevmnesqai kai; suntelei`n eij" to; e[qno" kai; ta; aujta; novmima hJgei`sqai ejklhvqhsan jIdoumai`oi.
Los testimonios sobre Ptolomeo, todos de Josefo, en PARMENTIER-MORIN 1998, 67-68.
82
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
223
custodia del anillo regio con la misión de que lo entregara personalmente
a Augusto87. En fin, Nicolás se mueve en un ambiente político e intelectual
(los gobernantes del círculo de amici augusteos) en el que existía la moda de
escribir sobre sí mismo o dejar memoria escrita de sus gobiernos (muy largos
en el tiempo) y logros. Estas memorias eran una especie de res gestae que combinaran asuntos civiles y militares. Sin duda, el contacto personal con estos
tres hombres (Herodes, Augusto y Agripa) animó a Nicolás a escribir también
su propia Autobiografía. Nicolás conocía las Vitae de estos tres personajes, y
creyó necesario dejar memoria personal de su relación con ellos.
Ya hemos hablado de la idea de “universalidad de la historia” y “ecumenismo” que aparece en la obra de Nicolás de Damasco, en la línea de Polibio88
o Diodoro89. Nicolás ejerce un ecumenismo literario a la hora de concebir su
Historia General, y la idea historiográfica la expresa de forma resumida en el
primer capítulo de la Bivo" Kaivsaro":
Los contemporáneos le dieron este nombre (Augusto) en señal de agradecimiento; en
lejanas tierras y continentes, en ciudades y pueblos, en su honor se levantan templos
y se hicieron sacrificios, reconociendo de este modo sus grandes virtudes y los beneficios recibidos por él. Una vez alcanzado el culmen de su poder y de su grandeza,
enseguida este hombre fue ejemplo para el mayor número de hombres del que se
tenga memoria y llevó las fronteras del poder romano a su máxima extensión, proporcionando un lugar seguro a las ciudades griegas y a las bárbaras, y respetando sus
formas de vida; primero con las armas, y luego sin ellas, les convenció para que le
siguieran, ganándoselos espontáneamente, por cuanto su filantropía tenía merecida
fama. Respecto a aquellas gentes de las que antes nada se conocía, ni siquiera sus
nombres, y que, en la memoria de los hombres nunca estuvieron sometidos a nadie, él
(Augusto) sometió a cuantos habitaban en los territorios que hay a este lado del Rin
y más allá del mar Jónico, y a las tribus ilíricas – los llamados panonios y dacios – ***
Todo el exordio es un panegírico de Augusto como conquistador y señor
de la ecúmene. Quizás coincida, o sea paráfrasis, del comienzo de la autobiografía del propio Augusto90. Es un guiño erudito, científico y encomiástico de
la extensión del territorio gobernado por Roma. Cabe recordar el gusto por
los estudios geográficos de Augusto, a quien se atribuye también una Corografia y un Breviarium totius imperii. Nicolás de Damasco al comienzo de la
obra refleja el gusto del príncipe, haciendo también una pequeña concesión
a otros intelectuales “filoaugusteos” como Estrabón. Un exordio parecido (y
87
88
89
90
Josefo, Ant. Iud. XVII 228.
Pol. Hist. I 4,2,4; I 16,11,4; V 33,2; IX 10,11,3; VIII 2,7,1; XII 23,7,7; XXIII 14,3,3.
Diod. Bibl. I 3,2.
CRESCI MARRONE 1993, 75-76; TROIANI 1998, 266-267.
224
Sabino Perea Yébenes
con idéntica finalidad) puede leerse en Vitrubio91 y, de forma contracta, en el
caput de las Res Gestae Divi Augusti, “quibus Orbem Terrarum Imperio Populi
Romani subiecit”. El dominio del orbe hace referencia también al imperium
de Augusto como general (mérito injustamente poco reconocido), a sus victorias92. Por tanto, Nicolás se suma a esta cohorte de intelectuales que celebra
la extensión del Imperio y ensalza la Pax Augusta, por la que trabaja personalmente, primero desde Judea, luego en Roma. Lo importante de este texto, y
que cuadra perfectamente con la ideología de Nicolás, es que subsidia las gestas militares al respeto, a la piedad, a la grandeza y a la filantropía del príncipe.
Como, en efecto, afirma E. Gabba, “A leader of outstanding wisdom, at the
head of the greatest empire ever known, Augustus had extended the frontiers
of the Roman world and had provided a framework for the existence and the
consciousness of Greek and barbarian alike, initially by force of arms, then
by a process of persuasion and reconciliation”93. Esta última es una parte del
proceso de aculturación del sometido al imperio de Roma en el que Nicolás
tiene un papel fundamental – en el caso de Judea – como embajador político
y como intelectual. “Nicolaus rightly insisted on the education and culture of
his hero [Augustus], which underlay the wisdom and justice whith which he
ruled the world”94.
c) La Autobiografía, [Idio" bivo"
El eje sobre el que gira la producción intelectual – y vital – de Nicolás de
Damasco es la educación, la ajgwghv, que habría que traducir más cabalmente
por “la formación intelectual”. No es casualidad que utilice el mismo término
al titular su autobiografía (Peri; tou` ijdivou bivou kai; th`" eJautou` ajgwghv")95,
así como la biografía del joven César, la Bivo" Kaivsaro", es decir, de Augusto
joven (Peri; prwvth" Kaivsaro" ajgwgh`").
Como muy bien indica Édith Parmentier-Morín, la mejor estudiosa de la
obra histórica de Nicolás, la Autobiografía, escrita en Roma al final de su vida,
recibe la influencia de la literatura latina, imitándola, por ejemplo, en el uso
91
De arch. I 1.
Octaviano mantuvo cinco guerras civiles, además de las guerras “de anexión” que “ensancharon
los límites del pomerium” (Aul. Gell. XIII 14; Tac. Ann. XII 23; Cass. Dio LV 6,6; Aur. Vict. 21,11), por
ejemplo, la anexión de Galatia en 25 a.C., y la pacificación de Hispania con la sumisión de los pueblos del
norte. Algunos fracasos posteriores – recordemos la celebérrima clades variana en el año 9 d.C. – frenaron el afán expansionista del régimen augusteo. De hecho, la frontera norte europea del Imperio romano
quedó establecida para siempre en el Rin (citado aquí también por Nicolás de Damasco) tras la derrota
de Varo en Teotoburgo.
93
GABBA 1984, 61-62.
94
GABBA 1984, 62.
95
Jacoby 90 F 131-139. PARMENTIER-MORIN 1998, 18-43.
92
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
225
de la tercera persona, como César en sus Comentarios, o como en la Autobiografía de Augusto. Los auto-elogios de Nicolás, como la modestia y el valor96,
a las que imprime un valor ético, se explican por los valores apologéticos de
la obra97, donde parecen converger dos tradiciones: por un lado, la de las Memorias y otros textos autobiográficos, por otro lado, los tratados sobre moral
consagrados a resaltar determinadas virtudes con un trasfondo filosófico, en
este caso, aristotélico.
d) La Étnica o Colección de historias curiosas, Paradovxwn ejqw`n sunagwghv
De esta obra, dedicada a Herodes, se conservan fragmentos en la obra de
Ateneo (s. III) y en el Florilegio de Estobeo, autor del siglo VI98. Se ha sugerido que esta obra está inspirada en los novmima barbarikav de Aristóteles99, es
decir basada en la primera etnografía jónica que desemboca en la paradoxografía helenística, de la que Nicolás se siente parte. Por su parecido se ha propuesto, con razón, una dependencia temática con Éforo, Teopompo, o con
el paradoxógrafo Alejandro Polihístor. Los textos que han llegado100, breves,
son ejemplo del interés de Nicolás por adquirir una vasta y diversa cultura.
Por extravagantes que sean las noticias que da de pueblos lejanos o extraños,
los expone con curiosidad, por su rareza, pero con respeto.
e) Nicolás peripatético101
Algunos autores recuerdan oportunamente que para los antiguos, como
Plutarco o Ateneo, Nicolás de Damasco es, sobre todo un filósofo, un filósofo
“de la física” que también escribe historia102. Incluso se ha visto que la forma
de titular su Historia General (según la Suda)103 – e[grafen iJstorivan kaqolikhvn
– deriva del concepto aristotélico “de lo universal”, de lo que concierne a
todos (kaqovlou, de katav y o{lo").
Nicolás no es un filósofo original, es un émulo de filósofos, sobre todo de
Aristóteles (de quien le interesan sobre todo los tratados de historia natural)104
96
Jacoby 90 F 137-138. Ver el apéndice del presente estudio.
PARMENTIER-MORIN 1998, 15.
98
Jacoby F 103-124. Todos estos textos paradoxográficos de Nicolás de Damasco pueden leerse en
español en la traducción de GÓMEZ ESPELOSÍN 1996, 145-157. Texto y traducción en PARMENTIER-MORIN
1998, 352-387.
99
GÓMEZ ESPELOSÍN 1996, 145-146.
100
PARMENTIER-MORIN 1998, 352-387, con comentario en notas.
101
Según la Suda, también fue “platónico” (JACOBY 90 T 1): filovsofo" peripathtiko;" h] platwnikov".
102
WACHOLDER 1962, 3; MORTLEY 1996, 18.
103
Jacoby 90 F 1.
104
DROSSAART LULOFS 1965 7-14 (con los testimonia filosófico-aristotélicos de Nicolás de Damasco).
97
226
Sabino Perea Yébenes
y también, por la misma empatía temática, de Teofrasto, en cuyos tratados
Historia plantarum105 y De causis plantarum106 se basa el tratado equivalente,
De plantis107, del Damasceno.
La obra de escritos aristotélicos de Nicolás (Peri; th`" jAristotevlou"
filosofiva") debía ser extensa108, y tiene importancia la revitalización del
espíritu peripatético en su tiempo, en que los estudios aristotélicos son escasos,
si exceptuamos los nombres de Andrónico y de Boetho de Sidón, cuya obra
ha llegado también fragmentada109. Nicolás compendia la Meteorología de
Aristóteles, una parte de la Metafísica, sobre matemáticas, sobre el cielo, y
principalmente las obras de física e historia natural del estagirita110, obras
subtituladas, conocidas y divulgadas en su versión latina como De generatione
et corruptione, Parva naturalia, De plantis111.
La enciclopedia bizantina Suda, resume así la vocación filosófica de Nicolás:
Se convirtió en un firme seguidor de Aristóteles, cautivado por la complejidad de la
cultura humana, y tenía la costumbre de decir que mostraba una predilección hacia
todas las ciencias porque contienen en gran medida todo aquello que necesita un
hombre libre, las que son útiles a lo largo de la vida y, por encima de todo, porque te
hacen sentirte bien cuando eres joven y cuando eres viejo.
(Suda, «Nicolaos Damaskenos» 393 [Jacoby 90 F 132,3])
El eco de la obra filosófica de Nicolás lo tenemos, por ejemplo, en la cita de
Diógenes Laercio, donde le considera “anti-épicúreo”112, y Simplicio recuerda sus opiniones en su Comentario a la Física de Aristóteles113.
105
106
107
HORT 1916.
DENGLER 1927.
MEYER 1841; HEMMERDINGER 1967; LEBEDER 1993; y especialmente, DROSSAART LULOFS - PORTMAN
1989.
108
DROSSAART LULOFS 1965, 7-14 (con los testimonia filosófico-aristotélicos de Nicolás de Damasco).
DROSSAART LULOFS 1965, 21-23.
110
jEk th`" Fusikh`" ajkroavsew"; ejn tw`n Meta; ta; fusikav; qeoriva tw`n jAristotevlou" Meta;
ta; fusikav (DROSSAART LULOFS 1965, 25).
111
DROSSAART LULOFS 1965, 27-34. Todos estos escritos se han conservado en griego (testimonia), en
árabe o siríaco, reunidos por DROSSART LULOFS 1965, 35-57 y edición bilingüe y comentarios, ibid. 60-170.
112
Diog. Laert., Vida de los filósofos ilustres X 3-4.
113
Simpl., In Physicis, 22, 22(2d) (= Jacoby 90 T 19): «Teofrasto dice que Jenófanes de Colofón,
el maestro de Parménides, supone que el primer principio es uno, o que lo que existe y el conjunto del
universo son uno (ni finito ni infinito, ni móvil ni inmóvil). En su tratado “Sobre los dioses”, Nicolás
de Damasco indica que, según él, el primer principio es infinito e inmóvil, pero Alejandro dice que este
mismo elemento es finito y de forma esférica». Este autor también menciona a Nicolás en su Comentario
al Manual de Epicteto 37.
109
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
227
Conclusiones
a) Un intelectual ¿moralista o educador?
Nicolás es un intelectual de primer orden. Por la variedad de sus escritos,
que hemos recordado, es quizás el más prolífico y el más multidisciplinar de
su época. En el siglo I a.C. no conocemos otros filósofos que escriban historia ni otros historiadores que hicieran (o hubieran hecho) filosofía. Nicolás
es un apasionado por la cultura, y por la política; y ambas las practicó con
fruición toda su vida, desde sus tiernos años de infancia en Damasco, hasta
sus últimas horas en Roma. La producción literaria no es el único mérito de
nuestro autor, pues sabemos que, aproximadamente a partir de los 40 años
de edad, se dedicó con pasión a la política, en Judea, sin abandonar tampoco
la vocación literaria – ahora centrada únicamente en su producción histórica
y memorialística – y los viajes entre Roma y Judea. La ruta marítima Roma Alejandría - Cesarea Marítima, el “puerto oficial” romano en la costa judía,
era muy familiar a nuestro hombre.
Poseedor de una vastísima cultura, siempre cultivada mediante lecturas
ajenas y escrituras propias, Nicolás hizo de la cultura, y de su educación, un
signo de su personalidad pública, muy afamada, de su sabiduría, de su mesura. Estos valores los practicó los años que estuvo en la corte del rey Herodes, formando parte de sus fivloi, consejeros áulicos. Este fue el periodo más
intenso de la vida de Nicolás, siempre “animada” por las continuas intrigas
palaciegas de los vástagos del rey, y por las complejas relaciones que el rey
mantenía con (y contra) sus vecinos idumeos, y la entente política que había
que mantener con los romanos, con Roma, con el mismo Augusto.
En toda su trayectoria, intelectual y política, Nicolás hizo bandera de la
ajgwghv, de la formación o educación de gran nivel, que no sólo es aconsejable,
sino que es fundamental para todo hombre, especialmente para los gobernantes. Posiblemente en el horizonte de esta idea de Nicolás está la obra de
Jenofonte sobre la educación del príncipe Ciro114. Sólo a través de la formación intelectual el hombre – en la vida privada y en la vida pública – puede/
debe aspirar a la excelencia, y hasta a la felicidad, porque la educación, la alta
cultura, es lo que nos hace humanos apartándonos de la barbarie, esa barbarie
que el propio Nicolás dibuja en los fragmentos que quedan de su obra etnográfica115.
La ajgwghv adquiere en Nicolás el rango de valor moral. Y sólo en este sentido Nicolás es un moralista, al estilo de cómo serlo después Plutarco, para
114
115
Cf. TOHER 2003a, 441.
Jacoby 90 F 103-124.
228
Sabino Perea Yébenes
quien la educación y la importancia de la didáctica son fundamentales en sus
obras, ya en los Moralia, ya en las biografías, ya en sus obras sobre Antiquitates. Con menos raíz filosófica moral y metafísica, Nicolás es – podríamos definirlo así – un “pedagogo moralista”, cuyos valores supremos no son religiosos
sino culturales. Por eso no defiende los valores religiosos judíos, defiende la
política “de Estado” judía, donde han de convivir judíos, griegos y romanos,
cada uno en su papel. Esos tria corda de los que hablaba el maestro Arnaldo
Momigliano.
Por tanto, la “moral práctica” de Nicolás es la cultura adquirida, la educación, que él llevó a sus más altas cota en la política, que era para él una forma
superior de filosofía.
A nivel personal, sus “valores éticos” son: la falta de ambición, particularmente de dinero116, la fuerza y el coraje117, el amor a la justicia118, la moderación119, la sencillez120, la generosidad121, el amor a la verdad mediante el
estudio continuo, teniendo siempre como eje y guía a la filosofía122, que es
para Nicolás un bien tan supremo que, podríamos decir, en su caso sustituye
a la religión123.
b) Dicere laudes: Nicolás, panegirista de Augusto
Nicolás fue, en opinión de Josefo124, un historiador “servil” del rey Herodes. Pero lo mismo podríamos reprochar al historiador judío si preguntásemos la razón de su historia y la relación política con su “señor” Vespasiano. Y
del mismo modo podríamos echar en cara a Josefo la falta de reconocimiento
explícito hacia la obra de Nicolás, que él sigue al pie de la letra para narrar los
acontecimientos del reinado de Herodes, porque sabe que Nicolás los había
vivido en primera persona, al menos el último periodo, del 17 al 4 a.C.
Con frecuencia la opinión de los historiadores modernos sobre Nicolás de
Damasco se reduce a decir simplemente que era un “adulador” de Augusto.
Los conceptos “servil con Herodes” y “adulador de Augusto” son juicios
reduccionistas e injustos con un hombre tan complejo, con una obra tan vasta
y una vida tan longeva.
116
Jacoby 90 F 137,1-2.
Jacoby 90 F 137,3.
118
Jacoby 90 F 137,4.
119
Jacoby 90 F 137,5.
120
Jacoby 90 F 138.
121
Jacoby 90 F 139.
122
Jacoby 90 F 137,6.
123
Los aspectos religiosos son prácticamente irrelevantes en toda la obra histórica de Nicolás. En
ningún momento da a los conflictos judíos un tratamiento religioso, sino simplemente social o político.
124
Ant. Iud. XVI 183-186. Ver este texto más arriba.
117
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
229
Nuestro conocimiento de la vida pública de Nicolás se centra, salvo anécdotas anteriores, en los últimos años de su vida, en el periodo 17-4 a.C., coincidiendo plenamente, con el último decenio herodiano y con el gobierno de
Augusto. Estas dos coordenadas geo-políticas (Judea y Roma) presidirán sus
acciones políticas y su ideología como escritor.
Nicolás es, ciertamente, un cortesano, y un cortesano fiel. Las conversaciones y los acercamientos de Nicolás a los jefes de Estado con los que se entrevista (el rey Herodes, Marco Agripa, el propio Augusto), debían tener como
tema “profesional” la política – la política entre Roma y Judea, siempre limando asperezas entre ambas cortes – y como tema “vocacional”, la literatura.
Todos estos personajes – Agripa, Augusto, Herodes, Nicolás – escribieron
libros de memorias autógrafas. Por distintas razones y en distinto momento.
Y quizás unos intentando emular a otros, o sintiéndose estimulados por las
lecturas de los demás. Nicolás revisó, y quizás redactó en parte las memorias
de Herodes; seguro que conocía, por escrito o por voz detalles de las Memorias de Agripa, y puede aceptarse que la Autobiografía de Nicolás se inspira
parcialmente en el De vita sua de Augusto. Pero no sólo eso, además Nicolás
escribió la biografía de Augusto, la Bivo" Kaivsaro". Por tanto, con este tejido
de amistades mutuas, que sobrepasan las simples relaciones de amicitia, para
mezclarse con cuestiones diplomáticas y de Estado, resulta comprensible que
el tinte de la biografía de Augusto escrita por Nicolás sea “aduladora”. Naturalmente. Nicolás estaba en Roma, y visitaba la corte imperial. Era amigo
de Augusto125. No podía ser de ningún modo anti-romano o anti-augusteo,
porque le hubiera costado caro: la destrucción de su obra y salvar el cuello.
Existen varias razones para que Nicolás escribiera una biografía panegírica
de Augusto en los términos que lo hizo:
• Dar a conocer detalles de la vida de Augusto, en su juventud, en los círculos eruditos de Oriente. Esta obra no podía presentar a un Augusto educado
en la filosofía y las artes al modo helenístico, pero sí una “buena educación”
romana basada en el amor a la familia, el respeto a las leyes y cierta instrucción
en la retórica. La Vita estaba escrita en griego y se dirigía a un público griego.
Por tanto, si hacemos algunas correcciones a la supuesta “falta de objetividad” de Nicolás cuando este narra la vida de Augusto, la obra es una fuente
extremadamente importante para conocer los primeros años del princeps e
ilustrar su ascenso político. Pocos historiadores estaban tan cerca de los acontecimientos, y pocos historiadores podían consultar fuentes oficiales, y menos
aún eran los que podían conversar con los protagonistas – éste era el caso de
Nicolás con Augusto – , de modo que, a falta de los últimos libros, perdidos,
de Livio, la obra histórica de Nicolás (lo que queda de la Vida de Augusto y
125
HADAS-LEBEL 2009, 46-48.
230
Sabino Perea Yébenes
los libros 117-124 de la Historia General, que tratarían ya del reinado de Augusto) tienen una importancia capital, como sabían muy bien los historiadores
posteriores, como Josefo126, Plutarco, Apiano o Dión Casio.
• Importa también el reconocimiento expreso de la “legitimidad” del régimen augusteo, con una exposición de acontecimientos que minimizan la figura de Antonio127, por una sola o principal razón: para Nicolás, Antonio no
actuó como un hombre de Estado, dejándose arrastrar por la pasión amorosa.
Por el contrario, el joven Octaviano representaba “la lealtad”, que se sustanció en Accio. Y sólo la lealtad – otro valor supremo para Nicolás – es capaz
de generar lealtad. Y este concepto lo lleva Nicolás tanto al ámbito personal
como a la relación entre Estados. En toda su vida política y literaria, Nicolás
busca afianzar los lazos de lealtad entre Judea y Roma, a través de las relaciones entre las élites, entre los gobernantes y sus consejeros y amigos, fivloi,
entre los que él, indudablemente, se encuentra.
La idea que el público romano y griego podía tener del “filorromanismo”
de Nicolás, o de su “panegirismo augusteo”, su dicere laudes, le debía importar muy poco a él. Él fue siempre un hombre coherente toda su vida, y en el
horizonte final le importaba más mantener sus lealtades, personales y políticas, que todo lo demás. Por eso se ocupó y se preocupó al final de su vida
en hacer un auto elogio de sus virtudes en la Autobiografía, como viniendo
a decir que él pudo equivocarse en algún momento, al mostrar abiertamente
sus simpatías políticas, pero que fue un hombre honrado, leal, y culto, y que
ante cualquier reproche podía responder como un hombre sabio, como un
filósofo, algo que, en la Roma de su tiempo, desaparecido Cicerón, estaba
realmente al alcance de muy pocos.
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126
127
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Al cual, recordemos, Nicolás había conocido personalmente en Alejandría hacia el año 36.
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dell’occidente (Bergamo, 18-21 settembre 1995), Roma, 265-275.
VARA DONADO, J. 1997, Flavio Josefo: Antigüedades Judías, Madrid.
WACHOLDER, B.Z. 1962, Nicolaus of Damascus, Berkeley - Los Angeles.
WACHOLDER, B.Z. 1989, Josephus and Nicolaus of Damascus, in L.H. FELDMAN - G.
HATA (edd.), Josephus, the Bible, and History, Detroit.
WILKER, J. 2007, Herodes Iudaicus, Herodes als “jüdischer Konig”, in L.M. GÜNTHER
(ed.), Herodes und Rom, Stuttgart, 27-45.
WILLIAMS, D.S. 1993, On Josephus’ Use of Nicolaus of Damascus: a Stylometric Analysis of BJ 1.225-273 and AJ 14.280-369, “SCI” 12, 176-187.
ZONTA, M. 2001, Il compendio aristotelico di Nicolao Damasceno; nuovi dati dalla tradizione siriaca, in R.B. FINAZZI - A. VALVO (edd.), Pensiero e istituzioni del mondo
classico nelle culture del Vicino Oriente, Alessandria, 315-339.
236
Sabino Perea Yébenes
Tabla 1 – Simpatías políticas. Autores anti- y pro- Octaviano Augusto
Siglos I a.C. - I d.C.
Basado en E. Goltz Huzar 1978, 240
pro republicanos
(M. BRUTUS, 85-42 a.C. Cartas)
(L. CALPURNIUS BIBULUS, m. 32 a.C.)
(P. VOLUMNIUS, s. I a.C.)
Fragmentos de propaganda
pro Octaviano-Augusto
AUGUSTUS,
63 a.C.-14 d.C. Res Gestae
(M. AGRIPPA, 63-12 a.C.)
(G. MAECENAS, m. 8 d.C.)
(G. OPPIUS, s. I a.C.)
(L. CORNELIUS BALBUS,
s. I a.C.)
Fragmentos de propaganda
CICERO, 106-43
(TIRO, s. I a.C.
Vida de Cicerón)
VARRO, 116-17 a.C.
(MESSALA CORVINUS,
64 a.C.-8 d.C.)
(TITUS LABIENUS, época
augustea)
(TIMAGENES ALEXANDRINUS, época augustea)
(M. ANTONIUS, 83/82 – 30
a.C., discursos, De ebrietate
sua)
JULIUS CAESAR, 100-44 a.C.
(OLYMPUS, s. I a.C.)
Fragmentos de propaganda
(ASINIUS POLLIO,
76 a.C.-4 d.C.)
(Q. DELIUS, s. I a.C.)
(MUNATIUS PLANCUS, s. I a.C.)
(M. FADIUS GALLUS, s. I a.C.)
VIRGILIO, 70-19 a.C.
HORACIO, 65-8 a.C.
PROPERCIO, 50-16 a.C.
NICOLAUS DAMASCENUS,
64 a.C.- 4 d.C.
Caesar
Augustus
LIVIO, 59 a.C.-17 d.C.
Cicero
Caesar
Augustus
(CREMUTIUS CORDO,
m. 25 d.C.)
(CASSIUS SEVERUS,
m. 35 d.C.)
(THRASEA PAETUS,
m. 66 d.C.)
pro Antonio
VALERIUS MAXIMUS m. ca.
30 d.C.
Varro
Cicero
Livio
VEL. PATERCULUS,
19 a.C.-31 d.C.
Varro
Cicero
(Asinius Pollio)
(Messalla Corvinus)
Augustus
Livius
SENECA, 5 a.C.-65 d.C.
LUCANUS, 39-65 d.C.
JOSEPHUS, 37-100 d.C.
Nicolaus Damascenus
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
237
Tabla 2 – Breve guía cronológica (20-4 a.C.) de acontecimientos
citados en este estudio
20
Augusto visita a Herodes en Galilea, Samaría (¿y Judea?). Augusto añade a los territorios
de Herodes las regiones de Gaulanitis, Hulata y Fanias. Augusto nombra (por tercera vez) a
Herodes como epitropos de Coele-Syria.
18
Marco Agripa co-regente de Augusto. Herodes socius et amicus populi Romani.
17
Herodes acompaña a sus hijos (Alejandro y Aristóbulo) a Roma, donde son educados en
la corte imperial (segundo viaje a Roma). M. Agripa vuelve a realizar un segundo viaje por
Oriente (17-13). Augusto adopta a Gayo y a Lucio, hijos de Marco Agripa y de Julia.
16
Herodes visita a M. Agripa en Lesbos.
15
M. Agripa hace una visita de Estado a Judea.
14
Herodes acompaña a M. Agripa en su expedición al Mar Negro y al Ponto. Les acompaña
Nicolás de Damasco. Malas relaciones de Herodes con sus hijos Alejandro y Aristóbulo. Herodes, gracias a la mediación de Nicolás, intercede ante M. Agripa por los judíos de Ilium.
13
Herodes va a Jonia a despedir a M. Agripa. Antípatro, hijo mayor de Herodes, junto a Nicolás
de Damasco, acompañan a M. Agripa en su viaje, por vía marítima, a Roma.
12
Delante de Augusto, Herodes (en su tercer viaje a Roma) acusa a Alejandro y a Aristóbulo de
conspiración. Vuelven a Judea: Herodes, sus tres hijos (Antípatro, Alejandro y Aristóbulo) y
Nicolás de Damasco. Augusto otorga a Herodes la mitad de los beneficios de explotación de
las minas de cobre de Chipre. Augusto es nombrado pontifex maximus. Muerte de M. Agripa.
10
Herodes manda que Alejandro y Aristóbulo sean encarcelados. Herodes acusa al nabateo
Syllaios ante el gobernador Saturnino.
9
Aretas IV, rey de Nabatea, aliado romano. Herodes invade Nabatea y es reprendido por Augusto. Herodes cae en desgracia ante Augusto.
8
Herodes visita Roma por cuarta vez; acompaña a su hijo Antipas para que allí reciba educación. Nicolás de Damasco, que ha viajado con ellos, reconcilia al emperador con Herodes.
7
Alejandro y Aristóbulo son condenados en Berythus. Herodes nombra sucesores a sus hijos
Antípatro (primogénito) y Filipo (el cuarto hijo de Herodes, fruto de su unión con Mariamme II). Antípatro conspira contra Filipo y contra su “medio hermano” Filipo. Mediación de
Nicolás de Damasco en los conflictos familiares.
6
Varo gobernador de Siria (6-4). Herodes rompe relaciones con los fariseos; ejecuciones. Syllaios es asesinado en Roma. Arquelao y Antipas vuelven a Jerusalén.
5
Antípatro es conducido a Judea. Juicio. Encarcelamiento. Herodes se divorcia de Mariamme
II. Nombra a Matatías Sumo Sacerdote (5-4).
4
Revuelta de Judas y de Matías. Durante el conflicto interno, son nombrados Sumos Sacerdotes: José hijo de Elam (un solo día), Joezar hijo de Boethos, Eleazar hijo de Boethos.
Antípatro es ejecutado. Muerte de Herodes en Jericó, a finales de marzo. Nicolás de Damasco
va a Roma a presentar ante Augusto el último testamento de Herodes (el séptimo que hizo
en los últimos años); y esperar allí el arbitraje del emperador. Fecha de la última noticia de
Nicolás de Damasco en Roma. ¿Fecha de su muerte?
238
Sabino Perea Yébenes
Apéndice documental
Autobiografía de Nicolás de Damasco
(Jacoby, Fragmentos 131-139)128
131. Su familia
NOBLEZA DE SUS PROGENITORES
Jacoby 90 F 131,1 = Suda,
s.v. jAntivpatro" (alpha 2705)
Antípatro: padre del historiador Nicolás
de Damasco; igual que éste también su
esposa, la madre de Nicolás, eran estimados en Damasco por su sabiduría y por
el conjunto de sus méritos ilustres. Eran
igualmente muy ricos, pero no vanidosos
pues, a pesar de gozar de tan buena reputación, no presumían de ella.
Nikolavou tou`
Damaskhnou` path;r tou` iJstorikou`,
o}" e[sce Stratonivkhn gunai`ka, th;n
mhtevra Nikolavou, oi} diafanei`" h\san
ejn Damaskw`/ katav te swfrosuvnhn
kai; a[llhn lamprovthta. Plouvtw/ te
ga;r pollw`/ diafevronte" h{kista ejp∆
aujtw`/ ejmegaluvnonto, eujdoxiva" te ouj
ta; deuvtera ferovmenoi bracu; tou`to
ejlogivzonto.
FORMACIÓN INTELECTUAL DE SU PADRE
Jacoby 90 F 131,2 = Suda, s.v.
Antípatro era también un orador excepcional, y lejos de abrumar a cualquiera,
usó este don para proporcionar innumerables servicios, no sólo a su ciudad,
sino también a los ciudanos comunes. En
efecto, era el mejor de todos aplicando las
leyes y arbitró en gran cantidad de pleitos privados entre sus conciudadanos, y
muchos otros entre su patria y los principados vecinos. Así había conseguido el
respeto de todos. Se le confiaron gran número de embajadas y de misiones, y ejerció todas las magistraturas locales.
oJ de; dh; A
j ntivpatro" kai; lovgou
deinovthti prou[cwn e[blaye me;n oujd∆
oJntinou`n, w[nhse de; muriva touvtw/
ouj tw`n koinw`n movnwn, ajlla; kai;
tw`n ajstw`n sucnouv". dikaiosuvnhn
ga;r ajskw`n, ei[per ti" e{tero",
plei`sta me;n dihv/thse neivkh toi`"
polivtai" pro;" ajllhvlou", plei`sta
de; th`/ patrivdi pro;" tou;" ejn kuvklw/
dunavsta": kai; ejtima`to uJpo; pavntwn
dia; tou`to. pleivsta" de; ejpisteuvqh
presbeiva" kai; ejpitropa;" ajrcav" te
pavsa" diexh`lqe ta;" ejgcwrivou".
128
Const. Porfyr., Excerpta de virtutibus et vitiis (edd. Boissevain - Büttner-Wobst - Roos 1906-1910);
Const. Porfyr., Excerpta de insidiis (ed. De Boor 1905); Jacoby F 131-139; PARMENTIER-MORIN 1998, 18-36.
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
239
MUERTE Y PIEDAD
Jacoby 90 F 131,3 = Suda,
s.v. jAntivpatro" (alpha 2705)
Cuando le llegó la hora de la muerte dejó
un solo encargo a su hijo Nicolás y a su
hermano129 Ptolomeo: ofrecer incienso
a Zeus tras su muerte, para cumplir la
promesa que él mismo le hizo al dios.
Claramente estaba pensando (creo yo)
en quedar en paz con los dioses, como
conviene a los moribundos que no tienen
esperanza de recobrar la vida.
teleutw`n te to;n bivon oujk e[stin o{
ti oujk ejpevskhye Nikolavw/ tw`/ uiJei`
kai; Ptolemaivw/ tw`/ touvtou ajdelfw`,/
h] tw`/ Dii; qumiathvrion, o{per e[fqh
aujto;" proupeschmevno" tw`/ qew`,/
kataskeuavsai, ejpeida;n teleuthvsh/:
dhlw`n oi\mai o{ti to; pro;" qeou;" o{sion
dei` kai; teleutw`nta" fulavttein kai;
mhde;n e[ti ajpolauvsesqai tou` bivou
mevllonta".
132. Su formación
EDUCACIÓN ADOLESCENTE DE NICOLÁS
Jacoby 90 F 132,1 = Suda,
s.v. Nikovlao" Damaskhnov" (393)
El Damasceno había recibido una educación completa; su padre se había tomado
el asunto muy en serio en tanto que él
mismo alcanzó riqueza y buena reputación gracias a su educación. Le invadió
(a Nicolás) una pasión inusitada por la
cultura, por las dotes naturales excepcionales que había recibido; era célebre en
su patria antes de que le saliera la barba, sobresaliendo sobre los nobles de su
edad. En efecto, destacaba especialmente
en los ejercicios literarios y, por tanto, en
general en el arte de la poesía, y compuso
tragedias y comedias famosas; luego se
hizo más sabio, hasta el punto de desarrollar al mismo tiempo sus facultades
en la retórica, la música, el estudio de las
ciencias y del conjunto de la filosofía.
ou|to" oJ Damaskhno;" ejn th`/ a[llh/
paideiva/ teqrammevno" dia; to; kai; to;n
patevra aujtou` peri; tau`ta mavlista
spoudavsai, ejpeidh; ajp∆ aujth`" aujtw`/
o{ te plou`to" kai; hJ dovxa uJpegevneto,
e[ti ma`llon hu[xhse tauvthn e[rwtav
tina ajdihvghton aujth`" scwvn, a[llw"
te kai; fuvsew" ouj fauvlh" labovmeno",
w{ste pri;n geneia`n, eujdovkimo" ei\nai
ejn th`/ patrivdi kai; tw`n hJlivkwn
diafevrein: grammatikh`" te ga;r
oujdeno;" cei`ron ejpememevlhto kai;
di∆ aujth;n poihtikh`" pavsh", aujtov"
te tragw/diva" ejpoivei kai; kwmw/diva"
eujdokivmou": e[ti ma`llon u{steron
aujxhqeiv", w{ste kai; th;n duvnamin
sunauxh`sai rJhtorikh`" te kai;
mousikh`" kai; th`" peri; ta; maqhvmata
qewriva" kai; filosofiva" pavsh".
129
Hermano de Nicolás e hijo mayor de Antípatro.
240
AMOR
Sabino Perea Yébenes
A LA FILOSOFÍA Y LOS SABERES ELE-
VADOS
Jacoby 90 F 132,2 = Suda,
s.v. Nikovlao" Damaskhnov" (393)
Se convirtió en un firme seguidor de Aristóteles, cautivado por la complejidas de la
cultura humana, y tenía la costumbre de
decir que mostraba una predilección hacia todas las ciencias porque contienen en
gran medida todo aquello que necesita un
hombre libre, las que son útiles a lo largo
de la vida y, sobre todo, porque te hacen
sentirte bien cuando eres joven y cuando
eres viejo. Decía también que si las Musas
son numerosas en la tradición de los autores de Teogonías, esto se debe a la gran
variedad de los saberes y de su utilización
precisa en cada circunstancia concreta
de la vida. Consideraba que el hecho de
seguir o de abandonar a las Musas no es
comparable a practicar o abandonar un
oficio vulgar y que, por tanto, un hombre
corriente que las ignora y conoce sólo oficios vulgares, debe ser reprendido.
zhlwth;" ga;r A
j ristotevlou" genovmeno"
kai; to; poikivlon th`" peri; to;n a[ndra
paideiva" ajgaphvsa" cavrin eijdevnai
pa`sin e[legen ajei; toi`" maqhvmasi polu;
me;n e[cousi to; ejleuqevrion, polu; de;
to; crhvsimon eij" to;n bivon, pavntwn
de; mavlista to; eujdiavgwgon prov" te
neovthta kai; gh`ra". e[lege de; kai; ta;"
Mouvsa" a[ra dia; tou`to polla;" uJpo;
tw`n qeolovgwn paradedovsqai, o{ti polu;
to; poikivlon e[cei ta; paideuvmata kai;
pro;" pa`san bivou crh`sin oijkj ei`on: kai;
ou[te th;n ejmpeirivan aujtw`n ou[te th;n
ajpovleiyin oJmoivw" uJpelavmbanen ei\nai th`/
tw`n banauvswn tecnw`n, ajlla; toujnantivon
ejponeivdiston toi`" metrivw" zw`si thvn te
touvtwn a[gnoian kai; th;n tw`n banauvswn
ejpisthvmhn. ou|to" me;n ou\n oujk e[stin
o{tw/ tw`n paideumavtwn pro;" ajrgurismo;n
ejcrhvsato, oujde; ejkaphvleusen.
METÁFORA FILOSÓFICA DE LA HISTORIA
Jacoby 90 F 132,3 = Suda,
s.v. Nikovlao" Damaskhnov" (393)
Nicolás decía que la cultura, apreciada en
su totalidad, es como un viaje: viajando las
personas hacen un largo camino para quedarse aquí una sola noche, allí para hacer
una sola comida, más allá para pasar algunos días; y hay paisajes que la gente contempla sin apartarse del camino, porque
sabe que éste ha de ser la vía de regreso a
sus hogares; del mismo modo, para contemplar la cultura en su totalidad, es necesario prestar mucha atención a algunos
autores, menos a otros, para captar bien
la totalidad, una parte, o únicamente los
elementos. Pero es necesario no apartarse de la filosofía, que es el medio más útil
para encontrar lo que es verdaderamente
el hogar ancestral de cada uno.
e[fh de; Nikovlao" oJmoivan ei\nai th;n
o{lhn paideivan ajpodhmiva./ wJ" ga;r ejn
tauvth/ prossumbaivnei toi`" ajpodhmou`si
kai; makra;n oJdo;n diexiou`sin o{pou me;n
ejgkatavgesqaiv te kai; ejnaulivzesqai
movnon, o{pou d∆ ejnarista`n, o{pou de;
pleivou" ejndhmei`n hJmevra", ejnivou"
de; tovpou" ejk parovdou qewrei`n,
ejpanelqovnta" mevntoi tai`" eJautw`n
ejnoikei`n eJstivai", ou{tw kai; dia; th`"
o{lh" paideiva" diercomevnou" dei`n ejn
oi|" me;n ejpithdeuvmasin ejpi; plevon
ejndiatrivbein, ejn oi|" d∆ ejp∆ e[latton:
kai; ta; me;n o{la, ta; de; ejk mevrou", ta;
de; a[cri stoiceiwvsew" paralambavnein
kai; to; ejkeivnwn crhvsimon katascovnta"
ejpi; th;n wJ" ajlhqw`" patrwva
/ n eJstivan
ejlqovnta" filosofei`n.
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
241
133. Su prestigio como diplomático
Jacoby 90 F 133 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 326,3
…buscando130 en él al mismo tiempo al
filósofo y al hombre sin recor, y le aportaba mucho honor y prestigio.
*** kai; parakalevsa" oi|a dh;
filovsofon kai; ajmnhsivkanon ejn polu;
pleivoni h\ge timh`/ kai; eujnoiva/.
134. Defensa de los habitantes de Ilión
ACCIÓN DIPLOMÁTICA EN ILIÓN
Jacoby 90 F 134 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 326,5 - 327,2
En este episodio Nicolás demostró una
gran generosidad. Julia, hija de César
[Augusto] y esposa de Agripa había llegado a Ilión de noche, en un momento en
que el río Escamandro, se había desbordado por violentas tormentas; ella estuvo
a punto de morir al tratar de cruzarlo con
su séquito, pero los habitantes de Ilión no
tuvieron noticia de esto. Agripa, furioso
de ver que los habitantes de Ilión no se
habían preocupado de salvarla, les impuso una multa de cien mil dracmas de plata.
Ellos no sabían qué hacer, pues no habían
previsto ni la tormenta ni la llegada de la
hija de Augusto. Al no saber en qué términos hablarle a Agripa, se dirigieron a
Nicolás, que se encontraba allí, rogándole
que pidiera a Herodes que actuara como
su defensor y protector. Nicolás demostró
que era un hombre de gran corazón, y por
el bien de esta gloriosa ciudad, presentó la
petición al rey exponiéndole el caso de la
siguiente manera: la cólera de Agripa contra los habitantes de Ilión no estaba justificada, ya que, por su lado, no se les había
avisado de la llegada de su esposa a su
ciudad y, por otro lado, de ningún modo
o{ti ejpravcqh ti filanqrwpiva" pollh`"
ejcovmenon Nikolavw/. jIliei`" gavr,
ajfiknoumevnh" nuvktwr wJ" aujtou;"
th`" Kaivsaro" me;n qugatrov",
gunaikov" de; jAgrivppa, kai; tou`
Skamavndrou megavlou rJuevnto" uJpo;
ceimavrrwn pollw`n, kinduneuouvsh"
peri; th;n diavbasin ajpolevsqai su;n
toi`" komivzousin aujth;n oijkevtai"
oujk h[/sqonto. ejf∆ oi|" ajganakthvsa"
oJ jAgrivppa", o{ti ouj parebohvqhsan
oiJ jIliei`", devka muriavsin aujtou;"
ejzhmivwsen ajrgurivou. oiJ de; ajpovrw"
e[conte", kai; a{ma oujk proupidovmenoi
to;n ceimw`na oujde; o{ti ejxivoi hJ
pai`", jAgrivppa/ me;n oujd∆ oJtiou`n
eijpei`n ejtovlmhsan, h{konta de; to;n
Nikovlaon deovmenoi parascei`n auJtoi`"
bohqo;n kai; prostavthn.
kai; o}" mavla proquvmw" uJpevsth dia;
th;n th`" povlew" dovxan kai; ejdehvqh
tou` basilevw" dihghvsatov te aujtw/`
to; pra`gma, wJ" ouj dikaivw" aujtoi`"
ojrgivzetai, ou[te proeipw;n o{ti pevmpoi
th;n gunai`ka wJ" aujtou;" ou[q∆ o{lw"
ejkeivnwn proh/sqhmevnwn dia; to; nukto;"
ijevnai. tevlo" d∆ ou\n ajnadexavmeno"
130
¿Herodes?
242
Sabino Perea Yébenes
podían haber visto su llegada por causa
de la oscuridad de la noche. Por acabar:
Herodes aceptó ser su protector, consiguió que se quitara la multa, indicándolo
mediante una carta. Como entretanto los
habitantes de Ilión estaban temerosos entre ellos y desesperados por que la causa
se resolviera a su favor, Herodes confió la
carta a Nicolás, que tomó un barco rumbo a Quíos y a Rodas, donde se encontraban sus hijos [de Herodes], pendiente
de que, a su lado, acompañara a Agripa a
Paflagonia. Nicolás hizo la travesía desde
Amisos a Bizancio, desde donde alcanzó
Ilión pasando por la Tróade, y transmitió
la carta que perdonaba la deuda a los habitantes de Ilión; éstos le rindieron, a él
mismo y todavía más al rey, los honores
más altos.
oJ anh;r th;n prostasivan eujrivsketai
aujtoi`" th;n a[fesin th`" zhmiva" kai;
th;n uJpe;r tauvth" ejpistolhvn, a{te dh;
ajpelhluqovtwn h[dh dia; to; ajpognw`nai
th;n ajpovlusin, Nikolavw/ divdwsi
plevonti ejpi; Civou kai; JRovdou, e[nqa
h\san aujtw/` oiJ uiJei`": aujto;" ga;r
ejpi; Paflagoniva" h[/ei su;n jAgrivppa/.
Nikovlao" de; ejk th`" jAmisou` pleuvsa"
ejpi; Buzavntion kajkei`qen eij" th;n
Trw/avda gh`n ajnevbh eij" [Ilion kai;
th;n th`" ajpoluvsew" tou` crevou"
ejpistolh;n ajpodou;" sfovdra uJpo; tw`n
aujtov" te kai; e[ti ma`llon oJ
basileu;" ejtimhvqh.
135. El filósofo y el historiador
LABOR
INTELECTUAL DE
CORTE DE
NICOLÁS
EN LA
HERODES
Herodes abandonó su antiguo amor por
la filosofía (como le ocurre a menudo a
aquellos que el poder procura un montón de privilegios) y se dio a una nueva
pasión por la retórica. Le pedía a Nicolás
que hiciera con él ejercicios de declamación, a dúo. Luego le captó otra pasión, la
historia, de la que Nicolás le había dicho
que era lo mejor de todo, explicándole
que era la ciencia política por excelencia
y que debía ser utilizada por un rey para
conocer los acontecimientos y los hechos
del pasado. Herodes, entonces, se volcó con ardor hacia la historia, ordenando a Nicolás a que escribiera una obra
histórica. Se pusieron manos a la obra
con ímpetu redoblado; [Nicolás] reunió
los elementos de una Historia general
y cumplió una tarea titánica, que nadie
Jacoby 90 F 135 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 327,3-17
o{ti JHrwvdh" pavlin diameqei;" to;n
filosofiva" e[rwta, o} filei` toi`"
ejn uJperoch`/ ou\si sumbaivnein dia;
to; plh`qo" tw`n ejxallattovntwn
aujtou;" ajgaqw`n, ejpequvmhse pavlin
rJhtorikh`" kai; Nikovlaon hjnavgkaze
surrhtoreuvein aujtw`/,
kai; koinh`/ ejrrhtovreuon. au\qi"
d∆ iJstoriva" aujto;n e[laben <e[rw">,
ejpainevsanto" Nikolavou to;
pra`gma kai; politikwvtaton ei\nai
levgonto", crhvsimon de; kai; basilei`,
wJ" ta; tw`n protevrwn e[rga kai;
pravxei" iJstoroivh. kai; ejpi; tou`to
oJrmhvsa" prouvtreye kai; Nikovlaon
pragmateuqh`nai ta; peri; iJstorivan.
oJ de; meizovnw" e[ti w{rmhsen ejpi;
to; pra`gma, pa`san ajqroivsa" th;n
iJstorivan mevgan te povnon uJposta;"
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
antes había realizado. Fue un trabajo extenso y difícil, y cuando la hubo acabado, él exclamó que, si Euristeo hubiera
mandado esta prueba a Héracles, habría
fracasado totalmente. Después Herodes,
para hacer la travesía hasta Roma, donde
debía encontrarse con César [Augusto],
llevó a Nicolás a bordo con él, y juntos
hablaban de filosofía.
243
kai; oi|on oujk a[llo": ejn pollw`/ de;
crovnw/ filoponhvsa" ejxetevlesen
aujth;n e[legev te wJ" tou`ton to;n a\qlon
Eujrusqeu;" eij prouvteinen
sfovdra a]n aujto;n
ajpevtrusen. ejk touvtou plevwn eij"
wJ" Kaivsara JHrwvdh" ejph`ge
to;n Nikovlaon oJmou` ejpi; th`" aujth`"
nhov", kai; koinh`/ ejfilosovfoun.
136. Misiones diplomáticas y políticas
ÉXITO DE LA EMBAJADA DE NICOLÁS
ROMA SOBRE NABATEA (AÑO 8-7)
EN
Jacoby 90 F 136,1 = Const. Porfyr.,
De insidiis I 3-10
Herodes había decidido lanzar una expedición contra Arabia sin el permiso de
César [Augusto]; por esta razón, este último, tras haber expresado su opinión de
viva voz y mostrarse muy enojado contra
Herodes, le mandó una carta muy dura
e hizo que los embajadores volvieran
sin protocolo. Nicolás fue a hablar con
César [Augusto] y aparta también de
Herodes las acusaciones lanzadas contra
él, consiguiendo así volver la cólera de
César [Augusto] contra sus acusadores.
Entre tanto, el árabe131 había muerto, y
por ello condenó a su ministro Syllaios
basándose en las acusaciones de Nicolás; e incluso más tarde, comprendiendo
quién era el infame, le hizo ejecutar132.
o{ti ejstravteusen ejpi; th;n jArabivan
ouj sundokou`n Kaivsari, ejf∆
oi|" ejkei`no" hjfivei fwnav", kai; ojrgh;n
ei\ce caleph;n eij" to;n JHrwvdhn,
ejpevsteilev te aujtw`/ pikrovtata,
kai; tou;" h{konta" par∆ aujtou`
prevsbei" ouj kata; kovsmon ajpevlusen:
ajfikovmeno" d∆ wJ" Kaivsara Nikovlao"
ouj movnon tw`n ejgklhmavtwn ejrruvsato
ajlla; kai; th;n ojrgh;n
ajpevstreyen ejpi; tou;" kathgovrou".
oJ me;n ou\n [Aray h[dh ejteqnhvkei, tou`
de; dioikhtou` h[dh katevgnw peisqei;"
th`/ Nikolavou kathgoriva/, kai; u{steron
eujrw;n kavkiston ajpevkteinen.
MANIOBRAS DE ANTÍPATRO
HERMANOS (AÑO 8-7)
CONTRA SUS
Jacoby 90 F 136,2 = Const. Porfyr.,
De insidiis I 11-14
Durante este tiempo, la familia de Herodes se desgarró: el primogénito de sus
hijos133 lanzó calumnias contra sus dos
ejn touvtw/ de; JHrwvdou oJ oi\ko"
ejtaravcqh, tou` presbutavtou
tw`n uiJevwn tou;" met∆ aujto;n duvw
131
132
133
Obodas II, rey de Nabatea.
La muerte de Syllaios es citada por Estrabón XVI 4,24.
Antípatro, hijo de Doris, de sangre idumea, la primera esposa de Herodes.
244
Sabino Perea Yébenes
hermanos pequeños134, acusándoles de
conspirar contra su padre – ellos que,
pese a la diferencia de edad, tenían un
rango más elevado que él, puesto que su
madre tenía sangre real135, en tanto que
la suya era de origen común.
diabavvllonto" <wJ"> ejpibouleuvonta" tw`/
patriv, oi} th`/ me;n hJlikiva/ met∆ aujto;n
h\san, ajxiwvmati de; provteroi dia; to;
ejk basilivdo" gegonevnai, to;n de; ejx
ijdiwvtido" gunaikov".
REGRESO DE NICOLÁS A JUDEA TRAS EL PROBEYRUT (AÑO 7)
Jacoby 90 F 136,3 = Const. Porfyr.,
De insidiis I 15-21
Antes de que Nicolás regresara a Roma,
los jóvenes vástagos fueron condenados
por un Consejo136, y su padre, al borde
la exasperación, estaba dispuesto a matarlos. Cuando Nicolás desembarcó, Herodes le cuenta lo que estaba ocurriendo
y le pide consejo. Nicolás le recomienda
que los meta en prisión en una fortaleza
hasta que el paso del tiempo le permita
obtener de ellos, cara a cara, una respuesta reflexiva, sin dar la impresión de
estar poseído por la cólera a la hora de
tomar una decisión irremediable para los
miembros de su familia.
pri;n de; ejlqei`n ejk JRwvmh" Nikovlaon
ejn sunedrivw/ katedikavsqhsan oiJ
neanivskoi, <kai;> parwxusmevno" eu\
mavla oJ path;r e[mellen aujtou;"
ajnairhvsein: katapleuvsanti de;
Nikolavw/ peri; tw`n gegonovtwn
ajphvggelle kai; suvmboulon ejpoiei`to.
oJ de; aujtw`/ parhvn/ esen ajpoqevsqai
aujtou;" e[n tini tw`n ejrumavtwn, a[cri"
a]n ejn tw`/ plevoni crovnw/ bouleuvsaito
peri; aujtw`n a[meinon, mh; dokoivh
uJp∆ ojrgh`" proacqei;" ajnhvkestovn ti
gnw`nai peri; tw`n ajnagkaivwn.
NUEVAS MANIOBRAS DE ANTÍPATRO. VANO INTENTO DE NICOLÁS POR IMPEDIR LA EJECUCIÓN
DE ALEJANDRO Y DE ARISTÓBULO (AÑO 7)137
Jacoby 90 F 136,4 = Const. Porfyr.,
De insidiis I 22 - II 4
Informado de esta conversación, Antípatro miraba a Nicolás con recelo y envió él
mismo a varios hombres, primero unos y
aijsqovmeno" de; tou`to A
j ntivpatro"
tovn te Nikovlaon uJpevblepe kai;
a[llou" ejp∆ a[lloi" aujto;" kaqiei;"
CESO DE
134
Alejandro y Aristóbulo, hijos de Mariamme, que casó con Herodes el 37 y fue asesinada el 29 a.C.
Mariamme era de sangre asmonea.
136
Siguiendo a PARMENTIER-MORIN 1998, 26 n. 90, “Herodes estaba convencido de la culpabilidad
de sus hijos y, a petición de Augusto (Josefo, Ant. Iud. XVI 357), convocó un Consejo (sunevdrion) en
Berythus (Beirut) en el que debían participar magistrados romanos de la provincia de Siria y el rey de
Capadocia, Arquelao, cliente de Roma y abuelo de Alejandro. Herodes siguió parcialmente las instrucciones del emperador, pues convocó el Consejo de 150 miembros, pero se cuidó de que allí no estuviera
el citado Arquelao”.
137
Todos estos acontecimientos relacionados con la actuación de Antípatro y la herencia de Herodes, están también – y más ampliamente narrados – por Flavio Josefo, Ant. Iud. XVII 96-120. Estos
fragmentos, han sido inteligentemente comentados por LANDAU 2006, 150-155 y 174-180, poniendo el
acento en la importancia de la actuación de Nicolás de Damasco en el arbitraje de la herencia regia, en
razón de la amistad que unía al Damasceno con Augusto.
135
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
245
luego otros, para alertar a su padre: los
jóvenes habrían corrompido, en su opinión, a todo el ejército y a los servidores, y si él no hubiera estado atento, su
muerte habría sido inminente. Entonces
Herodes, temiendo por su vida, tomó
una decisión más rápida que justa y, sin
volver a entrevistarse con Nicolás, mandó ejecutar a sus hijos en secreto durante
la noche. Estos murieron138, y ello fue
para Herodes el comienzo de todos sus
males, pues hasta estos acontecimientos
sus asuntos habían marchado bien.
to;n patevra ejfovbei, wJ" aujtivka
mavla ajnaireqhsovmenon uJpo; tw`n
neanivskwn diefqarkovtwn kai; to;
stratiwtiko;n a{pan, wJ" e[fh, kai;
tou;" ajpo; th`" qerapeiva", eij mh; dia;
tacevwn ejkpodw`n aujtou;" poihvsaito.
kai; o}" deivsa" peri; auJtou` qa`tton
h] kavllion ejbouleuvsato, oujde;n e[ti
metadou;" Nikolavw, ajlla; nuvktwr tou;"
ajnairhvsonta" uJpopevmpya".
kai; oiJ me;n ajpevqanon, H
J rwvdh/ de; tw`n
sumpavntwn h[dh givnetai kakw`n ajrchv,
ta; pro; touvtwn eu\ eJstwvtwn aujtw/`
tw`n pragmavtwn.
ODIO GENERALIZADO
(AÑO 7)
Jacoby 90 F 136,5 = Const. Porfyr.,
De insidiis II 5-11
CONTRA
ANTÍPATRO
Antípatro trataba a Nicolás como un
enemigo; tras haber hecho desaparecer
a sus hermanos, él mismo fue objeto de
un odio feroz no sólo en su reino, sino
también en Siria y más allá. La noticia
había llegado hasta Roma, y del más
grande al más pequeño, todos detestaban al autor de los dos crímenes: había
asesinado a los dos hermanos que eran
muy superiores a él, había convencido a
su padre para que se manchara las manos
de forma tan abominable, arruinando su
popularidad anterior.
ejcqro;n d∆ hJgei`to A
j ntivpatro"
Nikovlaon ajnelw;n tou;" ajdelfouv",
ejmisei`tov ge mh;n deinovn ti mi`so"
oujc uJpo; th`" basileiva" movnon, ajlla;
kai; th`" Suriva" kai; tw`n pevran
oijkouvntwn. ejcwvrei de; oJ lovgo" kai;
eij" R
J wvmhn, kai; oujdei;" h\n ou[te mevga"
ou[te mikrov", o}" oujk ejmivsei to;n
a[nqrwpon di∆ ajmfovtera, kai; o{ti polu;
kreivttou" auJtou` ajdelfou;" ajpevkteine
kai; o{ti to;n patevra e[peise toiouvtou
prosavyasqai muvsou" kai; th;n
proupou`san eu[noian aijscu`nai.
HERODES DESCUBRE
TÍPATRO (AÑO 5-4)
Jacoby 90 F 136,6 = Const. Porfyr.,
De insidiis II 11-23
UN COMPLOT DE
AN-
Enseguida, este individuo continuó como
había comenzado, y atacó a su padre,
pues estaba deseoso de acelerar su ascenso al trono. Había comprado veneno
ejpei; d∆ ou\n ta; ajkovlouqa drw`n
toi`" protevroi" aJnh;r kai; ejpi; to;n
patevra w{rmhse qa`tton ejpeigovmeno"
th;n basileivan labei`n, kai; to;
138
Alejandro y Aristóbulo estaban en Sebaste cuando fueron asesinados. Más tarde sus cadáveres
fueron trasladados al sepulcro familiar de los asmoneos en la fortaleza de Alexandrion (Josefo, Ant. Iud.
XVI 394). Sobre estos acontecimientos, remito a los comentarios de RICHARDSON 1996-1999, 286-288.
246
Sabino Perea Yébenes
en Egipto139, como reconoció uno de sus
cómplices; su padre hizo torturar a sus sirvientes, que confesaron todo el complot;
se apresuró a hacer matar a su tía140, a los
hermanos que le quedaban y a los hijos
de aquellos que él había mandado matar,
de modo que no le estorbara ningún otro
heredero. También había urdido una conjura monstruosa, mucho más importante
que los planes nefastos que preparaba en
su propia familia, en la familia de César
[Augusto]. El gobernador de Siria, Varo,
llegó hasta allí, así como el resto de magistrados, y con su padre reunieron un
Consejo. Salieron a la luz el veneno, los
mechones de cabello arrancados a los
servidores bajo tortura y las cartas que
habían sido encontradas en Roma. El rey
confió a Nicolás la organización del juicio.
favrmakon ejwvnhto ejx Aijguvptou, o{per
ejmhvnusen ei|" tw`n koinwnouvntwn
th`" pravxew", ejbasavnizev te tou;"
oijkevta" aujtou` oJ pathvr, oi} dh; to;
suvmpan fanero;n ejpoivhsan, wJ" kai;
th;n thqivda e[mellen ajnairhvsein
kai; tou;" a[llou" ajdelfou;" o[nta"
touv" te tw`n ajnh/rhmevnwn pai`da",
wJ" mhdei;" leivpoito klhronovmo",
ejtuvreuse dev ti miaro;n kai; eij" to;n
oi\kon Kaivsaro" polu; mei`zon tw`n eij"
to; gevno" paranomhmavtwn, h|ke me;n
oJ th`" Suriva" strathgo;" Ou[aro"
kai; oiJ a[lloi ejpimelhtaiv, kaqivzei de;
sunevdrion oJ path;r aujtou`, parhnevcqh
de; eij" mevson to; favrmakon kai; aiJ
tw`n oijketw`n bavsanoi tav te ejk
gravmmata, Nikolavw/ de; to;n
ajgw`na ejpevtreyen oJ basileuv".
JUICIO, REPROCHES DE NICOLÁS, EJECUCIÓN
DE ANTÍPATRO (AÑO 5-4)141
Jacoby 90 F 136,7 = Const. Porfyr.,
De insidiis II 23-32
Nicolás pronunció la acusación, Antípatro la defensa, Varo y los “amigos”142 la
sentencia. Como consecuencia de aquello, Antípatro fue considerado culpable y
condenado a muerte. Sin embargo, una
vez más, Nicolás aconsejó que fuera enviado a César, puesto que también era
culpable de haberle lanzado amenazas, y
actuar según lo que decidiera este último. Pero poco antes había llegado una
carta de César [Augusto] recomendando
a Herodes que castigara él mismo a su
hijo. Este recibió el castigo, y César [Augusto] hizo ejecutar también al liberto143
kathgovrei me;n ou|to", ajpelogei`to
de; jAntivpatro", e[krinen de; Ou[aro"
meta; tw`n fivlwn. katadikavzetai d∆
ou\n jAntivpatro" kai; th;n ejpi; qanavtw/
paradivdotai. Nikovlao" de; kai; tovte
parhv/nei pevmpein aujto;n ejpi; Kaivsara,
ejpei; kai; eij" aujto;n hjdivkhsen, kai; o{
ti a]n ejkei`no" gnw`/, tou`to pravttein.
e[fqh de; ta; para; Kaivsaro"
gravmmata h{konta kai; tw`/ patri;
kolavzein aujto;n ejpitrevponta. kai; oJ
me;n ejkolavsqh, ajpevkteinen de; kai;
oJ Kai`sar th;n sugkakourghvsasan
autw`/ ajpeleuqevran. oujdei;" de; h\n
139
En realidad un amigo suyo, llamado Antifilo, le había traído el veneno de Egipto (Josefo, Ant. Iud.
XVII 70; Bell. Iud. I 599).
140
Salomé, hermana de Herodes.
141
Sobre la muerte de Antípatro, las fuentes, y sus múltiples connotaciones, RICHARDSON 1996-1999,
288-294.
142
Los fivloi, consejeros regios.
143
Llamado Acmé, que estaba al servicio de Livia en Roma, y era “el hombre de Antípatro” en la
Urbe (cf. Josefo, Bell. Iud. I 641-645).
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
247
que había sido cómplice de sus crímenes.
Todo el mundo elogió a Nicolás por su
magnífico discurso contra este parricida
y este fratricida.
o}" oujci; Nikovlaon * kavllista
kathgorhvsanta tou` patraloivou te
kai; ajdelfoktovnou.
MUERTE DE HERODES. INSURRECCIÓN
JUDEA (AÑO 4)
Jacoby 90 F 136,8 = Const. Porfyr.,
De insidiis II 33 - III 3
EN
Poco tiempo después, el rey murió en su
torre, y el pueblo se sublevó contra sus
hijos y contra los griegos. Los insurgentes eran más de diez mil. Tuvo lugar una
batalla, en la que se impuso la facción
griega. Arquelao, el sucesor designado,
se embarcó para Roma a fin de recibir allí
los plenos poderes, y le pidió a Nicolás
que le acompañara con sus hermanos,
puesto que aquél había decidido retirarse ya de la vida pública (pues tenía casi
sesenta años).
meta; de; tau`ta ojlivgou crovnou
dielqovnto" teleuta`/ kai; oJ basileuv",
kai; to; e[qno" ejpanivstatai toi`"
tevknoi" aujtou` kai; toi`" {Ellhsin. h\san
de; pleivou" murivwn. genomevnh" de;
mavch" nika`/ to; JEllhniko;n: kai;
oJ diavdoco" jArcevlao" eij" JRwvmhn
plevwn e{neka th`" o{lh" ajrch`" meta;
tw`n a[llwn ajdelfw`n parakalei`
sumpleu`sai Nikovlaon ajnacwrei`n h[dh
wJ" eJauto;n ejgnwkovta: kai; ga;r h\n
peri; xV e[th.
VIAJE A ROMA PARA PONER ORDEN EN LA SUCESIÓN DE HERODES (AÑO 4)
Jacoby 90 F 136,9 = Const. Porfyr.,
De insidiis III 4-11
Por tanto, hizo la travesía con ellos, y
descubrió que estaba rodeado de sospechosos de actuar contra Arquelao: por un
lado, su hermano menor144 le disputaba
el trono, por otro, todos los miembros
de su familia, que sin tomar partido por
su hermano pequeño presentaban acusaciones contra él. Además, las ciudades griegas sometidas a Herodes habían
enviado embajadores para pedir a César
[Augusto] que les liberara; aún más, todo
el pueblo judío le reprochaba la masacre
de tres mil hombres caídos en la batalla
y reclamaba ante todo ponerse bajo la
autoridad de César [Augusto] o, en su
defecto, al menos bajo la protección del
hermano pequeño (de Arquelao).
sunevpleuse d∆ ou\n: kai; eu|ren pavnta
kathgovrwn pleva ejpi; to;n jArcevlaon.
cwri;" me;n gar; oJ newvtero" ajdelfo;"
th`" basileiva" ajntepoiei`to,
cwri;" d∆ oiJ suggenei`" a{pante"
kathgovroun aujtou`, ouj tw`/ newtevrw/
sunagwnizovmenoi: ejpresbeuvsanto de;
kai; aiJ uJf∆ JHrwvdh/ JEllhnivde" povlei"
aijtouvmenai th;n ejleuqerivan para;
Kaivsaro", kai; o{lon de; to; jIoudaivwn
e[qno" ejpikalou`n fovnon triscilivwn
ajndrw`n tw`n ejn th`/ mavch/ pesovntwn,
kai; ajxiou`n mavlista me;n uJpo; Kaivsari
ei\nai, eij de; mhv, uJpov ge ou\n tw`/
newtevrw/ ajdelfw/`.
144
Antipas. Sobre Herodes Antipas, que mandó ejecutar a Juan el Bautista y a Jesús, ver los trabajos
de HOEHNER 1972-1980; RICHARDSON 1996-1999, 295-313.
248
Sabino Perea Yébenes
NICOLÁS INTERCEDE ANTE AUGUSTO
VOR DE ARQUELAO (AÑO 4)
A FA-
Jacoby 90 F 136,10 = Const. Porfyr.,
De insidiis III 11-18
Para hacer frente al conjunto de maniobras lanzadas contra él, Nicolás emprende la defensa de Arquelao comenzando
por restablecer sus derechos hablando
cara a cara con los miembros de su familia; luego también habló personalmente
con los judíos sobre sus reivindicaciones; pero creyó preferible no parlamentar con las ciudades griegas y aconsejó a
Arquelao no oponerse a su deseo de libertad, pues el resto del reino sufriría las
consecuencias. Igualmente prefirió no
actuar contra el hermano de Arquelao145,
por razón de su amistad con su padre.
tosouvtwn de; dikw`n ejphggelmevnwn,
ajgwnisavmeno" uJpe;r jArcelavou
Nikovlao" to;n pro;" tou;" suggenei`"
ajgw`na prw`ton katwvrqwsen, e[peita
de; to;n pro;" tou;" uJphkovou"
to;n mevntoi pro;" ta;"
povlei" oujk hjxivou,
ajlla; kai; jArcelavw/ parh/vnei mh;
ejnantiou`sqai aujtai`" ejleuqeriva"
glicomevnai": ajrkei`n ga;r aujtw`/ th;n
a[llhn dunasteivan. oJmoivw" d∆ oujde;
pro;" to;n ajdelfo;n aujtou` hjxivou
ajgwnivzesqai dia; th;n pro;" to;n
koino;n aujtw`n patevra filivan.
ARBITRAJE DE AUGUSTO (AÑO 4)
Jacoby 90 F 136,11 = Const. Porfyr.,
De insidiis III 18-23
César [Augusto] se pronunció sobre el
conjunto de conflictos y dio una parte
del reino a cada uno de los muchachos,
y la mitad a Arquelao. Recompensó a
Nicolás y dio a Arquelao el título de etnarca, prometiendo que le nombraría rey
cuando hiciera merecimientos; en cuanto
a sus hermanos más jóvenes, Filipo y Antipas, los nombró tetrarcas.
dih/vthse de; Kai`sar kai; to; o{lon,
eJkavstw/ tw`n paivdwn mevro" ajpodou;"
th`" ajrch`", th;n d∆ hJmivseian
moi`ran jArcelavw/. kai; Nikovlaon me;n
ejtivmhsen oJ Kai`sar, jArcevlaon de;
ejqnavrchn katevsthsen: uJpevsceto dev,
eij auJto;n a[xion paraskeuavseien, kai;
basileva tacu; poihvsein: tou;" de;
met∆ aujto;n ajdelfou;" Fivlippon kai;
tetravrca" ajpevdeixen.
137. Valores éticos de Nicolás
DESPRECIO DE LA RIQUEZA146
Jacoby 90 F 137,1 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 327,18-21
Todos los valores que defendía, los aplicaba a su propia vida. Demostraba por
o{ti pavnq∆ o{sa parhvggellen, ejpi;
tw`n e[rgwn diexhv/ei aujtw`n kai;
145
Es decir, Antipas, cuya defensa estaba en manos de Ptolomeo, el hermano de Nicolás (Josefo, Ant.
Iud. XVII 225).
146
En el mismo sentido, ver más adelante el fragmento 138.
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
249
su conducta que menospreciaba el dinero y centraba su atención en acciones
más nobles; jamás se le vio cometer una
sola bajeza por causa de dinero.
ajpedeivknuto crhmavtwn me;n w]n
kreivttwn, qa`tton de; lamprovtata
ejfilotimhvqh, oujqevn te w|n mh; dei`
ejfavnh crhmavtwn e{neka pepoihkwv".
RECHAZO
Jacoby 90 F 137,2 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 327,21-27
DE LOS PLACERS Y ELOGIO DE LA
VIDA SENCILLA
Menospreciaba el placer como ninguna
otra cosa, lo que podía suscitar admiración, si tenemos en cuenta que frecuentaba a los reyes y a personas poderosas. Era
normalmente austero, poco dado al placer carnal, y consideraba como los esclavos a las personas que se dejan dominar
por esta forma de disfrutar. Sus elogios, al
contrario, los dirigía a aquellos que soportaban el sufrimiento y a los que practican
una vida sencilla. Aún más: cuando tenía
oportunidad de mostrar su generosidad,
nunca se mostraba mezquino, pues no
quería granjearse una mala fama de avaro.
hJdonh`" d∆, o} tavc∆ a[n tw/ qaumasto;n
ei[h, ei[ tino" ou\n katefrovnei,
kai; tau`ta basileu`si kai; hJgemovsi
sunw;n pollavki": h\n ga;r aujsthro;"
fuvsei kai; ejnantivo" pro;" aujth;n
kai; ajndrapodwvdei" nomivzwn tou;"
tw`n ajpolauvsewn tw`n toiouvtwn
h{ttou" ejpainethv" te aujtarkeiva"
ajei; kai; aJplovthto", kaivtoi g∆ ejn oi|"
dei` lampruvnesqai megaloprephv",
ouj glivscro" h\n, wJ" mh; dovxan
ajneleuqeriva" lavboi.
ESFUERZO Y CORAJE
Jacoby 90 F 137,2 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 327,27 - 328,3
Se esforzaba en destacar en esfuerzo y
coraje147. No quedó nunca atrás, ni durante su juventud ni tampoco durante su
vejez, y si había un peligro que viniera de
un enemigo, de unos bandidos, de una
enfermedad, de una tempestad en el mar
o por cualquier otra cosa, su actitud era
tan valiente que siempre transmitía confianza a sus compañeros de desgracias.
prov" ge mh;n povnou" kai; karterivan,
ei[ pote devoi, pavntwn ajoknovtato",
oujk ejn neovthti movnon, ajlla; kai; ejn
ghvra/, kai; o{ph/ kivnduno" katalavboi
ejk polemivwn h] lhstw`n h] dia; novson
h] ceimw`na kata; qavlattan h] a[llw"
pw", ou{tw dh; sfovdra eu[yuco" h\n,
w{ste kai; toi`" a[lloi" ajei; qarrei`n
parei`cen, oJpovsoi koinwnoi; h\san
aujtw/` tou` kinduvnou.
APRECIO DE LA JUSTICIA; ÓPTIMO JUEZ
Jacoby 90 F 137,3-4 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 328,3-12
En cuanto a la aplicación de la justicia
era muy estricto, y muy fuerte para so-
prov" ge mh;n to; divkaion ajklinh;"
ou{tw kai; ajqwvpeuto", w{ste kai;
147
Esta enumeración de virtudes propias, en este y los siguientes parágrafos, están inspiradas en (o
tomadas de) Aristóteles, particularmente de la Ética a Nicómaco, III 9-14.
250
Sabino Perea Yébenes
portar incluso las amenazas de algunos
hombres poderosos, y así poder juzgar
equitativamente. Por esta razón era elegido frecuentemente como juez o como
árbitro, pues su sentido de la justicia
era apreciado por todos; y tanto en los
acuerdos públicos como en los contratos
privados, jamás persona alguna le hizo
un reproche, ni siquiera las personas
malintencionadas, gracias a su imparcialidad. Ante él no era preciso convocar a
testigos ni llegar a acuerdos escritos: lo
que prometía de palabra quedaba garantizado. Nadie puede presumir de haber
conocido a alguien más modesto ni más
sabio en las plazas públicas y en los caminos…
ELOGIO
DE LA MODESTIA; HONESTIDAD AL
ajpeila;" ejnegkei`n tinwn hJgemovnwn
pote; dikavzwn uJpe;r tou` mh; tou`to
parabh`nai. polloi; ga;r aujto;n hJ/rou`nto
kai; dikasth;n kai; diaiththvn,
fanera`" eij" pavnta" aujtou` th`"
dikaiosuvnh" genomevnh", e[n te
sumbolaivoi" h] tai`" pro;" tou;"
ijdiwvta" koinwnivai" oujdei;" pwvpot∆
aujto;n ejmevmyato, oujd∆ ei[ ti"
ponhro;" ei[h, dia; th;n ejpieivkeian:
oujde; ga;r martuvrwn e[dei pro;"
aujto;n h] sumbolaivwn, ajll∆ o{ ti a]n
oJmologhvsh/, bevbaion h\n. kosmiovthtav
te kai; swfrosuvnhn oujdei;" aujchvsei
pleivw kata; to; h\qo" e[n te ajgorai`"
kai; oJdoi`" ***
CITAR LA PATRIA
Jacoby 90 F 137,5-6 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 328,12-25
El estudio proporciona al filósofo la gloria y los honores, así como otros beneficios y ventajas propias de los poderosos,
aunque esto no se consigue sin esfuerzo.
Y de hecho, ¿a quién convendría mejor,
si no es un hombre así, disfrutar de estos
beneficios, considerados por él como los
más preciosos? En todo caso, un hombre
así sabrá apreciar lo que verdaderamente
tiene valor. El filósofo, en efecto, lo usará
con discernimiento y con mesura, como
Nicolás, que no abusó inoportunamente
de su notoriedad y de su fortuna, sino que
las puso al servicio de su modestia y de
su generosidad con respecto al pueblo. Jamás creyó necesario tomar el nombre de
ciudadano de otra ciudad que no fuese la
suya, y se burlaba incluso de los sofistas
de su época, que pagaban mucho dinero
por adquirir el título de Ateniense o Rodio porque estaban avergonzados de la
oscuridad de su patria (algunos de ellos
han llegado a escribir libros para explicar
que no eran originarios de su ciudad, sino
kai; diatribw`n parakolouqei`n
eujdoxivan te kai; timh;n tw`/ filosovfw/
kai; a[lla" cavrita" kai; wjfeleiva"
para; tw`n dunatw`n oujjk ei\nai, povnou
d∆ ajllovtrion. tivni ga;r a]n ma`llon
aJrmovttoi tau`ta karpou`sqai ajpo;
tou` beltivstou kai; spoudaiotavtou
gignovmena h] tw/` toiouvtw/… ouj ga;r
dh; tw`/ fauvlw/ kai; oujdeno;" ajxivw/.
crhvsetai ga;r aujtoi`" ajfuvrtw" te
kai; ejmmelw`", kaqw; " Nikovlao" tw`/
gnwvrimo" ei\nai kai; eu[poro" eij"
oujde;n a[topon ejcrhvsato, ajll∆ eij"
metriovthtav" te kai; dhmotikh;n
filanqrwpivan, povlew" me;n ou[pot∆
ajf∆ eJtevra" oijovmeno" dei`n, ajll∆
ajpo; th`" auJtou` prosagoreuvesqai:
kategevla de; kai; tw`n kaq∆ auJto;n
sofistw`n, oi} megavloi" timhvmasin
ejwnou`nto jAqhnai`oi h] JRovdioi
kalei`sqai, barunovmenoi th;n ajdoxivan
tw`n patrivdwn: e[nioi de; kai;
sunevgrayan peri; tou` mh; ei\nai ajf∆
h|" povlew" h\san, ajll∆ ajpov tino"
Nicolás de Damasco, un intelectual singular
de una ciudad griega famosa): (Nicolás)
comparaba a éstos con aquellos que se
avergüenzan de sus padres.
251
tw`n di∆ ojnovmato" JEllhnivdwn:
oJmoivou" te ajpevfaine toi`" tou;"
eJautw`n goneva" barunomevnoi".
138. Desprecio del dinero
CONSEJOS SOBRE EL DINERO
Jacoby 90 F 138 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 328,26 - 329,11
Se reprochaba a Nicolás no haber guardado la mayor parte del dinero que había
recibido de sus amigos, de pasar mucho
tiempo en compañía gente corriente o frecuentar a los poderosos y ricos en Roma,
entre los cuales no encontró nunca, a pesar de la insistencia de un gran número
de personas distinguidas148, a alguien que
consagrase una parte de su jornada al estudio de la filosofía. El respondía a estas
críticas que, en primer lugar, conseguir
dinero es como coleccionar liras o flautas:
no tiene interés alguno; es el uso lo que
le otorga importancia (al dinero). Merece
rechazo el hombre que emplee su dinero
en vivir como un corrupto, como un avaro o como un individuo sin moral y sin
juicio. Pero aquel que lo emplee para alcanzar una vida sabia, ordenada, sociable
y generosa, aceptándolo cuando él quiera
y de quien él quiera, administrándolo y
dejándolo a sus hijos al morir, éste será un
hombre mejor. En segundo lugar, decía él,
el hombre de bien sólo se fija una regla
de conducta: buscar la compañía de personas virtuosas; él creía que estos últimos
son por naturaleza más numerosos entre
la gente corriente que entre los más ricos,
pues, cuando le parece al destino, pone
fácil al rico alcanzar la virtud; sin embargo, sucede a menudo que, al contrario, lo
tuerce para conducirlo a los placeres y a
la vanidad.
o{ti h/jtiw`ntov tine" to;n Nikovlaon
plei`sta crhvmata para; fivlwn
labovnta ouj swvzein aujtav, kai; o{ti
ta;" pleivou" diatriba;" ejpoiei`to
meta; tw`n dhmotikw`n, ejkklivnwn tou;"
megavlou" kai; uJperplouvtou" tw`n ejn
*** oujdamw`" h[/ei, pollw`n kai;
ejndovxwn aujto;n biazomevnwn, ajlla; di∆
o{lh" hJmevra" ejn tai`" filosovfoi"
qewrivai" h\n. oJ d∆ ajpelogei`to peri;
me;n tw`n crhmavtwn, o{ti hJ kth`si",
w{sper luvra" h] aujlw`n, oujdeno;"
a]n ei[h ajxiva, hJ crh`si" de; to;
kuriwvtatovn ejstin, h}n eij mevn ti"
eij" a[swton kai; ajmetavdoton h]
o{lw" a[frona h] fau`lon katadapana`/
<bivon>, ejpivmempto" a]n ei[h, eij dev
ti" eij" swvfronav te kai; kovsmion
kai; koinwniko;n kai; filavnqrwpon,
decovmeno" kai; o{te dei` tau`ta
kai; par∆ w|n dei`, kai; proievmeno"
kai; toi`" tevknoi" ajpoleivpwn,
ajmeivnwn a]n ei[h. o{ron de; e{na e[fh
poiei`sqai to;n a[ndra to;n ajgaqo;n
toi`" ejpieikestevroi" ejqevlein ajei;
sunei`nai, toiouvtou" d∆ ejn toi`"
dhmotikoi`" oJra`n pleivou" h] ejn toi`"
baruplouvtoi" fuomevnou". pollh`" ga;r
ajgaqh`" tuvch" dei`tai plou`to", w{ste
eij" ejpieivkeian fevrein: ejktrevpei ga;r
tou;" pleivou" eij" filhdonivan te kai;
uJperhfanivan.
148
Es decir, por el consejo del propio Nicolás.
252
Sabino Perea Yébenes
139. Un amo ejemplar
RELACIÓN AFABLE CON LOS ESCLAVOS
Jacoby 90 F 139 = Const. Porfyr.,
De virtut. I 329,12-14
En cuanto a sus esclavos domésticos, les
dio una formación completa y, como vivían cotidianamente en su compañía, los
trataba tan bien como a sus amigos.
o{ti tou;" eJautou` oijkevta"
ejkpaideuvsa" kai; ejk tou` suzh`n ajei;
pollh;n oJmohvqeian aujtoi`" ejmpoihvsa",
ejcrh`to oujde;n ceivrosin h] fivloi".
PRAISING NERO (LUCAN, DE BELLO CIVILI 1,33-66)
DAMIEN NELIS
A precedent for the strange belief that Elvis Presley is alive and well and
living in Peru may be found in the story recounted by Tacitus (Histories 2,89) that in March 69 BCE Nero was alive and well and living on the island
of Cythnus. Obviously, one could love or hate Nero, but one could not ignore him. And as E. Champlin has shown in his recent biography, he remains
an endlessly fascinating figure. Nero is described by Champlin as ‘a man of
considerable talent, great ingenuity, and boundless energy’ and as ‘a public
relations man ahead of his time’1. Obviously, this is not quite the image most
readers have taken away from their reading of our main sources, Cassius Dio,
Suetonius and Tacitus, whose accounts amount overall to a grim picture of a
mad tyrant. If we look at Suetonius, for example, there is a careful build-up in
the description of the emperor’s crimes. Chapter 34 moves from matricide to
the murder of his aunt; in 35 his treatment of his relatives is characterized by
criminal abuse; in 36 we learn that he was no less cruel outside his household;
in 37 he shows no restraint in putting many opponents to death; finally, in 38,
he does not even spare the very fabric of the city of Rome and its people as a
whole. On a similar note, in the fifteenth book of the Annals, after describing
the death of Lucan (15,70,1), Tacitus begins chapter 71 thus: sed compleri
interim urbs funeribus, Capitolium victimis. There is no need to labour the
point. Many members of the Roman élite looked on Nero as a monster. How
then does one deal with praise of a bad emperor?
* I would like to thank Michael Dewar (Toronto), Ruurd Nauta (Groningen) and Gianpiero Rosati
(Udine) for advice of various kinds. Some of the points made here concerning Lucan’s use of Vergil’s
Georgics were discovered and studied quite independently by Professor Nauta in an unpublished paper
first given in 2004 and entitled “Tweemaal Emathië”. Het prooemium van Lucanus en Vergilius’ Landleven. Professor Nauta informs me that he will publish this paper in due course. It is likely to advance
significantly important aspects of our understanding of Lucan’s use of the Georgics. I would like also to
offer thanks to Valéry Berlincourt and L. Galli Milic, who are currently working on a research project on
the intertexuality of Latin poetry based in the University of Geneva; the former is working on Claudian,
the latter on Lucan. Their research is funded by the Fond National Suisse de la Recherche Scientifique;
their encouragement has been invaluable.
1
CHAMPLIN 2003, 236.
254
Damien Nelis
In an article devoted to a much-discussed passage of Lucan in which Nero is
literally praised to the high heavens (1,33-66), M. Dewar has used the expression ‘laying it on with a trowel’ in order to try to get to grips with the rhetoric
of excess inherent in ancient praise poetry. He argues that modern readers
consistently fail to understand it and the conventions which surrounded its
production and reception in imperial Rome2. In this paper, I will attempt to
survey some recent work on Lucan in order to illustrate the various ways in
which scholars deal with the issues arising from the laudes Neronis. It will also
be argued that appreciation of a pattern of allusion to Vergil is central to the interpretation of the passage in question and that Lucan’s praise of Nero is inextricably bound up with Vergil praising ‘Caesar’ in the first book of the Georgics.
The text in question runs as follows and it will be useful to set it out in full
at the beginning (1,33-66; ed. Shackleton Bailey):
quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur
regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent. diros Pharsalia campos
impleat et Poeni saturentur sanguine manes,
ultima funesta concurrant proelia Munda,
his, Caesar, Perusina fames Mutinaeque labores
accedant fatis et quas premit aspera classes
Leucas et ardenti servilia bella sub Aetna,
multum Roma tamen debet civilibus armis
quod tibi res acta est. te, cum statione peracta
astra petes serus, praelati regia caeli
excipiet gaudente polo: seu sceptra tenere
seu te flammigeros Phoebi conscendere currus
telluremque nihil mutato sole timentem
igne vago lustrare iuvet, tibi numine ab omni
cedetur, iurisque tui natura relinquet
quis deus esse velis, ubi regnum ponere mundi.
sed neque in Arctoo sedem tibi legeris orbe
nec polus aversi calidus qua vergitur Austri,
unde tuam videas obliquo sidere Romam.
aetheris inmensi partem si presseris unam,
sentiet axis onus. librati pondera caeli
orbe tene medio; pars aetheris illa sereni
tota vacet nullaeque obstent a Caesare nubes.
2
DEWAR 1994, 199-211.
35
40
45
50
55
Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66)
tum genus humanum positis sibi consulat armis
inque vicem gens omnis amet; pax missa per orbem
ferrea belligeri conpescat limina Iani.
sed mihi iam numen; nec, si te pectore vates
accipio, Cirrhaea velim secreta moventem
sollicitare deum Bacchumque avertere Nysa:
tu satis ad vires Romana in carmina dandas.
255
60
65
This extraordinary passage has provoked much scholarly disagreement.
For some it is straightforwardly sincere panegyric. For others it is obviously
ironic and insincere. For yet others it is simultaneously sincere and insincere
or in some sense ambiguous3. In relation to the interpretation of the thrust
of the passage as a whole, a number of smaller individual questions have also
attracted much attention. Does Lucan describe Nero as obese and having
a squint?4 What is the relationship between this passage and the rest of the
poem, particularly in light of Vacca’s testimony that Lucan had a quarrel with
Nero which resulted in a ban on his work?5 What exactly is Lucan’s conception of the cosmic aspects of his praise?6 But overall, the essence of the
difficulties many have with this passage seems to lie in the fact that its apparent excess and extravagance mean that they cannot take it seriously. Others,
however, argue that if ancient praise poetry failed to offer extravagant praise,
it simply was not doing its job properly. Obviously, therefore, this passage
raises very starkly the problems involved for modern scholars when it comes
to interpreting encomium in imperial Latin poetry. The simple question is
this: do we know how to read it?
In order to try to find some kind of approach to this fundamental question I would like to take as my starting point M. Dewar’s study, one of the
most rigorous attempts to come to terms with the critical reaction to Lucan’s
3
For surveys of the scholarly reaction see MASTERS 1992, 137 n. 101; DEWAR 1994; RADICKE 2004,
162; ROCHE 2009, 129-130; RIPOLL 2010.
4
DEWAR 1994 elegantly traces the tradition, arising from Christian attacks on Nero, that Lucan alludes to the fact that Nero had a squint and was obese. Dewar demonstrates that these claims are simply
based on highly partial readings of Suetonius’ description of Nero’s physique in chapter 51 of his life.
Nero is in fact described as being short-sighted and having a thick neck and protruding stomach.
5
For many scholars, the easiest explanation of the problem is that our passage is a piece of serious
encomium written before the quarrel with Nero; see for example LEBEK 1976, 74-107; DEWAR 1994, 210.
But of course many disagree; see for example LEIGH 1997, 24 n. 31; ROCHE 2009, 5-7.
6
See ARNAUD 1987 for a detailed attempt to explain precisely what Lucan says about the physical
position Nero will adopt in the heavens, arguing that we must imagine a world with Rome at the centre
and Nero placed at the top and centre of the sky directly above Rome. He is the cosmokrator, the supreme
all-seeing, all-controlling deity, assimilated to the Sun God and the Stoic anima mundi. He is also the new
god who replaces all the old gods. For Arnaud there is no doubt that Lucan’s praise is serious. He argues
too for the originality of Lucan’s conception and his careful use of various cosmological traditions.
256
Damien Nelis
eulogy. As already noted, a fundamental element in Dewar’s approach to the
passage is his belief that modern readers struggle to come to terms with the
rhetoric of exaggeration and excess which characterizes so much ancient encomium, and that it this failure to connect with some of the fundamental
encomiastic strategies employed by the ancients which has lead to modern
readings which see only irony and insincerity at work. At the end of his paper,
however, Dewar discusses what he considers to be the strongest attempt at an
ironical reading of the passage, that of Stephen Hinds, who relates Lucan’s
use of solar imagery in his praise of Nero to the first episode of the second
book of Ovid’s Metamorphoses and sees significant allusions to the myth of
Phaethon, allusions which hint that Nero’s reign is disastrous for the Roman
world7. Dewar is unconvinced by this subtle argument, which works with the
idea that the text’s surface meaning can be modified by the recognition of the
presence of a complex allusion by readers learned enough to spot it. But from
a methodological point of view, it is interesting that he has this to say at the
end of his paper8:
‘What I should like to stress, however, is that though the individual arguments adduced by Hinds do not overcome my own scepticism, it is precisely the methodology
he applies which I consider most likely to bear fruit.’
In light of this suggestion that the application of Hinds’s intertextual approach is the one most likely to open up new ways of looking at the passage,
what has recent scholarship had to offer?9
In a provocative study of Nero published in 1997, S. Bartsch argues that
the fact that Lucan is describing a civil war leads to the breakdown of stable
categories and distinctions and gives rise to a world of paradox and despair
and an inability to choose between the sincere and the fake. Acknowledging
that the proem relies upon the ideology of the early imperial régime, she believes that Lucan in fact attempts to push that ideology to it extremes. In doing so, he produces a text that conflates different belief systems and renders
standard distinctions inoperable10. For Bartsch, the reader of the text who
cannot make sense of the praise of Nero is necessarily in a position which
relates her/him to a Roman citizen faced with the chaotic nature of Neronian
Rome, a world in which traditional forms of judgement no longer function. As
7
HINDS 1988.
DEWAR 1994, 211.
9
It will be impossible to discuss here all the relevant scholarship. I will concentrate mainly on work
which adopts an explicity intertextual approach. For very useful recent surveys of Lucanian scholarship
in general see WALDE 2005; HÖMKE - REITZ 2010; DEVILLERS - FRANCHET D’ESPEREY 2010.
10
See especially BARTSCH 1997, 61-62.
8
Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66)
257
a result, it is impossible to come to a final decision about the true significance
of the passage which concerns us.
Also in 1997, M. Leigh published a highly insightful and influential booklength study of Lucan. In his reading of the eulogy of Nero, Leigh lays emphasis on the importance of allusion to Vergil. He compares B.C. 1,33-34 and the
expression fata Neroni / invenere viam to Vergil’s use of the expression fata
viam invenient at Aeneid 3,395 and 10,113. These two passages refer to the
safe arrival of Aeneas in Italy and his eventual victory, which will in the end
lead to the foundation of Rome and the emergence of Augustan Rome from
the chaos of civil war. When the comparison is made with Nero, Leigh argues
that the point of the allusion to the Vergilian text is that he cannot stand up
to this comparison and that he is inadequate to assuming the responsibilities
placed upon him by the parallel with the Aeneid’s story of Roman history and
Augustan triumph. Leigh also sees Vergilian allusion in B.C. 1,37-38, scelera
ipsa nefasque / hac mercede placent, arguing for reminiscence of Aeneid 7,317322, an intertexual connection which equates the crimes and guilt leading to
the reign of Nero with the violence unleashed in Latium by Juno and Allecto.
In each case, the problem comes when the reader is faced with making sense of
the closural trajectories the two poets impose on narratives of chaos and civil
war. For Leigh, Lucan uses Vergil’s text to suggest that Nero cannot be seen as
a resolution of history’s woes; what Vergil’s Aeneid presents as pax Augusta is
revealed in the De Bello Civili as tyranny and the slavery of the Roman people11.
In his now classic 1998 study of interextuality in Latin poetry, S. Hinds
returned to the subject of Lucan’s proem12. From a starting point that seems
close to that adopted by S. Bartsch, he states: ‘The world of Lucanian epic is a
world in which failures of aesthetic and moral consistency are inevitable; and
that is precisely Lucan’s point.’ Hinds then goes on to read B.C. 7,454-459
back against the proem. When Lucan there says that the gods do not care
for mankind and that mankind gets revenge on them by turning Caesars into
gods and swearing by ghosts in the temples, what he is doing is debasing the
divine order. On a re-reading of the eulogy of the proem after a reading of
7,454-459, Hinds argues, ‘celebration of a Caesar is self-cancelling’.
In yet another book-length study, J.-C. de Nadaï starts from a narratological perspective and tries to establish a difference between the temps du récit
and the temps du discours. He argues for Lucan’s creation of a narrating voice
which is contemporaneous with the events he is describing, a person he describes as ‘un poète fictif’13. Obviously, in this way of looking at the text, praise
11
12
13
LEIGH 1997, 25-26.
HINDS 1998, 87.
DE NADAÏ 2000, 33-35.
258
Damien Nelis
of Nero on the part of this fictive narrating voice is chronologically impossible.
But if we wish to insist that it is the same voice speaking at two different moments, then we must accept that the narrating voice ‘s’est converti entretemps
à l’ordre monarchique’14. In order to explore this idea, de Nadaï turns to the
first book of the Georgics. Vergil’s prologue, with its extravagant praise of Octavian based on the certainty of his coming apotheosis, has long been seen as
a key model for Lucan’s praise of Nero15. But de Nadaï goes a step further
and looks at the closing lines of Georgics 1 as well. First of all, he makes the
obvious point that at the beginning of the poem the remarkable praise of Octavian implies a post-Actian perspective. But he then goes on to argue that the
book’s closing section clearly implies a pre-Actian setting, as Vergil evokes the
assassination of Julius Caesar, subsequent civil war and the hope that a young
Caesar will turn out to be a saviour for Rome. Hence, in a remarkable example
of hysteron proteron, the prologue of Georgics 1 contains the answer to the
prayer formulated at the book’s close. But even as he imitates Vergil closely,
Lucan distances himself from his model, creating instead a strong break (de
Nadaï uses the French term ‘rupture’) between the praise of Nero in book 1
and the reality of the death of the Republic at Pharsalia in the climactic book 7.
In the De Bello Civili, there can be no hope of salvation. Once again, therefore,
as in the approaches of S. Hinds and M. Leigh, it is through the interpretation
of allusion that the apparently sincere eulogy of Nero is destabilized.
It is S. Hinds’s original 1988 study, in which he argued for Lucanian allusion to the myth of Phaethon, that attracts the attention of M. Dinter in an
article published in 2005 and entitled ‘Lucan’s Epic Body’. Dinter writes:
‘...despite echoing with reminiscences to Phaethon, Nero’s body is construed as the centre of the universe. By forcing gigantomachic imagery to extremes, the emperors turn
into towering giants of cosmic dimensions victorious in gigantomachy and civil war.’
It is interesting from a methodological point of view that Dinter sees the presence of the allusion to Phaethon, but does not seem to see it as having any
affect on the presentation of Roman emperors as victors.
The two most recent readings of our passage of which I am aware have
been proposed by P. Roche in his 2009 commentary on the first book of the
De Bello Civili and F. Ripoll in the proceedings of a conference on Lucan held
in Bordeaux in 2008 and published late in 201016. Roche argues for generic
differences between the praise passage and the rest of the poem. For him, ‘the
conventionality of Lucan’s language in the panegyric is not the pertinent issue.
14
15
16
DE NADAÏ 2000, 38.
See for example GETTY 1940 on 33-66; JENKINSON 1974.
ROCHE 2009; RIPOLL 2010.
Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66)
259
Rather, it is its removal from a different genre and context and its insertion into
a narrative that explicitly contradicts its content’17. Lucan may praise Nero, but
Nero ‘inspires a poem tracing the permanent enslavement of a free people and
the destruction of the republic’18. He also argues against the thesis that books
1-3 contain praise of Nero because they were published before the split with the
Emperor, which, as noted above, has often been seen as way out of the problem
facing us. Finally, Ripoll comes up with an intriguing suggestion, arguing that
Lucan can praise Nero in terms which are both sincere and ironic because he
sees him as initiating the age which will bring imperial tyranny to an end and
thus lead to the restoration of the Roman republic.
All of these studies have in different ways refined our approach to Lucan’s
text, but I would like to single out one angle of approach for further discussion, because I believe it is worth reflecting on the methodologies involved in
the use of intertextual approaches. In doing so, my aim is simple and limited:
to follow up on the approach adopted by Hinds, Leigh, de Nadaï and others
whose work on Lucanian intertextuality I do not have time to discuss in detail
here, by suggesting yet another intertextual reading. In doing so, I again take
as my starting point M. Dewar’s belief that this is the approach most likely to
underpin any convincing attempt to puncture the rhetoric of Lucan’s extravagant praise of Nero.
The essential similarities between Lucan’s praise of Nero and Vergil’s praise
of Octavian at the opening of the Georgics are well known and have been set
out clearly in schematic form by J.R. Jenkinson as follows19:
VERGIL
LUCAN
Equation or association of Emperor with
traditional gods:
28
35f
Choice of divine spheres of influence:
including astronomical conceits and vivid,
grotesque
25ff
47ff
32-35
48-51; 56-57
Where the choice must not fall:
36ff
53ff
Emperor as Poet’s Inspiration:
40
66
Astronomical mechanics:
It is important to note, however, that there are also present many obvious
similarities with the end of Georgics 1. All the words marked in the following
17
18
19
ROCHE 2009, 9.
ROCHE 2009, 9.
JENKINSON 1974, 8.
260
Damien Nelis
passage reappear in the first 66 lines of Lucan’s first book, and this presentation of verbal similarities does not take into account other formal and thematic parallels between the two texts (G. 1,489-492; 505-511)20:
ergo inter sese paribus concurrere telis
Romanas acies iterum videre Philippi;
nec fuit indignum superis, bis sanguine nostro
Emathiam et latos Haemi pinguescere campos.
490
…
quippe ubi fas versum atque nefas; tot bella per orbem,
tam multae scelerum facies; non ullus aratro
dignus honos, squalent abductis arva colonis,
et curvae rigidum falces conflantur in ensem.
hinc movet Euphrates, ilinc Germania bellum;
vicinae ruptis inter se legibus urbes
arma ferunt; saeuit toto Mars impius orbe,
ut cum carceribus sese effudere quadrigae,
addunt in spatia, et frustra retinacula tendens
fertur equis auriga neque audit currus habenas.
505
510
I believe that the reason for Lucan’s imitation of both the start and the end
of Georgics 1 lies in the fact that he was fully aware of the many connections
established by Vergil between the two passages. These are relatively obvious
and may be set out very briefly21. At the start of his poem Vergil predicts that
‘Caesar’ (i.e. Octavian) will soon become a god and asks for his help in guiding the course of his poem (da facilem cursum atque audacibus adnue coeptis,
G. 1,40). The passage is extravagantly eulogistic and clearly evokes a postActian optimism. At the end of the book, Vergil refers to the death of ‘Caesar’
(i.e. Julius Caesar) and the civil war which followed (ergo inter sese paribus
concurrere telis / Romanas acies iterum videre Philippi, G. 1,489-490). He then
prays, in this civil war context, that another ‘Caesar’, this time the young Octavian, will save Rome from what seems like the certainty of destruction, as
war rages throughout the world (hunc saltem everso iuvenem succurrere saeclo
/ ne prohibete, G. 1,500-501). It is this image of world war which Vergil illustrates in his closing lines, concluding with the brilliant simile of the charioteer
struggling to control his horses as they rush out of control in a chariot race
(G. 1,512-514, quoted above). This chariot imagery in Vergil’s poem has been
much discussed. It seems obvious that Vergil, in placing right at the book’s
20
21
Cf. ROCHE 2009, 22 and his rich commentary on individual elements; more generally see PARATORE 1943.
For fuller discussion see NELIS 2008; NELIS 2010.
Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66)
261
close the image of the charioteer incapable of bringing the chariot under control, is clearly recalling the beginning of the book where he refers to his poem
as the beginning of a cursus (1,40) and aligns his invocation of the gods with
the circus ritual of the pompa circensis22. Lucan, I believe, was very much alive
to this example of Vergilian thematic coherence, and he exploited it in two
ways.
First, and more obviously, the Phaethon myth. As already noted, S. Hinds
has argued for allusion to the presence of this myth in the description of Nero
mounting the chariot of the Sun at B.C. 1,48-5023. It is noteworthy, therefore,
that several scholars have pointed out the implicit presence of the myth of
Phaethon at the end of Georgics 1, where we have a description of a chariot
out of control and the double use of the single name ‘Caesar’ to refer to both
father and son, Julius Caesar and Octavian24. I believe that appreciation of
Lucan’s allusion to the Georgics reinforces Hinds’s interpretation of the simultaneous presence of allusion to Ovid. Lucan is in fact drawing on two
models in which Phaethon is present, in Vergil rather implicitly and in Ovid
quite explicitly. The reader who picks up the reminiscence of these two texts
is in a position to make a connection between Nero and Phaethon. But it is
precisely at this stage that this knowing reader is faced with the problem of
how to interpret the significance of the allusion. Some, with Hinds, interpret
Lucan’s text as containing images of impending disaster and so equate Nero
with Phaethon’s disastrous failure. But others have argued that Nero himself
deliberately played up his identification with Phaethon and that Lucan here
presents him as a new and successful Phaethon25. It is in fact possible to use
the text of the Georgics to support both interpretations. In itself, the close
of the first book has strong hints of impending disaster, with the chariot apparently out of control. But on the other hand, the reader of that poem has
already read its prologue and so can also close book 1 with the reassurance
that in the end the young saviour prayed for did indeed succeed in bringing
the chariot under control. In Vergilian terms, the book’s close is rather ambiguous, evoking both danger and safety, war and peace, chaos and order. As
a result, it is difficult to control interpretation of allusion to a text which is
itself so finely balanced.
This approach may be supported by attempting to interpret related Vergilian allusion in two lines in which Lucan predicts the peace which will accompany Nero’s apotheosis (B.C. 1,61-62):
22
See NELIS 2008; NELIS-CLEMENT - NELIS (forthcoming).
HINDS 1988.
24
See for example GALE 2000, 35-36; NELIS 2008, 507.
25
See for example DEWAR 1994, 211; CHAMPLIN 2003, 134-135. On Nero and Phaethon see also
AUHAGEN 1999. In general on Nero and ‘shining Apollo’ see CHAMPLIN 2003, 112-144.
23
262
Damien Nelis
pax missa per orbem
ferrea belligeri conpescat limina Iani.
The line-ending pax missa per orbem is a direct inversion of Georgics
1,505, where Vergil describes a world at war with the words tot bella per
orbem, also at the end of the hexameter. Subsequently, in line 69, Lucan goes
back in time to the causes of civil war which drove peace from the world, an
idea which he expresses with the line-ending pacem excusserit orbi. Vergil
looks at the present reality of war and hopes for a saviour. Lucan first looks
forward to Nero’s deification and states that it will usher in an era of peace,
and then almost immediately goes back to the beginnings of civil war and the
driving of peace from the world. Pax first fills the orbis and then is driven out
of the orbis26. A reader who picks up the allusion to the Georgics is once again
faced with a difficult interpretative balancing act. Given that each is evoked
by Vergil, should s/he give priority to the present reality of civil war or to the
hope of future peace? And, in historical terms, what temporal perspective
must s/he adopt? Vergil’s text implies a reading of Roman civil strife during
the 40s and 30s BCE from two different perspectives, one that is pre-Actium
and one that is post-Actium27. Lucan both looks forward to peace and back
to war. But what reality does the present offer? If it is only Nero’s death and
subsequent apotheosis which will bring in an age of concord and stability, is
his reign to be associated with the chaos and destruction brought about by
civil war? Or should the reader ultimately privilege the rhetoric of hope and
accept that in both texts the figure of Caesar is indeed the bringer of peace
and stability and the worthy recipient of lavish praise?
In the end, it remains extraordinarily difficult to decide what to make of
Lucan’s praise of Nero. But there is a more important methodological point
to be made about the way in which recent scholarship has set about trying to
come to a decision. Many modern sensibilities have difficulty in taking seriously the extravagant and highly mannered rhetoric of much ancient encomium and, as a result, seek to find in it destabilizing elements which permit them
to offer readings in which mockery and insincerity come to the surface. One
widely employed technique which has been used to bolster this approach is
the study of highly complex intertextuality. But in this paper I have attempted
to draw attention to examples of obvious allusion to Vergil’s Georgics which
seems to offer up no easy way of deciding between what one may usefully,
26
For a reading of these two lines as also including allusion to Empedocles, who is simultaneously
Vergil’s model at the end of Georgics 1, see NELIS (forthcoming 1).
27
This temporal shift is present in the connection between the opening and close of book 1, and it
is reinforced even more obviously in the transition form the close of book 2, which ends with mention of
war, to the prologue of book 3, which opens with triumphal imagery; see NELIS (forthcoming 2).
Praising Nero (Lucan, De Bello Civili 1,33-66)
263
if a little simplistically, refer to as encomiastic sincerity and insincerity. The
essential point is this, and in the end it is really a restatement of M. Dewar’s
conclusion: if it is accepted that there is validity in the technique whereby the
tracing of allusions to other texts opens up access to further layers of meaning
and so to more accurate interpretation, then there is still a lot of systematic
work to be done on the intertextuality of the De Bello Civili before we can be
sure that we are in a position to evaluate fully the meaningful complexities of
Lucan’s allusive art.
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AMARE IL TIRANNO. CREAZIONE DEL CONSENSO
E LINGUAGGIO ENCOMIASTICO NELLA CULTURA FLAVIA
GIANPIERO ROSATI
A lungo la poesia flavia non ha goduto di buona stampa: opere come gli
epigrammi di Marziale e, più ancora, le Silvae di Stazio sono state lungamente
considerate espressione della degradazione morale che caratterizza il clima
politico-culturale di un regime autocratico tra i più malfamati del mondo antico, quello di Domiziano. Una tenace tradizione critica ha visto nell’encomio,
incorporato, come componente primaria, nella produzione letteraria dei due
maggiori poeti del tempo, la conferma che questa poesia sarebbe stata scritta ‘su commissione’, come una forma di propaganda organizzata dall’alto e
che poeti come Stazio e Marziale avrebbero subìto passivamente, facendosi
docili strumenti del potere imperiale in cambio (o nella speranza) di benefici
e guadagni personali1. Tutto ciò ha dato luogo a un atteggiamento pregiudizialmente negativo, fondato su ragioni morali; eppure liquidare questa letteratura come espressione di degradante servilismo, come mera adulazione
cortigiana sarebbe certamente riduttivo, e ci precluderebbe la comprensione
di aspetti importanti della dinamica sociale che emergono ugualmente dietro
questo linguaggio artefatto (come recita un noto adagio di Gibbon, che si invoca in casi come questo, “si può spesso sapere la verità anche dal linguaggio
dell’adulazione”).
In realtà, per cominciare da Stazio, che il suo sia un encomio ‘su commissione’ è una tesi senza vero fondamento. L’argomento cui solitamente questa
tesi si appoggia è un passo della lettera prefatoria al primo libro delle Silvae, in
cui il poeta – secondo la lezione del codice unico, il Matritensis, da cui l’opera
è trasmessa – direbbe di aver ricevuto da Domiziano l’ordine di comporre
la silva iniziale sull’inaugurazione del monumento equestre (indulgentissimo
imperatori postero die quam dedicaverat opus, tradere est iussum, silv. 1 praef.
19)2. Ma che questo sia il testo autentico è più che lecito dubitare, e giusta1
Per Stazio cfr. ad es. VESSEY 1982, 562-564; un paradigma di servilismo assoluto il poeta appare
anche a SULLIVAN 1991, 128 (“Martial’s flattery is not as extreme as the sycophancy of Statius”). Per una
buona ed equilibrata presentazione di questo aspetto delle Silvae di Stazio è invece da vedere NEWLANDS
2002, 18 ss.
2
Ad es. cfr. da ultimo SMOLENAARS 2006, 225. Su quello stesso passo F. Ahl, che vi vede una denuncia indiretta dell’arbitrio esercitato da un autocrate come Domiziano, fonda la sua tesi della ‘doppiezza’
266
Gianpiero Rosati
mente oggi quel iussum è di regola corretto in ausus sum3, attribuendo cioè al
poeta l’iniziativa del dono di quel componimento. Del resto, sarebbe anche
indelicato verso Domiziano presentare la silva come il prodotto di un suo ordine, e non come il frutto di una spontanea reazione di stupore/ammirazione
del poeta offerto in omaggio al sovrano, con la cautela e prudenza dovuta: in
un regime autocratico anche l’omaggio di un suddito è, sempre, un ‘atto di
audacia’, come tutto ciò che disturba il sovrano dal compito di governare il
mondo, in cui lo si deve immaginare sempre occupato (si veda ad es. il modo
cauto e ossequioso in cui nell’epigramma iniziale Marziale dedica a Domiziano il suo quinto libro)4.
Che Domiziano abbia avuto una sua politica culturale è cosa nota5; ma
che abbia in qualche modo condizionato l’attività letteraria di Stazio (e tanto
meno di Marziale, se si considera la bassa reputazione di un genere come
l’epigramma), o che sia intervenuto direttamente per orientarla in chiave propagandistica, non ci sono prove o indizi consistenti: la promessa di Stazio di
volersi impegnare nella celebrazione, verosimilmente in poesia epica, delle
imprese belliche dell’imperatore non prova in sé che ci siano state pressioni
reali in tal senso, ma potrebbe solo significare che Stazio lo avvertiva, o voleva
mostrare di avvertirlo, come un suo dovere (che peraltro continuò a eludere e
posticipare per tutta la sua carriera)6. Anziché pensare dunque a un’azione di
propaganda (un concetto spesso troppo meccanicamente invocato dagli storici, con tutta probabilità condizionati anche da esperienze moderne)7, a me
sembra più produttivo vedere la poesia encomiastica flavia come un’iniziativa
autonoma, che contiene una proposta di politica culturale offerta al regime
flavio in cambio di un nuovo mecenatismo, sul modello di quello augusteo,
mitizzato e sempre rimpianto.
D’altra parte, anche questa letteratura bollata tradizionalmente come ‘cortigiana’ può beneficiare della recente fioritura di studi sul concetto di corte
(sulla scia del noto lavoro di Norbert Elias sulla Società di corte)8, che ne han(iussus sum contrasterebbe con indulgentissimo) della poesia encomiastica di Stazio, e dunque della necessità di una sua lettura ironica (cfr. AHL 1984, 91).
3
Sulla proposta, che risale a C.E. Sandstroem (Upsala 1878), cfr. spec. gli argomenti a favore addotti da HÅKANSON 1969, 17-18; da ultimi adottano l’emendamento sia E. Courtney (Oxford 1992) che
D.R. Shackleton Bailey (Cambridge, Ma - London 2003); cfr. anche GEYSSEN 1996, 30; ZEINER 2005, 69
s. Cito generalmente il testo delle Silvae (salvo indicazione contraria) secondo l’edizione di E. Courtney.
4
Dopo il lungo elenco di attività in cui il poeta immagina Domiziano impegnato, cfr. spec. il distico
finale (Tu tantum accipias: ego te legisse putabo / et tumidus Galla credulitate fruar, 9 s.).
5
Mi limito qui a rinviare almeno a COLEMAN 1986.
6
Su questa strategia della dilazione cfr. ROSATI 2002, 249-251.
7
Efficaci le osservazioni in proposito di VEYNE 2005, cap. 7 (Buts de l’art, propagande et faste monarchique), 379-418.
8
Cfr. ELIAS 1980 (il saggio, scritto già negli anni trenta, fu pubblicato in Germania solo nel 1969).
Amare il tiranno
267
no elaborato un’idea più articolata e dinamica, mostrando come quest’ultima,
la corte, non va vista in prospettiva unidirezionale, come un’emanazione del
potere dall’alto verso il basso, quasi una creazione del sovrano, priva di iniziativa propria e capace solo di fargli da cassa di risonanza. La corte va vista
piuttosto come un corpo almeno parzialmente autonomo, capace di proporre
una propria idea del potere e di negoziarla col vertice del potere stesso (perché ovviamente il consolidamento e la perpetuazione di quest’ultimo vanno
a vantaggio anche della corte)9. È chiaro che il concetto di corte, nel modo in
cui qui lo usiamo per la società domizianea, va inteso in senso lato, per definire non solo individui e gruppi che ruotano attorno al sovrano, che costituiscono direttamente la sua cerchia (la domus imperiale, la familia Caesaris e i suoi
amici)10, ma anche più in generale una serie di figure socialmente autorevoli,
come i destinatari delle Silvae di Stazio, che sono di fatto espressione qualificante della società imperiale, la sua élite11.
D’altra parte, leggere testi encomiastici pone di fronte a un problema preliminare (su cui torneremo più avanti), quello della loro doppiezza, intrinseca
alla natura ‘condizionata’ di testi che per statuto non possono se non ‘parlar
bene’ del loro oggetto: dovendo solo lodare, le eventuali critiche si devono
dedurre ex silentio o in altro modo, comunque indiretto. Un problema che è
espressamente messo a fuoco da uno dei più famosi testi encomiastici antichi,
il Panegirico a Traiano di Plinio, che evidentemente presuppone un pubblico
abituato a leggere against the grain, a guardare anche dietro la facciata di un
testo tutto celebrativo: paneg. 3,4 Non enim periculum est ne, cum loquar de
humanitate, exprobrari sibi superbiam credat cum de frugalitate, luxuriam cum
de clementia, crudelitatem cum de liberalitate, avaritiam cum de benignitate,
livorem cum de continentia, libidinem cum de labore, inertiam cum de fortitudine, timorem. L’encomio insomma non è necessariamente solo approvazione,
entusiastica e acritica, del suo oggetto, ma può indirettamente contenere, in
maniera più o meno cauta e dissimulata, consigli, avvertimenti, ammonizioni e anche critiche12. Anche l’elogio, in contesti politico-sociali che non ammettono forme, dirette o indirette, di opposizione, può costituire insomma
una forma di influenza e di controllo: elogiare qualcuno può servire anche
a svolgere una funzione di indirizzo, può essere un modo di costringere il
laudandus al confronto con un modello potenzialmente imbarazzante, farlo
9
Tra i contributi più significativi al dibattito cfr. WEBER 1993; WALLACE-HADRILL 1996; HERMAN
1997; WINTERLING 1997; WINTERLING 1999; PANI 2003; SPAWFORTH 2007.
10
Sulla corte flavia da vedere ora anche l’efficace sintesi di WALLACE-HADRILL 2009.
11
Sulla sua composizione e sul profilo sociale e ideologico cfr. LOTITO 1974-1975; HENDERSON 1998;
WALLACE-HADRILL 2009.
12
Su questo aspetto cfr. ad es., dopo PERNOT 1993, 711 ss., BRAUND 1998; per Stazio cfr. da ultimo
NEWLANDS 2009, 388 s.
268
Gianpiero Rosati
sentire sotto osservazione, mettergli davanti uno specchio nel quale egli può
faticare a riconoscersi, imporgli insomma una maschera che ne condiziona il
comportamento13. E attraverso il linguaggio dell’encomio si può insinuare la
critica: come può essere eloquente il silenzio, così lo può essere il richiamo a
qualità o tipi di comportamento in confronto ai quali il principe può risultare,
o apparire, deficitario.
Sia Stazio che Marziale si costruiscono quindi una propria autorità che
permette loro di negoziare l’adesione alla politica del principe, e il consenso
‘pubblico’ che questa autorità riesce a coagulare. Se Stazio punta a vedersi
riconosciuto come il più grande poeta vivente, poeta laureatus e nuovo Virgilio del regime flavio14, e da questa posizione negozia il suo rapporto con
Domiziano e l’élite sociale che gli ruota attorno (cioè i destinatari delle Silvae),
anche Marziale, che rivendica ripetutamente il suo enorme successo popolare
(ad es. 1,1,1-2; 3,95,7-8 etc.), vanta la propria autorità letteraria presso i suoi
amici potenti e potenziali committenti desiderosi di vedersi assegnata una patente di distinzione nei versi del poeta:
Quod cupis in nostris dicique legique libellis
et nonnullus honos creditur iste tibi,
ne valeam, si non res est gratissima nobis
et volo te chartis inseruisse meis (4,31,1-4).
Una distinzione cui molti aspirano (5,15,3-4 gaudet honorato sed multus
nomine lector, / cui victura meo munere fama datur), e che non può essere
conferita dal denaro, ma solo dal talento poetico, che Marziale esalta come
privilegio esclusivo. Cfr. ad es. l’epigramma 5,13:
Sum, fateor, semperque fui, Callistrate, pauper,
sed non obscurus nec male notus eques,
sed toto legor orbe frequens et dicitur ‘Hic est’,
quodque cinis paucis, hoc mihi vita dedit.
At tua centenis incumbunt tecta columnis
et libertinas arca flagellat opes,
magnaque Niliacae servit tibi glaeba Syenes,
tondet et innumeros Gallica Parma greges.
Hoc ego tuque sumus: sed quod sum, non potes esse:
tu quod es, e populo quilibet esse potest.
Nel negoziato con i suoi interlocutori, Marziale rivendica come un atto
dovuto la corresponsione di sostegno e denaro in cambio della fama che i suoi
13
14
Da vedere ora il notevole lavoro di FORMISANO 2008.
Cfr. sul tema, anche per l’ampia bibliografia, ROSATI 2008.
Amare il tiranno
269
versi possono conferire, ed esplicita il principio di reciprocità che fa da fondamento dei rapporti sociali (evidentemente costretto da quella che lamenta
come un’ingratia diffusa: cfr. ad es. 5,36 Laudatus nostro quidam, Faustine,
libello / dissimulat, quasi nil debeat: inposuit)15. In una società come quella
romana basata sullo scambio dei beneficia, tale principio fonda e rinsalda la
stessa tenuta sociale (come ricorda anche Seneca, ben. 1,4,2 res, quae maxime
humanam societatem adligat), e ad esso Marziale si appella per sollecitare il
sostegno degli amici potenti.
In forma solo più discreta il negoziato coinvolge lo stesso Domiziano: lo
mostra chiaramente l’epigramma in cui Marziale gli chiede il dono dell’acqua
corrente nella sua casa di campagna (9,18):
Est mihi – sitque precor longum te praeside, Caesar –
rus minimum, parvi sunt et in urbe lares.
Sed de valle brevi, quas det sitientibus hortis,
curva laboratas antlia tollit aquas:
sicca domus queritur nullo se rore foveri,
cum mihi vicino Marcia fonte sonet.
Quam dederis nostris, Auguste, penatibus undam,
Castalis haec nobis aut Iovis imber erit.
Come sempre la chiusa dell’epigramma ne condensa il senso: se Domiziano, il Giove terreno, farà al poeta il dono dell’acqua, essa sarà per lui l’‘acqua
di Giove’ (cioè gli darà la vita), ma oltre che vitale quell’acqua sarà anche
Castalis, cioè – essendo Castalia la fonte sacra ad Apollo e alle Muse cui si abbeverano i poeti16 – gli porterà l’ispirazione, ovviamente a beneficio dell’imperatore. È evidente dunque la mossa di Marziale: la sua è un’ispirazione ‘condizionata’, egli la può sì mettere al servizio di Domiziano ma in cambio di quel
beneficium: l’epigramma contiene insomma un’offerta di collaborazione, una
proposta conveniente per entrambe le parti.
La brillante formulazione di Marziale mostra l’atteggiamento che egli assume anche altrove nel rapporto col potere politico: ad es. la lettura/interpretazione che in molti epigrammi egli fornisce dei circenses, il ‘commento’ poetico
dei vari giochi e delle forme di ‘cultura popolare’ offerte da Domiziano ai suoi
sudditi, agisce non solo come cassa di risonanza del potere, di cui si celebra
così l’azione di evergetismo, ma anche come strumento di divulgazione dei
15
Sull’importanza del tema del dono, e degli obblighi sociali connessi, nella poesia di Marziale insistono efficacemente GOLD 2003; SPISAK 2007 (cfr. spec. cap. 3, sui Poems of Praise, pp. 53-71). Sulla sua
centralità nel sistema della cultura latina da vedere anche diversi dei contributi compresi in PICONE 2008.
16
Cfr. ad es. anche 7,22,3 s. Haec meruit, cum te terris, Lucane, dedisset, / mixtus Castaliae Baetis ut
esset aquae; 12,2,13 s. Fons ibi Castalius vitreo torrente superbit, / unde novem dominas saepe bibisse ferunt.
270
Gianpiero Rosati
valori sociali che il potere promuove17. Così, l’interpretazione del messaggio
politico ingegnosamente elaborato nel cosiddetto ‘ciclo dei leoni e delle lepri’,
cioè un invito al lealismo verso il sovrano, mostra come il talento di un poeta
possa agire quale strumento di creazione del consenso: è un fenomeno che oggi
potremmo chiamare di ‘mediatizzazione della politica’, cioè di traduzione del
messaggio politico in forme di cultura popolare, e in simboli, che una poesia di
successo, e socialmente di larga fruibilità, come quella di Marziale si incarica
di amplificare, di fare oggetto di una forma di comunicazione diffusa ma anche
culturalmente prestigiosa. Quel che Marziale mostra a Domiziano è che il consenso non si costruisce solo dall’alto, da parte di chi detiene il potere politico,
e che un poeta può efficacemente collaborare alla sua creazione, fornendo al
sovrano l’occasione di esercitare una forma di moderno mecenatismo che nobilita la sua immagine, le conferisce autorità culturale e insieme politica.
Una posizione analoga mostra anche Stazio nelle Silvae, i componimenti
‘d’occasione’ (che egli stesso assimila a epigrammi: silv. 2 praef. 16-17) in cui
descrive la Roma di Domiziano e la vita dei propri potenti amici e sperati protettori. La celebrazione dell’élite flavia attraverso il suo stile di vita dovizioso
e culturalmente raffinato non solo procura all’élite stessa la distinzione che
un grande poeta conferisce18, ma rappresenta un encomio dell’intera società
imperiale, e dunque, indirettamente, del suo vertice: l’encomio cioè tratteggia
e impone una visione del mondo, e in questo senso agisce come una forma
di controllo sociale, che conferisce autorità culturale e politica al poeta-mediatore, il quale si mostra capace di costruire un’immagine della realtà come
del ‘migliore dei mondi possibili’19. Un mondo di cui viene celebrato il lusso
e l’opulenza: i marmi e i materiali esotici che affluiscono in massa a Roma da
ogni parte del mondo, e decorano la ‘vita in villa’ degli amici/protettori di Stazio, sono il simbolo, oltre che il segno tangibile, della prosperità dell’impero20.
Benessere e armonia sono dunque i tratti dominanti della vita dell’élite sociale, e il suo elogio rappresenta un elogio indiretto del sovrano che governa
il mondo flavio. In questa nuova età dell’oro viene rimosso ogni conflitto e
appagato ogni desiderio: è un mondo dominato da un potere soft, che non ha
bisogno di ricorrere alla forza perché la sua autorità incute rispetto e timore
nei nemici. Un mondo dunque pacifico che garantisce sicurezza e prosperità
ai sudditi, i quali non possono se non amare il loro sovrano, ricambiando il
suo amore per loro. Quella flavia è una società caratterizzata da una concordia
universale fondata sull’amore (Nullum Roma ducem, nec te sic, Caesar, ama17
Su questo aspetto della poesia di Marziale rimando a ROSATI 2006.
Importante in proposito ZEINER 2005.
19
Rinvio ovviamente al bel lavoro, su Marziale, di FABBRINI 2007.
20
Un simbolo notoriamente sfruttato in chiave propagandistica già dallo stesso Augusto, che si
vantava di aver reso di marmo la vecchia città di mattoni (Svetonio, Aug. 28,3; Cassio Dione 56,30,3).
18
Amare il tiranno
271
vit: / te quoque iam non plus, ut velit ipsa, potest, 8,11,7-8), una società senza
nemici: lo stesso Catone, il nemico per antonomasia di Cesare, oggi sarebbe
‘cesariano’ (11,5,14)21.
Il tema dell’amore per il sovrano torna ripetutamente nella poesia flavia:
cfr. ad es. Marziale 8,56
Magna licet totiens tribuas, maiora daturus
dona, ducum victor, victor et ipse tui,
diligeris populo non propter praemia, Caesar,
te propter populus praemia, Caesar, amat.
e 9,7,9-10
Dilexere prius pueri iuvenesque senesque,
at nunc infantes te quoque, Caesar, amant;
ma è un topos encomiastico particolarmente presente in un testo per noi prezioso, e pressoché coevo (100 d.C.) all’età flavia, il Panegirico a Traiano di
Plinio il Giovane22.
Ora, l’idea che l’amore dei sudditi (la benevolenza, eunoia), e non il terrore,
sia il migliore strumento di governo e la miglior difesa per il sovrano è molto
antica: è ad es. già in Isocrate, Nic. 21, e la ritroviamo formulata tra gli altri da
Cicerone, off. 2,23 Omnium autem rerum nec aptius est quicquam ad opes tuendas ac tenendas quam diligi nec alienius quam timeri … Malus enim est custos
diuturnitatis metus contraque benivolentia fidelis vel ad perpetuitatem. È infatti
l’amore che legittima il potere del principe, e lo differenzia da quello del tiranno (un’opposizione già di Platone e Aristotele), creando il consenso sociale.
Questo legame affettivo è un topos largamente diffuso nella panegiristica imperiale23, e rientra nel rapporto di tipo emozionale che si instaura solitamente
con un leader carismatico: i poeti flavi rappresentano l’imperatore come una
figura dotata di poteri numinosi, un ‘dio in terra’, tale da esercitare sui sudditi
un forte potere di seduzione alimentando la loro devozione personale.
21
Il paradosso di un Catone cesariano (cioè l’ambizione di convertire il nemico perdente dall’odio
all’amore verso il vincitore, un sogno da età dell’oro, nella quale non esistono conflitti), torna anche in
Stazio, Silv. 1,1,27-8 e poi, nella tradizione panegiristica, in Claudiano 17,165.
22
Un’analisi acuta del testo pliniano è offerta da BARTSCH 1994. Ma è da vedere ora, anche per
l’influenza del testo di Plinio sulla tradizione retorico-politica fino a Machiavelli, CONNOLLY 2009, la
quale legge l’opera “as an exercise in political theorizing” (260) che “articulates and defends not passive
quietism but a mode of political thought that, taking the current reality of autocratic power as its first
instance, operates in terms that transform or evade conventional roman republican habits which, Pliny
subtly suggests, no longer serve the changed conditions of imperial politics” (261).
23
Ad es. paneg. 2,1,3; 2,16,1-4; 5,3,1; 5,14,4; 6,16,2.6; 6,18,7; 12,2,2; 12,3,1.3, etc.
272
Gianpiero Rosati
Al tempo stesso, il presupposto che porta gli autori di encomi politici ad
adottare un linguaggio di tipo affettivo nei confronti del sovrano-laudandus
è la sua grandezza senza confronti, la sua natura dichiarata come divina, che
induce a professare nei suoi confronti una venerazione e dedizione senza riserve. Lo stesso presupposto lo troviamo nel linguaggio della letteratura erotica, che vede (ad es. nell’elegia latina) un poeta-amante dichiararsi ‘schiavo’
dell’amore per una donna-dea, vale a dire un rapporto di potere che oppone un servus alla sua domina, segnato da un’analoga asimmetria di ruoli. Le
analogie dei moduli del corteggiamento erotico con quelli della letteratura di
corte, cioè del ‘corteggiamento’ encomiastico, rivelano una ‘naturale’ interferenza tra due sfere espressive – fondata in entrambi i casi sull’atteggiamento
psicologico dell’autore dell’encomio verso la figura-oggetto di quest’ultimo,
ma anche sul rapporto intrinsecamente negoziale che lega le due parti24 – e
contribuiscono dunque a spiegare il carattere tipicamente affettivo del linguaggio dell’encomio.
Nel Panegirico pliniano il topos dell’amore per il sovrano, e più in generale il lessico dei sentimenti, ritorna con frequenza ossessiva: l’imperatore è
anzitutto un padre dei suoi sudditi (21,3-4; 23,5)25, e dunque il loro rapporto
con lui è regolato da devozione e affetto filiale (essendo così amato, egli non
ha nemmeno bisogno di difendersi con le armi: la sua casa “la difendono le
guardie non già della crudeltà, ma dell’amore”, 49,2). La capacità di amare
del principe viene detta assoluta e senza distinzioni (quasi non ne può fare a
meno), e il suo amore per i sudditi non può non avere un rispecchiamento
nell’amore, ancora maggiore, per lui da parte loro (43,2 nunc a pluribus amaris; nam et plures amas); un amore che del resto è nell’interesse dei cittadini
stessi (68,5 Amamus quidem te in quantum mereris … istud tamen non tui
facimus amore sed nostri). Anche perché, a sua volta, l’amore dei cittadini è
condizione di quello degli dei, che non può mancare a un buon sovrano26 e
che fa prosperare l’intera società, nella quale dominano consenso e concordia
universale27.
24
Sul tema cfr. ROSATI 2003.
Su questo paradigma (costruito in opposizione al rapporto tra padrone e schiavo) cfr. ROLLER
2001, 233 ss.
26
Cfr. 72,3-4 Adeo nihil tibi amore civium antiquius, ut ante a nobis deinde a dis, atque ita ab illis
amari velis, si a nobis ameris. Et sane priorum principum exitus docuit, ne a dis quidem amari nisi quos homines ament; 74,3-4 Quamvis enim faceremus quae amantes solent, illi tamen non amari se credebant sibi.
Super haec precati sumus, ut sic te amarent di quemadmodum tu nos. Quis hoc aut de se aut principi diceret
mediocriter amanti? Pro nobis ipsis quidem haec fuit summa votorum, ut nos sic amarent di quomodo tu.
Estne verum, quod inter ista clamavimus: ‘O nos felices’? Quid enim felicius nobis, quibus non iam illud
optandum est, ut nos diligat princeps, sed di quemadmodum princeps?
27
Come nella totale unità di intenti tra imperatore e senato: cfr. 62,4-5 Nunc inter principem senatumque dignissimi cuiusque caritate certatur. Demonstramus invicem, credimus invicem, quodque maximum
25
Amare il tiranno
273
Un procedimento ricorrente del panegirico è il confronto28, spesso configurato come un’opposizione radicale tra bene e male: in questa retorica binaria,
elementare come lo è questo lessico dei sentimenti, l’amore per il buon principe non può essere disgiunto dall’odio per il cattivo, che è solo l’altra faccia
dell’amore, il suo naturale, e anzi necessario, presupposto e complemento
(53,1-2 Alioqui nihil non parum grate sine comparatione laudatur. Praeterea
hoc primum erga optimum imperatorem piorum civium officium est, insequi dissimiles … neque enim satis amarit bonos principes, qui malos satis non oderit)29.
Il cattivo principe è quello passato (preferibilmente l’ultimo), rispetto al quale
quello attuale che lo ha sostituito si qualifica come colui che ha salvato la
collettività dalla rovina, avviandola verso un futuro radioso la cui garanzia sta
proprio nella stabilità del nuovo potere, di quel principe ottimo che i cittadini
devono amare nel loro stesso interesse, una volta che abbiano riconosciuto in
lui il migliore tra tutti i governanti possibili.
Come hanno osservato vari studiosi, da Joseph Hellegouarc’h30 a Peter White31
a Sandra Citroni Marchetti,32 il lessico dell’amore – il verbo amare, insieme ai coradicali amor, amicitia, amicus – a partire dagli ultimi decenni della repubblica, e poi
in età augustea, è il più comune per designare i legami personali, e politici, anche
laddove sia implicata una forte disparità di status fra le persone coinvolte: anzi,
l’impiego ostentato di questo lessico è proprio il mezzo con cui si cerca di mascherare questa disparità, usando un linguaggio che simula una società di uguali,
legati da un saldo vincolo affettivo, ormai invece superata nei fatti da una configurazione del potere fortemente gerarchizzata. L’appello al principio dell’amore
è dunque la maniera di esorcizzare, o di dissimulare, questo radicale squilibrio di
potere, perpetuando l’illusione di un mondo ormai superato. La grande letteratura d’età imperiale, da Tacito a Seneca anzitutto, ci dice che simulazione e dissimulazione sono l’atteggiamento più diffuso33, o anzi connaturato e necessario,
nella vita di corte (dove non è lecito sentire quae velis et quae sentias dicere)34,
e adeguarsi a questa generale ipocrisia collettiva è la condizione necessaria per
cercare di sopravvivere in un contesto sociale altamente instabile e rischioso.
amoris mutui signum est, eosdem amamus. Proinde, patres conscripti, favete aperte, diligite constanter. Non
iam dissimulandus est amor ne noceat, non premendum odium ne prosit: eadem Caesar quae senatus probat
improbatque. Vos ille praesentes, vos etiam absentes in consilio habet.
28
Illustra questo schema ricorrente, sulla base di alcuni panegirici non solo antichi, PAILLIER 2003.
29
Cfr. anche 68,7 Et alioqui, cum sint odium amorque contraria, hoc perquam simile habent, quod ibi
intemperantius amamus bonos principes, ubi liberius malos odimus.
30
Cfr. HELLEGOUARC’H 1972, 146-151.
31
WHITE 1978, 80-81.
32
CITRONI MARCHETTI 2000, passim.
33
Cfr. ad es. STROCCHIO 2001.
34
Secondo WALLACE-HADRILL 1996, 305 “flattery and the concealment of true feelings were a structurale necessity” della corte.
274
Gianpiero Rosati
Quello dei sentimenti che si possono, o si debbono, nutrire verso chi detiene
un potere assoluto è un problema su cui si è interrogato più volte il pensiero
politico anche moderno, da Baldesar Castiglione (nel capitolo 2,18 del Cortegiano) a Machiavelli (il capitolo 17 del Principe esamina il tema “s’elli è meglio
essere amato che temuto, o e converso”, dunque assumendo il punto di vista del
principe) a Vittorio Alfieri, il quale nel trattato Della Tirannide (del 1777; capp.
16-17 “Se si possa amare il tiranno, e da chi”) argomenta che “colui che potrà
impunemente offendere tutti, e non essere mai impunemente offeso da chi che sia,
sarà per necessità temutissimo, e quindi per necessità abborrito da tutti”. Già Cicerone, del resto, osservava realisticamente che il reciproco timore tra sudditi e
tiranno ingenera non certo amore ma piuttosto un reciproco odio (Lael. 52-53):
Haec enim est tyrannorum vita nimirum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis
benivolentiae potest esse fiducia, omnia semper suspecta atque sollicita, nullus locus
amicitiae. Quis enim aut eum diligat, quem metuat, aut eum, a quo se metui putet?
Coluntur tamen simulatione dumtaxat ad tempus. Quodsi forte, ut fit plerumque, ceciderunt, tum intellegitur, quam fuerint inopes amicorum.
L’ostentazione di amore (anche il verbo colo rientra nel lessico dell’‘amore politico’) è dunque il risultato della simulazione, dell’ipocrisia diffusa che
caratterizza i regimi tirannici e le corti che attorno ad essi ruotano (Alfieri la
chiama “la maschera dell’amore”, cioè la forma sotto cui nelle corti si camuffa
la paura). Regimi tirannici che, per gli scrittori di encomi, sono sempre quelli del passato, e mai del presente: nelle parole di Plinio, ad esempio, com’è
spontaneo e sincero l’amore per Traiano così viene detto ipocrita il finto amore che nascondeva l’odio verso il cattivo imperatore Domiziano (85,1):
Iam etiam et in privatorum animis exoleverat priscum mortalium bonum amicitia, cuius
in locum migraverant adsentationes blanditiae et peior odio amoris simulatio. Etenim
in principum domo nomen tantum amicitiae, inane scilicet inrisumque remanebat. Nam
qui poterat esse inter eos amicitia, quorum sibi alii domini alii servi videbantur?35
Com’è stato osservato, il Panegirico di Plinio è ossessionato dal bisogno di
provare la propria sincerità36: l’encomio si dice autentico, frutto di un amore
sincero, e tutt’altra cosa dalla lode adulatoria che è invece tipica dei regimi
segnati dalla schiavitù (55,3 ingeniosior est enim ad excogitandum simulatio
veritate, servitus libertate, metus amore). È ovvio che una così insistita excusatio vuole fugare il sospetto della propaganda imposta, o di un’intenzione
35
Che non sia possibile amicizia in un rapporto così asimmetrico, che si configura piuttosto come
una relazione tra schiavo e padrone, dominata dalla paura, è affine all’argomento del Lelio di Cicerone
visto qui sopra.
36
BARTSCH 1994, 149 (The art of sincerity è il titolo dell’intero capitolo, 148-187).
Amare il tiranno
275
adulatoria, che confermerebbe la natura non-liberale del potere lodato, il
quale fa mostra perciò di non volere la lode, di accettarla suo malgrado (una
formula che salva così l’onore del laudandus non meno che del laudator)37. Il
panegirico di Plinio è perciò presentato come una concessione che Traiano fa
(malvolentieri, perché ‘odia essere lodato’) all’affetto dei suoi sudditi, dando
con ciò ulteriore prova della sua civilitas: 4,3 cedis adfectibus nostris, nec nobis
munera tua praedicare, sed audire tibi necesse est. Anche Traiano, come già
gli imperatori precedenti a partire da Cesare e Augusto (che non a caso nella
sua autobiografia insiste sul rifiuto di molte delle cariche ripetutamente a lui
offerte), si confronta col problema, squisitamente politico, dei limiti da porre
alle profferte di elogi38: nelle parole di Plinio il sovrano viene detto costretto
ad accettare le proprie lodi (igitur cogendus fuisti, 5,6) dalla pressione dei sudditi che lo amano, allo scopo cioè di esibire il suo come un cedimento al loro
affetto (la situazione si sarebbe dunque rovesciata: se prima, con gli imperatori precedenti come Domiziano, si imponeva l’autorità del sovrano che si
proclamava dominus et deus, a prevalere ora è l’amore dei cittadini)39. Perché
tra le virtù che del buon sovrano si devono celebrare c’è proprio la modestia, e
la vicinanza ai sudditi, che la sua divina grandezza non gli fa dimenticare (egli
realizza così il modello del civilis princeps)40, e che lo rende perciò degno di
essere amato da quei cittadini cui egli generosamente ‘si concede’41.
La martellante ostentazione di sincerità che pervade il testo di Plinio tradisce in realtà la difficoltà di parlare liberamente al sovrano, e del sovrano,
in una struttura sociale fondata su una radicale disuguaglianza e asimmetria
di potere42. I confini circoscritti entro cui Plinio sa di doversi muovere sono
lucidamente definiti da lui stesso in una lettera in cui spiega la genesi del Panegirico, e la propria decisione di seguire la tecnica del laudando praecipere, che
gli permette di assolvere al proprio dovere di cittadino leale al sovrano senza
abdicare alla sua dignità morale e intellettuale:
37
La mossa rientra insomma nel rituale del ‘rifiuto’ (soprattutto di cariche), così diffuso nel comportamento politico del princeps, e le cui sottili finalità semiotiche sono efficacemente colte da WALLACEHADRILL 1982, 37: “refusal … is a gesture designed to substantiate an elaborate pretence that things are
not as they seem”.
38
Cfr. BARTSCH 1994, 163-164.
39
Sull’ambiguità di questo richiamo alla paura dominante sotto Domiziano (in opposizione al presente) cfr. CONNOLLY 2009, 264 ss.
40
Su cui è da vedere ancora WALLACE-HADRILL 1982.
41
Sulla strategia politica implicita nell’atteggiamento tenuto verso l’élite sociale cfr. WALLACEHADRILL 1996, 306: “The accessibility of the emperor to the upper classes and his ‘civil’ treatment of
them as ‘equals’ was an essential part of the strategy of power, and it makes the imperial court fundamentally different from the court of any hellenistic ruler”.
42
CONNOLLY 2009, 278 lo definisce un “text of praise produced out of constraint and fear that insists
on speaking about freedom”.
276
Gianpiero Rosati
bono civi convenientissimum credidi eadem illa spatiosius et uberius volumine amplecti,
primum ut imperatori nostro virtutes suae veris laudibus commendarentur, deinde ut
futuri principes non quasi a magistro sed tamen sub exemplo praemonerentur, qua potissimum via possent ad eandem gloriam niti. Nam praecipere qualis esse debeat princeps,
pulchrum quidem sed onerosum ac prope superbum est; laudare vero optimum principem, ac per hoc posteris velut e specula lumen quod sequantur ostendere, idem utilitatis
habet adrogantiae nihil (epist. 3,18,1-3).
Plinio è fin troppo cosciente che il suo discorso rientra a pieno titolo in
una tradizione encomiastica che ormai, per l’abuso che il servilismo dilagante
ne ha indotto, risulta irrimediabilmente screditata (come nel famoso prologo
dell’Agricola osserva in maniera obliqua lo stesso Tacito: at nunc narraturo
mihi vitam defuncti hominis venia opus fuit, quam non petissem incusaturus:
tam saeva et infesta virtutibus tempora, 1,4). Del resto lo stesso Plinio, nella
lettera sopra citata, riconosce come il discorso encomiastico risulti universalmente inviso perché percepito come falso: una norma rispetto alla quale la
gratiarum actio da lui rivolta a Traiano rappresenta, va da sé, l’eccezione (perché eccezionale è, implica Plinio, la natura stessa del princeps da lui elogiato:
epist. 3,18,7 accedet ergo hoc quoque laudibus principis nostri, quod res antea
tam invisa quam falsa, nunc ut vera ita amabilis facta est). L’encomio, in altre
parole, finisce per risultare controproducente, danneggia chi lo riceve: è un
discorso ormai compromesso, che ha perso il suo senso autentico. Il fatto è
che la natura stessa del linguaggio encomiastico denuncia il potere detenuto
dal suo oggetto-destinatario, e dunque tradisce l’adulazione nei suoi confronti: nel discorso 1,19 di Epitteto (Come comportarsi davanti a un tiranno), alla
richiesta di definire la natura del proprio potere il tiranno risponde “sono
adulato da tutti”, e dà in questo modo la misura di un potere illimitato.
Questo ci riporta al problema del sospetto congenito di falsità, di adulazione,
dell’encomio rivolto a un potente, che è un vizio sociale tipico dei regimi strutturati gerarchicamente con al vertice il detentore di un potere autocratico, dalla
cui volontà può dipendere il destino dei suoi sudditi (un problema oggetto ad
es. di riflessione morale dell’operetta di Plutarco Come distinguere l’adulatore
dall’amico). È la ragione per cui, come dice un noto passo di Dione Crisostomo
(6,59, nell’orazione Sulla tirannide), un tiranno non è mai davvero contento di
ascoltare il proprio elogio, perché è sempre convinto che esso sia falso. L’encomio di un potente insomma è intrinsecamente condannato a esser creduto falso,
a esser considerato frutto dell’ipocrisia adulatoria di chi ne è l’autore.
Ma le più eloquenti in proposito sono le parole di Atreo, il tiranno-archetipo del teatro di Seneca43, colui che rifiuta la clementia e l’amore dei sudditi
e teorizza lucidamente il terrore, facendo suo il famoso oderint dum metuant
43
Sulla figura dell’Atreo senecano cfr. SCHIESARO 2003, cap. 4 (139-176, spec. 161-162).
Amare il tiranno
277
proclamato dall’omonimo personaggio di Accio, un motto in cui Seneca filosofo vedeva simboleggiato l’orrore del potere tirannico44. Quella che per Dione Crisostomo è la frustrazione di ogni tiranno, Atreo la volge in piacere: non
solo il piacere sadico di vedere l’ipocrisia dei sudditi che odiano il tiranno ma
per paura si costringono a lodarlo, ma un piacere ancora più perverso, quello
che li spinge a volerlo amare, a volere cioè il contrario di quel che sentono, ad
annullare la propria volontà autentica (Thyest. 205 ss.):
At. Maximum hoc regni bonum est,
quod facta domini cogitur populus sui
tam ferre quam laudare. Sat. Quos cogit metus
laudare, eosdem reddit inimicos metus.
At qui favoris gloriam veri petit,
animo magis quam voce laudari volet.
At. Laus vera et humili saepe contingit viro,
non nisi potenti falsa. Quod nolunt velint45.
Una lode vera, dice Atreo, può toccare a chiunque, mentre quella falsa solo
a un potente. In altre parole, l’encomio, ci dice Seneca (che dell’ambiente di
corte e dei suoi codici di comportamento conosce ogni segreto), soprattutto
se è falso, se come tale cioè viene percepito, dà la misura del potere di chi ne
è oggetto (e quindi a un tiranno come Atreo dà più soddisfazione). L’encomio
insomma, senza riuscire a convincere della propria sincerità, agisce involontariamente come un segno del potere del suo destinatario; e quanto più esso è
esagerato e servile, tanto più chi ne è oggetto ne risulta contrassegnato come
un despota. Il destino dell’encomio, o almeno dell’encomio di un potente, è
insomma di produrre un esito opposto alle sue intenzioni dichiarate, di risolversi in una rappresentazione del potere smisurato che quel potente detiene.
Il linguaggio, in altre parole, parla oltre e anche contro le proprie intenzioni: e
dice che non ci può essere encomio sincero di un potente.
È lo scacco estremo cui va incontro la forma-encomio, l’ultimo tra i tanti
paradossi che caratterizzano questo tipo di discorso, quando è minato alla
44
Cfr. dial. 3,20,4-5 illa dira et abominanda ‘oderint, dum metuant’. Sullano scias saeculo scriptam.
Nescio utrum sibi peius optaverit ut odio esset an ut timori…; cfr. anche de clem. 12,4 (cum invisus sit,
quia timetur, timeri vult, quia invisus est, et illo execrabili versu, qui multos praecipites dedit, utitur…),
dove quel verso ‘esecrando’ viene assunto a emblema di una concezione, o pratica, del potere non solo
aberrante in sé ma anche politicamente sconsiderata e autolesionistica.
45
Cfr. MADER 1998, 37 (che rileva i tratti alla Orwell di questa concezione del potere): “power on
this view is the tyrant’s capacity to enforce his will upon his victims, thereby destroying their psychological autonomy and integrity”, col perverso obiettivo di ottenere quel “volontario asservimento della
volontà” (denunciato da un noto passo tacitiano come estrema species adulandi, ann. 1,8,4) su cui è da
vedere ora BESSONE c.d.s.
278
Gianpiero Rosati
base da un marcato squilibrio nei rapporti di forza tra chi lo fa e chi lo riceve.
Analogamente accade per il linguaggio dell’amore: quanto maggiore è la asimmetria nel rapporto che si vuol presentare come un affetto tra amici, tanto
più falso e ipocrita è l’amore che viene proclamato, e che è invece impossibile. Come afferma Diogene nell’orazione di Dione, con tutta la sua ricchezza
e potenza il tiranno non potrà mai avere quello che è il tesoro più grande,
un’amicizia sincera.
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ELOGIO RETORICO E POTERE POLITICO
ALL’EPOCA DELLA SECONDA SOFISTICA
LAURENT PERNOT
Nel periodo che va dal II al III secolo d.C., i sofisti della cosiddetta “Seconda
Sofistica” erano i maestri della retorica greca, in particolare dell’elogio retorico,
e tenevano numerosi discorsi rivolti a Roma, all’Imperatore e ai suoi rappresentanti. I testi essenziali, a tal proposito, sono quelli di Dione di Prusa, Elio
Aristide, Luciano, dello Pseudo-Dionigi di Alicarnasso e di Menandro Retore,
cui si aggiungono opere meno importanti e attestazioni di opere perdute.
L’interpretazione di questo ricco materiale è delicata e l’analisi che possiamo darne non è definitiva né rigida. In passato, nel XIX ed ancora nel
XX secolo, esisteva una tradizione di disprezzo nei confronti della Seconda
Sofistica, e gli elogi dei sofisti erano ritenuti trascurabili. Gli studiosi li consideravano vuoti, formali, adulatorî. Poi, nella seconda metà del XX secolo, è
intervenuta una sorta di riabilitazione della Seconda Sofistica, in nome della
sua importanza tanto per la storia politica e sociale dell’Impero romano quanto per la storia della letteratura greca. A sua volta, anche l’elogio retorico,
che unisce questi due aspetti (politica e letteratura), è stato rivalutato. Vi si
è riconosciuta l’espressione del lealismo della Seconda Sofistica verso Roma.
Questa rivalutazione era del tutto giustificata, ed io la sottoscrivo, naturalmente, avendovi partecipato in prima persona.
Tuttavia, queste considerazioni non esauriscono la complessità del genere
dell’elogio. L’elogio retorico era per i sofisti un mezzo di comunicazione sottile. Non si trattava di un’adulazione vile e vuota, e non si riduce neppure ad
una beata soddisfazione. Se un tempo l’elogio non era preso sul serio, oggi
non dobbiamo accontentarci di prenderlo alla lettera. L’elogio retorico era
uno strumento raffinato, codificato, che serviva ad esprimere l’approvazione,
certo, ma anche ad affermare valori, a far passare messaggi velati, a presentare
richieste, a negoziare, oppure a criticare.
1. Gli elogi sofistici in onore del potere romano
Le fonti sulla Seconda Sofistica comprendono le opere conservate dei sofisti stessi, le Vite dei sofisti di Filostrato, le informazioni presenti in diversi testi
contemporanei o posteriori (fino alla Suda, che offre preziose notizie, attinte
282
Laurent Pernot
da fonti attendibili), infine i documenti archeologici, epigrafici e numismatici.
Il ritratto del sofista, quale emerge dalle fonti, comporta tre elementi strettamente solidali: l’insegnamento della retorica, la pratica della parola pubblica,
l’influenza politica. Ne derivano conseguenze importanti, come la celebrità,
la ricchezza, i viaggi.
La retorica per gli Antichi era al contempo una disciplina intellettuale ed
uno strumento della vita politica e sociale. Il sofista, in quanto maestro dell’arte oratoria, non si confondeva, dunque, con l’uomo di lettere o con lo specialista di qualche tecnica avulsa dal mondo. Il suo ambito era la parola e, attraverso di essa, l’azione pubblica; e ciò implicava ipso facto un’influenza sociale.
In questo modello culturale, il rapporto con Roma giocava un ruolo essenziale. Secondo i criteri dell’epoca, il sofista di successo era quello che non restava
chiuso tra le mura della scuola, ma interveniva nella vita municipale e provinciale, fruiva di un’importanza politica e sociale nella sua città e presso l’aristocrazia romana, si faceva portavoce della sua città presso le autorità romane e,
nel migliore dei casi, era anche ascoltato dagli imperatori. I sofisti, in tal modo,
si ponevano in una posizione di interlocutori nei confronti dell’Impero romano.
Interlocutori… benevoli. È evidente, dagli elementi che sono appena stati
rilevati, che abbiamo a che fare con una retorica pro-romana, favorevole agli
imperatori e all’Impero. Non è strano, pertanto, che i sofisti, così definiti, nei
loro elogi si siano rivolti al potere romano.
La forma principale era il “discorso reale” (basiliko;" lovgo"), di cui abbiamo un campione (apocrifo) nel corpus di Elio Aristide1; basilikoiv oggi perduti sono noti da attestazioni (elogi di Adriano ad opera di Aspasio di Biblo
e di Orione di Alessandria, elogio di Marco Aurelio ad opera di Nicostrato,
discorsi di Callinico)2; le regole sono state fissate dal trattato di Menandro Retore. Nella maggior parte dei casi, gli elogi dell’imperatore trovavano spazio
in una circostanza specifica e ricevevano in tal caso un nome particolare, in
rapporto a tale circostanza: cerimonie di compleanno, di nozze, di funerale,
giubilei, anniversari, feste in onore di una vittoria, o ancora ambasciate di
città greche presso l’imperatore per attribuirgli onori, auguri, una corona, e
presentargli richieste.
La documentazione epigrafica ci fa conoscere anche esempi di elogi degli
imperatori e della famiglia imperiale pronunciati nei concorsi “musicali”, celebrati in tutto il mondo greco3.
Alcuni elogi avevano per argomento Roma e l’Impero, come il celebre discorso In onore di Roma di Elio Aristide4, o ancora i frammenti conservati
1
2
3
4
Or. 35.
Suda Α 4203; Ω 189; Ν 04; Callinico T 1,11,13 Pernot (“REG” 123, 2010, 71-90).
L. PERNOT, La rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain, I, Paris 1993, 84-92.
Or. 26.
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
283
del discorso A Roma di Callinico, e le attestazioni di elogi di Roma dovuti a
Polluce di Naucrati e ad un certo Pompeiano di Filadelfia5.
Presso gli storici greci si trovano riscritture di laudationes funebres romane:
Appiano e Cassio Dione “rifanno” l’elogio che di Cesare aveva fatto Antonio,
e Cassio Dione, ancora, l’elogio di Augusto ad opera di Tiberio6.
Infine, c’erano gli elogi rivolti ai rappresentanti dell’imperatore, soprattutto ai governatori delle provincie, nel quadro delle loro funzioni: discorsi di
invito, di accoglienza, di benvenuto, di partenza.
La conclusione di questo panorama si riassume in due parole: quantità e
diversità. Se si pensa a tutte le circostanze che implicavano l’imperatore, la
famiglia imperiale e i funzionari romani, e se si calcolano i discorsi possibili
o obbligatori in tutti questi casi, allora il corpus virtuale degli elogi di Roma
all’epoca della Seconda Sofistica comprende certamente migliaia di discorsi,
nei quali era instancabilmente ripreso, a proposito di argomenti precisi, il
tema dei rapporti tra l’autorità romana e il mondo greco. I pochi discorsi
che leggiamo ancora non possono essere compresi che in rapporto a questo
immenso corpus svanito.
2. La celebrazione dei valori
Tutti questi elogi presentavano un’indiscutibile coerenza tra loro, malgrado la diversità degli oratori, dei destinatari e delle circostanze. Tale coerenza
si spiegava con l’omogeneità culturale della Seconda Sofistica, che costituiva
un ambiente a sé, e poggiava sulla retorica.
L’elogio è stato definito, nella retorica greca, sotto il nome di genere epidittico (il terzo genere, accanto ai generi deliberativo e giudiziario). In epoca
imperiale, l’elogio retorico greco (chiamato ejgkwvmion) conobbe uno sviluppo e una formalizzazione senza precedenti. Esso divenne una tecnica, fissata
dall’uso e dai trattati teorici dei retori, trasmessa dall’insegnamento e ripetutamente sfruttata nella pratica. Tale tecnica copriva tutti gli aspetti: terminologia, definizione dei temi e dei tipi di discorso in funzione delle circostanze,
liste di “luoghi” (tovpoi), argomentazione, stile, mnemonica, recita, pubblicazione. L’elogio retorico si basava, così, su un insieme di tradizioni e di regole
che formavano un codice predefinito. È per questo che, in una certa misura,
tutti gli elogi della Seconda Sofistica si somigliano.
Il problema che si pone è sapere a cosa servissero questi innumerevoli discorsi stereotipati in onore del potere romano. È la difficile questione della
5
6
Suda Π 1951; Callinico F 1; Athen. deipn. 3,98c.
App., bell. ciu. 2,144-147; Cass. Dio 44,36-49; 56,35-41.
284
Laurent Pernot
funzione, o delle funzioni, dell’elogio.
Esiste una tradizione interpretativa saldamente stabilita, che in fondo risale alla definizione del genere epidittico in Aristotele7, secondo cui l’elogio
è parola formale, di ostentazione, destinata a mostrare il talento dell’oratore
che la pronuncia. In opposizione ai generi deliberativo e giudiziario, l’elogio
è accantonato in un ruolo di esibizione gratuita e passa per un genere privo di
finalità pratica. Che si tratti di lodare un imperatore, accogliere un magistrato,
vantare una città o celebrare un dio, si ha l’impressione che il pubblico sappia
in anticipo, almeno a grandi linee, ciò che l’oratore si appresta a dire, e che,
di conseguenza, il contenuto specifico del discorso abbia poca importanza.
Non bisogna fermarsi a questa apparenza. Si può osservare che il discorso
di elogio ha una dimensione rituale. È un “atto linguistico” (speech act), nel
senso in cui i linguisti impiegano questa espressione8. O ancora, dal punto di
vista antropologico, si può notare che gli elogi si inscrivono nell’ambito di
cerimonie: in quanto presa di parola regolata dall’uso, essi costituiscono un
elemento dei rituali politici, religiosi, familiari o sociali. Proclamano l’onore e
la gloria, e questo era molto importante nelle società antiche.
L’elogio aveva, dunque, una funzione performativa e cerimoniale. Ma si
può andare oltre e mostrare che nel suo stesso contenuto esso veicolava dei
messaggi. L’elogio propone modelli, afferma valori. E con questa nozione di
“valori” arriviamo alla funzione essenziale dell’elogio retorico.
Occorre sottolineare il ruolo fondamentale delle liste di “luoghi”. I luoghi
della retorica antica sono delle rubriche, o punti di vista, secondo cui l’oratore
esamina il suo tema. Affinché l’esame sia completo, i luoghi sono organizzati
in liste che si vogliono esaustive. In conformità con questo concetto basilare,
i luoghi dell’elogio costituiscono una recensione metodica degli aspetti sotto
cui si presenta ogni oggetto che l’oratore avrà da lodare. È proprio durante
l’epoca della Seconda Sofistica che tale settore raggiunse il suo più completo
sviluppo. Liste di luoghi, approfondite e raffinate, furono elaborate per l’elogio delle persone, delle città, degli dèi, degli animali, degli oggetti animati e
delle astrazioni.
Tali ricerche sui luoghi avevano implicazioni importanti, poiché ogni volta
prevedevano un’analisi dell’oggetto. I luoghi dell’elogio di persona supponevano una concezione dell’uomo, un’antropologia implicita, una riflessione
sulle virtù e sui criteri dell’azione umana, dell’azione politica e militare in
particolare. Allo stesso modo, i luoghi dell’elogio di città contemplavano una
visione sintetica della città, nei suoi aspetti geografici, storici e politici. I luoghi dell’elogio di divinità prendevano in considerazione credenze mitologiche
7
8
Rhet. 1,3.
J.L. AUSTIN, How to Do Things with Words, Oxford 1962.
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
285
e teologiche. Le liste di luoghi offrivano in tal modo modelli di eccellenza,
fondati su valori morali, sociali, teologici, estetici. Classificando e gerarchizzando i temi, costituendo la grammatica dell’elogio, i retori hanno espresso
ed impresso concezioni correnti, sincere, condivise. La retorica epidittica ha
scritto così un capitolo non trascurabile nella storia delle mentalità.
In queste condizioni, l’elogio retorico consiste nel confrontare il soggetto
lodato con la griglia fornita dai luoghi. Ne deriva che la portata di ogni elogio
è doppia. Da una parte, esso afferma i meriti dell’oggetto lodato, mostrando
che esso corrisponde alle caselle previste dalla griglia; ma dall’altra parte, al
contempo esso fissa il modello di eccellenza con cui questo oggetto è confrontato. Un elogio di sovrano (basiliko;" lovgo"), per esempio, non è soltanto un
omaggio reso all’imperatore regnante e un invito a rispettare la monarchia, è
anche una definizione del buon re. Ogni lode conferita ad un oggetto preciso
si sdoppia nello stesso istante in due livelli, l’uno particolare, l’altro generale.
La deviazione attraverso i modelli generali e teorici trasforma l’oratore epidittico in maestro di politica, di morale, di teologia, ecc. L’oggetto appare
lodato in nome di criteri superiori. L’elogio fatto ad un oggetto preciso non è
l’approvazione comune, istintiva, ma la messa in opera di modelli elaborati e
autorizzati. Il compito dell’oratore non si limita a confortare l’uditorio nelle
sue ammirazioni e nelle sue aspirazioni, ma consiste anche nel fornirgli la
spiegazione e la giustificazione.
E questo tanto più che il sofista gode di un’autorità particolare. Egli ha
un mandato, è invitato, spesso è portavoce della collettività. E sovente egli si
presenta anche dotato di un’aura intellettuale, morale (in quanto filosofo, o
successore di poeti), religiosa (è il tema dell’ispirazione).
Su queste basi, l’oratore illumina la collettività sui suoi propri sentimenti e
ne traduce le convinzioni nell’onorato linguaggio della retorica.
Gli oratori epidittici possono dunque essere qualificati come ideologi. Essi
modellavano le coscienze ed elaboravano una visione del mondo. Se anche
altre categorie di pensatori svolgevano nella stessa epoca un ruolo simile, la
specificità dell’eloquenza epidittica consisteva nel presentare le cose nella
prospettiva di ciò che è lodevole e di ciò che concerne la collettività. Gli oratori epidittici presentavano il versante luminoso e unanimista della coscienza
sociale, a discapito di ogni preoccupazione di indagine imparziale e critica.
L’elogio è un discorso sfasato dalla realtà, e tutta la sua fecondità è dovuta a
tale sfasatura, che gli permette di sostenere i valori.
Questa funzione di consolidamento dell’ordine sociale costituisce la risposta alla questione dell’utilità dell’elogio. Essa permette di capire perché è apparso così difficile, nell’Antichità e ancora presso i moderni, definire in modo
preciso l’utilità del genere epidittico: poiché la nozione di efficacia immediata,
impiegata per gli altri due generi, non aveva ragion d’essere in questo caso, e
286
Laurent Pernot
bisognava anzi pensare ad una forma di azione che fosse non meno reale, ma
più sottile e più diffusa.
Illuminante, a questo punto, il caso del biasimo. Il biasimo è, secondo la
teoria retorica, il simmetrico dell’elogio; ma, in realtà, non ne ha mai avuto lo
stesso ruolo. Nell’Impero romano non era questione di pronunciare discorsi
ufficiali che potessero biasimare l’imperatore, gli dèi o i notabili. Al biasimo
mancava precisamente ciò che determinava il trionfo dell’elogio: il regolare
ritorno, nelle cerimonie pubbliche e private, di una parola rituale, tipizzata
nelle sue forme e nei suoi contenuti, che manteneva la coesione sociale e mirava alla bellezza letteraria. Il biasimo mette in luce, a contrario, il significato
della funzione encomiastica.
Per quanto concerne i rapporti con Roma, i valori proclamati negli elogi erano principalmente di ordine politico, economico e religioso. I discorsi della Seconda Sofistica celebravano i benefici della dominazione romana,
vantando la concessione della cittadinanza, la pace, le feste, la sicurezza dei
viaggi, l’ordine, la prosperità, e insistendo sui vantaggi per i Greci, per Atene,
per l’Asia Minore. Celebravano la dinastia regnante, l’eternità di Roma, il suo
trionfo cosmico e la fine della storia che tale trionfo rappresentava.
Citerò due esempi di valori che erano importanti negli elogi sofistici di
Roma e dei Romani. La nobiltà d’origine (eujgevneia, genos, genus) svolge un
ruolo essenziale, in particolare nell’elogio delle persone e delle città. Il primo
capitolo dei discorsi di elogio consiste sempre nel parlare dell’origine etnica
e familiare delle persone, della fondazione e della storia antica delle città. La
retorica epidittica ha l’ossessione del lignaggio. Essa riflette la struttura e l’ideale della società imperiale, e in modo singolare lo stato d’animo regnante a
corte, grazie al principio dinastico, nelle grandi famiglie e nelle città dominate
dalle antichità nazionali.
Un altro valore fondamentale era la “filantropia” (filanqrwpiva, humanitas), con le nozioni connesse che esprimono la benevolenza e la protezione.
Tale valore era usato a proposito degli uomini, delle città e degli dèi. Esso non
soltanto formava un “luogo”, ma in certi casi dava una colorazione d’insieme
al discorso, per esempio nel discorso d’ambasciata che faceva appello alla
munificenza imperiale. Mettendo avanti la “filantropia”, la retorica epidittica
rifletteva e perpetuava un valore essenziale nella società del tempo: un valore
che prendeva la forma dell’evergetismo, in ambito politico, e della provvidenza, in ambito religioso.
L’elogio retorico aveva così per vocazione principale di rafforzare l’adesione
del pubblico a valori ammessi e riconosciuti. Dèi, città, sovrani, notabili, istituzioni: esso lodava ciò che tutti già rispettavano o si pensava rispettassero. La
sua funzione era di riaffermare e di ricreare costantemente il consenso intorno
a valori dominanti. La retorica epidittica era l’elisir d’immortalità dell’ordine
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
287
sociale. Essa instaurava un momento di comunione, durante il quale la società
offriva a sé stessa lo spettacolo della propria unità. In tal modo, la funzione
di celebrazione va colta in termini sociologici. L’elogio è figlio della società
cui deve le sue condizioni di esistenza e cui propone, al contempo, dei valori.
Esso non si riduce a dei discorsi vuoti né a delle adulazioni: esercita un’azione
sociale. L’elogio mette in forma rappresentazioni e credenze comuni al gruppo; esplicita e giustifica i valori. Svolge una funzione ideologica. L’elogio retorico era uno strumento prodigioso: esso dava al messaggio politico una forza
di persuasione che proveniva dal bel linguaggio, dalla cultura, dalla morale,
così come dalla performance oratoria pubblica e cerimoniale.
Al termine di questa prima analisi, si constata che i discorsi epidittici non
sono parole vuote e vane, ma al contrario svolgono complesse funzioni di
consolidamento dell’ordine sociale intorno a valori condivisi. In questa complessità, però, c’è anche posto per qualcosa di più sovversivo: i sottintesi
dell’elogio.
3. I sottintesi
3.1. Tecniche di criptaggio e “discorso figurato”
Il discorso di elogio, in effetti, si presta ammirevolmente ai sottintesi. L’oratore che loda dà sempre l’impressione di dire troppo, o di non dire abbastanza, o di lasciar scivolare suggerimenti deviati.
Innanzitutto, bisogna ricordare che gli Antichi praticavano volentieri l’arte
del sottinteso. Le qualità di finezza e sottigliezza dei discorsi greci e latini
sono note. Inoltre, nel mondo antico circolava una serie di tecniche precise
di criptaggio e decriptaggio. Ricordiamo le favole (con la morale che rivela il
senso del racconto), gli enigmi, gli oracoli, l’ironia socratica, i metodi dell’interpretazione allegorica, l’onirocritica, l’esame dei testi di legge, o ancora l’arte allusiva in letteratura. Questi esempi provano ampiamente che gli Antichi
avevano l’abitudine di comprendere i discorsi a mezza bocca, in tutti i campi.
All’interno di questo vasto insieme, compare il concetto del “discorso figurato” (in greco ejschmatismevno" lovgo", in latino figuratus sermo, figurata
oratio), che è proprio della retorica. La parola “figura” non si riferisce qui alle
figure di stile, ma è presa nel senso di “forma”, orientamento dato al discorso.
Il discorso figurato designa i casi in cui l’oratore usa dei falsi sembianti per
mascherare il suo intento, tenendo un linguaggio sviato al fine di arrivare per
vie oblique al punto cui vuole pervenire. Se questo concetto è stato studiato
dai filologi da un punto di vista tecnico, non si è spesso tentato di farlo uscire
288
Laurent Pernot
dal campo dei trattati teorici per metterlo in relazione, in maniera un po’ più
approfondita, con le produzioni oratorie e letterarie conservate. La portata di
un tale tentativo non è minima, se il discorso figurato può rivelarsi una chiave
di lettura per le opere antiche.
Il discorso figurato era un settore importante della retorica. Esso è analizzato e i suoi precetti sono fissati nelle opere di diversi teorici greci e latini.
Il discorso figurato occupava un posto nella formazione degli oratori sotto
forma di declamazione figurata (esercizio di discorso fittizio che doveva essere
trattato nella forma di discorso figurato) ed era anche alla moda, sotto l’Impero, nelle scuole di retorica9.
Nella pratica, le due principali ragioni per ricorrere al discorso figurato erano la sicurezza e la buona creanza. Nel primo caso, bisogna lavorare d’astuzia
perché un’espressione franca rischierebbe di mettere in pericolo l’oratore,
attirando su di lui la collera degli ascoltatori, per esempio un tiranno dal carattere ombroso o un’assemblea popolare dalle reazioni imprevedibili. Nel
secondo caso, l’oratore non ha paura per la sua libertà o per la sua vita, ma si
sente tuttavia tenuto a rispettare certe norme, a costo di indisporre, di urtare,
e dunque di fallire, per esempio quando qualcuno deve accusare un superiore
e capisce che non ha interesse a farlo apertamente – situazione simile a quella
di alcuni autori greci di elogi di Roma.
I teorici antichi invocano il discorso figurato principalmente a proposito
dei discorsi giudiziari e deliberativi (e a proposito delle declamazioni, che
sono delle imitazioni di discorsi giudiziari e deliberativi). È per questo che
l’elogio figurato non è stato preso in considerazione dai moderni. Ciononostante, cercando meglio, si possono trovare testi in cui il discorso figurato
concerne l’elogio e il genere epidittico.
Per rimproverare un popolo o un tiranno senza urtarlo frontalmente, lo
Pseudo-Demetrio Falereo raccomanda di lodare quanti adottano la condotta
contraria a quella che si vuole criticare; o meglio, di lodare il destinatario per
tutte le volte in cui non ha commesso questo errore10. Facendo allusione a tali
finezze, Plinio il Giovane si è sentito obbligato di avvertire Traiano, all’inizio
del Panegirico, che non doveva affatto vedere nelle menzioni della sua affabilità un rimprovero dell’arroganza, nelle menzioni della sua economia un
rimprovero del lusso – in breve, che, per una volta, l’elogio non sarebbe stato
figurato11.
9
Quint., inst. or. 9,2,65-99; Hermog., inu. 4,13; meth. 22; Ps. Dion. Hal., rhet. 8-9; Apsin., fig.
probl. Vd. L. PERNOT, Les faux-semblants de la rhétorique grecque”, in C. MOUCHEL - C. NATIVEL (edd.),
République des lettres, république des arts. Mélanges offerts à Marc Fumaroli, de l’Académie française,
Genève 2008, 427-450.
10
De eloc. 292; 295.
11
Paneg. 3-4.
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
289
Un esempio di elogio interamente a doppio senso è offerto dall’orazione
funebre pronunciata da Socrate nel Menesseno di Platone. Questo discorso si
presenta come un elogio di Atene e degli Ateniesi. Fu preso sul serio dalla maggior parte dei lettori, ed è soltanto in epoca contemporanea che è stato pienamente riconosciuto come ironico e parodico, interpretazione che oggi è più o
meno unanimemente accettata. Il caso del Menesseno illustra la possibilità, per
un discorso retorico, di giocare con le regole dell’elogio e veicolare messaggi
mascherati, accessibili soltanto ad una parte dell’uditorio e dei lettori.
Allo stesso modo, Dione di Prusa, nel suo discorso A Celene, ha scelto di
lodare questa città, Celene (ossia Apamea di Frigia), in maniera ironica, in
realtà per biasimarla12. Egli ne vanta la prosperità, pur facendo comprendere,
attraverso vari procedimenti, che tale prosperità unicamente materiale è priva
di valore e non vi è motivo, in verità, di gloriarsene. Una simile lezione non
era certo facile da fare intendere ai ricchi mercanti di Apamea. Esprimendosi
in modo ironico – ciò che costituisce una sorta di discorso figurato –, l’oratore
si è messo al coperto ed ha evitato di attaccare frontalmente il suo uditorio.
Infine, l’opera di Proclo offre un’attestazione dell’espressione “elogio figurato” (ejschmatismevnon ejgkwvmion), unica occorrenza, secondo il Thesaurus linguae graecae elettronico, di testo in cui le parole ejgkwvmion ed ejschmatismevnon
si trovino riunite l’una accanto all’altra. Analizzando l’Alcibiade I di Platone,
Proclo spiega che l’elogio che Socrate fa di Alcibiade nasconde un’accusa (il
rimprovero d’ignoranza, ajmaqiva) e che la forma elogiativa è stata scelta da
Socrate per rendere il rimprovero sopportabile per colui che ne è l’oggetto.
Per caratterizzare questa pratica, Proclo, che era stato formato alla retorica, ha
fatto ricorso alla nozione di discorso figurato, applicandola all’elogio13.
I sofisti della Seconda Sofistica conoscevano bene tutte queste astuzie. Il discorso figurato è stato oggetto di trattati teorici di autori conosciuti peraltro
come sofisti: Ermogene, o Pseudo-Ermogene (se il teorico coincide con il sofista), Apsine, Aspasio14. Due oratori, che secondo Filostrato appartenevano alla
Seconda Sofistica, Dione di Prusa ed Elio Aristide, su cui torneremo tra poco,
nelle loro opere usano i termini sch`ma e schmativzesqai con valore tecnico15 e
citano qua e là dei procedimenti propri del discorso figurato16. Filostrato pensa
che Erode Attico avrebbe dovuto fare ricorso al discorso figurato in un’arringa
davanti all’imperatore17. Menandro Retore fa del discorso figurato un elemento
essenziale della “chiacchierata” (laliav), una forma oratoria a metà tra il genere
12
13
14
15
16
17
Or. 35,13-17.
In Alcib. I 101,6-9; 102,10-14.
Suda Α 4203.
Dio Chr. 43,6; Ael. Arist. 4,33.
Dio Chr. 18,16; Ael. Arist. 33,25.
Vit. soph. 2,1,11(561).
290
Laurent Pernot
epidittico e quello deliberativo, che egli considera “assai utile al sofista” e che
era adottata in numerose circostanze della vita politica e sociale18.
In sintesi, nel pensiero antico esistevano numerosi settori in cui trovavano
spazio la parola criptata e l’interpretazione di tale parola. La retorica aveva
teorizzato il discorso a doppio fine sotto il nome di “discorso figurato”, ivi
compreso il caso dell’elogio, ed i sofisti erano affezionati a questa forma di
espressione. Se si sommano tutti questi fatti, pare legittimo cercare, all’interno del corpus degli elogi sofistici, dei testi che richiedono una lettura come
discorsi figurati, o nel senso strettamente tecnico del termine, o più generalmente nel senso di discorso a doppio fine e falso aspetto.
Non si tratta di critica aperta e di opposizione (fenomeni che esistevano
nell’Impero, ma in altri contesti), ma di dissonanze e di increspature, nel quadro del lealismo mostrato dalla Seconda Sofistica.
3.2. Richieste
L’elogio può servire ad appoggiare una richiesta: lo si vede nel canovaccio
del “discorso di ambasciata” (presbeutikov") in Menandro Retore, che suppone il caso in cui si tratti di reclamare soccorsi all’imperatore in nome di una
città colpita da una catastrofe19. L’ambasciatore, secondo Menandro, deve
dividere la sua allocuzione in due parti: un elogio dell’imperatore, poi una
lamentela sul triste stato attuale della città, in contrasto con la grandezza di
un tempo. La richiesta è, dunque, basata su un doppio elogio: elogio del destinatario, di cui si lodano le qualità, non soltanto per ottenere la sua benevolenza, ma soprattutto per ricordargli le sue concessioni precedenti, che deve
sentirsi tenuto a reiterare nelle circostanza presente; elogio del richiedente,
per provare che merita di essere esaudito e riconfortato. Nei due casi, l’elogio
è concepito come il richiamo di meriti passati con un senso per l’avvenire. Di
conseguenza, il richiamo è selettivo ed orientato nella direzione più conveniente per appoggiare la richiesta: il primo elogio insiste sulla filanqrwpiva
imperiale, mentre il secondo sottolinea, tra le qualità della città, quelle che
più possono interessare l’imperatore. Queste due parti preparano la supplica
diretta, che non interviene se non nella perorazione.
Il procedimento retorico che Menandro ha qui individuato, vale a dire
l’impiego dell’elogio per appoggiare una richiesta, era di uso assai frequente.
Un altro esempio di discorso di elogio portatore di richieste, sempre in
Menandro, è l’elogio al futuro20. A differenza del caso precedente, la richiesta
18
19
20
Men. Rhet. 2,388.390.
Men. Rhet. 2,423-424.
Men. Rhet. 2, 379,13-381,5.
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
291
è qui implicita. Il discorso è un puro elogio e bisogna cogliere tra le righe la
domanda che esso nasconde.
Si tratta di un discorso di benvenuto rivolto ad un governatore che entra in
carica. A meno che questo magistrato non sia già preceduto da una lusinghiera reputazione, l’oratore, dice Menandro, è spesso nell’ignoranza e manca di
riferimenti ad azioni precise da lodare. Pertanto, farà congetture sull’avvenire:
ma quello che potrebbe sembrare un ripiego, si rivelerà una fruttuosa finezza.
Dopo qualche frase sulla patria e la famiglia del nuovo arrivato, l’allocuzione
si rivolge al futuro. Iniziando dalla giustizia, l’oratore si dice certo che il nuovo governatore agli occhi dei suoi amministrati si mostrerà giudice migliore di
Minosse, Eaco e Radamante; in maniera più precisa, egli predice che nessuno
sarà incarcerato arbitrariamente, che i diritti delle diverse categorie sociali
saranno rispettati. A proposito del coraggio, dichiara che il governatore avrà
la fermezza necessaria per difendere la causa della sua provincia presso l’imperatore. Le altre virtù si succedono sullo stesso tono, messe in luce da una
serie di paragoni, fino alla seguente conclusione: “Non è evidente che egli
eserciterà la sua carica in modo corretto per il bene dei sudditi?”.
A prima vista, tale fiducia, risolutamente ostentata, può sembrare un’adulazione, o ancora un atto di ingenuità dovuto alla volontà di riempire ad ogni costo
la griglia dei luoghi dell’elogio. Ma consideriamo le cose dal punto di vista del
governatore. Appena arrivato, in presenza di tutti i notabili della città, ecco che
sente il sofista locale descrivergli, a mo’ di lista, tutto quello che rappresenterà il
compimento della sua carica: descrizione che, pur essendo intrisa di riferimenti
mitologici e storici e modellata sulla tetrade platonica delle virtù, non è scevra
di allusioni precise ai problemi concreti della provincia. Lungi dall’essere ingenua, questa allocuzione gli indica con molta eleganza ciò che gli amministrati
si attendono da lui. In forma di elogio, è un programma tracciato al momento
dell’entrata in funzione, a metà tra la supplica e il libro delle consegne.
Questo rosario di raccomandazioni richiama la famosa lettera rivolta da
Plinio il Giovane a Massimo nel momento in cui questi stava per occupare il
suo posto nella provincia d’Acaia21. Ma, mentre Plinio poteva permettersi di
esortare in tutta libertà il suo giovane amico, l’oratore di Menandro giudica
più politico travestire le sue richieste da elogio.
3.3. L’interpretatio Graeca della dominazione romana
Il discorso di Elio Aristide In onore di Roma offre un’altra sorta di messaggio implicito22. Può sembrare paradossale invocare qui il discorso che è sotto
21
22
Epist. 8,24.
Or. 26. Vd. L. PERNOT, Éloges grecs de Rome. Discours traduits et commentés, Paris 1997.
292
Laurent Pernot
certi aspetti l’archetipo della retorica encomiastica risvolta a Roma: quindi, sia
ben premesso che quest’opera non è per niente un atto di sovversione contro
Roma. È un elogio. Ma un elogio che comporta un messaggio sottinteso – bisogna aggiungere: come quasi tutti gli elogi retorici. L’elogio retorico è un linguaggio politico. Non serve ad esprimere una convinzione profonda, un’emozione personale, a veicolare un’effusione. Nessuno, nell’antichità, cercava la
verità o la sincerità negli encomi dei sofisti. L’elogio retorico era un discorso
calcolato, che prendeva il suo pieno significato nel confronto implicito con le
usanze, le aspettative, le griglie preesistenti, le costrizioni e predeterminazioni
di vario tipo. Quando si trattava di Roma, l’elogio era un modo di fare politica.
Tanto per la sua struttura che per il suo stile, il discorso di Aristide In onore
di Roma si conforma alle regole dell’elogio retorico. L’oratore inizia sottolineando la difficoltà dell’argomento, poi vanta il territorio e la situazione di
Roma e loda in seguito, lungamente, l’organizzazione civile e militare dell’Impero, prima di concludere con un brillante quadro d’insieme. La dimostrazione è condotta con grande apporto di comparazioni, su un tono costantemente
ammirativo e iperbolico. Fin qui, tutto è normale e coerente con le norme
dell’encomio: ma questo discorso interessa proprio per quello che non dice.
In più di trenta pagine, che rappresentano all’incirca un’ora di discorso,
Aristide trova il modo per non dire niente delle origini dell’Urbe, né delle
supposte parentele tra Greci e Romani, né dei racconti mitici che ne avvolgono la fondazione. Tace completamente sulla storia di Roma. Ignora i monumenti, l’architettura, l’arte, la letteratura, la lingua. Non una sola parola
su Romolo, gli Scipioni, Cesare o Augusto. Il solo uomo illustre di Roma cui
faccia riferimento è Enea, attraverso un’allusione ad Omero. Non cita un solo
nome proprio romano né alcuna parola latina.
Come interpretare queste omissioni? Eppure era raccomandabile, e conforme ai precetti dei teorici del genere encomiastico, menzionare, in un elogio
di Roma, tutti questi punti. Abbiamo a che fare con una serie di scelte deliberate: Aristide ha voluto vedere in Roma soltanto la capitale imperiale, il luogo
da cui si esercitava il dominio sulle provincie. Egli ha scelto di non considerare nient’altro se non lo stato attuale delle cose, il funzionamento presente
dell’Impero in ambito politico, cosa che l’ha condotto a scartare ogni colore
locale e tutti i dati artistici, religiosi, mitologici, storici (quelli che riguardavano Roma, s’intende, poiché la mitologia e la storia greche sono abbondantemente evocate). L’unico fatto romano che interessasse Aristide era la dominazione che Roma esercitava sull’Impero e, più precisamente, le relazioni di
Roma con le provincie ellenofone, provincie cui egli stesso apparteneva. È
per questo che il discorso In onore di Roma è, in realtà, un discorso in onore
dell’Impero romano e della maniera in cui tale impero si esercitava sul mondo
greco. Aristide si è scrupolosamente guardato dall’esprimere il disprezzo con
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
293
cui considerava la storia e la civiltà romane e si è accontentato di non parlarne.
In tal modo, egli imponeva un punto di vista ellenocentrico, riducendo Roma
ad una potenza di governo, trascurando tutto il resto.
Inoltre, il discorso comporta una seconda serie di omissioni, riguardanti la
conquista romana. Aristide evita di dire che l’Impero è stato imposto ai Greci
con la forza. Tutt’al più, si permette di fare allusione, al paragrafo 8, al tradizionale gioco sulla parola rJwvmh, che significa tanto “Roma” quanto “forza”.
Ma non va oltre. Non dice niente della conquista romana né del processo
militare e politico che ha condotto all’instaurazione del dominio romano sul
mondo greco.
Siamo di fronte a dei silenzi: dei silenzi eloquenti, un procedimento ben
attestato nella retorica del “discorso figurato”. Nel caso del discorso In onore
di Roma, il segreto che tutti conoscono è la dominazione imposta ai Greci dai
Romani. Questa verità pesa sul discorso, ma Aristide non poteva permettersi di
discuterla apertamente. Così, ha proceduto per omissioni, omissioni tanto drastiche da divenire significative di per sé e portatrici di un messaggio nascosto.
Insomma, Aristide suggerisce che Roma si riduce all’impero che esercita,
che la sua storia e la sua cultura non contano e che, agli occhi dei Greci, la sola
cosa che importa è la realtà del potere che subiscono. Non volendo esprimere
questa opinione apertamente, Aristide la fa capire indirettamente.
Questo discorso è, dunque, molto meno adulatore di quanto non si creda
e comporta anche una certa audacia. Aristide suggerisce che l’Impero è un
sistema imposto ai Greci dall’esterno e che i Greci si sottomettono in virtù
della legge del più forte, senza provare alcuna ammirazione per la civiltà e la
cultura romane. Tale è, crediamo, il messaggio cifrato del discorso In onore di
Roma, un messaggio profondamente realista e disilluso, se sappiamo leggere
tra le righe. Aristide misura il suo elogio e si concentra su ciò che approva,
vale a dire i benefici materiali della pace romana. Quanto al resto, si fa capire
a mezza bocca, suggerendo che la dominazione romana va sopportata con rassegnazione. Questo Elio Aristide un po’ inatteso, forse, si pone in posizione di
osservatore acido della realtà politica del suo tempo.
Le osservazioni fatte a proposito di Elio Aristide possono essere allargate a
molti discorsi dell’epoca, ed arricchire in tal modo la comprensione dei sottintesi dell’ideologia epidittica. L’elemento essenziale degli elogi sofistici è il fatto
che essi rappresentano un punto di vista greco su Roma.
Gli oratori encomiastici dicevano il fatto romano, a modo loro, con i loro
propri mezzi. Usavano la lingua greca, e talvolta addirittura il dialetto attico, cosa che li conduceva a designare le realtà romane per mezzo di parole
greche, e per giunta di parole greche consacrate dall’uso classico (basileuv",
dhmokrativa, politeiva, oJmovnoia, ecc.), tutto un lessico che dava il senso di una
misura comune tra il mondo greco di un tempo e la realtà presente. L’Impero
294
Laurent Pernot
romano appariva familiare, e non straniero, nella misura in cui le parole greche di sempre permettevano di designarlo. Si effettuava un’appropriazione
retorica dell’Impero, che iniziava dalle parole.
Con le parole venivano i testi, la letteratura. La scrittura retorica greca
dell’epoca romana, in effetti, è sovraccarica di reminiscenze, di giri di frase
improntati agli autori classici, di citazioni e di allusioni letterarie. Anche quando evocano le realtà più contemporanee e più concrete, gli oratori passano
per il tramite di un autore canonico: nel discorso In onore di Roma di Elio
Aristide, per esempio, le abitazioni di Roma (le celebri insulae) sono descritte con riferimento ad un passaggio di Omero; l’elogio dell’attività portuale
di Ostia richiama il Panegirico di Isocrate (a proposito del Pireo); la rinascita
delle città greche sotto il dominio romano è evocata attraverso il mito di Er
della Repubblica di Platone; la descrizione della legione romana si carica di
un ricordo omerico (i Mirmidoni di Achille), e la tattica della “tartaruga” per
mezzo di una citazione di Euripide. Inoltre, le citazioni letterarie erano accompagnate da richiami alla mitologia o alla storia. Dinanzi a tale fenomeno, si è
spesso pensato a degli automatismi scolastici o ad uno sfoggio di cultura: ma
il significato reale di questo metodo è più importante. Esso rappresentava, da
parte degli oratori greci, la volontà di pensare il fatto romano per mezzo delle
categorie strutturali del loro pensiero, di acclimatare Roma sottomettendola ai
loro riferimenti di Greci. Le autorità della cultura greca erano convocate per
dire Roma, e l’Impero era giudicato attraverso le loro parole, i loro concetti.
Ancora un punto fondamentale: l’invenzione e la disposizione dei discorsi di
elogio si ispiravano apertamente ai precedenti offerti dai maestri dell’eloquenza greca d’un tempo. A livello di concezione dell’argomento, degli schemi,
anche dei tovpoi, il peso dei classici era considerevole, come rivela, ad esempio,
il discorso In onore dell’imperatore dello Pseudo-Aristide, rivolto ad un imperatore di III secolo d.C., che può essere Filippo l’Arabo23. Echi e citazioni mostrano che l’autore ha preso a modello due elogi del IV secolo a.C., l’Evagora
di Isocrate e l’Agesilao di Senofonte. Egli segue lo stesso piano di questi autori
e prende in prestito da loro costruzioni e artifici di presentazione. L’imperatore romano che aveva celebrato il Millenario di Roma e che regnava su tutto il
Bacino Mediterraneo è così pensato sul modello di due re, rispettivamente di
Cipro e di Sparta, vissuti seicento anni prima, e che non hanno dovuto la loro
notorietà se non alla reputazione dei loro panegiristi. Filippo l’Arabo è lodato
attraverso il filtro di Isocrate, Senofonte, Platone. Il suo merito, secondo il panegirista, consiste nel realizzare gli ideali definiti dal pensiero greco.
I soggetti romani dell’elogio non erano, dunque, considerati soltanto per
sé stessi, ma anche, forse soprattutto, in ragione della loro conformità ai va23
Or. 35.
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
295
lori e agli ideali della Grecia arcaica e classica. Si trattava di una interpretatio
Graeca, di una lettura ellenica dell’Impero, sulla quale si fondava l’adesione.
La dominazione romana veniva presentata come un fenomeno intelligibile in
termini greci e conforme ai criteri politici greci; a questo prezzo, l’Impero appariva benefico per le popolazioni assoggettate. L’interpretatio Graeca proclamava l’orgoglio dei Greci, il loro attaccamento al loro passato, alla loro lingua,
alla loro cultura. Essa aveva funzione di affermazione identitaria. Donde un
messaggio sfumato e sottile, che esprimeva l’adesione e la lealtà verso l’Impero, ma abbinandole a condizioni politiche e culturali che dovevano essere
rispettate. La dominazione romana era accettata nella misura in cui si poteva
dire che era filellenica e conforme ai valori greci.
Non bisogna dunque fidarsi delle apparenze. Attraverso l’elogio, è quasi
una sorta di negoziazione che si svolge, almeno a livello simbolico. Gli elogi
dei sofisti, scritti in greco, da Greci, in nome di interessi greci, proponevano
una lettura fiera ed interessata della realtà dell’Impero; essi ponevano i termini dell’adesione ellenica alla dominazione romana. Secondo questa ottica
ellenocentrica, la missione dell’imperatore era semplice: essa consisteva nel
provvedere alla sicurezza e al benessere dell’Oriente greco, proteggendo l’Impero dai barbari, facendo delle elargizioni e ricordandosi sempre che era stato
un Greco ad aver accolto Enea.
3.4. Elogio presente, elogio assente
Dione di Prusa, in quanto sofista e filosofo (come dice Filostrato), ha usato
l’elogio per esprimere ammonimenti morali e politici. I suoi discorsi Sulla regalità furono composti sotto Traiano, probabilmente negli anni 100-105 d.C.,
ed hanno l’obiettivo di definire cosa deve essere il potere monarchico, in cosa
consiste il suo corretto esercizio e quali sono gli errori o i vizi da cui esso
deve guardarsi. Nel terzo, espressamente rivolto all’Imperatore e pronunciato
in sua presenza, Dione afferma di conoscere personalmente l’imperatore e
si considera in grado di esprimere un parere al suo riguardo24. Perciò, fin
dall’inizio, egli si impegna nello sviluppo della sua glorificazione, vantando la
felicità di cui Traiano stesso gode, grazie alle sue virtù, e di cui fa beneficiare
i suoi sudditi25. Ma tutt’a un tratto Dione si accorge di parlare da encomiasta e si interrompe: “Non dico questo per adulare”. Segue un pezzo contro
la kolakeiva26. Questa tirata prende di mira unicamente l’adulazione, ossia
l’elogio immeritato27, e non si applica al vero elogio, che è, al contrario, dice
24
25
26
27
Or. 3,1-2.
Or. 3,3-11.
Or. 3,12-24.
Par. 16: adikôs epainein.
296
Laurent Pernot
Dione, la cosa più bella e più giusta che ci sia. Non ci sarebbe, dunque, alcun
ostacolo di principio alla prosecuzione dell’elogio di Traiano, a condizione
che questo fosse fatto in maniera giusta e meritata. Eppure, con una decisione
caratteristica, Dione preferisce rinunciare non soltanto all’adulazione, cosa
che andava da sé, ma anche ad ogni elogio28. A partire da questo momento,
il discorso si trasforma in un trattato filosofico sulla monarchia e sul sovrano
ideale, la cui applicazione a Traiano resta implicita.
Si vedono tutta l’ambiguità e le contorsioni di questo basiliko;" lovgo" abortito. Il sofista filosofo non si accontenta di sottolineare la sua reticenza nei confronti della retorica, ma suggerisce al contempo l’impossibilità di fare un elogio
dell’imperatore. Implicitamente, Dione ricorda a Traiano (allo stesso modo di
come fa, attraverso molteplici maschere, anche negli altri discorsi Sulla regalità)
che non è perfetto, che non deve ascoltare gli adulatori, che deve al contrario
correggersi, imitare i buoni modelli e trarre profitto dagli ammonimenti.
Al contrario, ci sono casi in cui l’elogio è un’opposizione per il solo fatto di
esistere. Così, quando l’elogio concerne un personaggio mal visto dalle autorità, tutto il discorso appare come un atto di opposizione: è per questo motivo
che Tiberio vietò di pronunciare l’orazione funebre di Germanico a Roma29,
ed è per questo stesso motivo che Libanio temeva di diffondere l’ejpitavfio"
che aveva scritto in onore di suo zio e la monodia su Giuliano30.
3.5. Riflessioni disilluse
Ci sono infine, negli elogi retorici della Seconda Sofistica, dei passaggi puntuali che esprimono un’attitudine disillusa nei riguardi dell’Impero romano. Il
procedimento del discorso figurato qui messo in atto consiste nel far scivolare
all’interno del discorso una riflessione incidentale, che proietta sull’insieme
della dimostrazione una nuova luce. Tale procedimento è analizzato dallo
Pseudo-Dionigi di Alicarnasso31.
Un esempio si incontra nel Discorso Panatenaico di Elio Aristide. In questo
discorso, Aristide tesse l’elogio di Atene, dai tempi mitologici fino alla battaglia di Cheronea (338 a.C.). Ma c’è un passaggio in cui l’autore prende in
considerazione la situazione attuale, per lodare la fortuna di Atene sotto la dominazione romana. Questo passaggio è ben nascosto all’interno dell’immenso
discorso e difficile da trovare32.
28
Or. 3,25.
Tac., ann. 3,5,2.
30
P. PETIT, Recherches sur la publication et la diffusion des discours de Libanios, “Historia” 5 (1956),
486-489.
31
Rhet. 9,6.
32
Or. 1,331-335.
29
Elogio retorico e potere politico all’epoca della Seconda Sofistica
297
In esso, Aristide riconosce che la situazione di Atene è cambiata e precisa
che la nuova situazione è dovuta all’“impero attuale”, ossia l’Impero romano,
che non viene nominato. È evidente che si tratta dell’Impero romano, come
precisano gli scolî. Seguendo un metodo cui iniziamo ad abituarci, Aristide
non esprime alcuna critica. Al contrario, egli loda la fortuna di Atene sotto
il potere di Roma e mostra la sua lealtà formulando, a due riprese, l’augurio
che questo potere duri per sempre – conformemente all’uso, in vigore al suo
tempo, di pregare per l’eternità dell’Impero. Sotto il dominio romano, Atene
è felice, dice, poiché è libera da tutte le responsabilità politiche e militari che
aveva un tempo, e continua a godere di onori e preminenza. Insomma, si è
sbarazzata degli inconvenienti e non le restano che i vantaggi. Dunque, va tutto per il meglio? Esaminiamo il testo più da vicino e notiamo due sfumature:
Atene è oggi “quasi” (mikrou` dei`n) tanto felice quanto in passato, e “non le si
augurerebbe facilmente” (mh; rJa/divw") di tornare alla situazione precedente.
Se si dà a queste parole tutto il loro peso, esse tradiscono una forte riserva e
gettano un dubbio sull’elogio di Roma in corso.
Su cento pagine di racconto mitologico e storico, queste osservazioni occupano in tutto dieci linee. Ma esse pongono la questione, essenziale, della
situazione di Atene nell’Impero romano (e, attraverso Atene, della situazione
di tutti i Greci), e suggeriscono che la valutazione di tale situazione non è
semplice. Era il tema scottante, il cuore del problema. Proprio per questo motivo, credo, Aristide non ha voluto passare il tema sotto silenzio, ma non l’ha
voluto neppure abbordare frontalmente. Ha ritenuto più abile, o più prudente, ricorrere ad un procedimento di discorso figurato, introducendo nel suo
testo, fugacemente, alcune parole che portano lontano. Quel “quasi” (mikrou`
dei`n) è una pepita. Spettava agli ascoltatori e ai lettori scoprirla e tirare delle
conclusioni da sé stessi, per conto loro.
***
In conclusione, occorre ricordare alcune verità generali. Non è perché i
Greci accettavano la dominazione romana e collaboravano con essa che ne
erano soddisfatti. Non è perché essi ne vedevano i vantaggi che vi aderivano.
Non è perché occupavano buone posizioni nell’Impero che erano ciechi agli
altri aspetti della situazione. I Greci, da sempre, avevano la certezza della
loro differenza e della loro superiorità in rapporto agli altri popoli, anche
in rapporto ai Romani. Perciò, non bisogna accettare troppo rapidamente
quell’impressione di adesione totale e placata che danno gli elogi della Seconda Sofistica. Da una parte, la collaborazione tra Greci e Romani all’interno
dell’Impero era una realtà; ma dall’altra parte, alcuni Greci dell’epoca imperiale nutrivano sentimenti contrastanti verso l’Impero romano e non dimenti-
298
Laurent Pernot
cavano il glorioso passato ellenico. Ci sono sempre motivi d’insoddisfazione:
sarebbe, dunque, imprudente pensare ad un’approvazione totale. È ben noto
che certi autori come Dione di Prusa e Luciano, in alcuni dei loro scritti e in
certi periodi della loro vita, hanno proferito critiche e manifestato rapporti
difficili con l’Impero romano.
Queste osservazioni spiegano perché l’elogio retorico è potuto diventare
uno strumento di comunicazione molto sottile tra le mani dei sofisti greci.
Dietro lo psittacismo e le iperboli, si colgono messaggi, rivendicazioni, messe
in guardia, espressioni di fierezza, di amor proprio, di cattivo umore. Nei
grandi maestri, come Dione di Prusa ed Elio Aristide, i messaggi sono particolarmente complessi; anche particolarmente sfalsati, poiché queste personalità d’eccezione ostentavano un vissuto particolare: Dione filosofo, ex esiliato,
Aristide eletto di Asclepio. Evidentemente, occorre molta prudenza nell’interpretazione, dato che i sottintesi, per definizione, sono difficili da cogliere
e dimostrare. Sulla questione del rapporto tra le élites ellenofone e l’autorità
romana, questione delicata, la retorica epidittica ha permesso forme di espressione attutite e discorsi che la danno a bere, in cui attese, condizioni e incrinature si esprimevano dietro l’apparenza dell’approvazione più entusiasta.
Resterebbe da chiedersi cosa i Romani, oggetto di questi elogi, pensassero
di tutto ciò. A mio avviso, non un granché. Non bisogna sopravvalutare l’impatto dei discorsi retorici greci sui Romani. Certo, esistevano Romani colti
utraque lingua ed imperatori filelleni, ma l’amministrazione romana aveva altre preoccupazioni ed altre priorità che la retorica greca. Roma lasciava dire.
PANEGIRISTI E CREAZIONE DEL CONSENSO
NELL’OCCIDENTE LATINO
FRANCA ELA CONSOLINO
Parlare di creazione del consenso nell’antichità non è senza rischi, non solo
per l’anacronismo inevitabile nell’applicare un concetto moderno ad un passato
in cui non c’è comunicazione di massa, ma anche perché la documentazione
a noi disponibile in genere non è tale da informarci sull’impatto e l’eventuale
influenza di messaggi trasmessi dalla produzione artistica, epigrafica, letteraria.
Nel caso dell’encomio, di cui mi occuperò in questa sede, ignoriamo (o quasi)
come abbiano volta per volta reagito i destinatari di comunicazioni tese ad ottenere plauso, a scongiurare eventuali dissensi, a confutare in modo più o meno
implicito possibili obiezioni. Difficile anche determinare con qualche precisione il pubblico degli ascoltatori; ancor meno quello dei lettori. E trattandosi di
scritti destinati alla recita in occasioni solenni, l’analisi del nudo testo ci espone
al rischio ulteriore di sopravvalutarne la significatività. In situazioni fortemente
spettacolarizzate, come poteva essere un adventus1, la recita di un panegirico
sarà stata infatti solo un episodio nel contesto di una articolata cerimonia il
cui sfarzo possiamo immaginare grazie al reportage di Ammiano sull’ingresso di
Costanzo II a Roma. Riconosciuti questi obiettivi limiti all’indagine, bisognerà
chiedersi a quali condizioni un encomio possa farsi promotore di consenso.
Nel rievocare la sua esperienza di retore alla corte di Milano, Agostino,
ormai vescovo di Ippona, ricorda le sue ambizioni di allora («aspiravo avidamente a onori, guadagni, matrimonio») in stretta connessione con l’angoscia
provata prima di recitare un «panegirico all’imperatore, pieno zeppo di menzogne che avrebbero guadagnato al loro autore il plauso di un pubblico in grado di apprezzarle»2. Il panegirico sarebbe dunque un discorso menzognero,
recitato con l’unico scopo di piacere a chi se ne intende e di favorire la scalata
sociale di chi lo pronuncia. Che nella tarda antichità il panegirico fosse anche
questo – forse soprattutto questo – ce lo confermano le carriere di vari panegiristi, di lingua greca e latina3. D’altra parte, la lettura dei panegyrici Latini ci
1
Sull’adventus vd. MACCORMACK 1981.
Conf. VI 6,9 inhiabam honoribus, lucris, coniugio ... Quam ergo miser eram et quomodo egisti, ut sentirem miseriam meam die illo, quo, cum pararem recitare imperatori laudes, quibus plura mentirer, et mentienti
faveretur ab scientibus. Cito nella trad. italiana di G. Chiarini, SANT’AGOSTINO 1993, II, 107. Sull’identificazione di questo panegirico con quello del 22-11-385 per Valentiniano II cfr. commento ad loc.
3
Vd. GIARDINA - SILVESTRINI, 19932, 599-602.
2
300
Franca Ela Consolino
mostra come gli oratori dispiegassero le loro abilità tecniche per compiacere
il princeps dando massimo risalto ai suoi meriti, senza rinunciare ove possibile a tener conto anche degli ascoltatori, facendosi portavoce di qualche loro
esigenza4. Ma discorsi con tali caratteristiche, generalmente tenuti da oratori
che conoscono i trends della politica governativa e se ne fanno intelligenti
interpreti5, esprimono consenso più di quanto non lo costruiscano.
Per costruire consenso, non basta che il discorso di lode susciti apprezzamento per le doti oratorie di chi lo recita: è necessario che esso trasmetta al
suo pubblico (ascoltatori innanzitutto, ma anche lettori della prima ora) un
messaggio capace di influenzarne i punti di vista, offrendo o tacendo notizie
che potrebbero modificarne l’opinione e orientando la lettura di quegli eventi
che siano già di pubblico dominio. In entrambe le evenienze, perché un panegirista possa incidere o tentare di incidere sulle convinzioni del suo pubblico
suggerendogli la ‘giusta’ chiave interpretativa, bisogna che ad una notevole
abilità tecnica si accompagni una piena consapevolezza sia della situazione
politica del momento sia dei programmi, delle aspettative e – all’occorrenza
– anche dei problemi del personaggio che egli si appresta a lodare. Solo così
potrà mettere efficacemente in atto le strategie comunicative più consone alla
trasmissione di un preciso messaggio politico.
Riferiti a periodi e situazioni fra loro diversi e composti sia in metro (Claudiano, Sidonio) che in prosa (Cassiodoro), i testi di Claudiano, Sidonio Apollinare
e Cassiodoro su cui ho scelto di soffermarmi testimoniano tutti un coinvolgimento attivo del panegirista, impegnato a proporre un’immagine del dedicatario atta a favorirne aspirazioni e progetti, ad esaltarne il ruolo pubblico nella
situazione presente e a porre, nei limiti del prevedibile, anche le premesse di
sviluppi futuri6. Di questi elogi conosciamo le circostanze di composizione e i
destinatari immediati; abbiamo inoltre la possibilità di metterli in rapporto con
altri testi dello stesso autore, e – per Claudiano e Sidonio – ad essi omologhi. A
partire da questi presupposti, da ritenersi ottimali per la nostra indagine, tenteremo di appurare se a tutti i testi presi in esame possa riconoscersi la funzione
di creare consenso; esamineremo le strategie messe in atto dai panegiristi in
dipendenza da posizione e peso politico del personaggio elogiato; vedremo in
che modo sfruttano gli eventuali vantaggi derivanti da un grado di informazione
superiore a quello del loro pubblico o di gran parte di esso.
4
Come propone SABBAH 1984, spec. p. 371.
Vd. REES 2002, 187-191.
6
La verifica di quest’ultimo aspetto è possibile soprattutto per Claudiano, la cui ampia messe di
carmi intesi a promuovere la politica di Stilicone consente – come ha mostrato CAMERON 1970 – di seguire
i progressivi adeguamenti del tiro in base al modificarsi delle situazioni. Ma anche la Varia di Cassiodoro
che esaminerò offre in tal senso alcuni spunti significativi, come spero di poter dimostrare.
5
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
301
1. Claudiano, Carm. I e XXI-XXIV
Pronunciati a cinque anni di distanza uno dall’altro – per i fratelli Probino
e Olibrio il primo (Carm. I), e in onore di Stilicone il secondo (Carm. XXIXXIV) – i due panegirici claudianei che saranno oggetto di analisi celebrano
entrambi il conferimento del consolato a persone diverse dal princeps e condividono tale caratteristica con un terzo panegirico, quello per Mallio Teodoro
(Carm. XVI s.), che può costituire un utile termine di paragone.
1.1. Promozione dell’immagine: il panegirico per Probino e Olibrio
Recitato a Roma ai primi di gennaio del 395, il panegirico di Anicius Hermogenianus Olybrius e Anicius Probinus, rampolli della famiglia più in vista
dell’aristocrazia senatoria cristiana perché figli del potentissimo Sesto Claudio
Petronio Probo da poco defunto7, darà avvio alla carriera e al successo di
Claudiano come poeta latino.
Il carme si apre con un’invocazione al sole: che rifulga più luminoso per segnare l’inizio di un anno che reca il nome di due consoli appartenenti ad una
famiglia di cui egli ben conosce la gloriosa tradizione (vv. 1-10). Dopo averne
ricordato i fasti, dando speciale rilievo al padre dei due giovani (vv. 11-70), il
poeta chiede alla Musa di insegnargli qual dio abbia fatto loro un così gran
dono (v. 71 s.). Desiderosa di rendere grazie a Probo, la dea Roma in persona
si è recata da Teodosio, appena reduce dalla vittoria del Frigido, per chiedergli di conferire il consolato a Probino e Olibrio, da lei stessa allevati e cui non
anteporrebbe né i Decii, né i Metelli, né gli Scipioni né i Camilli (vv. 73-163).
Teodosio acconsente con gioia: il desiderio della dea è anche il suo: la natura
dovrà alterare il suo corso prima che egli possa dimenticarsi di Probo (vv. 164173). La notizia della designazione giunge nell’Urbe, i sette colli risuonano
delle grida di plauso e Proba, madre dei due consoli, ne tesse le trabee dorate
e i serici ornamenti (vv. 174-204). Non appena i nuovi consoli prendono lo
scettro e indossano la veste cerimoniale, Giove tuona confermando il suo assenso. Lo sente Tiberino, che per conoscerne le cause abbandona la sua sede e
si trasferisce sull’isola omonima: da lì – attonito e reso muto dalla gioia – assiste al processus consularis. Recuperata la voce, egli esprime legittimo orgoglio
per i due fratelli e ordina alle ninfe di apprestare un banchetto destinato a
ripetersi per tutti gli anni a venire nel giorno anniversario di questa celebrazione (vv. 205-265). Chiudono il carme le parole bene auguranti del poeta, il
quale auspica per l’anno che ora si apre un decorso che per più aspetti ricorda
l’età dell’oro (vv. 266-279).
7
Vd. TAEGERT 1988, 25-29 (su Probino e Olibrio) e 20-24 (su Probo).
302
Franca Ela Consolino
Già da questa breve sintesi emerge la struttura anomala di un panegirico che,
trovando scarsa materia di lode nell’ancor breve vita dei dedicatari8, assolve
il suo compito dando amplissimo sviluppo alle parti sulla dea Roma e il dio
Tiberino, due sezioni che insieme equivalgono a circa tre quinti del carme9. Il
diretto intervento di Roma, rafforzato dall’entusiastica partecipazione del fiume
indissolubilmente legato alla storia della sua grandezza10, afferma la preminenza
della gens Anicia in seno all’aristocrazia senatoria romana. Non meno significativo a tal fine il ruolo attribuito a Teodosio, rappresentato come unico signore
della terra (v. 115 s. dominum gavisa coronat / terra suum), al quale Roma rivolge
reverente la sua preghiera11: la pronta adesione del princeps alla richiesta e il
calore con cui egli menziona Probo proclamano il singolare privilegio attribuito
dal dominatore del mondo a questa nobile famiglia cristiana.
Un fatto negativo qual è l’assenza di praxeis da elogiare viene così trasformato nel suo contrario, perché a quella carenza il poeta sopperisce con l’inserzione di due scene mitiche latrici di un riconoscimento per l’intera gens
cui i due consoli appartengono. Riconoscimento che si realizza sul duplice
piano della tradizione, rappresentata dalle due divinità, e del presente, rappresentato dall’imperatore. Come ha mostrato l’analisi puntuale ed esaustiva
di Stephen Wheeler, nel contesto dell’intero poemetto questo messaggio è
confermato da una fitta trama di rinvii intra e intertestuali, che – oltre a suggerire un’assimilazione di Olibrio e Probino ai gemelli effigiati sullo scudo della
dea – attraverso un sottile gioco di riprese poetiche, da Virgilio in particolare,
addita nei due consoli cristiani gli eredi dell’intera tradizione di Roma12. Epicizzante e profana, la musa claudianea passa sotto silenzio la fede del principe
e dei dedicatari: se questo silenzio aiuta a inserire gli Anicii nel continuum
della gloriosa tradizione dell’Urbe13, la loro identità cristiana è però implicita
nel plauso di Teodosio, significativamente raffigurato mentre si riposa subito
dopo la vittoria da lui riportata al Frigido su Eugenio, che aveva avuto il sostegno dell’aristocrazia senatoria pagana.
8
TAEGERT 1988, 26 s. ipotizza che Olibrio, il maggiore dei due, avesse all’epoca poco più di 14 o 15
anni. La precocità della sua nomina a console è confermata da Hier. Ep. 130,3 (consul quidem in pueritia).
9
Si tratta di 158 versi – 101 per Roma (vv. 73-173) e 57 per Tiberino (209-265) – su un totale di 279.
Sull’articolazione del panegirico si rinvia allo schema di TAEGERT 1988, 43.
10
Vd. ROBERTS 2001. Sullo spessore letterario e ideologico delle ricorrenze di Roma e Tiberino in
Claudiano vd. pure LONG 2004.
11
Vd. in particolare vv. 73-77 postquam fulmineis inpellens viribus hostem / belliger Augustus trepidas laxaverat Alpes, / Roma Probo cupiens dignas persolvere grates / sedula pro natis dominum flexura
rogando / ire parat. La posizione subordinata di Roma rispetto al princeps è messa in rilievo da SCHINDLER
2009, 69-72.
12
Sono i risultati cui giunge WHEELER 2007, cui si rimanda; le corrispondenze fra Probino e Olibrio
da un canto e Romolo e Remo dall’altro erano già sottolineate da TAEGERT 1988, 48.
13
WHEELER 2007, 116-118.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
303
Nei circa novanta versi non monopolizzati da Roma e Tiberino, dominano
i ritratti dei genitori di Olibrio e Probino: il defunto Sesto Claudio Petronio
Probo e Anicia Faltonia Proba. Esteso per 32 versi (vv. 31-62) – pressappoco quanti complessivamente ne toccano ai suoi figli14 – l’elogio di Probo
sostanzialmente coincide con quello del genos15. Claudiano ricorda come lo
scomparso con le sue ricchezze avesse inondato folle di beneficati, spandendo più oro del Tago e del Pattolo16: è questa la tacita confutazione di giudizi
assai meno benevoli, di cui ci recano testimonianza sia le riserve espresse da
Ammiano sulle grandi fortune di Probo e sull’uso eticamente disinvolto che
questi ne faceva17, sia la notizia del Chronicon geronimiano sull’avidità di cui
aveva dato prova da prefetto al pretorio di Illirico, Italia e Africa, spogliando
i propri amministrati18.
Proba, cui sono dedicati 28 versi su un totale di 27919, è ritratta più avanti,
mentre – perfetta incarnazione della matrona romana – è intenta a intessere di
fili d’oro le trabee dei figli20: a vederla si potrebbe credere che sia la Pudicitia
o Giunone (vv. 194-196). Sbiadite restano invece le figure dei due consoli:
14
Cfr. infra, n. 21.
Agli avi (il nonno paterno Petronius Probinus e il nonno materno Q. Clodius Hermogenianus
Olybrius) sono dedicati solo due versi (v. 29 s.), mentre il resto (vv. 31-62) riguarda Probo.
16
Carm. I 42-54 hic non divitias nigrantibus abdidit antris / nec tenebris damnavit opes; sed largior
imbre / sueverat innumeras hominum ditare catervas. / quippe velut denso currentia munera nimbo / cernere semper erat, populis undare penates / adsiduis, intrare inopes, remeare beatos. / praeceps illa manus
fluvios superabat Hiberos / aurea dona vomens †si quis† tellure revulsa / † sollicitis fodiens miratur collibus
aurum: / quantum stagna Tagi rudibus stillantia venis / effluxere decus, quanto pretiosa metallo / Hermi
ripa micat, quantas per Lydia culta / despumat rutilas dives Pactolus harenas. Per i vv. 48-54 non accolgo
l’atetesi recepita nel testo da TAEGERT 1988, 111 s. per le ragioni illustrate da CHARLET 2000, 136-139, n.
3, cui rimando per la storia del problema e la sua discussione.
17
Coonestando anche le rapine dei suoi protetti: cfr. Ammian. XXVII 11,1-3 Probus ... claritudine
generis et potentia et opum amplitudine cognitus orbi Romano, per quem universum paene patrimonia
sparsa possedit, iuste an secus, non iudicioli est nostri. hunc ... Fortuna vehens praepetibus pinnis, nunc
beneficum ostendebat et amicos altius erigentem, aliquotiens insidiatorem dirum et per cruentas noxium
simultates. … Marcebat absque praefecturis, quas iurgiis familiarum ingentium capessere cogebatur numquam innocentium per cupiditates immensas, utque multa perpetrarent impune, dominum suum mergentium in rem publicam. A leggere nei versi in lode di Probo una confutazione del suo ritratto negativo in
Ammiano è stato per primo DÖPP 1980, 58, seguito da TAEGERT 1988, 37; CHARLET 2000, 134 s. Concordo
con TAEGERT 1988 nel ritenere – e la notizia geronimiana (vd. nota seguente) sembra confermarlo – che
lo storico non fosse il solo a nutrire perplessità sulla condotta di Probo: l’iperbolica descrizione della sua
generosità controbatterebbe pertanto un’opinione non priva di credito nell’Urbe.
18
Hier. Chron. s.a. 372 Probus praefectus Illyrici iniquissimis tributorum exactionibus ante provincias
quas regebat, quam a barbaris vastarentur, erasit.
19
Vv. 177-204, ma l’autenticità dei vv. 201-204 è dubbia: cfr. infra, n. 36. Su Proba vd. TAEGERT
1988, 26 s.
20
Carm. I 177-182 laetatur veneranda parens et pollice docto / iam parat auratas trabeas cinctusque
micantes / stamine, quod molli tondent de stipite Seres / frondea lanigerae carpentes vellera silvae, / et
longum tenues tractus producit in aurum / filaque concreto cogit squalere metallo.
15
304
Franca Ela Consolino
destinatari di una manciata di versi spalmati su tutto il carme21, sono assai
poco caratterizzati e indistinguibili uno dall’altro22. Ma che le qualità personali degli elogiati non fossero una conditio sine qua non per la comunicazione
di un messaggio politico nessuno lo prova meglio di Claudiano. A prescindere dai panegirici per l’insignificante Onorio, dove la materia di encomio è
fornita essenzialmente dal legame con Teodosio e soprattutto con Stilicone23,
illuminante al riguardo è il panegirico che il poeta compose nel 399 per il consolato di un altro personaggio diverso dall’imperatore: il filosofo neoplatonico
Mallio Teodoro. Autore di un trattato de metris a noi giunto e destinatario
del de beata vita di Agostino24, Teodoro è per molti aspetti l’esatto contrario
di Probino e Olibrio. Di origini non nobili, egli è il primo della sua famiglia a
rivestire il consolato, cui non riusciranno a pervenire né il fratello Lampadio
né il figlio. Personalità di spicco per la sua cultura nell’ambiente milanese, egli
doveva la propria ascesa soprattutto alle qualità personali, mentre la sua nomina a console si giustifica molto probabilmente con l’opportunità di rinviare
quella di Stilicone, in attesa che si attutisse l’eco della condanna come hostis
publicus decretatagli dal senato di Costantinopoli nel 39725.
Claudiano presenta il consolato di Mallio Teodoro come culmine ad un
tempo della virtus, che è già premio a se stessa26, e dell’honor27. L’elogio, che
rispetta la scansione propria del discorso encomiastico, traccia il profilo di
uno studioso prestato alla vita pubblica, cui partecipa con la competenza di
un grand commis e il distacco di un filosofo. Dal suo ritiro agreste, in cui dopo
una prima parentesi politica si dedicava a studi scientifici e letterari, egli è
chiamato a diventare prefetto al pretorio delle Gallie dalla Giustizia, che lo
esorta (vv. 135-173) anche a nome di Clementia, Pietas, Pax, e Fides, tutte tor21
Riguardano direttamente Olibrio e Probino solo i vv. 61-70; 193 s.; 142-155; 236.246: cfr. TAEGERT
1988, 36. Inoltre, anche se lo schema menandreo è abbastanza rispettato (mancano del tutto solo physis
e anatrophè: vd. TAEGERT 1988, 51), i suoi sviluppi sono ridotti al minimo.
22
La menzione congiunta, che aiuta ad enfatizzare la loro unanimità, e l’assenza di una diversificazione può ragionevolmente spiegarsi con la loro giovane età: lo osserva TAEGERT 1988, 39, che ricorda a
contrasto la diversa caratterizzazione di Massimiano e Costantino che – pur nell’unanimità – li differenzia
fra loro nell’anonimo Paneg. VII (VI), dedicato ad entrambi.
23
Il richiamo a Teodosio è specialmente forte nei panegirici per il III e IV consolato; nell’interrelazione fra lodi del principe ed elogio di Stilicone, a partire dalle nozze di Onorio con Maria il poeta
aggiunge, dandogli grande rilievo, anche lo speciale rapporto socer-gener, su cui si rinvia al bel contributo
di GUALANDRI 2010.
24
Su Mallio Teodoro, già destinatario di un feroce epigramma claudianeo (c.m. 21), vd. SIMON 1975,
60-71; PLRE I 900-902 (Flavius Mallius Theodorus 27). Il de metris è pubblicato in Gramm. VI 585-601.
25
Vd. CAMERON 1970, 125.
26
Carm. XVII 1 ss. ipsa quidem Virtus pretium sibi, solaque late / Fortunae secura nitet, nec fascibus
ullis / erigitur plausuve petit clarescere vulgi.
27
Carm. XVII 14 ss. accedunt trabeae: nil iam, Theodore, relictum, / quo virtus animo crescat vel
splendor honori: / culmen utrumque tenes.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
305
nate sulla terra sotto il regno di Arcadio e Onorio28. Equilibrato e giusto, non
condizionato dall’odio o dal favore, insensibile all’adulazione e incorruttibile;
dis proximus perché mosso dalla razionalità e non dall’ira (v. 227 dis proximus
ille, / quem ratio, non ira movet), alieno dalla violenza, dotato di gravitas ma
non tronfio, di eloquio elegante (vv. 214-255), per tutte queste qualità egli si è
guadagnato l’attenzione del principe e il conferimento del consolato.
La designazione del nuovo console, maturata dopo il ritorno in terra delle
virtù e specialmente voluta da Onorio (vv. 256-260), si inscrive in un clima che
dà spazio ai talenti e riconosce i meriti29, grazie alla duplice cura di Stilicone e
Onorio: nil licet invidiae, Stilicho dum prospicit orbi / sidereusque gener (v. 265
s.). Efficace illustrazione di questa felice realtà, la nomina di Mallio non reca
oltraggio alla prestigiosa carica conferitagli: in questa trasparente allusione a
Bisanzio, che in quello stesso anno ha invece contaminato la dignità consolare
designando un eunuco a rivestirla30, le qualità di Mallio sono strumentali alla
dimostrazione della superiorità morale di Onorio e del suocero su chi detiene
il potere nella pars orientis: Arcadio e il suo plenipotenziario Eutropio, un
eunuco e, soprattutto, un acerrimo nemico di Stilicone.
Tuttavia, sebbene Mallio Teodoro sia presentato come funzionario e studioso di rango, e benché la Giustizia, cui è particolarmente caro, si scomodi
per lui, il messaggio politico trasmesso dal suo panegirico riguarda il perfetto
governo garantito da genero e suocero, mentre non mette in campo aspettative
di tempi migliori che siano direttamente legate alla persona del dedicatario:
Roma non interviene e nulla fa presagire l’inizio di una nuova età dell’oro. Non
si collega in alcun modo al benessere della patria neppure l’auspicio che il nuovo console sia il primo di una trabeata domus in cui tale carica passi di padre
in figlio31, e strettamente legati alla persona del celebrando sono sia l’augurio
di duplice gloria, politica e letteraria32, sia l’aver attribuito alle Muse, per iniziativa di Urania, la decisione di celebrare i ludi per il consolato (vv. 274-340).
28
Carm. XVII 166 ss. nonne vides ut nostra soror Clementia tristes / obtundat gladios, fratresque amplexa serenos / adsurgat Pietas, fractis ut lugeat armis / Perfidia et laceris morientes crinibus hydri / lambant
invalido Furiarum vincla veneno? / exultat cum Pace Fides. iam sidera cunctae / liquimus et placidas inter
discurrimus urbes. / nobiscum, Theodore, redi.
29
Carm. XVII 261 ss. crescite, virtutes, fecundaque floreat aetas / ingeniis: patuit campus certusque
merenti / stat favor; ornatur propriis industria donis.
30
Carm. XVII 266-269 non hic violata curulis, / turpia non Latios incestant nomina fastos; / fortibus
haec concessa viris solisque gerenda / patribus et Romae numquam latura pudorem. L’elenco di ciò che il
consolato di Teodoro non fa e non è corrisponde in negativo ad altrettante accuse che di lì a poco Claudiano rivolgerà ad Eutropio: vd. FARGUES 1933, 83; SIMON 1975 a v. 268 s.
31
Carm. XVII 336 ss. accipiat patris exemplum tribuatque nepoti / filius et coeptis ne desit fascibus
heres. / decurrat trabeata domus tradatque secures / mutua posteritas servatoque ordine fati / Mallia continuo numeretur consule proles.
32
Carm. XVII 333 ss. consul per populos idemque gravissimus auctor / eloquii, duplici vita subnixus
in aevum, / procedat pariter libris fastisque legendus.
306
Franca Ela Consolino
Assente nel panegirico del pur meritevole Mallio Teodoro, il rapporto di
causa ed effetto fra il nuovo consolato e la salute di Roma è centrale invece nel
panegirico di Probino e Olibrio, e poco importa che sulle loro persone prevalga il rilievo dato alla famiglia, perché è proprio il ruolo dell’intera famiglia che
il poeta intende esaltare. Nel suo elogio del casato, Claudiano in parte riprende e varia, e in parte anticipa, i temi di quella che con terminologia moderna
potremmo impropriamente definire una campagna di promozione dell’immagine. Così, egli riprende e amplifica l’elogio della generosità di Probo già presente nel suo epitafio (CLE 1347 A, 14 parcus opum nulli, largus et ipse sui),
con il quale concorda anche nel rilievo dato alla nobiltà della famiglia, i cui
esponenti hanno sempre rivestito il consolato33. Claudiano riecheggia questa
formulazione, ma nell’applicarla ai suoi dedicatari la argomenta a partire dal
ramo materno, cui appartengono sia gli Amnii che gli Auchenii da lui menzionati34. Concentrando la propria attenzione sulla nobiltà di Proba, ancor viva e
autorevole, Claudiano anticipa la lode che i figli le rivolgeranno dopo l’assunzione del consolato, in due iscrizioni a lei dedicate che la celebrano come figlia, sposa e madre di consoli35. Dopo questa menzione dei suoi avi, che danno
lustro ai suoi figli, la nobile matrona torna da protagonista in un passo tanto più
notevole in quanto – diversamente da quello su Probo – non risponde al normale schema del panegirico. È la scena che media il passaggio dalla prosopopea
di Roma a quella di Tiberino. In essa, l’anziana nobildonna che attende alla tessitura delle trabee viene paragonata a ben tre divinità pagane36: prepara le vesti
33
CLE 1347 A, 3 s. consulibus proavis socerisque et consule maior, / quod geminas consul reddidit ipse
domos.
34
Carm. I 8-10 scis genus Auchenium, nec te latuere potentes / Amniadae; nam saepe soles ductoribus
illis / instaurare vias et cursibus addere nomen.
35
CIL VI 1754 = D 1269 Aniciae Faltoniae Probae Amnios Pincios Aniciosque decoranti consulis
uxori consulis filiae consulum matri, dedicata nel 395 da Anicio Probino, consul ordinarius, e da Anicio
Probo, quaestor candidatus il quale nel 406, divenuto console, aggiunge due distici che ne danno notizia
(il carme, che risale al 406, ben prima della morte di Proba, non è un epigramma funerario, come erroneamente sostenuto in PCBE 2,2, p. 1832), e CIL VI 1755 Aniciae Faltoniae Probae, fidei nobilitatis antiquae
ornamento Anicianae familiae servandae / ac docendae castitatis exemplo consulum proli consulum matri,
dedicata da Anicius Hermogenianus Olybrius e da sua moglie Anicia Iuliana. Per la datazione di queste e
delle altre epigrafi dedicate dai due consoli fratelli (vd. infra, nn. 39 e 41) l’indicazione consul ordinarius,
che accompagna il nome del dedicante, fa del 395 il terminus a quo, ma non è sufficiente per la datazione
a quell’anno proposta dal Baronio. A una data sia pure di poco successiva (come proposto da TAEGERT
1988, 27, che colloca il matrimonio con Anicia Iuliana al più tardi nel 399) farebbero pensare soprattutto
quelle a nome di Olibrio e Anicia Iuliana, a mio parere non tanto perché – come osserva TAEGERT, loc.
laud. – i 15 (o 16) anni di Olibrio fossero troppo pochi per il matrimonio, quanto perché in tal caso
Claudiano difficilmente avrebbe potuto esimersi dall’accennare con lode anche alla sposa di lui e avrebbe
anche potuto introdurre un elemento di differenziazione fra i due consoli fratelli.
36
Non prendo in considerazione la quarta synkrisis con Teti, cui Proba sarebbe superiore perché è
madre dei due consoli da cui l’anno prende nome (vv. 202-204 taceat Nereida nuptam / Pelion. O duplici
fecundam consule matrem / felicemque uterum, qui nomina parturit annis!), perché parte di un contesto
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
307
per i propri figli come Latona fa per Artemide e Febo37, potrebbe essere presa
per la Pudicitia scesa dal cielo o per Giunone38. Il confronto con la Pudicitia
anticipa un motivo presente nella seconda delle epigrafi sopra ricordate, che
la definisce servandae ac docendae castitatis exemplum39. La sezione dedicata a
Proba si chiude con l’affermazione che ella è degna del proprio coniuge e che
di tanto è superiore alle altre donne, passate e presenti, di quanto il marito lo
è stato rispetto agli altri uomini40. Coniuge digna Probo (v. 199) riprende una
lode già espressa nell’epitafio metrico di Probo, che in chiusa la ricorda come
unita ad uno sposo di lei degno e degna di condividerne il sepolcro: digno
iuncta viro, digna simul tumulo (CLE 1347 A, 18).
Claudiano agisce dunque di conserva con i committenti e con i suoi versi
provvede a dare risalto a quella preminenza che – in modo più sobrio, ma non
meno categorico – varie epigrafi si incaricheranno di ribadire (ricordiamo anche due iscrizioni che celebrano Probo come console e padre di consoli)41. La
perfetta sintonia con l’immagine che questa potentissima famiglia ha voluto
dare di sé è visibile anche nella speciale attenzione riservata a Proba, potente
matriarca oltre che verisimile committente del carme. Non solo: il panegirico
contribuisce alla fissazione di alcuni motivi che diventeranno topici nelle successive lodi degli Anicii: li ritroviamo ancora, una ventina di anni dopo, negli
elogi tributati alla famiglia da Pelagio e Girolamo nelle rispettive epistole a
Demetriade, la giovane figlia di Olibrio42.
(vv. 201-204) che seri indizi fanno ritenere interpolato: sul passo, oggetto di ampia disamina in GNILKA
1975, 55-58, si vedano da ultimo le convincenti argomentazioni di CHARLET 2000, lxviii-lxx, alla cui discussione si rinvia.
37
Carm. I 183-194 qualis purpureas praebebat candida vestes / numinibus Latona suis, cum sacra
redirent / ad loca nutricis iam non errantia Deli, / illa feros saltus et desolata relinquens / Maenala lassato
certis venatibus arcu, / Phoebus adhuc nigris rorantia tela venenis / extincto Pythone ferens – tunc insula
notos / lambit amica pedes ridetque Aegaeus alumnis / lenior et blando testatur gaudia fluctu –: / sic Proba
praecipuo natos exornat amictu, / quae decorat mundum, cuius Romana potestas / fetibus augetur.
38
Carm. I 194-196 credas ex aethere lapsam / stare Pudicitiam vel sacro ture vocatam / Iunonem
Inachiis oculos advertere templis: per la pudicizia di Proba, cfr. servandae ac docendae castitatis exemplo
dell’iscrizione a lei dedicata nello stesso anno da Olibrio e Anicia Giuliana: CIL VI 1755 (vd. n. 35).
39
CIL VI 1755, citato a n. 36; VI 1756 Aniciae Faltoniae inlustrissimae et sanctissimae castissimae
feminae, anch’essa dedicata da Olibrio e dalla moglie. Entrambe le iscrizioni sono richiamate da TAEGERT
1988, 197 nel commento a v. 194 s.
40
Carm. I 197-200 talem nulla refert antiquis pagina libris / nec Latiae cecinere tubae nec Graia
vetustas. / Coniuge digna Probo; nam tantum coetibus extat / femineis, quantum superminet ille maritos.
Sul tema, talmente diffuso da essere un luogo comune, vd. CHARLET 2000, 158, n. 6. Non prendo in considerazione, per la dubbia autenticità di v. 201 s. (vd. supra, n. 36) il motivo della competizione fra i due
sposi nella virtù.
41
CIL VI 1752 Sexto Petronio Probo viro clarissimo consuli ordinario patri consulum (dedicata da
Anicio Probino e Anicio Probo, che fa da pendant a quella di analogo tenore dedicata da Olibrio e la
moglie: CIL VI 1753 Sexto Petronio Probo Anicianae domus culmini … consuli ordinario consulum patri).
42
Cfr. CONSOLINO 1992, 69-80.
308
Franca Ela Consolino
Sullo spessore politico da riconoscere a questo encomio i pareri non sono
stati concordi. Al giudizio limitativo di Alan Cameron, che gli riconosceva
solo la funzione di lodare gli Anicii43, sono andate contrapponendosi valutazioni sempre più positive, tese ad esaltare il significato politico del poemetto
collocandolo nel più ampio contesto dei rapporti fra princeps e aristocrazia
senatoria romana voluti da Teodosio dopo il Frigido44. Ma anche la più favorevole delle interpretazioni non credo basti ad attribuire a questo panegirico
la funzione – o almeno il tentativo – di creare consenso. Fatto in sé eccezionale, la nomina dei due fratelli non è dipesa dai senatori, che non sono chiamati
ad esprimere opinioni in merito; d’altra parte – con buona pace di Roma
e Tiberino – non sono loro attribuiti compiti o poteri straordinari della cui
opportunità convincere il senato. Pur dando voce al Selbstverständnis dell’aristocrazia e spazio alla volontà di Teodosio45, il carme più che un tentativo di
convincere è un cogente invito – rivolto tanto ai cristiani vincitori quanto ai
pagani sconfitti – ad una presa d’atto: con la benedizione imperiale, gli Anicii
sono la famiglia al momento in auge dell’aristocrazia senatoria. Con Teodosio
saldamente insediato a capo dell’impero e delle forze militari, l’unico particolare ruolo che essi possano svolgere è quello – peraltro mai dichiarato nel
carme – di mostrare a chi non si sia ancora convertito come l’appartenenza
cristiana ottenga il favore del princeps ed apra ampie prospettive di carriera46.
Così, se non può considerarsi di routine l’elogio di due consoli fratelli, per
di più adolescenti e privi di meriti personali, temo si debba continuare ad
attribuirgli un «significato politico limitato»47: centrato sulla realtà romana
(e non sulla corte, in cui risiede il potere decisionale), il panegirico proclama
l’egemonia degli Anicii, offrendo un intelligente e abile contributo alla maggior visibilità di questa famiglia già in vista.
1.2. Creare consenso: il panegirico di Stilicone
Il secondo panegirico claudianeo di cui intendo occuparmi fu composto
a cinque anni di distanza dal primo e celebra anch’esso un consolato non
imperiale. A rivestire la più prestigiosa magistratura di Roma è stavolta il ge43
CAMERON 1970, 35: «Claudian’s brief was to praise the Anicii, and this, no more and no less, is
exactly what he did». La stessa valutazione è già in CAMERON 1969, 262: «The poem is devoted exclusively
to the praises of the two consuls and their noble family: Theodosius is introduced at all solely in order
that their praises should be sung by no lesser a person than the Emperor himself. Claudian shows no
interest (as yet) in either Theodosius or his recent achievements for their hown sake».
44
Risultato ultimo e più compiuto di questa linea interpretativa è WHEELER 2007.
45
DÖPP 1980, 56-58.
46
Su questo punto vd. CAMERON 1969, 264 s.
47
«Begrenzte politische Bedeutung». La formulazione è di SCHMIDT 1976, 23.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
309
neralissimo vandalo Stilicone48, il quale – dopo il matrimonio della figlia con
Onorio (398) e soprattutto dopo la caduta di Eutropio (agosto 399) – è finalmente emerso da una fase politica per lui molto delicata, che aveva toccato il
suo punto più basso nell’estate 397, quando Costantinopoli lo aveva dichiarato hostis publicus. Oltre ad essere l’unico di cui Stilicone sia il dedicatario
dichiarato, questo è il solo panegirico latino in tre libri (la sua estensione sarà
superata soltanto dai 4 libri della Laus Iustini), i primi due recitati insieme a
Milano in gennaio del 400, il terzo pronunciato a Roma nel mese successivo49.
Concepiti come un unico insieme, i libri I-II corrispondono allo schema
consigliato da Menandro per il basiliko;" lovgo"50, trattando il primo delle
imprese belliche e il secondo delle azioni in tempo di pace. Dopo avere
svolto temi tipici dell’esordio51, Claudiano ripercorre la carriera di Stilicone,
ricordando le qualità da lui precocemente mostrate, e la sua partecipazione
nella prima giovinezza (Stil. I 51 vix primaevus) a un negoziato in Persia, dove
aveva infiammato d’amore le fanciulle, ottenuto la pace con il re e riportato
successo nelle partite di caccia. A coronamento della sua virtus giunge il
matrimonio con Serena, voluto da Teodosio che a lungo le ha cercato uno
sposo degno (v. 72 s.). Per vendicare l’assassinio dell’amico Promotus egli
inizia una campagna contro i Bastarnae, e non li distrugge solo perché viene
fermato dall’imperatore (v. 115). Sempre in armi, a quelle sacrifica gli affetti
familiari52, insanguinando di stragi le valli tessale e i fiumi della Tracia.
Morendo, Teodosio gli aveva intanto affidato la terra (v. 141 iam tibi commissis conscenderat aethera terris), che non ebbe percezione dell’avvicendamento
(v. 149 s. tantoque remoto / principe mutatas orbis non sensit habenas).
Stilicone diventa così l’unica guida per la moltitudine dei popoli che vivono
nell’impero, da dove sorge il sole a dove tramonta53. Obbedito dai soldati, che
48
Su cui vd. l’ormai classica monografia di MAZZARINO 1942 e, per informazioni di base, PLRE I
853-858 (Flavius Stilicho).
49
Rispettivamente Carm. XXI e XXII, da ora in poi Stil. I e Stil. II, e Carm. XXIV, da ora in poi Stil.
III, preceduto da una prefazione in distici elegiaci. Sui due diversi momenti nella composizione e nella
recita dell’opera vd. ora SCHINDLER 2009, 111 s. e n. 137 con bibliografia relativa.
50
I punti in cui lo articola il poeta vengono di volta in volta segnalati da KEUDEL 1970; per i primi
due libri un quadro complessivo in CONSOLINO 2002, 17-23.
51
La presenza di tanti motivi di elogio rende difficile la trattazione e il poeta teme di tralasciare le
cose più significative (vv. 1-22); Stilicone cumula in sé tutte le qualità e le doti che si si ritrovano separatamente negli altri e anche nei declivi il cocchio del poeta è in affanno sotto il peso delle innumerevoli lodi
(vv. 24-35). Un confronto con i precetti menandrei in CONSOLINO 2002, 17 s. e n. 90.
52
Stil. I 116-121 adsiduus castris aderat, rarissimus urbi, / si quando trepida princeps pietate vocaret; /
vixque salutatis Laribus, vix coniuge visa, / deterso necdum repetebat sanguine campum / nec stetit Eucherii
dum carperet oscula saltem / per galeam dove, come ha ben visto GUALANDRI 1968, 61 l’implicito ricordo
poetico di Ettore che saluta la moglie e il figlio alle porte Scee (Il. VI 467 ss.) e di Enea che abbraccia
Ascanio (Aen. XII 434) instaura un confronto che mostra come Stilicone superi in rigore i due eroi.
53
Stil. I 160 s. ductor Stilicho tot gentibus unus, / quot vel progrediens vel conspicit occiduus sol.
310
Franca Ela Consolino
lo seguirebbero dovunque, dovunque egli miete successi: la Grecia lo canta
per averla salvata; Franchi e Suebi, piuttosto che affrontarlo, si sottomettono,
e così la Germania; superiore a Druso e Traiano, Stilicone ha domato il Reno
in un numero di giorni pari agli anni impiegati da quelli; giustizia, pietas e fides
gli guadagnano l’amore dei Germani. Dopo la pacificazione del nord Europa,
alla guerra contro Gildone (vv. 246-269) si aggiungono le insidie dell’Oriente.
Stilicone resiste ad entrambe le minacce e il riconquistato possesso dell’Africa
segna ad un tempo il culmine dei suoi successi e il pieno riscatto di Roma:
restituit Stilicho cunctos tibi, Roma, triumphos (v. 385).
Alle armatae laudes del primo libro segue nel secondo l’illustrazione dei
mores: Clementia lo fa pronto al perdono ed esente dall’ira; Fides lo rende
leale verso i vivi e verso i morti: dei figli di Teodosio, da quello affidatigli,
egli si preoccupa ancor più che dei propri54. Plasmato da Stilicone, che lo
educa al regno pur prestandogli l’obbedienza e il rispetto che si debbono a
un capo e a un padre55, il giovanissimo Onorio (v. 63 s. vitaeque et lucis in
ipso / limine) può reggere l’impero e accrescerne i trionfi; sempre per merito
dell’educazione ricevuta, il giovane principe ha provato le prime fiamme
d’amore per la sua sposa diventando uomo non nella sfrenatezza giovanile, ma
nelle caste leggi del matrimonio (vv. 74-76). Non meno sollecito Stilicone si è
mostrato nei confronti di Arcadio, non reagendo alle provocazioni, curando la
corretta divisione del tesoro di Teodosio fra i due eredi, offrendo all’Oriente
ostile anche il supporto delle armi, pur di mantenersi leale (vv. 78-99). Iustitia, patientia, temperies, prudentia, constantia adornano il nuovo console;
privo di ambizione, egli ha messo al bando l’avidità; favorisce l’ascesa di chi
merita, guardando ai mores piuttosto che ai natali. Sotto la sua saggia guida
rifioriscono le arti e si risollevano le Muse, mentre al ricco e al povero sono
date pari possibilità di successo (vv. 100-131). Non toccato dalla dissolutezza,
non ha mai accondisceso alle sue molteplici lusinghe; non rinfaccia i benefici
concessi, e stupisce vedersi trattati nella convivialità alla pari da chi è suocero
dell’imperatore e parens regni56. Tutti lo amano e lo celebrano con statue dorate;
d’altra parte chi non ne riprodurrebbe l’immagine e non lo venererebbe, se
egli non respingesse sempre tale onore?57 Ma anche così, i legati da ogni parte
54
Stil. II 50-55 nec vivis adnexus amor meminisse sepultos / desinit; in prolem transcurrit gratia patrum. / hac tu Theodosium, tenuit dum sceptra, colebas, / hac etiam post fata colis; nec pignora curas / plus
tua quam natos dederat quos ille monendos / tutandosque tibi.
55
Stil. II 66 ss. quem tu sic placida formas, sic mente severa, / ut neque desidiae tradas, dum pronus ad
omne / quod libet obsequeris, nec contra nixus ovantem / confringas animum; secretus consona regno / ceu
iuvenem doceas, moles quid publica poscat; / ceu sanctum venerere senem patriisque gubernes / imperium
monitis; dominum summissus adores, / obsequiis moderere ducem, pietate parentem.
56
Stil. II 166-168 quem videt Augusti socerum regnique parentem, / miratur conviva parem, cum tanta
potestas / civem lenis agat.
57
Stil. II 176-182 quae non incudes streperent, quae flamma vacaret / fabrilis, quantis fluerent fornaci-
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
311
si affrettano e cantano alla presenza del genero le lodi di Stilicone (v. 184 s.
undique legati properant generique sub ore / in tua centenas aptant praeconia voces), da cui dipende il benessere delle varie popolazioni dell’impero,
finalmente ricondotte a vita pacifica e tornate al lavoro dei campi. A lui non
meno favorevoli degli uomini, i celesti lo proteggono e lo mettono in guardia
con i loro presagi.
Per questi motivi, innumerevoli regioni a gara hanno voluto per lui il
consolato; respinte, Hispania, Gallia, Britannia, Africa, ed Oenotria si sono
recate da Roma perché lo obligasse ad accettare, esponendo ciascuna le
proprie ragioni di gratitudine. Senza indugio Roma afferra le armi e si reca da
Stilicone, cui rivolge un lungo discorso (vv. 279-339), pregandolo di rivestire
la prestigiosa carica, restituendo l’antico onore a quella magistratura che
rappresenta il culmine degli honores58: egli potrebbe ora conferire prestigio a
quel titolo che avrebbe potuto conferirne a lui prima, quando lo aveva rifiutato
(v. 317 s. titulo tum crescere posses, / nunc per te titulus). Lo invita infine ad
ammirare e indossare la trabea che lei stessa e Minerva hanno tessuto con lo
stesso filo con cui Lachesi sotto Stilicone tesse per Roma aurea saecula. Ciò
detto, la dea gli presenta e lo aiuta ad indossare la trabea, su cui è raffigurato
il destino regale dei suoi figli.
Dopo la vestizione, che rende il generalissimo simile a Marte, Roma
manifesta l’intenzione di recarsi agli Elisi per comunicare ai grandi consoli del
passato come per merito di uno solo abbia riguadagnato l’Africa e riscattato il
prestigio del consolato. Aggiunge quale ultima richiesta che Stilicone conceda
quell’adventus che l’Urbe richiede (v. 387 s.); l’immaginato svolgimento di
questa cerimonia chiude il secondo discorso di Roma (v. 407). Intanto la fama
si diffonde e tutti i maggiorenti si affrettano da ogni parte del mondo per la
celebrazione; non minore esultanza in cielo provano i due Teodosii e gli dei,
mentre il sole stesso prepara per Stilicone un anno degno (v. 423), recandosi
nell’antro del tempo, dove sceglie il più notevole degli anni aurei, intimando
agli altri di seguirlo. Torna poi al luogo da cui inizia il suo corso quotidiano; sul
cocchio il nuovo anno che porta il nome del console, mentre – ricominciando
il loro giro – gli astri scrivono il nome di Stilicone nei fasti del cielo.
Il conferimento del consolato a un semibarbaro, qual era Stilicone, aveva
già bisogno di qualche giustificazione; Claudiano osa molto di più, non
limitandosi a giustificare, ma spingendosi a dimostrare che dal nuovo console
bus aera / effigies ductura tuas, quis devius esset / angulus aut regio quae non pro numine vultus / dilectos
coleret, talem ni semper honorem / respueres? decus hoc rapiat, quem falsa timentum / munera decipiunt,
qui se diffidit amari. A raffigurazioni di Stilicone si riferisce anche Stil. III 11 ss. os sacrum, quod in aere
colis, miraris in auro, / cerne libens: hic est felix bellator ubique, / defensor Libyae, Rheni calcator et Histri.
58
Stil. II, 313-316 plus ideo sumenda tibi fastigia iuris, / ne pereat tam priscus honos, qui portus honorum / semper erat. Nullo sarciri consule damnum excepto Stilichone potest.
312
Franca Ela Consolino
dipende la salvezza stessa dell’impero. Questa dimostrazione, che comporta
la necessità di relegare in secondo piano Onorio, prende il suo avvio logico
e cronologico dalla successione a Teodosio. Che questi morendo avesse
raccomandato i figli a Stilicone è testimoniato anche da Ambrogio59, ma
tale gesto, che non aveva alcun valore sotto il profilo giuridico60, non poteva
equipararsi ad una trasmissione del potere. Eppure è questo che Claudiano
afferma in Stil. I 149 s. tantoque remoto principe / mutatas orbis non sensit
habenas: il passaggio delle redini del comando da Teodosio a Stilicone delinea
un avvicendamento che lascia fuori i due principi eredi.
A Teodosio Stilicone subentra anche come educatore di Onorio,
insegnandogli l’arte di regnare: è il ruolo che era stato di Teodosio nei due
panegirici del 396 e del 39861. A Stilicone e a lui soltanto sono anche attribuiti
– qui per la prima volta, ma la tendenza avrà prosecuzione nel de bello Gothico62 – i successi militari che ufficialmente sarebbero da ascrivere al princeps, conseguentemente ridotto ad ascoltatore delle molteplici lodi che legati
provenienti da ogni dove rendono sotto i suoi occhi a Stilicone: undique legati
properant generique sub ore / in tua centenas aptant praeconia voces (Stil. II
184 s.). Dopo aver affermato che sarebbe Onorio (e non Stilicone) a trarre
maggior vantaggio dal vincolo di parentela stretto con il matrimonio (principe
tu felix genero: felicior ille / te socero)63, Claudiano procede così ad un ulteriore
ridimensionamento del principe, espropriato di quella gloria militare che di
diritto gli sarebbe spettata.
La tendenza a relegare Onorio sullo sfondo, così da suggerirne la subalternità al generalissimo vandalo, culmina nell’ampia sezione del secondo libro occupata dalla prosopopea di Roma64. Diversamente che per Probino e Olibrio,
la dea non parla qui solo a suo nome, ma, nel sottolineare il peso determinante
di Stilicone per le sorti del mondo, si fa portavoce del generale consenso della
pars occidentis65. Significativamente, a lui soltanto la dea attribuisce il merito
– in precedenza condiviso con Onorio – di aver risolto il problema della carestia e di aver debellato Gildone66. Ma il dato di maggior rilievo riguarda le
59
Ambr. Ob. Theod. 5 gloriosius quoque in eo Theodosius, qui non communi iure testatus sit, de filiis
enim nihil habebat novum quod conderet, quibus totum dederat, nisi ut eos praesenti commendaret parenti.
60
Che formalmente non si potesse parlare di tutela (e non a caso Claudiano evita i termini tecnici)
lo aveva chiarito già MOMMSEN 1903, 101 s.
61
Rispettivamente Carm. VII 39-62 e VIII 214-418: vd. GUALANDRI 2010, 48.
62
Lo ha mostrato GUALANDRI 1997, 373-375.
63
Stil. II 77 s. Osserva GUALANDRI 2010, 48, n. 99 come sia qui in atto un procedimento analogo a
quello per cui è il consolato a trarre vantaggio da Stilicone, e non viceversa.
64
Stil. II 270-407, per la cui analisi puntuale si rinvia a CONSOLINO 2002.
65
KEUDEL 1970, 85: «Hier nun ist nicht nur die eigentliche Bitte um die Annahme des Amtes zu
einer Szene geworden, sondern auch der consensus universorum, der Roma zu dieser Bitte veranlasst».
66
Sulla carestia debellata vd. Stil. II 392-396, da confrontarsi con quanto affermato in proposito da
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
313
modalità della designazione, perché, contravvenendo al rapporto privilegiato
che tradizionalmente esiste fra lei e il principe67, Roma tratta direttamente con
Stilicone ignorando l’imperatore, cui spetterebbe decidere la nomina (è a lui
che la dea aveva chiesto il consolato dei fratelli Anicii). L’irritualità della procedura è giustificata da Hispania, la quale fa presente a Roma che, come aveva
prima sprezzato l’offerta del suocero Teodosio, così ora egli rifiuta quella del
genero (Stil. II 233 s. Augusti potuit soceri contemnere fasces: / iam negat et
genero). Se il richiamo all’indimostrabile intenzione di Teodosio retrodata per
così dire il destino consolare di Stilicone, le ragioni per cui questi dovrebbe
infine acconsentire Hispania non le individua nella volontà del mondo e nella
necessaria sottomissione al principe, e fa invece leva su quei rapporti di parentela con quest’ultimo che lo renderanno avo del futuro imperatore68.
Non c’è posto per Onorio neppure nelle scene raffigurate sulla trabea
tessuta da Roma e Minerva (le trabee di Probino e Olibrio le aveva tessute
Proba), che – preconizzando il futuro – assolve per il generalissimo la stessa funzione dello scudo per Enea69. Sarà infatti l’avo, e non il padre, a dare
Martia praecepta al futuro imperatore70, l’auspicato figlio di Onorio e Maria
(Stil. II 336 s. promissam subolem sperataque pignora / mundo): una scena che
tende a far dimenticare come il nonno da cui l’ipotetico (e mai nato) erede
derivava il diritto al trono non fosse Stilicone, ma Teodosio. La sostituzione
del generalissimo vandalo a Teodosio è a sua volta coerente con le altre scene
della trabea, che tutte illustrano il futuro della dinastia: una dinastia che ha
per capostipite Stilicone. Tolgono ogni dubbio in proposito sia la scena delle
future nozze di Eucherio, figlio di Stilicone e Serena, con Galla Placidia, sia
soprattutto il commento del poeta, che per la domus di Stilicone allude ad un
passo virgiliano sulla discendenza regale di Enea attraverso il figlio Silvio71.
Roma in Carm. XVIII 401 ss. quae suscepta fames, quantum discriminis urbi, / ni tua vel soceri numquam
non provida virtus / Australem Arctois pensasset frugibus annum! Su Gildone cfr. Stil. II 384 s., che lo associa ad Eutropio. I due successi – su Gildone e sulla carestia – erano già elogiati in Stil. I: su questo, e per
un confronto con lo spazio riservato ad Onorio nell’in Gildonem vd. CONSOLINO 2002, 17. L’unico accenno
alla gloria che ne è venuta ad Onorio si trova in Stil. I 4-7 cecinit [scil. regia] fuso Gildone triumphos, / et
calidis thalami successit laurea sertis, / sumeret ut pariter princeps nomenque mariti / victorisque decus.
67
Testimonianze iconografiche in MELLOR 1981, 1013-1015.
68
Cfr. Stil. II 234 ss. si non ut ductor ab orbe / quem regit, accipiat saltem cognatus ab aula. / Exiguumne putat, quod sic amplexus Hiberam / progeniem nostros inmoto iure nepotes / sustinet, ut patrium
commendet purpura Baetin, / quod pulchro Mariae fecundat germine regnum, / quod dominis speratur
avus?
69
GESNER 1759, 361 a v. 336: «Ut clipeo Aeneae posterorum illius fata inscribit Virgilius». Sulle
raffigurazioni della trabea vd. da ultimo GUIPPONI-GÉNESTE 2010, 96-107.
70
Stil. II 347 ss. iam creverat infans / ore ferens patrem; sed avus maturior aevi / Martia recturo tradit
praecepta nepoti.
71
I termini in cui viene definita la domus di Stilicone (Stil. II 360 s. utroque petit diademata sexu /
reginasque parit reginarumque maritos) ricordano il passo in cui Anchise mostra ad Enea il figlio Silvio
314
Franca Ela Consolino
Accanto a questa scena, audace e forse rischiosa72, nei primi due libri altri elementi contribuiscono a delineare un comportamento e un esercizio del
potere molto vicini a quelli di un princeps. Come la cura per il benessere e la
protezione dell’impero da nemici interni ed esterni, il confronto vincente con
Traiano, l’imperatore spagnolo cui si rifaceva la dinastia teodosiana73, e anche
una serie di paragoni con personaggi quali Alessandro, Achille74 o Ercole75,
già utilizzati come paradigmi di comportamento o come termini di paragone
per i sovrani76. A precedenti imperiali (Teodosio fra questi) rinviano la recusatio del titolo dove è spesso in combinazione – come lo è qui – con le insistenze dell’istituzione personificata77, e il possesso di virtù imperatorie – iustitia,
fides, pietas e clementia – di cui Stilicone ha dato prova nelle azioni di guerra
e in tempo di pace78.
Altri spunti che tendono all’assimilazione con un imperatore sono sotterranei e per ciò anche più insidiosi. Come la notazione sul generalissimo che,
dedicatario di statue spontaneamente offertegli dai vari popoli, rifiuta di farsi
venerare79: il modo in cui Claudiano ce lo riferisce tende a far dimenticare
(Aen. VI 765 s. regem regumque parentem, / unde genus nostrum Longa dominabitur Alba), segnalato da
KEUDEL 1970, 95 ad loc.: è questo un bell’esempio di quella che MORONI 1982, 229 s. chiama ‘funzione
interpretativa’ svolta dal modello letterario, che qui guida il destinatario colto a vedere in Stilicone il
fondatore di una dinastia. Sempre KEUDEL 1970, ibidem cita Carm. X 253, in cui Venere apostrofa Maria
come magnorum suboles regum parituraque reges. In quel caso, tuttavia, reges dovrebbe riferirsi esclusivamente alla dinastia teodosiana, poiché nel verso che precede Maria è detta dalla dea sidereae proles
augusta Serenae.
72
Vd. infra, p. 321 e n. 108.
73
I riferimenti in CONSOLINO 2002, 20, nn. 114-115.
74
Alessandro e Achille sono entrambi oggetto di synkrisis in Stil. I 264 ss. a proposito della vittoria
su Gildone (ma Alessandro figurava già nello speculum principis del panegirico per il quarto consolato di
Onorio, Carm. VIII 374 ss.). La campagna di Stilicone contro i Bastarnae per vendicare l’amico Promotus
è paragonata all’uccisione di Turno da parte di Enea e a quella di Ettore da parte di Achille (Stil. I 95
ss.). Alla lotta di quest’ultimo con lo Scamandro si allude altre due volte in Stil. I 133 (flumina, quae largo
mutastis sanguine fluctus); I 186 s. (et Alpheus Geticis angustus acervis / tardior ad Siculos etiamnum pergit
amores): due passi che esaltano il valore guerriero di Stilicone.
75
Vd. Stil. I 140 s. genitor caesi post bella tyranni / iam tibi commissis conscenderat aethera terris, gravoso impegno paragonato a quello di Ercole che aveva dovuto sostituire Atlante: cfr. CONSOLINO 2002, 19 s.
76
Cfr. PARRAVICINI 1909, 108-118.
77
Di particolare rilievo, sia per vicinanza cronologica sia perché mostra come Stilicone erediti il ruolo lì attribuito al principe, è il precedente costituito dall’esortazione della respublica a Teodosio [Paneg.
II (12), 11, 3-7]: su questo e su altri precedenti di recusatio cfr. CONSOLINO 2002, 11 s.
78
Le prime tre virtù (che insieme con la virtus sono le quattro virtù del clipeus aureus conferito
ad Augusto: cfr. R. Gest. div. Aug. 34,2) gli hanno consentito di conquistare i barbari (Stil. I 207 s.); la
Clementia (Stil. II 6-29) e la Fides (Stil. II 30 ss.) sono virtù del tempo di pace ed hanno un tempio nel
petto di Stilicone (Stil. II 12 s.: la Clementia; 31: la Fides). La clementia (philanthropia) era stata di recente
esaltata quale virtù imperatoria da Temistio, or. 19 per Teodosio, il quale ultimo in Claud. Carm. VIII
277 ne raccomanda la pratica al piccolo Onorio. Per la pratica della iustitia in tempo di pace cfr. Stil. II
103-105.
79
Stil. II 176 ss. (citato a n. 57).
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
315
che a tale venerazione egli non ha alcun diritto. Non esplicito ma assai significativo anche il confronto sotterraneo con Teodosio, pure lui un generale,
che Graziano aveva elevato alla porpora per le sue capacità guerriere. Come
lui Stilicone si è guadagnato l’attaccamento dell’esercito, che lo prende ad
esempio ed è pronto a seguirlo ovunque80; i suoi successi guerrieri, ottenuti
velocemente e senza spargimento di sangue, non nascono mai da decisioni
avventate81.
Come Alan Cameron ha esaustivamente dimostrato, Claudiano è maestro
nel tacere gli insuccessi e presentare i fatti nella luce più favorevole al suo patrono82: Stilicone non aveva rivestito prima il consolato non perché riluttante
ma per ragioni di opportunità politica83; non aveva avuto bisogno di sconfiggere i barbari perché aveva negoziato con loro; non aveva vinto Gildone perché a farlo era stato Mascezel. Degno di nota è anche il modo in cui viene sostenuta la pretesa del generalissimo di estendere il proprio controllo alla pars
orientis: Claudiano, che ne dà per scontata la tutela su entrambi i principi, la
presenta in un contesto che esalta la fides di Stilicone, il quale rende intatto
ai figli l’impero affidatogli dal loro padre: se già si ritengono iusti nimiumque
fideles coloro che cum possint commissa negare li rendono invece senza lucro,
Stilicone era depositario non di ricchezze, ma delle due parti dell’impero84.
Questa considerazione, abilmente faziosa, è costruita sul falso presupposto,
già accennato nel I libro85, che Teodosio avesse lasciato Stilicone depositario
del potere imperiale, e non tiene conto che quest’ultimo, non potendo aspirare in proprio all’impero perché vandalo per parte di padre, non era perciò
stesso in grado di commissa negare.
Solo dopo aver dato ampia dimostrazione che il suo dedicatario è capax
imperii quanto e più di personaggi insigniti della dignità imperiale, nell’ultima
parte del secondo libro il poeta affronta infine, sia pure in modo indiretto, i
problemi posti dalla condizione di semibarbaro, affidando alla prosopopea di
80
Stil. I 152-180.
Vd. Stil. I 215-217 omne quod Oceanum fontesque interiacet Histri / unius incursu tremuit; sine
caede subactus / servitio Boreas exarmatique Triones. / Tempore tam parvo tot proelia sanguine nullo /
perficis et luna nuper nascente profectus / ante redis quam plena fuit. Per la possibilità di un sottinteso
confronto con il rischioso comportamento di Teodosio al Frigido, cfr. Stil. I 363 ss. nil tribuat Fortuna
sibi. Sit prospera semper / illa quidem; sed non uni certamina pugnae / credidimus totis nec constitit alea
castris / nutatura semel; si quid licuisset iniquis / casibus, instabant aliae post terga biremes; / venturus dux
maior erat: vd. CONSOLINO 2002, 20 s.
82
Cfr. CAMERON 1970, spec. 149-154.
83
Vd. supra, p. 304 e n. 25.
84
Carm. XXII 55-60 iustos nimiumque fideles / fama putat, qui, cum possint commissa negare, / maluerint nullo violati reddere quaestu. / at Stilicho non divitias aurique relictum / pondus, sed geminos axes
tantumque reservat / depositum teneris quantum sol igneus ambit.
85
Stil. I 148-150, su cui vd. supra, p. 309.
81
316
Franca Ela Consolino
Roma il delicato compito di cancellare questo peccato originale mai ammesso.
L’intervento della dea fa del generale vandalo un campione di romanità, sia dichiarandone la superiorità sugli eroi che hanno contribuito alla sua grandezza,
sia pregandolo di accettare il consolato per restituire a quella magistratura – e
di conseguenza ai consoli passati e futuri – la dignità che era stata compromessa dall’eunuco Eutropio86. E il paragone vincente con Bruto e gli Scipioni87,
sommato all’accostamento con Camillo, ultor e servator di Roma88, e ai ripetuti
richiami ad Enea89, suggerisce per Stilicone il ruolo di rifondatore della Città.
Alle visite degli imperatori nell’Urbe fa poi pensare la descrizione, sia pur contenuta, della folla che a Roma celebrerà l’adventus del nuovo console90.
Mentre per Probino e Olibrio il poeta aveva fatto ricorso all’enunciazione
esplicita, limitandosi ad enfatizzare dati in partenza verificabili o a fornire una
lettura favorevole di fatti interpretabili anche negativamente (come l’uso che
Probo faceva della ricchezza), per Stilicone non tutto è dichiarato, molto è suggerito, e le conseguenze di certe affermazioni restano implicite. Ma gli elementi
forniti sono troppi per non condurre alla conclusione, non ovvia soprattutto
nel caso di un generale semibarbaro, che Stilicone ha tutte le qualità per reggere
l’impero (come già fa), e per creare la convinzione che egli merita di farlo.
I primi due libri furono recitati alla corte di Milano, ambiente che dobbiamo supporre meglio controllato da Stilicone, ma anche meglio informato su di lui. Non tutte le affermazioni di Claudiano potevano avere analoga
credibilità. Sul brillante curriculum giovanile e per alcuni dei successi bellici
a lui attribuiti la distanza geografica e/o cronologica rendeva più difficile il
controllo91. Della veridicità di altre asserzioni gli ascoltatori avranno avuto
qualche ragione di dubitare, soprattutto in quei casi in cui il poeta stesso
aveva modificato le sue recenti versioni (per Eutropio e in particolare per Gildone92). Consapevole delle aspirazioni del suo patrono, il notarius et tribunus
Claudiano spinge il suo gioco di allusioni indirette fino ai limiti del consentito;
forse anche oltre nel caso del progettato matrimonio di Eucherio, allora un86
Restituit Stilicho cunctos tibi, Roma, triumphos: su questa constatazione si era chiuso il I libro delle
laudes (Stil. I 385).
87
Per la superiorità di Stilicone, restitutor del consolato, su Bruto, che ne era stato l’inventor, cfr.
Stil. II 318-327 e vd. CONSOLINO 2002, 13 s.; per gli Scipioni cfr. Stil. II 383-385, dove Roma li nomina
accanto a Bruto, dicendo che Stilicone le ha restituito sia il consolato che l’Africa.
88
Stil. II 390 s., su cui vd. CONSOLINO 2002, 16 e n. 83; il confronto con Camillo verrà esplicitato nel
bellum Geticum (Carm. XXVI 430): vd. GUALANDRI 2010, 51, n. 115.
89
Vd. supra, p. 313 s.; vd. anche Stil. I 69 s. dove Serena in età da marito è assimilata a Lavinia.
90
Stil. II 397-407: vd. CONSOLINO 2002, 16 e n. 85.
91
Sulle qualità di Stilicone come generale vd. O’FLYNN 1983, 25-27.
92
La corretta attribuzione a Mascezel della vittoria su quest’ultimo doveva essere ben nota a Milano, dove Mascezel stesso ne aveva riferito, attribuendo il merito del successo ad Ambrogio, apparsogli in
visione prima della battaglia decisiva: cfr. Paul. Med. Vita Ambr. 51.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
317
dicenne, con Galla Placidia, che aveva appena otto anni. Non senza qualche
accortezza, perché la scena nuziale è rappresentata sulla trabea: è vero che la
sua descrizione è «the most blatant expression of Stilicho’s dynastic ambitions
in all Claudian’s work»93, ma poteva forse mitigarne la portata il suo essere
una fictio di secondo grado: ekphrasis di un manufatto pronunciata da una
prosopopea. Le reazioni degli astanti ci sono ignote, e sappiamo da Agostino
quanto poca fede venisse prestata ai panegiristi; ma anche chi si rendesse conto delle menzogne poteva apprezzare la bravura del poeta e ammirare la sua
abilità nel cantare cose false, ma molto (o troppo?) simili alle vere.
Concepito come un testo indipendente, la cui comprensione poteva prescindere dalla conoscenza dei primi due, il terzo libro del panegirico fu recitato a
Roma, introdotto da una prefazione in cui il poeta paragona il suo patrono a
Scipione e se stesso a Ennio94. Incentrato sull’arrivo del generalissimo nell’Urbe
e sul plauso giustamente reso ai suoi meriti, il libro si apre con un’apostrofe a
Roma che può finalmente vedere colui che da tempo era atteso e si presenta ora
agli sguardi spe maior, fama melior (v. 6). Stilicone, che se volesse potrebbe fare
mostra dei popoli sottomessi nel nord come nel sud dell’impero, non ama tanto
i riconoscimenti dati alle fatiche quanto le fatiche stesse e sdegna i vani applausi, preferendo trionfare nei cuori degli uomini (vv. 7-29). La rocca capitolina
non ha riservato più fulgida accoglienza a generali come Fabrizio, Paolo, Mario
trionfatore dei Numidi, Pompeo dopo le sue vittorie in oriente (vv. 30-36). Inoltre, a differenza di tutti loro, Stilicone non ha suscitato l’invidia e il malanimo
di alcuno, ugualmente gradito ai senatori, ai cavalieri e alla plebe (vv. 37-50).
Leitmotiv del carme è lo speciale amore di Stilicone per Roma, che con trasporto lo ricambia. Le premesse vengono poste nei versi iniziali (vv. 6-25), che
ricordano le benemerenze del generalissimo nei confronti dell’Urbe. Di qui le
manifestazioni di un intenso legame – simile a quello di norma intercorrente
fra Roma e il principe – che trova una prima sintesi a v. 51 ss.: o felix servata
vocat quem Roma parentem! / o mundi communis amor, cui militat omnis /
Gallia, quem regum thalamis Hispania nectit, / cuius et adventum crebris petiere Quirites / vocibus et genero meruit praestante senatus! Versi che da una parte riepilogano il riconoscimento universale cui nel II libro avevano dato voce
le province, dall’altra ripropongono, in una prospettiva urbana e senatoria,
quel titolo di publicus parens già attribuito da Plinio a Traiano e che proprio
nel 400 verrà riconosciuto da Simmaco al generalissimo vandalo95 (ma già in
Stil. II 166 Stilicone era definito Augusti socerum regnique parentem). Questo
93
CAMERON 1970, 154.
La prefazione e il senso da dare al paragone con Ennio sono specifico oggetto di analisi e di discussione in PERRELLI 1992, 107-116; FELGENTREU 1999, 119-129; PERRELLI 2000, cui si rinvia.
95
Symm. Ep. IV 12,1; il medesimo appellativo anche in Ep. IV 14,2 del 401, vd. CONSOLINO 2002,
16, n. 83.
94
318
Franca Ela Consolino
titolo dalle impegnative implicazioni, già attribuito a Camillo e al fondatore
Romolo96, assimila dunque Stilicone ad un princeps. Questa assimilazione, ripresa dall’immagine del pubblico favore con cui egli è accolto (vv. 187-190
publica sed numquam tanto se gratia fudit / adsensu: quis enim princeps non
omnibus egit / obsequiis dominum sese patremque vocari, / quod tibi continuis
resonant convexa diebus?)97, era già suggerita a v. 11, dove – rivolgendosi ai
romani, che possono finalmente rimirare di persona colui che conoscevano
finora solo in effigie – Claudiano definisce il suo volto os sacrum98, cioè con
l’aggettivo di norma riservato agli imperatori99.
Lo speciale rapporto di Stilicone con l’Urbe è pubblico e privato ad un
tempo. Carattere pubblico hanno i suoi interventi a difesa della città, mentre
il fatto che vi sia nato Eucherio potrebbe rientrare nella sfera strettamente
personale degli affetti. Ma non può avere carattere privato né la gioia di Roma
che in questo modo guadagna Stilicone quale suo cittadino (v. 180 s. Romaque
venturi gaudebat praescia fati, / quod te iam tanto meruisset pignore civem), né
tantomeno la nascita di chi sia figlio di una principessa (v. 177 regia mater) e
nipote dell’imperatore (v. 178 Augusto … avo), perché «nel momento in cui,
sollevandolo dopo la sua nascita (sustulit) Teodosio compie il gesto rituale
con cui un padre riconosce come legittimo il proprio figlio, deposto ai suoi
piedi, esplicitamente così indicando l’appartenenza del figlio di Stilicone e Serena alla famiglia imperiale»100. La contiguità fra Stilicone e i principes stabilita
dai legami di parentela era d’altra parte ricordata già a v. 53 (quem regum thalamis Hispania nectit), dove si allude al matrimonio con Serena e appena dopo
a quello di Onorio con Maria (v. 55 genero … praestante). A lui doppiamente
imparentato in quanto sposo di Serena, sorella adottiva di Onorio, e padre di
Maria, Stilicone ha peraltro il suo titolo forse più importante nell’essere stato
verior Augusti genitor (v. 122), facendo da saggia guida alla sua giovinezza101.
96
Per Romolo cfr. Cic. Rep. I 41,64. Su Camillo, pater patriae in Liv. VII 1,10, vd. supra, p. 316;
sull’ambiguità insita nell’attribuzione di questo titolo a Stilicone e sul suo significato nel III libro si veda
ora la fine analisi di GUALANDRI 2010, 51 s., cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
97
Su dominus come titolo del princeps vd. TAEGERT 1988, 131 a vv. 75-77.
98
Stil. III 11s. os sacrum, quod in aere colis, miraris in auro, / cerne libens.
99
Lo rileva GUALANDRI 2010, 52: «Sacer, epiteto normale per gli imperatori e la loro famiglia, non
lo è in genere per i comuni mortali, e qui sta almeno ad indicare la totale assimilazione di Stilicone alla
domus degli Augusti».
100
Così GUALANDRI 2010, 53, a commento di Stil. III 176-180 dedit haec exordia lucis / Eucherio puerumque ferens hic regia mater / Augusto monstravit avo; laetatus at ille / sustulit in Tyria reptantem veste
nepotem, / Romaque venturi gaudebat praescia fati.
101
Cfr. Stil. III 120-129 sic docuit regnare socer, sic casta iuventae / frena dedit, teneros his moribus
imbuit annos, / verior Augusti genitor, fiducia belli, / pacis consilium, per quem squalore remoto / pristina
Romuleis iam floruit artibus aetas, / per quem fracta diu translataque paene potestas / non oblita sui servilibus exulat arvis, / in proprium sed ducta larem victricia reddit / fata solo fruitur que iterum, quibus haeserat
olim, / auspiciis capitique errantia membra reponit.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
319
Differenziano ulteriormente la posizione del generalissimo vandalo da
quella di un console ‘normale’ espressioni come magnanimum pectus, quo frena reguntur / imperii, cuius libratur sensibus orbis (v. 9 s.) o proxime dis consul,
tantae qui prospicis urbi (v. 130). La definizione di proximus dis Claudiano la
aveva già usata l’anno prima per Mallio Teodoro102. Ma in quel panegirico non
era Teodoro ad occuparsi del mondo, bensì – con termini che variano di poco
la seconda metà del nostro verso – Stilicone, che insieme con Onorio garantiva il buon andamento dell’universo: Stilicho dum prospicit orbi / sidereusque
gener (v. 265 s.). Qui invece Onorio, già retrocesso al ruolo di discente (v. 120
sic docuit regnare socer) sembra avere a suo unico merito l’aver concesso a
Roma l’adventus di Stilicone103, che al pari degli dei si prende cura della Città:
hanc tu cum superis, Stilicho praeclare, tueris, / protegis hanc clipeo patriam
regumque ducumque / praecipueque tuam104.
Diversamente dai primi due libri, in cui le lodi sono organicamente articolate, il terzo ha una struttura piuttosto fluida: è pertanto possibile che l’assenza di
una rigorosa concatenazione attenuasse l’audacia di tali affermazioni, che potevano anche passare per le esagerazioni tipiche di un panegirico, per di più in
versi. A temperarne l’effetto poteva concorrere pure la lunghissima digressione
finale sui pubblici festeggiamenti del nuovo console (vv. 223-369), collocati in
uno scenario reso mitico dall’intervento di Diana e delle sue ninfe105. Tuttavia
– anche a non considerare che la memoria degli antichi era più esercitata della
nostra – agli ascoltatori che avessero già letto i due libri milanesi e ai successivi
lettori dell’intera opera non poteva sfuggire che quei versi implicavano l’esercizio – effettivo se non di diritto – del potere imperiale da parte di Stilicone.
Lo sforzo del poeta non consiste nell’attenuare quel potere, ma nel mostrare
che – più di qualsiasi principe precedente – il generalissimo vandalo ha saputo
ben meritare di Roma, che egli ama e tutela ricambiato di pari amore.
L’analisi fin qui fatta dovrebbe aver messo in evidenza come – pur nella
differente articolazione e con le variazioni richieste da un diverso uditorio – il
102
Carm. XVII 227-229 dis proximus ille, / quem ratio, non ira movet, qui facta rependens / consilio
punire potest, per cui SIMON 1975, 228 a v. 227 richiama deum, quem videmus che Pacat. Paneg. II 4, 5
dice di Teodosio.
103
Stil. III 113-115.
104
Stil. III 174-176, su cui vd. GUALANDRI 2010, 52: «L’impressione che egli sia collocato su di un
piano quasi sovrumano è suggerita dall’ampio, famoso inno (3. 130-173) che esalta le glorie di Roma e
s’inizia con la lenta e solenne allocuzione al nuovo console, visto in una dimensione sacrale, vicino agli
dei, come protettore dell’urbe: v. 130 ss. proxime dis consul, qui tantae prospicis urbi / qua nihil in terris
complectitur altius aether… In Ringkomposition (v. 174 ss.), a conclusione dell’inno, il concetto riappare,
sempre con tono alto: Stilicone, insieme con gli dei, protegge col suo valore guerriero la città: una città
definita patria di re, di condottieri, e soprattutto, quasi a climax, di Stilicone medesimo».
105
Il parallelo strutturale con i festeggiamenti indetti da Urania per Mallio Teodoro (Carm. XVII 274282) è segnalato da SIMON 1975, 247-249, che mette a confronto Carm. XVII 276 ss. con Stil. III 262 ss.
320
Franca Ela Consolino
terzo ed ultimo libro delle laudes Stilichonis con i primi due condivida temi,
intenzioni, messaggio. Un messaggio che li differenzia nettamente dal panegirico per Mallio Teodoro, dedicatario al quale non si legano le sorti dell’impero, ma anche da quello per Probino e Olibrio, che non propone per i due elogiati un ruolo che travalichi le prerogative connesse al loro status. L’encomio
di Stilicone si spinge invece ben al di là di quanto consentirebbero le funzioni
del generalissimo, e ne propone un’immagine competitiva nei confronti di
quella imperiale, su cui finisce per predominare. Questa caratteristica, più
comprensibile – e più evidente – nel panegirico a lui dedicato, è però rintracciabile in varia misura in tutti i poemi encomiastici che Claudiano compose
dopo il trasferimento a Milano, i quali – si voglia o no ricorrere al termine
‘propaganda’ – pur con differenti sfumature e in misura diversa propongono
per il generalissimo vandalo un ruolo molto prossimo, quando non addirittura sovrapponibile a quello del princeps106.
Estesa su ben nove anni (dai primi di gennaio del 396 all’inizio del 404),
tale produzione encomiastica, pur con tutti gli aggiornamenti richiesti dal modificarsi delle situazioni, mantiene alcune costanti che la attraversano e di cui
possiamo seguire gli sviluppi da un’opera all’altra. Avviene così che in Claudiano il discorso di lode – prenda esso le forme di un panegirico o quelle di un
epos breve107 – finisca per subire una sorta di mutazione genetica, perdendo
almeno in parte quel carattere effimero che è proprio di ogni poesia di occasione per farsi latore di un messaggio dai contorni sufficientemente definiti,
che viene riproposto con continuità. Ci si può allora interrogare sugli effetti
di questa iterazione su un lettore non distratto o su chi partecipasse alla vita
di corte. Affermazioni che nel corso del tempo si richiamano e si rafforzano
reciprocamente dovranno pure aver sortito degli effetti non limitati all’ammirazione per la versatilità dell’autore. Effetti che potevano andare dal fastidio
per l’eccessiva celebrazione di un generale semibarbaro ad una sorta di assuefazione al messaggio trasmesso, o ad altre reazioni ancora che non siamo in
grado di ipotizzare, mentre è piuttosto improbabile che tanta insistenza sulla
centralità di Stilicone non lasciasse traccia di sorta.
Conferma queste conclusioni l’unico tema claudianeo che trovi preciso riscontro negli avvenimenti successivi: il ruolo ‘dinastico’ di Eucherio. I due
passi delle laudes che lo riguardano non sono i soli nell’opera di Claudiano,
106
Come ben sintetizza CAMERON 2000, 134, «what is different about Claudian’s political poems is
the fact that their central theme is not the emperor, but one of his ministers. Yet this minister is not accorded the sort of praise appropriate to an imperial general, however successful. While formally portraying Stilicho as no more than a victorious general loyally carrying out the policies of a wise emperor, no
perceptive reader could be in any doubt that he rather than the emperor was determining those policies».
107
Sulla problematica distinzione di questi due generi letterari nella poesia politica di Claudiano, vd.
FO 1982, 15-65.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
321
dove rappresentano altrettante tappe di una costruzione dall’andamento non
rettilineo. Abbiamo visto il commento cui dava luogo il matrimonio con Galla
Placidia rappresentato sulla trabea: iam domus haec utroque petit diademata
sexu / reginasque parit reginarumque maritos (Stil. II 360 s.). Questa affermazione, di cui Gesner segnalava la potenziale pericolosità108, non nasce dal
nulla: essa è in certo modo preparata dal verso dell’epitalamio di Onorio in
cui Venere apostrofa Maria come magnorum suboles regum parituraque reges109. Qui il plurale reges, che potrebbe per un momento far ritenere Stilicone
partecipe della regalità, è reso innocuo (pur se con un margine di ambiguità)
dal verso che precede, in cui Maria è chiamata dalla dea siderae proles augusta Serenae, riconducendola così al casato dell’Augusto Teodosio110. Rispetto
all’epitalamio, il commento alla scena nuziale di Eucherio, pur con qualche
cautela, segna un indubbio passo avanti: reginas parit è correttamente riferito
a Maria, sposa di Onorio; reginarum maritos si addice perfettamente ad un
Eucherio sposo di Galla Placidia, ma la domus cui Eucherio e Maria appartengono è quella di Stilicone.
Più rispettosa della dinastia teodosiana, ma non per questo meno audace,
è la descrizione della nascita di Eucherio nel terzo libro delle laudes: il suo inserimento nella famiglia imperiale da parte di Teodosio potrebbe – in assenza
di eredi diretti – autorizzarne le aspettative di successione sul trono della pars
occidentis. Arriviamo così all’ultima apparizione di Eucherio, in quello che è
anche l’ultimo panegirico composto da Claudiano, quello per il sesto consolato di Onorio. Nel corteo che accompagna il carro trionfale, Eucherio, cui
regius undique sanguis111, procede a piedi per volere del padre: l’inattesa attribuzione di regius sanguis anche al generale semibarbaro «getta per così dire
una luce intensa su questo pronipote di Teodosio, quasi additando in lui le
prerogative che ne fanno un possibile futuro successore al trono imperiale»112.
L’accusa di tradimento che nel 408 causò la morte di Stilicone era quella
di aver nutrito per il figlio ambizioni regie113. È possibile che tali fossero le
riposte mire del generalissimo, ma egli non aveva compiuto alcun gesto che le
comprovasse: Eucherio, all’epoca diciannovenne, non era infatti andato oltre
la carica di tribunus et notarius (la stessa di Claudiano), e in mancanza di fatti
108
GESNER 1759: «Qui erant invidi Stilichoniae domus, vel post casum illius ingeniosi, poterant hunc
versum trahere ad objectam Stilichoni cupiditatem imperii in filium suum transferendi».
109
Carm. X 252: vd. FRINGS 1975, 212 s. Il parallelo con Stil. II 360 indicato da KEUDEL 1970, 95 a
Stil. II 357-361.
110
Per sidereus riferito da Claudiano alla famiglia imperiale cfr. BIRT 1892, Index, 580.
111
Carm. XXVIII 552: vd. DEWAR 1996, 366 s.
112
GUALANDRI 2010, 55; per i rischi connessi a questa raffigurazione, ibid. 56 s. e n. 133.
113
L’accusa di aspirare all’impero per Eucherio è condivisa dai cristiani Soz. 9,4; Oros. VII 38; Philost. HE XI 3; XII 1; Iord. Rom. 322, che peraltro non concordano sulla pars (orientis o occidentis?) che
Stilicone avrebbe voluto dare al figlio. Non vi prestano invece fede Olymp. fr. 2; Zos. V 32,1.
322
Franca Ela Consolino
che potessero fornire un pur minimo appiglio l’accusa restava indimostrabile.
Pretestuosa la giudica Zosimo114, ma i testi claudianei potevano contribuire a
rendere credibile il pretesto: per una curiosa ironia della sorte, l’unica traccia
dell’influenza esercitata dalla poesia encomiastica di Claudiano è riscontrabile
proprio nella rovina di colui che aveva inteso promuovere.
2. Come persuadere il senato:
Sidonio, i Visigoti e il panegirico di Avito
Dopo l’assassinio dell’imperatore Petronio Massimo e il sacco di Roma ad
opera dei Vandali di Genserico (2-16 giugno 455), il 9 o 10 luglio del 455, a
Uguernum, l’attuale Beaucaire, veniva proclamato imperatore il magister utriusque militiae Flavio Eparchio Avito115, con il sostegno determinante del re visigoto Teoderico II. Il 1° gennaio del 456 il nuovo Augusto celebrava a Roma
il conferimento del consolato; a recitarne il panegirico fu un brillante poeta
non ancora trentenne: Gaio Sollio Sidonio Apollinare, genero dell’imperatore
e anch’egli appartenente all’aristocrazia senatoria di Gallia.
Il poeta esordisce con una invocazione a Febo, invitato a conservare i propri raggi per il cielo: alla terra è sufficiente Avito, grazie al quale Roma saprà risollevarsi dai suoi mali116. Sidonio passa poi a rievocare gli avvenimenti,
ispirandosi, seppur con notevole libertà, al modello claudianeo117. Al concilio
degli dei convocato da Giove si presenta la dea Roma, in condizioni ancor più
disastrate che nel bellum Gildonicum di Claudiano: senza elmo, con i capelli
coperti di cenere, urta ad ogni passo contro lo scudo; la lancia, divenuta per
lei un peso, non incute più timore118. Abbracciate le ginocchia del Tonante, gli
rappresenta la propria situazione, ricorda gli uomini che l’hanno resa grande
114
Zos. V 32. Zosimo esprime anzi apprezzamento per il generalissimo vandalo, che non avrebbe
tratto vantaggi economici dalla parentela con Teodosio, né favorito la carriera del figlio (V 34,6 s.).
115
Notizie su Avito in PLRE II 196-198 (Eparchius Avitus 5). Sui legami fra la sua famiglia e quella
di Sidonio cfr. HARRIES 1994, 31-35.
116
Carm. VII 1 ss. Phoebe, peragrato tandem visurus in orbe / quem possis perferre parem, da lumina
caelo: / sufficit hic terris. nec se iam signifer astris / iactet, Marmaricus quem vertice conterit Atlans: / sidera
sunt isti, quae sicut mersa nitescunt, / adversis sic Roma micat, cui fixus ab ortu / ordo fuit crevisse malis.
modo principe surget / consule; nempe, patres, collatos cernere fasces / vos iuvat et sociam sceptris mandasse
curulem: / credite, plus dabitis.
117
Per un confronto puntuale del panegirico di Sidonio con i testi claudianei che lo ispirano, così
come per una discussione delle differenze, si rinvia all’analisi di SCHINDLER 2009, 183 ss. Per i fatti storici
riferiti da Sidonio e le distorsioni cui egli li sottopone vd. LOYEN 1942, 35-58; e da ultimo GILLETT 2003,
87-108.
118
Sidon. Carm. VII 45-49 …erecta caeli de parte trahebat / pigros Roma gradus, curvato cernua collo
/ ora ferens; pendent crines de vertice, tecti / pulvere, non galea, clipeusque inpingitur aegris / gressibus, et
pondus non terror fertur in hasta: cfr. Claud. Carm. XV 17 ss.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
323
in passato e gli chiede di ridarle Traiano o qualcuno simile a lui (v. 116 s.).
Giove replica a Roma (vv. 123-598) che nella sua lunga storia si è sempre
saputa risollevare e la esorta a reagire: le spiegherà brevemente (v. 138 paucis
… docebo) in che modo potrà rialzarsi119. La ‘breve’ spiegazione di Giove è in
realtà un lungo panegirico di Avito (vv. 139-597), costruito secondo le regole
del basiliko;" lovgo"120.
Partendo dalle lodi della Gallia, terra natale dell’elogiato, Giove ne traccia la biografia: la formazione giuridica ricevuta (v. 207 civilia iura secutus),
le qualità diplomatiche mostrate in impegnative missioni121; i combattimenti
contro i barbari a fianco di Aezio (vv. 230-294)122; il conferimento (nel 439)
della prefettura al pretorio delle Gallie, durante la quale soccorre la patria
estenuata rinnovando il trattato con i Visigoti (vv. 295-315); il successivo ritiro
nella quiete dei campi (vv. 316-319); l’invasione di Attila e il ritorno alla vita
pubblica nel 451 su richiesta di Aezio, che lo prega di convincere i Visigoti
a spalleggiare i romani contro gli Unni (vv. 319-346); il successo del suo intervento (vv. 346-357). Dopo l’uccisione di Aezio, la sicurezza dell’impero è
messa a serio rischio e il nuovo Augusto, Petronio Massimo, lo fa magister militum per Gallias: i barbari tendono allora a placarsi e i Visigoti, già pronti alla
guerra, reprimono il loro furore non appena apprendono il prossimo arrivo di
Avito in vesti di ambasciatore (vv. 357-410).
Nel corso dell’incontro a Tolosa con il re Teoderico II e suo fratello Federico, giunge notizia dell’assassinio di Petronio Massimo (v. 450 s.); ad Avito,
che chiede di rinnovare i trattati di pace (vv. 460-486), il re goto risponde con
l’esortazione di rivestire egli stesso la porpora: a tale condizione, egli promette
a Roma la sua leale amicizia (vv. 489-518). La stessa esortazione Avito riceve
nel corso di un’adunanza di autorevoli galloromani (vv. 519-571). Termina qui
l’amplissimo resoconto di Giove, il quale conclude rivolgendo a Roma nuove
parole di conforto: questo principe di età matura farà ringiovanire lei, che i
principes pueri hanno fatta invecchiare123.
119
Carm. VII 134-138 torpentia tolle / lumina, detersam mentem caligo relinquat. / te mirum est vinci;
incipies cum vincere, mirum / non erit: utque tibi pateat quo surgere tandem / fessa modo possis, paucis,
cognosce, docebo.
120
Lo schema del panegirico in BELLÈS 1989, I, 154; le corrispondenze con lo schema del basiliko;"
lovgo" in SCHINDLER 2009, 184.
121
Ottiene un alleggerimento di tasse dal futuro imperatore Costanzo II (vv. 208-211) e tratta poi con il
re visigoto Teoderico I, conquistandone la stima, ma anteponendo Roma all’amicizia con lui (vv. 215-229).
122
Sidonio ci dice solo che aveva tenuto tre importanti incarichi contro Iuthungi e Norici (nel 430431); contro i Burgundi (nel 436) e contro gli Unni di Litorio (nel 437), dove si batte in singolar tenzone
con un guerriero unno.
123
V. 595 ss. laetior at tanto modo principe, prisca deorum, / Roma, parens, attolle genas ac turpe veternum / depone; en princeps faciet iuvenescere maior, / quam pueri fecere senem. Il princeps puer oggetto
dell’allusione è Valentiniano III, proclamato Augusto all’età di sette anni.
324
Franca Ela Consolino
Il compito di Sidonio era piuttosto impegnativo. Esponente di spicco
dell’aristocrazia galloromana, Avito aveva un curriculum buono, ma non brillantissimo, specie se confrontato con quello del suo predecessore, che annoverava due consolati, due prefetture al pretorio e due prefetture urbane; per
di più, la sua carriera si era sostanzialmente svolta in provincia. Ma a creare le
difficoltà maggiori erano le circostanze della sua proclamazione, maturata in
seno all’aristocrazia di Gallia e avvenuta con il decisivo appoggio dei Visigoti
di Teoderico II. Bisognava dunque convincere il senato di Roma che il nuovo
Augusto era in grado di far fronte alle difficoltà successive al sacco vandalico,
e – soprattutto – che nelle sue decisioni egli non si sarebbe fatto condizionare
dai barbari che lo avevano sostenuto.
Sidonio apre in chiave ottimistica grazie alla comparazione fra lo zodiaco,
i cui sidera dopo il tramonto risorgono più luminosi di prima, e Roma, che
risorge più grande dalle sue rovine: sidera sunt isti [scil. Signifero], quae sicut
mersa nitescunt, / adversis sic Roma micat, cui fixus ab ortu / ordo fuit crevisse
malis. modo principe surget / consule (vv. 5-8). Il modello di questi versi è stato
da tempo indicato in Rutilio Namaziano124, che si era rivolto alla dea Roma in
termini analoghi, paragonandone la sorte a quella degli astri: adversis solemne
tuis sperare secunda, / exemplo caeli ditia damna subis (I 121 s.). Poiché quae
mergi nequeunt, nixu maiore resurgunt / exiliuntque imis altius acta vadis (I
129-130), ciò che sarebbe esiziale per tutti gli altri regni darà a lei l’occasione
di rinascere più grande dalle sue disgrazie: illud te reparat, quod cetera regna
resolvit: / ordo renascendi est crescere posse malis (I 139 s.).
Il passo di Rutilio cui Sidonio allude aveva ottime probabilità di essere
conosciuto dai senatori, facendo esso parte del famoso inno alla dea Roma,
reduce dal sacco di Alarico. Dall’analogia delle situazioni scaturisce perciò un
messaggio di speranza: anche dopo il sacco di Genserico la Città devastata
saprà risorgere ancor più forte dalle proprie ceneri, e la resurrezione sarà resa
possibile da Avito, un aristocratico galloromano come lo era stato il praefectus
urbi Rutilio. È infatti con riferimento ai futuri trionfi di Avito che Sidonio,
riprendendo l’analogo invito rivolto da Rutilio a Roma, invita Giano a cingersi le fronti di una duplice corona (v. 10 s. iam necte bifrontes, / anceps Iane,
comas duplicique accingere lauro)125.
Spessore politico ha anche il secondo riferimento al bellum Gildonicum
con cui si chiude il discorso di Giove; diversamente che nella sua prima ripresa, Sidonio varia in modo significativo il modello evocato: mentre in Claudia124
Vd. GEISLER 1887 ad loc. Per ulteriori indicazioni su questa ripresa rutiliana e sul tema della grandezza di Roma, sempre riavutasi dai momenti di crisi, vd. BROCCA 2004, 286, n. 41.
125
Cfr. Rut. Nam. I 115 s. erige crinales lauros seniumque sacrati / verticis in virides Roma recinge
comas: vd. BROCCA 2004, 287-290, cui va il merito di avere individuato per prima questa ripresa e la sua
pregnanza ideologica.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
325
no era il dio stesso a spirare su Roma una nuova giovinezza126, qui egli affida
questo compito all’anziano princeps, che farà ringiovanire la dea, a differenza
dei principes pueri, responsabili del suo invecchiamento (vv. 595-602 “…laetior at tanto modo principe, prisca deorum, / Roma, parens, attolle genas ac
turpe veternum / depone; en princeps faciet iuvenescere maior, / quam pueri
fecere senem”. finem pater ore / vix dederat: plausere dei fremitusque cucurrit /
concilio. felix tempus nevere sorores / imperiis, Auguste, tuis et consulis anno /
fulva volubilibus duxerunt saecula pensis).
Per presentare Avito nella luce migliore, Sidonio non si affida solo alle riprese letterarie, il cui significato sarebbe potuto sfuggire ad alcuni. A fornire
dati rassicuranti sul nuovo imperatore provvede infatti la lunga presentazione
di Giove, che – anche ovviando all’eventuale carenza di informazioni su una
carriera compiuta lontano dall’Urbe – dà su di lui notizie ampie e tali da valorizzarne meriti e risultati. Ne emerge il ritratto di un principe all’altezza delle
aspettative di Roma, che al re degli dei aveva richiesto un nuovo Traiano127.
Avito saliva al trono solo due anni dopo la scomparsa di Aezio († 454), che
aveva lui pure operato a lungo in Gallia, e Sidonio è abile nel tracciare un
profilo del suocero che lo mostri non inferiore ad Aezio e suo indispensabile
collaboratore. Ponendo al centro della sua narrazione le Gallie e i contatti di
Avito con i Visigoti, egli limita il ruolo del generalissimo, così da attenuare le
divergenze di orientamento fra i due nei rapporti con gli Unni, cui Aezio si era
per lo più appoggiato, e i Visigoti, preferiti invece da Avito e ora coartefici della sua elevazione128. Potevano mostrare come positiva quest’ultima preferenza
gli inconvenienti di un troppo stretto legame con gli Unni, inconvenienti che
si erano palesati nel 451, quando Aezio stesso aveva dovuto ricorrere ai buoni
uffici di Avito per contrapporre i Visigoti all’avanzata di Attila in Gallia129.
Questi fatti recenti possono forse spiegare sia l’inserimento del duello fra
Avito e il soldato unno che aveva ucciso un suo uomo (vv. 246-294), sia il
resoconto che Sidonio ne fa. Poiché il soldato unno militava sotto Litorio,
questa azione – per cui il poeta paragona il suocero ad Achille che vendica
la morte di Patroclo (vv. 272-278) – era di fatto rivolta contro un distaccamento dell’esercito romano ufficiale130, all’epoca in guerra con i Visigoti che
assediavano Narbona (sarà anzi Avito stesso che li convincerà a recedere: vv.
126
Claud. Carm. XV 208-210 dixit et adflavit Romam meliore iuventa. / continuo redit ille vigor seniique colorem / mutavere comae.
127
Sull’opportunità della scelta di Traiano per sostenere Avito si rinvia a BROCCA 2004, 282-284 che
individua nella vita di Tacito dell’Historia Augusta il presupposto di una coincidenza fra i due anche
nell’età avanzata, lì indebitamente attribuita a Traiano.
128
Vd. HARRIES 1994, 67-75.
129
HARRIES 1994, 69 s.
130
HARRIES 1994, 75.
326
Franca Ela Consolino
475-486). Ma la narrazione decontestualizzata che il poeta ne fa, separando
il duello con l’unno dall’opera di mediazione presso i Visigoti131, giova all’immagine pubblica di Avito, sia perché ne esalta il valore guerriero nel momento
in cui esso è richiesto contro la persistente minaccia dei Vandali, sia perché lo
mostra schierato dalla parte ‘giusta’ dopo la recente discesa di Attila, che faceva percepire gli Unni come un pericolo più grave e imminente dei Visigoti.
Considerate le circostanze dell’ascesa al trono, preoccupazione principale
del panegirista è fugare i timori che i Visigoti possano dettare legge all’Augusto o comunque esercitare influenza su di lui. Pertanto Sidonio mette in
forte rilievo un altro aspetto significativo della carriera di Avito: la sua attività
diplomatica. Nella rievocazione che Giove fa delle sue pravxei", più che come
condottiero egli agisce in veste di legatus: l’insistenza su tale funzione – non
ovvia in un futuro principe132 e forse accentuata da Sidonio – ha l’indubbio
vantaggio di riportare nell’alveo delle relazioni diplomatiche i cordiali, pregressi contatti con i re visigoti133, ed offre l’occasione per puntualizzare che
già con Teoderico I Avito ha saputo sì stabilire la concordia, ma senza tradire
il suo popolo e resistendo con successo a lusinghe e offerte134. Infine, con l’improbabile rappresentazione di Avito che giunge a Tolosa ignaro dell’assassinio
di Petronio Massimo135, Sidonio esorcizza il rischio che la missione diplomatica del magister utriusque militiae venisse letta come una richiesta ai barbari
di appoggiarlo nella scalata al trono. A dissipare possibili sospetti provvede
anche la collocazione del confronto di Avito e Teoderico con Romolo e Tito
Tazio (vv. 437-440), che nella relazione sull’ambasceria precede immediatamente la notizia della morte dell’imperatore, segnalando così la preesistenza
di una entente cordiale disinteressata da entrambe le parti.
Ma il punto cruciale dell’argomentazione di Sidonio è costituito dal presentare quella dei Visigoti come una volontaria subordinazione ad Avito. La
prima affermazione in tal senso è attribuita ad Aezio, che di questo argomento
si sarebbe servito per convincere Avito a rientrare dal suo volontario ritiro allo
scopo di acquisire contro gli Unni di Attila il sostegno dei Visigoti: inclusa tenes tot milia nutu, / et populis Geticis sola est tua gratia limes; / infensi semper
131
Quest’ultima è ricordata solo ai vv. 475-480, nel discorso che Avito tiene a Tolosa nell’imminenza
della sua proclamazione: cfr. GILLETT 2003, 101.
132
Come rileva GILLETT 2003, 85, il suo è l’unico caso di imperatore presentato come legatus.
133
È questa la linea portante della lettura che del panegirico dà GILLETT 2003, 87-108.
134
Vv. 224-229, dove l’incorruttibiltà di Avito è messa in risalto dal confronto con Fabrizio.
135
Avito parla ai Visigoti come se l’imperatore fosse ancora in vita (cfr. v. 464 nostri princeps modo
Maximus orbis: vd. LOYEN 1960, 185, n. 83 per il significato di ‘ora’, usuale per l’avverbio modo in Sidonio). Nella fictio del panegirico la notizia dell’assassinio sarebbe giunta ai Goti, insieme a quella del sacco
di Roma, dopo il primo incontro di Avito con Teoderico II a Tolosa e prima del suo discorso al senato
visigoto (cfr. vv. 441-451); poiché Petronio Massimo era stato ucciso il 31 maggio 455, è poco probabile
che ai primi di luglio Avito non lo sapesse ancora.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
327
nobis pacem tibi praestant (v. 341 ss.). Ci sono poi le considerazioni ancor più
esplicite di un goto, che prima di sapere dell’arrivo di Avito era determinato a combattere: quid foedera lenta minaris, / in damnum mihi fide meum?
compendia pacis / et praestare iubes nos et debere. quis umquam / crederet? en
Getici reges, parere volentes, / inferius regnasse putant (v. 419 ss.). Tali premesse preparano – dando loro verisimiglianza – le parole con cui Teoderico
II formula la propria richiesta. Dopo aver fatto notare ad Avito che questi potrebbe costringere i Goti a servire, piuttosto che chiedere loro la pace (v. 489
ss. tum rex effatur: “dudum, dux inclite, culpo / poscere te pacem nostram, cum
cogere possis / servitium, trahere ac populos in bella sequaces”), il re riconosce
la superiorità di Roma, cui proclama la propria devozione, ed esprime il desiderio di emendare la colpa dell’avo Alarico. Basta che Avito accondiscenda ad
assumere il titolo di Augusto: a questa, e solo a questa condizione, Teoderico
è pronto ad essere amico di Roma e a combattere per lei: Romae sum te duce
amicus, / principe te miles136.
La dichiarazione messa in bocca al re visigoto gli attribuisce un atteggiamento di non belligeranza, anzi di disponibilità al servitium. Questo atteggiamento,
che ricorda quello attribuito da Orosio al visigoto Ataulfo137, è però vincolato
alla condizione che il princeps sia Avito. Il che equivale a una promessa di pace e
(con la sempre incombente minaccia dei Vandali) di sostegno futuro, ma anche
a una velata minaccia qualora Roma soppiantasse Avito con un nuovo Augusto138. In questo modo, Sidonio per bocca di Giove presenta l’appoggio dei
Visigoti non come un pericoloso condizionamento, ma come una sorta di riconoscimento della grandezza di Roma, e indica in Avito l’unico possibile garante
della loro sottomissione. Il legame di Avito con il re goto, da lui educato al culto
di Roma139, è anzi tanto più prezioso quanto più forte è il contrasto fra la sua
civilitas e la rappresentazione poco lusinghiera che il carme offre dei Goti140.
136
V. 501 ss. testor, Roma, tuum nobis venerabile nomen / et socium de Marte genus (vel quicquid ab
aevo, / nil te mundus habet melius, nil ipsa senatu), / me pacem servare tibi vel velle abolere, / quae noster
peccavit avus, quem fuscat id unum, / quod te, Roma, capit; sed di si vota secundant, / excidii veteris crimen
purgare valebit / ultio praesentis, si tu, dux inclite, solum / Augusti subeas nomen. quid lumina flectis? / invitum plus esse decet. non cogimus istud, / sed contestamur: Romae sum te duce amicus, / principe te miles.
137
Oros. VII 43,4-7.
138
Come osserva WATSON 1998, 189 Romae sum te duce amicus chiarisce che si tratta di un’amicizia
condizionata, basata su un rapporto di fiducia personale.
139
Concordo con KAUFMANN 1995, 116 s. nel ritenere non dimostrabile l’ipotesi di SIVAN 1989, secondo la quale Ep. I 2 – pensata come lettera aperta da leggere a Roma e in Gallia, possibilmente unita
ad una copia del panegirico (p. 89) – intenderebbe corroborare con il suo famoso ritratto di Teoderico II
quanto è detto di lui in Carm. VII, cui sarebbe di poco successiva. Non si pronuncia sulla possibile data
di Ep. I 2 KÖHLER 1995, 119 s.
140
Così la definisce KAUFMANN 1995, 119, che ricorda in proposito Carm. VII 361-368; v. 392 s. (feroci
Getae) e v. 431 (rigido corde), con l’eccezione del re, che Avito stesso ha educato. E nota anche come i Goti
siano ritratti senza partecipazione, e a Sidonio non resti che dipingere il re in radiosi colori (p. 121 s.).
328
Franca Ela Consolino
Ai pressanti inviti del re barbaro si aggiunge la dichiarazione di un maggiorente romano, che ricorda le sofferenze patite a causa di un princeps puer141
(come tale aveva esordito Valentiniano III): un’avvertenza, questa, che verrà
poi fatta propria da Giove stesso. Di qui l’invito ad intervenire tempestivamente in favore di Roma, la cui condizione coincide con quella del mondo (v. 556
captivus, ut aiunt, / orbis in urbe iacet) e l’incoraggiante paragone con Camillo,
salvatore della patria, con cui egli conclude la sua appassionata perorazione142.
Dopo aver rievocato l’acclamazione che segue queste parole e l’assemblea tenutasi tre giorni dopo ad Arles, Giove conclude promettendo alla dea Roma
che il nuovo sovrano le restituirà il controllo sull’Africa143. Il fluviale discorso
del dio (476 versi su 602), al cui interno si colloca la lunga narrazione dei fatti
che hanno determinato la scelta di Avito quale Augusto della pars occidentis,
garantisce così la veridicità del resoconto e la bontà della designazione144.
Ma l’efficacia retorica non è necessaria garanzia di credibilità; e a me pare
che presso i senatori più della parola di Giove nel nostro caso potevano far
fede l’identità del panegirista e il suo duplice legame filiale con il publicus
pater Avito145, di cui canta le lodi paragonando in prefazione la propria pietas a quella di Orfeo cantore della madre Calliope. Al senato Sidonio offre
quella che potrebbe definirsi l’interpretazione autentica di quanto è accaduto
e del programma politico del suocero. Ne deriva un chiarissimo messaggio,
confortante e minatorio al tempo stesso: la porpora di Avito è garanzia della
sottomissione dei Visigoti, che con un altro principe potrebbe venir meno; è
inoltre gradita all’aristocrazia senatoria di Gallia, che troppo ha sofferto sotto
il regno di Valentiniano III e che (così potrebbe dedursi), forse non esprimerebbe pari gradimento per altre scelte. Che così fosse sembrerebbe confermato dalla difficile affermazione in Gallia di Maioriano, asceso all’impero dopo
la deposizione di Avito146.
141
Vv. 530-537 procerum tum maximus unus, / dignus qui patriae personam sumeret, infit: / “quam nos
per varios dudum fortuna labores / principe sub puero laceris terat aspera rebus, / fors longum, dux magne,
queri, cum quippe dolentum / maxima pars fueris, patriae dum vulnera lugens / sollicitudinibus vehementibus exagitaris…”.
142
V. 556 ss. captivus, ut aiunt, / orbis in urbe iacet; princeps perit; hic caput omne / nunc habet imperium. petimus, conscende tribunal, / erige collapsos; non hoc modo tempora poscunt, / ut Romam plus alter
amet. nec forte reare / te regno non esse parem: cum Brennica signa / Tarpeium premerent, scis, tum res
publica nostra / tota Camillus erat, patriae qui debitus ultor / texit fumantes hostili strage favillas.
143
V. 588 hic tibi restituet Libyen per vincula quarta.
144
La complessità di questa organizzazione è sottolineata da BONJOUR 1982, 14: il poeta (discorso di
I grado) riferisce quanto dice a Roma Giove (discorso di II grado), il quale riporta i discorsi (di III grado)
fatti dai vari personaggi della narrazione.
145
Carm. VI 35 publicus hic pater est, vovi cui carmen, Avitus. Su questa prefazione è ora in corso di
stampa su “RPL” 2010 un lavoro di Luciana Furbetta (Alcune riflessioni sul carme VI di Sidonio Apollinare).
146
Sulla Gallia nei due anni seguiti alla deposizione di Avito e sulla cosiddetta coniuratio Marcelliniana (cfr.
ep. I 11, 6) vd. STEVENS 1933, 36-45; 181-185 (per la posizione di Sidonio, su cui vd. anche HARRIES 1994, 84).
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
329
Sappiamo dallo stesso Sidonio che il suo poema fu applaudito dai senatori
e dal popolo e gli fruttò una statua di bronzo nella Biblioteca Ulpia147. Che poi
il suo messaggio avesse davvero convinto il senato è altra questione148. Quella
di Avito fu in effetti un’assai breve parabola: deposto in ottobre di quello stesso anno dal magister militum Ricimero e dal comes domesticorum Maioriano,
non sembra sia mai stato riconosciuto come collega da Marciano. Ma che il
carme non fosse un semplice discorso di lode e rispondesse al più ambizioso
intento di perorare la causa del suocero si evince con chiarezza da un confronto con il panegirico recitato in gennaio del 468 per Antemio, imperatore greco
che Costantinopoli aveva imposto alla pars occidentis.
Dall’epistolario di Sidonio apprendiamo che all’epoca si trovava a Roma
in missione come portavoce di richieste dell’Auvergne all’imperatore149, e che
egli aveva accondisceso a scrivere il panegirico per guadagnarsene il favore. L’apparato mitologico è come al solito imponente; la cautela di Sidonio
massima: per attenuare l’umiliazione di Roma senza tralasciare l’omaggio a
Bisanzio egli apre il carme con le lodi di Costantinopoli, ma è ad Aurora che la
dea Roma va a chiedere il suo Augusto. La biografia di Antemio, basata sulle
informazioni disponibili per il poeta, è costruita in modo da non urtare le suscettibilità di nessuno: ne è prova l’ampio spazio fatto all’elogio del potentissimo patrizio Ricimero, genero dell’imperatore e suo futuro nemico. Di scarso
interesse storico perché privo di notizie di prima mano150, questo capolavoro
di diplomazia fornisce una rappresentazione dei fatti per tutti accettabile, ma
non cerca in alcun modo di influenzare l’opinione di chi ascolta. Secondo
una prassi ormai consolidata, il successo di questo panegirico frutterà al suo
autore una carica: la prefettura urbana.
3. Convincere i contemporanei, influenzare i posteri:
Cassiodoro per Amalasunta
L’ultimo testo su cui intendo soffermarmi è di età romanobarbarica, in
prosa e – diverso anche in questo dai casi finora esaminati – non omologo
a nessun altro testo dello stesso autore: si tratta di Var. XI 1, gratiarum actio
147
Sid. Carm. VIII 7-10; vd. anche Ep. IX 16,3 carm. 21-28.
In particolare, la centralità della Gallia, da cui era fatta dipendere la salvezza dell’impero, poteva
suscitare malcontento presso un pubblico romano: lo notava già STEVENS 1933, 35, aggiungendo che – in
presenza dell’imperatore – sarebbe stato difficile non applaudire la recita.
149
Sid. Ep. I 5,1; 9,2; 9,5; su circostanze e scopi di questo panegirico rimando alle mie considerazioni
in CONSOLINO 2000, 191 s.
150
Indicativo al riguardo LOYEN 1942, che dedica 24 pagine al panegirico di Avito, 25 a quello di
Maggioriano e solo 11 a quello per Antemio.
148
330
Franca Ela Consolino
che in settembre del 533 Cassiodoro, appena nominato prefetto al pretorio,
invia al senato per chiederne il supporto nell’esercizio della nuova carica e
per elogiare i sovrani che gliela hanno conferita151: il giovane re Atalarico e
la reggente Amalasunta152. Già magister officiorum e da anni segretario dei
re goti, Cassiodoro ha chiara percezione sia dei problemi del regno, sia dei
rapporti che intercorrono fra senato e monarchia. All’intento di renderli più
cordiali e distesi rispondono sia l’omaggio ai senatori, cui il nuovo prefetto si
rivolge all’inizio e alla fine dell’epistola153, sia l’invito ad una collaborazione
con la corona basata sulla condivisione degli stessi principi morali154, sia infine
la menzione di provvedimenti filosenatori quali il risarcimento alle vittime di
Teoderico (§ 15) e le cariche conferite a un illustre senatore e a sé stesso155.
L’altro aspetto su cui Cassiodoro intende rassicurare il senato riguarda la
gestione del potere regale, concentrato nelle mani di Amalasunta, che aveva
da poco rinsaldato la sua posizione eliminando alcuni nemici interni156, ma cui
sembra creassero difficoltà i comportamenti aggressivi del figlio, che i notabili
goti più schierati su posizioni nazionaliste e antiromane le avrebbero aizzato
contro157. Procopio, cui dobbiamo questa notizia, aggiunge anzi che, dedito
su impulso di costoro a vita dissoluta, il giovane principe non era intervenuto a difendere la madre dalle cospirazioni a suo tempo ordite contro di
lei158. Cassiodoro non vi fa alcun accenno, ma offre una rappresentazione dei
regnanti tale da fornire un’immagine di concordia che possa giustificare sia
l’inerzia del re sia l’attivismo di sua madre.
Così, pur ringraziando e lodando entrambi i sovrani, Cassiodoro non dedica
molta attenzione all’ormai adolescente Atalarico159, ma gli attribuisce autocon151
La nomina di Cassiodoro risale al 1° settembre: vd. Var. IX 24,9; 25,12. Per la discussione di
questa Varia, già oggetto di analisi puntuale in FAUVINET-RANSON 1988, utilizzo e in parte anticipo il
commento da me curato per l’edizione con testo critico, traduzione italiana e commento – attualmente in
corso di stampa – delle Variae coordinata da Andrea Giardina.
152
Notizie su di lei in HARTMANN 1894, 1715 s.; PLRE II, p. 65, Amalasuintha.
153
Concordo con FAUVINET-RANSON 1988, 278 nel ritenere più probabile che si tratti di un’epistola
destinata ad essere letta in senato piuttosto che di un discorso tenuto direttamente dall’autore: l’inserimento nelle Variae rende più plausibile la prima ipotesi.
154
Var. XI 1,2 illud vos amare confidimus, quod et rerum dominos iubere sentimus: primum, ut hoc putemus utile quod honestum, ut nostros actus quasi pedisequa semper iustitia comitetur et quod a continenti
principe non emimus, nulli turpiter venditemus.
155
Vd. rispettivamente Var. XI 1,16 per il senatore (che è Petrus Marcellinus Felix Liberius: vd.
PLRE II 677-681); e 1,18 per Cassiodoro, il quale vi ricorda le opposizioni che Amalasunta ha dovuto
superare per attribuire a lui la prefettura.
156
Proc. BG I 2,27-29.
157
Proc. BG I 2,9 s.
158
Proc. BG I 2,19 s.
159
Le fonti oscillano fra due possibili date di nascita: il 516 (Iord. Get. 304) e il 318 (Iord. Rom. 367;
Proc. BG I 2,1): Atalarico doveva dunque avere almeno 15 anni.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
331
trollo e pietas erga matrem160, così smentendo in modo implicito le voci negative
che potevano circolare su di lui. L’estraneità del giovane sovrano agli atti di
governo è esplicitamente riconosciuta, ma solo per affermare le notevolissime
qualità di sua madre, che sa far fronte a tutti gli impegni lasciandolo libero da
tali occupazioni (§ 4 sub principe feriato matris regnat affectus). Il resto dell’epistola è dedicato all’elogio di Amalasunta, le cui molte qualità delineano il profilo
di una donna colta e capace161, che interviene sempre in modo opportuno ma
evita di mettersi in mostra (§ 8), che ha virtù degne di un sovrano e di un filosofo162, e che possiede – ma in più alto grado – tutte quelle qualità che avevano
separatamente contraddistinto la lunga schiera dei re suoi avi (§ 19).
Quando Cassiodoro scrive, l’aspetto forse più delicato della reggenza di
Amalasunta era rappresentato dai rapporti con l’impero d’oriente e più ancora con i regni romano barbarici. Dopo la morte di Teoderico, il regno goto
aveva infatti subito un ridimensionamento della propria influenza politica e
militare con la perdita del controllo sul regno visigoto163, ed era minacciato
dal crescente potere dei Franchi. Nel confronti di Costantinopoli, Cassiodoro
fa leva sull’orgoglio dei senatori dando il massimo risalto ad uno scacco inflitto a Bisanzio da Vitige, episodio che egli presenta come una vera e propria
conquista di Roma (§ 10 Romanum fecit esse Danuvium)164, mentre tace che
Amalasunta aveva concesso a Giustiniano di utilizzare la Sicilia come base
per la guerra vandalica165. Per quanto invece riguarda i regni romanobarbarici, verso i quali Amalasunta aveva abbandonato la politica interventista del
padre, egli presenta come un successo diplomatico alcune cessioni territoriali
ai Burgundi, che si sarebbero di conseguenza sottomessi166, e minimizza il
160
Cfr. Var. XI 2 a continenti principe; 4 antequam possit populos regere, suis iam coepit moribus imperare; 5 in annis puerilibus didicit servire pietati. Per una analisi approfondita dei singoli punti rinvio al
mio commento.
161
Amalasunta ha piena padronananza del greco, del latino e del gotico (§ 6), lingue che parla con
eleganza e proprietà, utilizzandole per rivolgersi a ciascuno nella sua lingua madre (§7); ha inoltre un’impagabile conoscenza delle lettere (ibidem).
162
Su quest’ultimo aspetto vd. VITIELLO 2006, 129-134. Per una più dettagliata analisi delle virtù
attribuite ad Amalasunta – aequitas e pietas (§15), benignitas (§15 s.), fortitudo (§ 14 e 18), animi firmitas
(§ 17), sapientia, prudentia, constantia (§ 18) – rinvio al mio commento.
163
Che Teoderico aveva amministrato per conto del nipote Amalarico: il passaggio a quest’ultimo del
potere regale comportò per Ravenna la perdita delle tasse spagnole e la riconsegna del tesoro visigoto.
164
Var. XI 10 s. Cassiodoro fa riferimento ad una incursione dei Gepidi, che nel 530, con il supporto
degli Eruli e il tacito assenso di Costantinopoli, avevano tentato di impadronirsi di Sirmio e della Pannonia Sirmiensis (WOLFRAM 1985, 575). Il tentativo era stato stroncato dal generale Vitige, che aveva respinto gli invasori ricacciandoli nella provincia bizantina della Mesia I, dove i Goti avevano saccheggiato la
città di Gratiana. Per tutta la descrizione lusinghiera che Cassiodoro fa della politica militare ostrogota si
rimanda all’analisi di FAUVINET-RANSON 1998, 286-291.
165
Proc. BG I 3,22-25.
166
Var. XI 13 Burgundio quin etiam ut sua reciperet, devotus effectus est, reddens se totus, dum accepisset exiguum. Elegit quippe integer oboedire quam imminutus obsistere: tutius tunc defendit regnum, quando
332
Franca Ela Consolino
pericolo rappresentato dai Franchi. Alludendo infatti alla spedizione franca del 532 contro i Burgundi, che aveva comportato anche l’occupazione
dell’ostrogota Arles, omette il mancato sostegno ai Burgundi167 e presenta il
recupero della città come il deterrente che avrebbe fatto desistere dallo scontro i Franchi di Teoderico I per timore di affrontare l’esercito ostrogoto168.
Passando sotto silenzio o attenuando alcuni problemi aperti (primo fra tutti
la fragilità delle frontiere), e facendo cadere l’enfasi su quegli aspetti (l’amore
di Amalasunta per la cultura classica e la sua femminile riservatezza) cui egli
sa sensibile il senato di Roma169, Cassiodoro fa del suo meglio per convincere
i senatori che la principessa gota ha dato ampia prova di essere capax imperii,
come e più di qualsiasi vir (§ 19 cui virorum laus cedit universa).
Un’opera di convinzione, la sua, che con ogni probabilità non guarda solo
all’oggi. Se – come sostiene Procopio (BG I 3,10) – le pessime condizioni di
salute di Atalarico ne lasciavano presagire la prossima morte, e se Amalasunta
stava cercando soluzioni che consentissero – a lei donna – di conservare il
potere regio anche dopo la morte del figlio, il panegirico di Cassiodoro può
avere avuto anche la funzione di prepararle il terreno. Significative in tal senso
le analogie tematiche con le lodi per le doti sia intellettuali che politiche rivolte a lei – nel frattempo regina – da Teodato, nell’epistola con cui annuncia
come fortemente voluta da Amalasunta la propria cooptazione sul trono170.
Basata su vari aggiustamenti ed alcune omissioni, la rappresentazione molto ottimistica di Cassiodoro chiaramente mira a convincere il senato della
buona salute del regno e a guadagnare stima alla reggente. C’è da supporre
che presso i senatori non maldisposti egli potesse riuscire tanto più convincente (sulla situazione interna e più ancora su quella militare) quanto minore
era la loro informazione di prima mano. Di certo, anche se con il suo ritratto di Amalasunta – peraltro in larga parte coincidente con quello fattone da
Procopio – Cassiodoro non ottenne presso i senatori il consenso desiderato,
diversamente che per Stilicone e Avito il senato fu estraneo alla tragica fine
della figlia di Teoderico.
arma deposuit. Recuperavit enim prece quod amisit in acie. Per contenere l’avanzamento dei Franchi,
intorno al 531 Amalasunta aveva stabilito un’alleanza con il re burgundo Godomaro, cui restituiva il territorio compreso fra la Durance e l’Isère conquistato dal padre nella campagna del 523. Tale restituzione
è vista come una mossa vantaggiosa per i Goti, che – rinunciando a una esigua parte del loro territorio
– sono riusciti ad ottenere la sottomissione di un intero regno.
167
Nonostante la momentanea occupazione franca dell’ostrogota Arles nel 532, i Goti avevano utilizzato le truppe inviate in Provenza solo per ripristinare i confini: vd. WOLFRAM 1985, 540.
168
Var. XI 1,12. Per tutta la descrizione lusinghiera che Cassiodoro fa della politica militare ostrogota si rimanda all’analisi di FAUVINET-RANSON 1998, 286-291.
169
Sulla cultura della reggente come motivo di legittimazione, vd. FAUVINET-RANSON 1998, 292-296.
170
Var. X 4,4-7, per cui rinvio al mio commento, anch’esso in corso di stampa nell’edizione delle
Variae coordinata da Andrea Giardina.
Panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino
333
Pur prospettando una visione che si pretende stabile e di lunga durata,
anche i panegirici che intendano costruire consenso ancorano il loro effetto
di convincimento all’occasione per cui sono stati composti. A questo ovvio
destino l’elogio di Amalasunta sembra in parte sottrarsi, almeno in relazione
alle scelte editoriali dell’autore, che ne favorirono l’efficacia in una prospettiva di durata più lunga rispetto a quella che solitamente riguarda un discorso
di carattere contingente qual è quello cui il panegirico dà voce. Quando Cassiodoro decise di pubblicare le Variae, il regno ostrogoto sembrava ancora in
grado di reagire all’invasione bizantina171. Ma Cassiodoro sarà stato comunque consapevole che – per l’importanza delle epistole da lui scritte e di cui
probabilmente è ormai l’unico ad avere il pieno controllo – la selezione da
tramandare ai posteri avrebbe inevitabilmente influenzato le future opinioni
sui re goti. Da questo punto di vista, è interessante constatare come di tutti
i sovrani goti presenti nella raccolta Teodato sia l’unico di cui le Varie ci diano un ritratto men che positivo. Avido e predace, questi aveva allungato le
mani sulle terre dei vicini, che lo avevano denunciato presso la reggente per
appropriazione indebita. Amalasunta – forse per poterlo rendere accettabile
come futuro sovrano172 – lo fece sottoporre a un normale processo e, una volta
provata la sua colpevolezza, lo costrinse a restituire il maltolto, attirandosene
il risentimento173. Poiché a questo infortunio giudiziario, troppo recente per
essere taciuto, Teodato accenna nell’epistola con cui annuncia al senato la
propria ascesa al trono, Cassiodoro non poteva censurarlo. Nulla invece lo
costringeva a pubblicare due dure reprimende di Teoderico (Var. IV 9; V
12), che sanziona come indegni di un principe i comportamenti predatori del
nipote, all’epoca cittadino privato. Con la loro inclusione fra le Variae, Cassiodoro contribuisce a connotare negativamente, ben prima della sua ascesa al
soglio, questo re avido e inetto, responsabile dell’eliminazione di Amalasunta,
alle cui grandi qualità – umane, culturali, politiche – egli aveva dato particolare enfasi anche grazie alla collocazione del panegirico all’inizio dei due ultimi
libri, contenenti le epistole da lui scritte a proprio nome174.
171
Nell’autunno del 537, cui dovrebbe risalire la pubblicazione delle Variae, i Goti cingevano d’assedio Roma per strapparla ai bizantini che l’avevano occupata. Vd. MOMMSEN 1894, xxx.
172
È la spiegazione che ne dà l’interessato in Var. X 4,4 e coincide con quella di Proc. BG I 4,6.
173
Var. X 4; Proc. BG I 4,1-2.
174
In questo senso, Cassiodoro merita forse un trattamento un po’ meno duro di quello riservatogli da
MOMMSEN 1894, xxiii, il quale gli rimprovera di avere del pari esaltato Amalasunta, il suo assassino Teodato
e il successore di questi Vitige, «quasi adulationis scholam exemplorum varietate commendaturus».
334
Franca Ela Consolino
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PANEGIRICI E ALTRI ‘ELOGI’ NELLE CITTÀ TARDOANTICHE
IGNAZIO TANTILLO
1. La tarda antichità è l’epoca dei cerimoniali1. Un mondo in cui gli status
e le gerarchie sono ribaditi con ossessiva scrupolosità, e in cui la tendenza a
sacralizzare il potere impone che esso sia continuamente ritualizzato attraverso una varietà di strumenti. Un ruolo determinante nel definire il posto
degli individui in tale società avevano le pratiche celebrative, in particolare
quelle basate sul principio dell’ ‘amplificazione’. Tra tali pratiche i panegirici,
discorsi di elogio composti secondo regole precise (kata technên), indirizzati a
differenti categorie di individui, costituiscono senza dubbio le forme più complesse, almeno tra quelle testuali. I panegirici erano prodotti in gran quantità
per una moltitudine di circostanze pubbliche, oltre che private. La documentazione al riguardo è relativamente abbondante, come è noto, anche se distribuita in modo non uniforme; la trattatistica greca è ampiamente sviluppata, al
contrario di quella latina; e se ci sono pervenuti un discreto numero di panegirici imperiali dall’Occidente come dall’Oriente, in prosa e in versi, le notizie
sugli elogi di governatori e benemeriti di vario tipo (che dovevano costituire
il grosso della produzione), sono assai più numerose per la parte orientale che
per quella occidentale2. Se non v’è dubbio che il discorso d’elogio rappresentava un elemento caratterizzante della vita politica di tutte le città, anche di
tanti capoluoghi di provincia e borghi meno importanti, la nostra conoscenza
della penetrazione e della circolazione di questo apprezzato ingrediente della
* Tengo a ringraziare Andrea Giardina e Giovanni Alberto Cecconi, che hanno letto una prima
versione di questo contributo aiutandomi a migliorarlo. Sono riconoscente a Klaus Hallof e a Stephen
Mitchell per le informazioni che mi hanno voluto fornire sulle due iscrizioni qui discusse. Ringrazio
anche G. Bandelli, F.E. Consolino, E. La Rocca, G.W. Most per i suggerimenti datimi durante la discussione. Rimane inteso che la responsabilità di quanto sostengo in questa sede è solo mia.
1
È un «age of ceremony»: P. BROWN, Power and Persuasion in Late Antiquity. Towards a Christian
Empire, Madison, Wisconsin - London 1992, 56.
2
Basti qui un rimando al fondamentale lavoro di L. PERNOT, La rhétorique de l’éloge dans le monde
gréco-romain, I-II, Paris 1993. Per il mondo latino, e la tarda antichità, si vd. ora la sintesi di R. REES,
Panegyric, in W. DOMINIK - J. HALL (edd.), A Companion to Roman Rhetoric, Oxford 2007, 136-148;
anche D. RUSSEL, The Panegyrists and Their Teachers, in M. WHITBY (ed.), The Propaganda of Power. The
Role Of Panegyric In Late Antiquity, Leiden 1998, 18-49. Sulla rarità di informazioni sui panegirici non
imperiali in lingua latina, vd. anche infra.
338
Ignazio Tantillo
vita cerimoniale tarda al di fuori dell’ambito delle ‘capitali’ è limitata o largamente indiretta3.
Gli stessi spazi dove si tenevano spesso queste performances oratorie, le
aree pubbliche delle città, ospitavano un’altra forma di celebrazione di imperatori e funzionari, documentata in modo assai più capillare: quella costituita
dalle iscrizioni che corredavano i monumenti onorari eretti per omaggiarli. Le
due forme di celebrazione, pur ovviamente diverse, erano legate tra loro più
di quanto forse non si immagini di solito.
2. Nell’anno 501 o 502, il retore Procopio pronunciò nel teatro di Gaza un
panegirico dell’imperatore Anastasio. L’occasione era offerta dalla dedica di
una statua del sovrano. Procopio prese la parola di fronte alla folla dei suoi
concittadini che si accalcava intorno all’effigie regale, mostrandole il dovuto
rispetto, consapevole di «ricevere l’imperatore stesso attraverso la sua immagine» (un concetto ben radicato nella mentalità antica4). La cosa non stupisce:
è probabile che – come gli inni che erano spesso recitati di fronte ai templi
o alle statue divine – gli encomi fossero spesso pronunciati nei pressi di una
statua o di un’effigie del sovrano, del patrono o del governatore lontani5. Nel
caso specifico, il compito di comporre il discorso era stato conferito al retore
dalla boulê, il consiglio composto dai notabili locali, affinché l’evento fosse
degnamente commemorato e all’omaggio della statua si accompagnasse un
bel discorso: «sono i logoi a onorare le tue immagini, e le gare oratorie e,
di conseguenza le Muse stesse» dice Procopio6. Poco prima di formulare gli
3
Vd. le considerazioni di A. Giardina, in ID. - M. SILVESTRINI, Il principe e il testo, in G. CAVALLO - P.
FEDELI - A. GIARDINA (edd.), Lo spazio letterario di Roma antica. II. La circolazione del testo, Roma 1989, 603.
4
La statua garantisce una praesentia al personaggio lodato: PanLat 4,3,1 con il commento di R.
REES, Layers of Loyalty in Latin Panegyric: AD 289–307, Oxford 2002, 13-15; su questa prerogativa delle
statue, da ultimo P. STEWART, The Image of the Roman Emperor, in R. MANIURA - R. SHEPHERD (edd.),
Presence. The Inherence of the Prototype within Images and other Objects, Aldershot 2006, spec. 251-252.
5
PERNOT, La rhétorique…, 441 ss. L’apostrofe alla seconda persona singolare, in caso di panegirici
pronunciati in absentia del destinatario della lode, può significare che il retore si trovava presso un’effige
imperiale: C. ANDO, Imperial Ideology and Provincial Loyalty in the Roman Empire, Berkeley - Los Angeles 2000, 251. La legge prevedeva che le statue dei governatori fossero collocate solo a mandato scaduto
(D. ERKELENZ, Rechtsregelungen zur Verleihung von Ehrungen in Republik und Kaiserzeit, “Hermes” 131,
2003, 67-89): eventuali discorsi che accompagnavano tale occorrenza erano quindi pronunciati in absentia del dedicatario.
6
Proc. Gaz., Pan. Anast. 29: logoi; de; ta;" sa;" eijkovna" timw`si kai; lovgwn ajgw`ne" kai; dia; touvtwn
aiJ Mou`sai. Su questo discorso e la sua datazione: A. CHAUVOT, Procope de Gaza, Priscien de Césarée.
Panégyriques de l’empereur Anastase 1er, Bonn 1986, 97; ne esistono due edizioni recenti: quella a cura di
G. MATINO (Procopio di Gaza. Panegirico per l’imperatore Anastasio. Introduzione, testo critico, traduzione e
commentario, Napoli 2005; da integrare con le osservazioni di R. ROMANO, “Nea Rhome” 6, 2009, 127-132;
G. VENTRELLA, “Byzantion” 80, 2010, 461-484) e quella di E. AMATO per la Teubneriana (Procopius Gazaeus.
Scripta rhetorica et oratoria quae exstant omnia, Berlin - New York 2007).
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
339
auguri di rito, il retore suggerisce quale dovrà essere il testo da incidere sul
piedistallo del monumento: «la città al benefattore, per merito del quale ora
sollevo il capo orgoglioso, e sono una città»7.
Non sappiamo se queste parole furono davvero incise sul piedistallo della statua di Anastasio (né v’è ragione per dubitarne: lo stile ‘epigrammatico’
del testo proposto da Procopio è accettabile per una dedica imperiale di V
secolo)8. Poco importa. Non c’è dubbio infatti che tante altre epigrafi prima
di quella – composte per glorificare imperatori, più spesso i loro rappresentanti o altri benefattori – erano state commissionate a uomini di lettere, in
Oriente e, in misura diversa, in Occidente. Insomma, anche se il loro nome
di norma non compare (si tratta in genere di onori resi a titolo pubblico), a
redigere il testo delle epigrafi potevano essere gli stessi cui toccava pronunciare i discorsi d’elogio9. D’altronde, anche se non disponessimo di questa bella
testimonianza di Procopio, siamo informati a sufficienza sul fatto che la dedicatio delle statue era accompagnata da varie cerimonie, nelle quali le lodi del
personaggio onorato potevano avere una parte di rilievo10. La maggioranza di
tali discorsi, come in generale gran parte dei logoi d’occasione, non era destinata alla pubblicazione11, e solo in circostanze particolari essi erano fatti circolare in forma scritta12. Quei frammenti, quei distillati di elogio trasposti sulla
pietra erano spesso l’unica cosa che rimaneva (in realtà precedendola, poiché
7
§ 30: hJ povli" to;n eujergevthn, di j ou| nu`n aujcevna te gau`ron ejpaivrw kai; povli" eijmiv. Queste
importanti informazioni di Procopio sulle cerimonie che si svolgono intorno alla statua imperiale non
sono repertoriate da Th. PEKÁRY, Das römische Kaiserbildnis in Staat, Kult und Gesellschaft, dargestellt
anhand der Schriftquellen, Berlin 1985, che rimane lo studio di riferimento per tali problematiche.
8
Cfr. p.es. R.H.W. STICHEL, Die römische Kaiserstatue am Ausgang der Antike. Untersuchungen zum
plastischen Kaiserporträt seit Valentinian I. (364-375 n. Chr.), Roma 1982, 100 n. 110; 102 n. 118; 103 n.
121; 104 n. 129 etc.
9
Talora gli uomini di lettere potevano agire in modo indipendente rispetto alla cittadinanza: ancora
in età avanzata, cfr. p.es. il caso delle statue ateniesi con dediche al prefetto Herculius poste nei primi
anni del V secolo dai sofisti Aproniano (IG II2 4225; L. ROBERT, Hellenica. IV. Epigrammes du Bas-Empire,
Paris 1948, 41-43) e Plutarco (IG II 2 4224; ROBERT, Hellenica…, 73; 95-96; esse potrebbero essere opera
di uno solo dei due: B. PUECH, Orateurs et sophistes grecs dans les inscriptions d’époque impériale, Paris
2002, n. 29).
10
Ora ANDO, Imperial Ideology…, 250-253.
11
PERNOT, La rhétorique…, 465 ss. La documentazione epigrafica serba traccia solo raramente della
stessa esistenza di queste performances: tra i documenti più significativi v’è l’iscrizione efesina che testimonia di un epainos pronunciato da un oratore durante una festività (forse una gara oratoria), e del quale
la città aveva richiesto formalmente una versione scritta vincendo le resistenze dell’autore (M. DEBRUNNER HALL, Reluctant Rhetor, “ZPE” 91, 1992, 121-128). Naturalmente diverso è il caso delle iscrizioni
che riportano il testo di un atto ufficiale (decreto, epistola imperiale…) contenente una più o meno
sviluppata sezione laudativa: solo p.es. IKEphesos 41 che riproduce il testo della lettera di Costanzo II
sugli onori da tributare a Fl. Philippus (su cui L.J. SWIFT - H. OLIVER, Constantius II on Flavius Philippus,
“AJPh” 83, 1962, 247-264).
12
Per la tarda antichità la testimonianza di Libanio (p.es. or. 1,72.111-113; ep. 345,1) mostra che
copie venivano richieste e talora pubblicate a loro spese dai destinatari della lode.
340
Ignazio Tantillo
tenderei a credere che l’iscrizione fosse realizzata prima) di un’esperienza più
grandiosa, di una festività cittadina scandita da eulogie e acclamazioni corali,
colorata di musica e profumi: l’oratore, magari solo un retore o un semplice
grammatico locale, che aveva pagato con l’elogio il suo debito all’onorando,
poteva consolarsi nel vedere fissate quelle poche parole, esigua e anonima
traccia del suo contributo, in una dimensione temporale ben più ampia, quella che conferiva loro l’esser scolpite nella pietra o nel bronzo. Le epigrafi
‘d’autore’ non costituivano naturalmente la maggioranza. Ma il rapporto tra
encomi e iscrizioni non veniva a mancare da altri punti di vista. Si è detto che
i discorsi erano di frequente pronunciati in luoghi pubblici, il teatro o il foro,
talora davanti alla statua del laudandus, che si aggiungeva al nutrito gregge
delle statue di imperatori del passato, di funzionari romani, di magistrati cittadini. Le iscrizioni sotto quelle statue, soprattutto quelle poste negli spazi
politicamente e simbolicamente importanti, passavano tutt’altro che inosservate. Sappiamo che almeno alcune di esse venivano lette con attenzione, talora
erano trascritte (o riassunte nel contenuto) e citate, con finalità diverse, in
opere letterarie di vario genere13, anche in composizioni di tipo encomiastico:
si pensi alla descrizione da parte di Eusebio dell’effigie di Costantino nel foro
di Roma, e della controversa epigrafe sulla sua base14. Nell’oriente greco tardoantico, dove le iscrizioni dedicatorie (di statue e di altro) erano tipicamente
brevi componimenti in versi, questi erano spesso copiati e molti di essi ci sono
giunti per via letteraria, oltre che epigrafica15.
Ben inteso, per quanto le due pratiche celebrative fossero a contatto, esse
rimanevano cose distinte, e non v’è bisogno di spiegare perché. Anche l’epigrafia collegata ai monumenti onorari è, in un certo senso, un ‘genere’. Possiede una propria tradizione e un proprio repertorio di lingua e di stile canonizzatosi nel periodo ellenistico-romano, in forme diverse nella province di
lingua greca e in quelle di lingua latina. Tuttavia, l’epigrafia tarda – quella del
13
L’interesse degli autori per le iscrizioni è antico: S. WEST, Herodotus’ Epigraphical Interests, “CQ”
35 (1985), 278-305. Esistevano raccolte di iscrizioni pubbliche riunite a scopo storico-documentario
(C. HIGBIE, Craterus and the Use of Inscriptions, “TAPhA” 129, 1999, 43-83). Per il periodo imperiale,
emblematico è il caso di Pausania: Chr. HABICHT, Pausanias and the Evidence of Inscriptions, “ClAnt”
3 (1984), 40-56; H. WHITTAKER, Pausanias and His Use of Inscriptions, “SO” 66 (1991), 171-186. Per
l’uso dell’epigrafia in altri generi letterari, vd. p.es. P. LIDDEL, Scholarship and Morality: Plutarch’s Use of
Inscriptions, in A.G. NIKOLAIDIS, The Unity of Plutarch’s Work. ‘Moralia’ Themes in the ‘Lives’, Features
of the ‘Lives’ in the ‘Moralia’, Berlin - New York 2008, 125-137.
14
Eus. HE 9,9,10 ss.; Tr. 9,8; VC 1,40,2.
15
Cfr. p.es. A. CAMERON, Porphyrius the Charioteer, Oxford 1973; C. MANGO, Epigrammes honorifiques, statues et portraits à Byzance, in jAfievrwma sto;n Nivko Sborw`no, I, Rethymno 1986, 23-35 [= C.
MANGO, Studies on Constantinople, Aldershot 1993]. Talora poteva accadere l’inverso: cfr. p.es. l’epigramma di Gregorio di Nazianzo in onore di un Prefetto al pretorio, maldestramente riadattato in un
elogio funerario d’Egitto (ora PUECH, Orateurs…, 315-316).
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
341
periodo che interessa – è diversa da quella precedente, sia in Oriente sia in
Occidente. A partire dal III sec. d.C., in effetti, il linguaggio delle iscrizioni
onorarie cambia, si diversifica. Sempre maggior spazio vi è consacrato a quelle
che talora vengono definite le “titolature non ufficiali” degli imperatori, o gli
“elogi delle virtù” dei funzionari, che tendono a sostituirsi all’elenco dei titoli
e delle cariche che costituiva il nucleo dell’epigrafia onoraria dei primi secoli;
si assiste anche all’irrompere nello spazio epigrafico di elementi tratti da altri
generi, ovvero alla trasposizione sul piano celebrativo di forme, pure epigrafiche, ma prima confinate all’ambito privato. Il processo di trasformazione può
ritenersi compiuto nell’età di Diocleziano in entrambe le partes16.
Il grado di interazione tra elogi epigrafici, in versi e prosa, i precetti della retorica epidittica o le sue applicazioni concrete costituisce un campo di
studio di grande interesse, che può portare a un arricchimento delle nostre
conoscenze sia nell’ambito degli studi letterari sia in quello degli studi propriamente epigrafici e, più in generale, a una migliore comprensione della vita
cerimoniale nelle città del mondo tardoantico17. L’esigenza di studi complessivi su queste reciproche influenze tra generi è sentita soprattutto per il mondo
latino e più in particolare per l’elogio dei senatori, funzionari, o (in misura
assai più ridotta) dei membri delle aristocrazie municipali: alla scarsità di riferimenti a panegirici non imperiali in lingua latina fa fronte un considerevole
numero di elogi epigrafici, talora estremamente elaborati (penso alle dediche
della Roma di IV e V secolo, ma anche a molti documenti simili dall’Italia peninsulare e dalle province del nord-Africa)18: la stessa esistenza di questi elogi
epigrafici sembra indicare che anche l’Occidente fosse familiare con le tecni16
Cfr. p.es. per il mondo latino V. NERI, L’elogio della cultura e l’elogio delle virtù politiche nell’epigrafia latina del IV secolo d.C., “Epigraphica” 43 (1981), 175-201; A. CHASTAGNOL, Le formulaire de
l’épigraphie latine officielle dans l’antiquité tardive, in A. DONATI (ed.), La terza età dell’epigrafia. Colloquio
AIEGL-Borghesi 86, Bologna 1986, Faenza 1988, 11-64; O. SALOMIES, Observations on the Development
of the Style of Latin Honorific Inscriptions during the Empire, “Arctos” 28 (1994), 63-106; da ultimo R.
DELMAIRE, Un genre en voie de disparition: les cursus épigraphiques au Bas-Empire, in J. DESMULLIEZ - Chr.
HOËT-VAN CAUWENBERGHE (edd.), Le monde romain à travers l’épigraphie. Méthodes et pratiques, Actes du
XXIVe Colloque International Lille 2001, Lille 2005, 247-270. Per il mondo greco: ROBERT, Hellenica…;
Ch. ROUECHÉ [- J.M. REYNOLDS], Aphrodisias in Late Antiquity, London 1989 [d’ora in poi citato come
ALA]; EAD., Written Display in the Late Antique and Byzantine City, in E. JEFFREYS (ed.), Proceedings of
the 21st International Congress of Byzantine Studies, Aldershot 2006, 235-254.
17
In questo senso è benvenuto il lavoro di M. CRETÉ, Les formes de l’éloge dans les inscriptions honorifiques du Latium et de la Campanie (IIe-IVe siècle ap. J.-C.), “MEFRA” 122 (2010), 191-226; di prossima
discussione presso l’Università di Nizza è la tesi della stessa studiosa su questi temi (Vertus aristocratiques
et rhétorique de l’éloge dans les inscriptions honorifiques d’antiquité tardive).
18
Varie centinaia di elogi epigrafici in latino a fronte di una manciata di allusioni a discorsi encomiastici di funzionari; non considero qui i panegirici come quelli di Claudiano per Stilicone, di Merobaude
per Ezio, di Cassiodoro per Eutarico, visto che si riferiscono a figure di palazzo, imparentate con la
famiglia regnante o di eccezionale rilievo politico.
342
Ignazio Tantillo
che e le pratiche dell’elogio, e che quest’ultimo svolgesse un ruolo importante
nella vita politica di tante sue città19.
Poiché in questa sede ci si occuperà di elogi epigrafici e panegirici in onore
degli imperatori – per lo più dediche in prosa poste su basi di statua20 – saranno sufficienti brevi cenni alle loro caratteristiche. Gran parte di essi non
si limitano al nome e agli epiteti di rito ma contengono una o più sezioni
laudative. Queste si presentano spesso come collage – assemblati più o meno
efficacemente – di ritagli di titolatura, di acclamazioni, o di altri slogan che
si ritrovano altrove21. Talvolta invece si tratta di testi più complessi, costruiti
in modo coerente e caratterizzati da uno stile più ricercato, come si vedrà fra
poco. In un caso o nell’altro, è importante sottolineare che non si incontrano praticamente mai due iscrizioni perfettamente eguali, come capita invece
nell’alto impero, e nondimeno si rileva una sostanziale omogeneità: gli stessi
imperatori appaiono celebrati, con espressioni simili, da un capo all’altro del
Mediterraneo. Non stupisce perciò che tra gli storici, anche se con sfumature
rilevanti, si sia diffusa la tendenza a considerare queste testimonianze come
veicolo di una ‘propaganda’ (il termine è divenuto d’uso comune) centrale,
strumenti consapevoli (o, più di rado, inconsapevoli) di campagne di indottrinamento e di manipolazione dell’opinione. Alcuni studiosi, concentrandosi
sulle formule ricorrenti per ciascun regno o addirittura per ciascuna delle
sue varie fasi, hanno tentato di ricostruire il messaggio originale di cui queste
formulazioni sarebbero il più o meno libero riflesso, in quanto risultato della
ricezione e della rielaborazione di quel messaggio in ambito periferico22. Un
19
L’elogio non è cosa da romani, recita un cliché che gli stessi romani amavano ripetere: Cic. de or.
2,341; il principio è già affermato dall’autore della Rhetorica ad Herennium: PERNOT, La rhétorique…,
106-111 con le altre testimonianze. A parte le laudationes funebri e le gratiarum actiones, le occasioni per
discorsi di tipo epidittico erano certamente meno numerose che nel mondo greco. Ma immaginare che i
governatori di provincia non ricevessero l’omaggio di un discorso al loro arrivo e alla loro partenza nelle
province dell’Occidente pare davvero inverosimile: ciò è indirettamente smentito dalla testimonianza di
Apuleio (flor. 17) che mostra come i meccanismi del rapporto oratore-governatore nella Cartagine del
II secolo non erano dissimili da quelli che troviamo, p.es., nell’Antiochia di Libanio (il retore vuole parlare all’aperto in pubblico, e vince le resistenze del proconsole); la stessa testimonianza presuppone che
l’elogio del governatore fosse parte integrante del suo adventus e del cerimoniale politico nei capoluoghi
di provincia: su tutta la questione vd. A. LA ROCCA, Il filosofo e la città. Commento storico ai Florida di
Apuleio, Roma 2005, 256-258.
20
Ma anche sui miliari: sul carattere ‘onorario’ dei miliari tardi, P. SALAMA, Bornes milliaires d’Afrique proconsulaire: un panorama historique du Bas-Empire romain, Roma 1987, 58-59.
21
Non ultimo nelle leggende monetarie, un altro medium con una sua tradizione consolidata di
formule, e con il quale il linguaggio epigrafico occasionalmente interagisce: vd., p.es., A. CHASTAGNOL,
Les inscriptions constantiniennes du cirque de Mérida, “MEFRA” 88 (1976), 259-276 [= ID., Aspects de
l’Antiquité Tardive, Roma 1994, 43-59].
22
Cfr. p.es. Th. GRÜNEWALD, Constantinus Maximus Augustus. Herrschaftspropaganda in der zeitgenössischen Überlieferung, Stuttgart 1990 che immagina una propaganda pianificata dalla cancelleria e
un controllo centrale sui messaggi da diramare all’esterno; cfr. la critica a questa impostazione del pro-
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
343
approccio sostanzialmente simile è applicato talora anche all’analisi dei panegirici23. Come dovendo ricostruire un archetipo, dalle varianti si tenta di
risalire all’originale, a una versione ufficiale elaborata a corte, di cui sarebbero
appunto espressione epigrafi, panegirici, monete e altro.
3. Per esemplificare e approfondire quanto finora tratteggiato sul rapporto
tra formulari epigrafici, panegirici e rappresentazione pubblica dell’imperatore, ci si servirà di due documenti dell’età di Giuliano. L’epigrafia di Giuliano
è, nonostante la brevità del suo regno, numericamente molto ricca, soprattutto
rispetto agli standard quantitativi del IV secolo24; anche dal punto di vista testuale, le iscrizioni di Giuliano – in particolare le dediche di statua ma anche i
miliari – presentano formulazioni affatto originali25. Abbondanti sono le fonti
che riguardano la vicenda di questo imperatore, che ha lasciato a sua volta un
considerevole corpus di scritti. Tutto ciò fa sì che un confronto tra iscrizioni
giulianee e testimonianze di altro tipo possa rivelarsi particolarmente fruttuoso.
Il primo documento proviene da Ancyra (Ankara) ed è conosciuto da tempo. Si tratta dell’iscrizione posta sulla base di una statua dedicata a Giuliano
dal prefetto al pretorio d’Oriente Saturninus Secundus Salutius. Salutius è
un personaggio noto, della cui brillante carriera sarà utile riassumere alcune
tappe: di origine gallica, dopo una serie di incarichi era stato affiancato al Cesare Giuliano, forse come quaestor con il rango di comes consistoriano. Uomo
colto (conosceva bene il greco) e pagano convinto, si era guadagnato la fiducia
e l’amicizia del giovane principe con cui collaborò fino a quando l’Augusto
Costanzo, insospettito, non lo fece richiamare. Più tardi Giuliano, ormai solo
regnante, lo nominò prefetto al pretorio al suo arrivo a Costantinopoli. Da
quel momento Salutius rimase sempre al fianco del principe che seguì nella
sfortunata avventura persiana. A ragione questa statua e l’epigrafe che la correda sono state messe in relazione con il passaggio del corteo imperiale per
Ancyra, nella tarda primavera del 362. Eccone il testo26:
blema da parte di C.E.V. NIXON, Constantinus Oriens Augustus: Propaganda and Panegyric. On reading
Panegyric 7 (307), “Historia” 42 (1993), 229-246.
23
E delle monete: un’eccellente introduzione al problema per quanto riguarda il rapporto tra monete e propaganda in R. HEDLUND, “… Achieved nothing worthy of memory”. Coinage and Authority in the
Roman Empire c. AD 260-295, Uppsala 2008.
24
Vd. I. TANTILLO, Le trasformazioni del paesaggio epigrafico nelle città dell’Africa romana, in C.
MACHADO - C. WITSCHEL, Epigraphic Cultures of Late Antiquity, Conference, Heidelberg 2009, c.d.s.
25
Le ragioni sono molteplici: l’entusiasmo suscitato dalle grandi riforme in campo politico e religioso di Giuliano, la sua capacità di comunicatore, lo stile, affatto originale, della sua legislazione (su cui ora
J.-M. CARRIÉ, Julien législateur: un mélange des genres?, “AnTard” 17, 2009, 175-184). Per alcuni esempi
di iscrizioni giulianee caratterizzate da formulari complessi e originali, cfr. infra nt. 63.
26
CIL III 247 = ILS 754 = Conti 2004, n. 20. Vd. anche J. ARCE, Estudios sobre el Emperador Fl. Cl.
344
Ignazio Tantillo
Domino totius orbis / Iuliano Augusto / ex Oceano Britannico vi(i)s per / barbaras
gentes / strage resistenti/um patefactis adus/que Tigridem una / aestate transvec/to Saturninius / Secundus v(ir) c(larissimus) .p.r.a.e.f (ectus)27 / praet(orio) [d(evotus)] n(umini)
m(aiestati)q(ue) [ei(us)]
Anche a un primo superficiale esame, il dettato dell’epigrafe si rivela
tutt’altro che ordinario28, al di là dell’apparente banalità dei temi evocati (vittoria sui barbari, velocità dell’imperatore, dominio cosmocratico) e di alcune
espressioni formulari29. Si osservi intanto che il testo sembra annunciare come
realizzato quanto tecnicamente non è ancora avvenuto: il raggiungimento delle sponde del Tigri. Quella dell’imperatore che in un anno aveva attraversato il mondo dalla Manica al Tigri non è forse solo un’iperbole (una aestate
transvectus, anche l’uso di questo verbo è interessante per le associazioni che
evoca30), ma potrebbe riflettere il clima di entusiasmo per l’avvento del nuovo
principe e persino vagheggiare già l’impresa persiana.
Vale la pena di soffermarsi a esaminare il modo in cui i temi sono contestualizzati e sviluppati. Si noterà che la discesa lungo il Danubio nell’estate
361, la spedizione preparata per affrontare Costanzo II in quella che allora
si profilava come un’inevitabile guerra, è descritta come una fulminea campagna militare contro i nemici esterni (viis per barbaras gentes patefactis). Ciò
corrisponde esattamente alla versione che della campagna del 361 aveva fornito il panegirista Mamertino nel gennaio 362 (PanLat 3 (11),7,1-5; ed. R.A.B.
Mynors, Oxford 1964)31:
Juliano. Fuentes literarias. Epigrafía. Numísmatica, Madrid 1984, n. 111; K. DIETZ, Kaiser Julian in Phönizien,
“Chiron” 30 (2000), 821; G. DE JERPHANION, Inscriptions grecques et latines d’Angora, “Mél. Fac. Orient.
Univ. Saint Joseph” 13 (1928), 234-235 con una foto della posterula ove fu murata l’iscrizione (tavola 103.3).
27
Le lettere PRAEF erano integrate da Mommsen sulla base del confronto con l’iscrizione urbana
in onore dello stesso personaggio (CIL VI 1764 = ILS 1255); DE JERPHANION, Inscriptions…, 234-235
afferma di averne potuto riconoscere la parte superiore.
28
Non deve ovviamente stupire il fatto che l’epigrafe sia redatta in latino: la cosa è piuttosto frequente dall’età di Diocleziano e non è collegata all’origine del funzionario dedicante (D. FEISSEL, Les
inscriptions latines dans l’Orient protobyzantin, in Akten des XIV. internationalen Kongresses für christliche
Archäologie, Wien 1999, Citta del Vaticano - Wien 2006, 99-129; vd. anche le considerazioni generali dello
stesso Feissel nella Conférence d’Ouverture dell’Ecole pratique del 2000, ora in Documents, droit, diplomatique de l’Empire romain tardif, Paris 2010, 3-4): per limitarsi al periodo considerato, in latino sono le
iscrizioni in onore di Giuliano di Efeso e Pergamo (cit. infra ntt. 29, 43 e 63), opera del proconsole d’Asia
Dulcitius, d’origine frigia (PLRE I, 274 s.v. Dulcitius 5); e in latino è la dedica a Costanzo II da Tralles (ILS
733), posta da un altro proconsole di origine orientale, Fl. Magnus (PLRE I, 535 s.v. Magnus 9).
29
Domino totius orbis ricorre anche in CIL III 7088 = ILS 751 = IPergamon 633 = S. CONTI, Die
Inschriften Kaiser Julians, Stuttgart 2004 [da ora in poi citato solo come Conti], n. 28; la menzione delle
gentes barbarae è frequente nelle iscrizioni onorarie, non lo è invece il sostantivo strages.
30
Il verbo suggerisce il suo movimento, il passaggio effettuato con una nave, con un cavallo o con
un carro (OLD 1968); Ammiano (22,2,3) confronta Giuliano con Trittolemo e il suo carro alato.
31
Il parallelo con Mamertino, limitatamente a quel che concerne i successi sui barbari evocati
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
345
Sufficere quidem poterat ad expeditionem praesentium negotiorum sola properatio, sed
non sufficit principi nostro publicae rei una ratione consulere. Multa pariter aggreditur
pectus nullis umquam laboribus fatigatum. Ut uno eodemque tempore et componeret
fidissimarum provinciarum statum et barbariam omnem admoto propius terrore percelleret, longissimo cursu Histrum placuit navigari. Pro sancta divinitas! Quae navigationis
illius fuit pompa, cum dexteriorem incliti fluminis ripam utriusque sexus, omnium ordinum, armatorum atque inermium perpetuus ordo praetexeret, despiceretur ad laevam
in miserabiles preces genu nixa barbaria! Omnes urbes quae Danuvium incolunt aditae,
omnium audita decreta, levati status instaurataeque fortunae, innumerabilibus barbaris
data venia et munus pacis indultum. Qui properationem illam contemplabitur, nihil
egisse praeter viam imperatorem putabit; qui gestarum rerum multitudinem considerabit, properasse non credet.
Nessun accenno ai propositi aggressivi di Giuliano, all’intenzione di cogliere
di sorpresa Costanzo, ma solo questa raffigurazione del rapido ed efficace intervento del principe a vantaggio dei provinciali, dei barbari che si prostrano e
delle città che gioiscono32. La velocità dell’azione del sovrano è un luogo comune della tradizione eulogistica: un cliché che, tuttavia, in questo caso almeno,
trovava conferma e si rafforzava nella realtà dei fatti33. Una simile rilettura degli
avvenimenti, una simile distorsione, era stata resa possibile dall’inattesa morte
di Costanzo, sopravvenuta prima che i due cugini potessero scontrarsi: ciò aveva risparmiato a Giuliano l’imbarazzo di dover dichiarare suo cugino un tyrannus. Quella che era nata e concepita come una campagna militare in una guerra
civile poteva esser trasformata ora in qualche cosa di meno scabroso, persino di
eroico. Ed è quello che fanno il panegirista e il redattore della nostra epigrafe.
Poi la menzione dell’Oceano Britannico e del principe che attraversa il
mondo muovendo dai suoi estremi confini: il tema manca in Mamertino. Un
tema che si sbaglierebbe a liquidare come un cliché banale o insignificante (la
letteratura è piena dell’immagine del dio, dell’uomo, dell’eroe che attraversa il
dall’iscrizione in esame, è segnalato anche da S. CONTI, Un aspetto della propaganda imperiale tardoantica: la titolatura di Giuliano nelle fonti letterarie ed epigrafiche, “Koinonia” 30-31 (2006-2007), 33 che
propone un confronto pure con Amm. 16,1,1 e soprattutto con Lib. or. 24,37. Sulla velocità dell’imperatore, concetto collegato a quello della sua ubiquità, F. BURDEAU, L’Empereur d’après les panégyriques
latins, in F. BURDEAU - N. CHARBONNEL - M. HUMBERT, Aspects de l’Empire Romain, Paris 1964, 21.
32
Sulla distorsione dei fatti operata da Mamertino, vd. già R. PICHON, Les derniers écrivains profanes, Paris 1906, 117-118; S. MACCORMACK, Latin Prose Panegyrics, in T.A. DOREY (ed.), Empire and Aftermath. Silver
Latin II, London - Boston 1975, 184-185; C.E.V. NIXON in ID. - B. SAYLOR RODGERS, In Praise of Later Roman
Emperors. The Panegyrici Latini, Berkeley - Los Angeles - Oxford 1994, 405 nt. 47; cfr. anche R.C. BLOCKLEY,
The Panegyric of Claudius Mamertinus on the Emperor Julian, “AJPh” 93 (1972), 442.
33
Il passaggio dal Reno ai Balcani era stato effettivamente molto rapido: Giuliano era partito nella
primavera inoltrata del 361, a dicembre era entrato a Costantinopoli e di qui si era mosso nella primavera
successiva: T.D. BARNES, Athanasius and Constantius: Theology and Politics in the Constantinian Empire,
Cambridge Mass. 1993, 228. La velocità dell’imperatore è sottolineata dalle fonti: Amm. 29,9,2 etc.; Lib.
or. 12,63-64; 18,111-112; Greg. Naz. or. 4,47; Zos. 3,10,3.
346
Ignazio Tantillo
mondo da un capo all’altro…). Quest’immagine – questo cliché se si preferisce – era stata valorizzata (diremmo ‘risemantizzata’) sotto Costantino, e in un
senso particolare, come illustra una serie di documenti. Nella celebre lettera
ai provinciali di Palestina, conservataci da Eusebio ma la cui paternità costantiniana non è più in dubbio (proprio alcune parti di essa furono riconosciute
da Jones in un papiro egiziano34), vediamo l’imperatore ormai unico sovrano
dell’impero, rievocare con orgoglio le sue imprese, e presentarle come una
sorta di missione : «Dio stesso ha ricercato e giudicato adatto ai suoi fini il mio
servizio: infatti cominciando dal mare che bagna la lontana Britannia e dalle
regioni sulle quali il disegno di una forza superiore ha predisposto il tramonto
del sole, io ho scacciato tutti i mali esistenti … e sono da ultimo giunto fino alle
terre d’Oriente… [trad. Tartaglia]»35. Ovviamente Costantino allude alla sua
acclamazione a York, forse alle guerre contro i Franchi, certamente a quelle
contro Massenzio e poi contro Licinio, a tutte le vittorie, appunto, che avevano
accompagnato la sua opera di liberazione del mondo dalle diverse tirannie. La
lettera di Costantino – è specificato al suo termine – era destinata a esser affissa
nei luoghi pubblici, come era uso per gli editti e altre comunicazioni imperiali; quasi certamente, quest’epistola era affiancata da testi simili per le altre
province d’Oriente. In ogni caso, l’immagine del sovrano venuto dai confini
del mondo a liberare l’umanità seguendo un corso preciso circolava. Vale la
pena di insistere ancor un po’ sul punto. Tale rappresentazione dell’imperatore
era nata tempo prima e si era andata gradualmente elaborando. Nel panegirico pronunciato a Treviri nel 310 se ne trova quello che potremmo definire il
nucleo, la versione embrionale. Per celebrare il suo principe, allora padrone
delle sole province settentrionali, l’oratore propone un elogio che potremmo
definire ‘paradossale’ della lontana e selvaggia Britannia, luogo sperduto per
antonomasia. Con un rovesciamento dell’immagine consueta, l’isola diviene un
landa fortunata perché la luce del sole non l’abbandona mai; si ricorda inoltre
che «le nuove divinità, destinate ad essere venerate dal mondo intero, provengono sempre da qualche remotissima regione della terra» (semper ex aliquo
supremo fine mundi nova deum numina universo orbi colenda descendunt), e
perciò che i luoghi «più vicini al cielo» sono più sacri di quelli mediterranei36.
34
Il P.Lon 878: A.H.M. JONES, Notes on the Genuineness of the Constantinian Documents in Eusebius’ Life of Constantine, “JEH” 5 (1955), 196-200; sulla questione, vd. F. WINKELMANN, Zur Geschichte
des Authentizitätsproblems der Vita Constantini, “Klio” 40 (1962), 187-243; da ultimo A.J. CARRIKER, The
Library of Eusebius of Caesarea, Leiden - Boston 2003, 289-290.
35
Eus., Vita Const. 2, 28,2-29,1 (ed. F. WINKELMANN, Berlin 19912): th;n ejmh;n uJphresivan pro;" th;n
eJautou` bouvlhsin ejpithdeivan ejzhvthsevn te kai; e[krinen, o}" ajpo; th`" <pro;"> Brettanoi`" ejkeivnh" qalavssh"
ajrxavmeno" kai; tw`n merw`n, e[nqa duvesqai to;n h{lion ajnavgkh/ tini; tevtaktai kreivttoni, ajpwqouvmeno" kai;
diaskedannu;" ta; katevconta pavnta deinav … mevcri kai; tw`n eJwv/wn proveimi cwrivwn… In corsivo le parti
leggibili anche in P.Lon 878.
36
PanLat 6 (7),9,1-5 (ed. R.A.B. MYNORS, Oxford 1964): O fortunata et nunc omnibus beatior terris
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
347
Questa valorizzazione dell’Occidente e dell’estremo nord – si è già detto – era
inedita (vi si può riconoscere al limite una ripresa, molto libera, di Tac. Agr. 12)
e necessitava di una qualche forzatura; infatti, per esemplificare la sua affermazione secondo cui le nuove divinità provengono sempre dai confini del mondo,
l’oratore non trova di meglio che citare due esempi i quali però riguardano i
confini estremi orientali, non quelli occidentali: Mercurio/Hermes dal Nilo e
Dioniso/Liber dall’India37. Dalla sua prima formulazione, che noi leggiamo nel
panegirico del 310, il motivo si era trasformato e arricchito, attraversando il regno di Costantino. Lo ritroviamo in una bella dedica – interessante anche per
altri aspetti – posta quasi certamente nell’anno di morte del principe, a Beroe
in Tracia: qui il sovrano è «colui che è incoronato di tutte le vittorie senza sangue da Occidente a Oriente». Anche l’evocazione delle «vittorie senza sangue»
è un elemento per il quale è possibile identificare dei paralleli nella produzione
contemporanea38.
Rappresentazioni forti come questa sopravvivono alla realtà e alle persone
per le quali sono state create, costringendo chi viene dopo a confrontarsi con
esse. Questo è particolarmente vero per l’era di Costantino, o almeno per
quella dei suoi immediati successori. Durante e dopo la guerra con Magnenzio – la prima grande guerra civile dopo quella conclusasi nel 324 – il paragone tra Costanzo II e Costantino era stato di grande attualità: ogni movimento
di Costanzo era stato confrontato con quelli del padre e misurato attraverso di
essi, ogni appiglio era stato usato per collegare le due esperienze, da panegiristi e detrattori39. Non stupisce che nel discorso pronunciato per l’adventus di
Costanzo a Roma, quella visita che fu vista come un illegittimo trionfo, Temistio abbia ‘resuscitato’ la stessa immagine, opportunamente adattata: CostanBritannia, quae Constantinum Caesarem prima vidisti! … Certe quidem propter, quod vita diligitur, longissimae dies et nullae sine aliqua luce noctes, dum illa litorum extrema planities non attollit umbras noctisque
metam caeli et siderum transit adspectus, ut sol ipse qui nobis videtur occidere ibi appareat praeterire. Di
boni, quid hoc est quod semper ex aliquo supremo fine mundi nova deum numina universo orbi colenda
descendunt? Si Mercurius a Nilo, cuius fluminis origo nescitur, sic Liber ab Indis, prope consciis solis orientis deos se gentibus ostendere praesentes. Sacratiora sunt profecto mediterraneis loca vicina caelo, et inde
propius a dis mittitur imperator ubi terra finitur.
37
Anche qui si rileva una qualche forzatura: tradizionalmente l’origine di Dioniso era posta in Tracia o in Frigia, e il suo passaggio in India in un momento successivo (vd. il commento di NIXON in ID.
- SAYLOR RODGERS, In Praise…, 232 nt. 43).
38
AE 1907, 47 = AE 1999, 1387 (cfr. D. FEISSEL, Chronique d’épigraphie byzantine 1987-2004, Paris
2006, 349, n. 1156): To;n eijrhvnh" provm[acon] / kai; aJpavsh" eujdaimo[niva"] / corhgovn, to;n ta;"
o{[la"?] / ajnaimwti; neivka" ajp[o; th`"] / eJspevra" mevcri th`" e{[w] / ajn[ad]hsavmenon kai; th;[n]
/ tw`n Aujtokratovrwn te [kai;] / aje[idiv]wn Aujgouvstwn pis[tw]/savmenon proshgoriv[an] / Fl.
Kwnstantei`non t[o;n] / mevgiston hJ boulh; ka[i;] / [oJ d]h`mo" Traianevwn hJge[mo]/neuvonto" Fl.
Palladivo[u] / tou` diashmotavtou. Al proposito vd. I. TANTILLO, L’ideologia imperiale tra centro e periferie. A proposito di un ‘elogio’ di Costantino da Augusta Traiana in Tracia, “RFIC” 127 (1999), 73-95.
39
I. TANTILLO, La prima orazione di Giuliano a Costanzo, Roma 1997, 40-50.
348
Ignazio Tantillo
tinopoli, di cui egli è portavoce, attende che il sovrano, da ultimo «impegnato
a fortificare le regioni presso dell’Oceano» torni al suo Olimpo, Roma, dove
può festeggiarlo adeguatamente ricordandone «le vittorie che sono sorte insieme al sole e che con esso hanno compiuto in modo sfolgorante il corso fino
all’Occidente», e che ora «approdano col principe nella patria dei trionfi»40.
Il riferimento è alle campagne contro i persiani, alla sconfitta ‘senza sangue’ di
Vetranione a Naisso, a quelle su Magnenzio battuto a Mursa nell’Illirico, poi
sulle Alpi Giulie (qui vicino) e infine in Gallia. È difficile credere che Temistio
fosse ignaro di riprendere e rovesciare un tema che aveva accompagnato l’affermarsi di Costantino, modello di Costanzo come vincitore di guerre civili.
Con Giuliano e con la nostra iscrizione si ritorna al senso di marcia costantiniano: ma il cammino dell’ultimo esponente della dinastia è un cammino di
gloria vera, una strage di barbari e solo di barbari.
4. Passiamo ora al secondo documento. Pubblicata nel 2000, ma poco conosciuta, l’epigrafe in questione viene da Samo ed è verosimilmente relativa a
un monumento onorario. Ne riporto la trascrizione proposta da Klaus Hallof
nelle Inscriptiones Graecae41:
-----[- - - aJg]neiva/ crhsavmeno[n, to;n th`"]
eujtaxiva" tauvth" ai[tion, [to;n]
[[q≥eio≥vt≥[a]ton th`≥"≥ uJf j hJ≥livw/ [de]]]
[[sp[ov]t≥h≥n, t≥o;n kallivn≥ei[kon]]]
[[Au[gouston jIo≥uliano;n w[- - -]]]
sunevsthken, o}" ta; pavnta t[ou`]
kovsmou tou` oijkeivou pe[ri]fanw` " ejkpeipton vacat
vacat
5
40
Them. or. 3,42b (ed. G. DOWNEY, Leipzig 1965): oJ de; u{mno" ejmpivplhsin aJrmoniva" a{panta
me;n fu`la eJw`/a, a{panta de; eJspevria gevnh, aiJ ni`kai de; hJlivw/ sunanascou`sai kai; sundramou`sai
lamprw`" a[cri th`" eJspevra" sugkataivrousi tw`/ basilei` eij" th;n mhtrovpolin tw`n tropaivwn. Similmente in or. 4,57c: Costanzo è superiore ad Alessandro perché quello aveva vinto i Persiani con le armi,
suscitandone il risentimento, cosicché «quando il re (Alessandro) volse le sue armi dalle correnti del
Tigri fino all’Oceano occidentale» essi si ribellarono; niente di tutto ciò era invece accaduto a Costanzo,
al quale i Persiani si erano sottomessi spontaneamente. Cfr. anche or. 13,163c.
41
IG XII 6.1,427 (K. HALLOFF, 2000); foto nel fasc. 6.2, tav. 55. Già descritta da A. Rehm e da G.
Dunst, si tratta di una tavola di marmo, mutila nella parte superiore e rovinata anche sul margine destro.
Essa era destinata probabilmente ad esser affissa a un supporto di una statua. La provenienza di questa
pietra è sconosciuta; è conservata oggi nel Museo di Samos.
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
349
Anche senza considerare la perdita della porzione superiore della pietra,
molto rimane incerto, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione delle
ultime tre linee, ove sembra mancare qualcosa (così pensa anche l’editore,
benché non ci sia traccia di cancellature dopo l’ultimo rigo). È possibile che
il lapicida abbia copiato male, o che si sia mal calcolata la lacuna sul margine
destro. Non avendo potuto effettuare un’autopsia della pietra, che potrebbe
fornire delucidazioni al riguardo, non azzardo ricostruzioni42. Il nome di Giuliano, deliberatamente cancellato al r. 543, è preceduto da una serie di attributi
e seguito da ulteriori riferimenti all’operato imperiale. Ma se per le formule
del r. 3 sono facilmente rintracciabili paralleli44, non altrettanto è possibile
dire per il resto di questa composizione. Nel primo rigo superstite si avrebbe
riferimento alla hagneia praticata dal laudandus: l’integrazione proposta già
da Dunst e ripresa da Hallof sembra in effetti ragionevole; tutte le altre soluzioni sollevano difficoltà: anche eugeneia, che potrebbe andare, ha lo svantaggio di essere, in epigrafia, confinato all’elogio di privati e quindi di risultare
stonato per l’eulogia del sovrano45. L’editore intende hagneia come castità e
42
In effetti, niente all’apparenza impedisce di pensare a una lacuna più ampia sulla destra; solo a
titolo di esempio, ai rr. 3-5, si potrebbe leggere: [[q≥eiov≥t≥[a]ton th`≥"≥ uJf j hJ≥livw/ [gh`" aJpavsh"? de]]]- /
[[sp[ovt≥h≥n, t≥o;n kallivn≥ei[kon kai tropeucon]]] / [[Au[gouston jIo≥uliano;n ktl.]]; per l’integrazione
del r. 3 ci sono una serie di possibilità (vd. il repertorio di simili formule in A. MASTINO, Orbis, kovsmo",
oijkoumevnh: aspetti spaziali dell’idea di impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano
tra diritto e profezia, Roma 1983, 148 ss.); si noti anche che la restituzione di despotês a cavallo di questi
due righi è incerta (come mostrano le oscillazioni di chi ha potuto ispezionare la pietra: vd. Hallof, apparato): si potrebbe pensare ad altro (p.es. epoptên, come aveva già ipotizzato Dunst; sul termine applicato
agli imperatori vd. I. TANTILLO, Costantino e Helios Pantepoptês: la statua equestre di Termessos, “Epigraphica” 65, 2003, 159-184). Si tiene a ribadire che, in mancanza di un esame autoptico, queste congetture
sono da intendersi come puramente ipotetiche.
43
Casi di iscrizioni in cui il nome di Giuliano è stato cancellato, o che sono state reimpiegate in
antico: uno da Pergamo (CIL III 7088 = ILS 751 = IPergamon 633 = Conti, n. 28, Pergamo); due da
Afrodisias (ALA, nn. 19-20; vd. ora R.R.R. SMITH, A Portrait Monument for Julian and Theodosius at
Aphrodisias, in C. REUSSER, ed., Griechenland in der Kaiserzeit. Neue Funde und Forschungen zu Skulptur,
Architektur und Topographie, Bern - Zürich 2001, 125-136); uno da Magnesia sul Meandro (O. KERN, Die
Inschriften von Magnesia am Meander, Berlin 1900, n. 201 = Conti, n. 35); uno da Lambaesis in Numidia
(AE 1916, 10 = Conti, n. 170: l’integrazione del nome di Giuliano proposta da Conti sembra molto plausibile in virtù del confronto con AE 1916, 11); uno da Calama in Proconsolare (CIL VIII 5338=17488
= ILAlg I 253 = Conti, n. 136). L’erasione del nome di Giuliano, che non subì una formale damnatio
memoriae, è in genere attribuita a iniziative locali delle comunità cristiane (così anche Hallof e Conti).
44
L’epiteto theiotatos, diffuso già nel III secolo (M. PEACHIN, Roman Imperial Titulature and Chronology, A.D. 235-284, Amsterdam 1990, 180 etc.) appare anche in altre iscrizioni giulianee: IKIasos 14
= Conti, n. 34; KERN, Die Inschriften…, n. 201 = Conti, n. 35; AE 1980, 851 = Conti, n. 53. Anche la
formula successiva (th`" uJf j hJlivw…
/ che, se la lacuna è stata calcolata correttamente, presuppone un gh`"
sottinteso, come nell’appena citata iscrizione da Iasos) trova confronto nella serie di iscrizioni fatte porre
da Fl. Eutolmius Tatianus nel 388-390 (IK Side I 52; ILS 8809 = OGIS 723; ALA, nn. 25-27).
45
La ricerca nei repertori elettronici mostra che il sostantivo o l’aggettivo (eugenês) ricorrono di
frequente in epigrafi in onore di personaggi di rango municipale o di funzionari, ma in nessun caso essi
risultano associati alla figura imperiale.
350
Ignazio Tantillo
rimanda alla lode di questa virtù del principe in Ammiano Marcellino46. Ma
l’elogio della castità, virtù privata, è piuttosto fuori luogo in un’iscrizione onoraria imperiale, anche di un’iscrizione anomala come questa. Si potrebbe poi
ammettere la lode dell’hagneia negli elogi di privati e di funzionari, ove serve
a esprimere l’idea di onestà, non in quelli imperiali47. Se davvero bisogna colmare in questo modo la lacuna, si assegnerà di preferenza ad hagneia il significato di ‘purezza’ in campo religioso; in particolare di purezza rituale, che è il
senso con cui il termine è adoperato dai neoplatonici, in particolare da Porfirio e da Giamblico48, e nel senso in cui lo usa anche Giuliano49. L’impiego del
sostantivo in quest’accezione è coerente con il tono del resto dell’epigrafe: si
avrebbe cioè qui un’allusione alla religiosità, affatto intemerata, del principe.
Anche la definizione del sovrano come «responsabile dell’attuale buon ordinamento» è curiosa: curioso è soprattutto l’impiego del termine eutaxia, che
non è di solito collegato all’attività degli imperatori romani50. Il senso è che il
principe è l’autore del buon ordinamento dello stato – in quanto responsabile
del modo in cui le sue parti sono armonicamente disposte o in quanto responsabile dell’osservanza di tale armonia: potremmo quindi considerare il sintagma equivalente a formule quali auctor o instaurator status rei publicae e simili.
46
25,4,2-3: et primum ita inviolata castitate enituit etc. Su agnos: E. WILLIGER, Hagios, in Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeite, 19, Giessen 1922, 37 ss.; W. FERRARI, Due note su agnos, “SIFC”
17 (1940), 33-53.
47
Ove in effetti non appare mai. Per hagneia nell’elogio di funzionari, cfr. ROBERT, Hellenica…, 3940. Per castitas, cfr. CIL IX 1596; E. FORBIS, Municipal Virtues in the Roman Empire. The Evidence of Italian Municipal Inscriptions, Stuttgart - Leipzig 1996, 87; S. PANCIERA, Le virtù del governatore provinciale
nelle iscrizioni latine da Augusto a Diocleziano, in Epigrafi, epigrafia, epigrafisti. Scritti vari editi e inediti
(1956-2005) con note complementari e indici, II, Roma 2006, 1231 (già in S. DEMOUGIN - X. LORIOT - P.
COSME - S. LEFEBVRE, edd., H.-G. Pflaum. Un historien du XX siècle, Genève 2006). Diversamente tale
virtù, in senso morale o religioso, può essere elogiata negli encomi, da Traiano in poi: F.E. CONSOLINO,
L’optimus princeps secondo S. Ambrogio: virtù imperatorie e virtù cristiane nelle orazioni funebri per Valentiniano e Teodosio, “RSI” 96 (1984), 1035-1036; cfr. anche BURDEAU, L’Empereur…, 47.
48
In particolare da Porfirio nel De abstinentia (1,57,2.3-4; 2,1,1; 4,20 etc. con il commento di M.
PATILLON - A.P. SEGONDS, Paris 1995, 94 nt. 302), e da Giamblico, che collega più specificatamente la
hagneia alla teurgia, affermando che (De myst. 10,5,291-292) attraverso le pratiche teurgiche si raggiunge
una ‘purezza d’animo’ (hagneia tês psychês) molto più perfetta di quella del corpo. Sul concetto di purezza-hagneia in Giamblico, B. NASEMANN, Theurgie und Philosophie in Jamblichs De Mysteriis, Stuttgart
1991, 42 ss.
49
Nel discorso Alla madre degli dei (or. 8, 159a; 173c; 173d; 175a-b; 177a), opera in cui meglio si
rilevano le influenze giamblichee (J. BOUFFARTIGUE, L’Empereur Julien et la culture de son temps, Paris
1992, 306-309; 345 ss.); in ep. 89b, 293a, la celebre lettera a Teodoro, gran sacerdote, Giuliano connette
la purezza al comportamento del gran sacerdote. Se la conoscenza di Giamblico da parte di Giuliano è
parziale e appare mediata dall’insegnamento orale dei suoi diversi maestri (BOUFFARTIGUE, L’Empereur…,
353 ss.), una lettura diretta del De abstinentia di Porfirio è invece da ritenersi assai probabile, come mostrano le riprese nel discorso Contro i cinici ignoranti (diversamente BOUFFARTIGUE, L’Empereur…, 243).
50
Diversamente, l’eunomia è celebrata anche nelle iscrizioni di governatori tardi: IKStratonikeia
1018, r. 4; ALA, n. 41; SEG 31, 979 = AE 1981, 761.
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
351
Ma sarebbe banalizzare, cosa che il redattore di questo testo ha chiaramente
voluto evitare. Usando eutaxia egli sembra aver voluto in effetti riportare su
un piano cosmologico, non meramente politico, l’azione del sovrano. È possibile che anche questa scelta terminologica sia stimolata da reminescenze filosofiche (forse l’Aristotele della Politica51).
Poi la vittoria. Ancora una volta un epiteto, se non inedito, almeno inconsueto per questo periodo: kallinikos, «glorioso vincitore». L’appellativo kallinikos ha una lunga e bella storia, che non è possibile ripercorrere in questa
sede: basterà dire che esso è strettamente – quasi indissolubilmente per i pagani – collegato alla figura di Ercole52. Kallinikos non appartiene al pur ricco
e variegato repertorio degli epiteti che celebrano la vittoria degli imperatori
romani, o piuttosto non vi ha fatto breccia prima dell’avanzato V secolo d.C.,
quando esso appare però coerentemente integrato con altri epiteti cristiani e
quindi ormai privo di ogni connotazione pagana53. In ogni caso, questa sembra
la prima attestazione di kallinikos in una formulario epigrafico ‘ufficiale’: esso
ricompare poi in un’isolato miliario di Valentiniano, e quindi più diffusamente
a partire dalla seconda metà del secolo successivo54. Visto il contesto, non v’è
51
Si cfr. in particolare Aristot. pol. 1326a: dal buon ordine, dall’equilibrio del cosmo discende il
buon ordinamento politico: l’eunomia si realizza necessariamente con l’eutaxia. I passi e l’uso del termine
in Aristotele sono discussi da A. ROSLER, Political Authority and Obligation in Aristotle, Oxford 2005,
103 nt. 359. La Politica di Aristotele era un testo largamente utilizzato nelle scuole neoplatoniche: D.
O’MEARA, Platonopolis. Platonic Political Philosophy in Late Antiquity, Oxford 2003, 65 ss.
52
Già Archiloco, fr. 324 West; Euripide, Herc. 582; un’associazione forte, quella a Eracle, che non si
perde nella tarda antichità: p.es., semplicemente il ‘Callinico’ è, per Giuliano stesso, Ercole (or. 10,325a;
cfr. p.es. anche Him. 43; Them. or. 13,169d etc.). Quest’appellativo ha una storia diversa in ambito cristiano dove, dal IV secolo se non da prima, è spesso epiteto dei martiri (anche nelle iscrizioni).
53
Il titolo è portato dai sovrani ellenistici (vari seleucidi tra cui Seleuco II e Antioco VIII, ma anche
Mitridate I Callinico di Commagene). Non è invece attestato per gli imperatori romani prima dell’epoca
tarda. A parte l’episodio di Commodo (che avrebbe preteso di farsi chiamare Eracle Callinico sulla base
del Colosso da lui riadattato: Cass. Dio 72,22), è Costantino il primo ad esser apostrofato con questo
titolo da Eusebio (VC 1,1,1; 1,42,1; Tr. 1,3; 9,5); quindi lo porta Costanzo II nella formula della sinodo
di Sirmio del 359 (Athan., de syn. 8,3 [p. 235,22 Opitz]; l’imperatore appare però senza tale titolo nella
versione riprodotta da Socr. HE 37,18 [p. 154,6-7 Hansen]). È appellativo ‘ufficiale’ dell’imperatore nei
documenti degli atti dei concili di Efeso e Calcedonia (Efeso: I 1,3, p. 16, r. 17 Schwartz; I 1,4, p. 6, r. 16;
I 1,5, p. 129, r. 28; I 1,7, p. 12, r. 20; Calcedonia: II 1,2, p. 14, r. 28; II 1,3, p. 65, r. 25), ma negli stessi testi
è attribuito, secondo un uso comune nella tradizione cristiana (cfr. supra nt. 52), anche ai martiri (Efeso:
I 1,5, p. 128, r. 11; Calcedonia: II 1,2, p. 53, r. 5).
54
Miliario di Valentiniano dalla Lidia: TAM V 2, 1235 (il nome dell’imperatore si legge con difficoltà); si ritrova poi: in un’iscrizione di Efeso con riferimento a Teodosio II e Valentiniano III (IKEph. 44
del 439-442), in un’epigrafe di Zenone (G.E. BEAN - T.B. MITFORD, Journeys in Rough Cilicia 1964-1968,
Wien 1970, n. 31b, r. 5) e in alcune pietre a nome di Giustiniano (St.Pont. III 255; IGLSyr 4, 1809; ALA,
n. 81, del nome oltre a Fl(abion), rimangono solo le ultime lettere: Roueché l’attribuisce a Giustiniano,
senza escludere del tutto Giuliano); cfr. anche SEG 35, 1360 (metà del VI secolo). Vedi G. RÖSCH, ONOMA BASILEIAS. Studien zum offiziellen Gebrauch der Kaisertitel in spätantike und frübyzantinischen Zeit,
Wien 1978. Sull’attribuzione di questo titolo a Giustiniano, cfr. Procop. B. 2,30,3; M. MCCORMICK, Eter-
352
Ignazio Tantillo
alcun dubbio che l’autore dell’epigrafe samia intendesse kallinikos nel senso
tradizionale, ‘erculeo’. Tra i tanti significati che poteva avere un’associazione
con Ercole, nell’età di Giuliano e in particolare per Giuliano (e l’associazione
tra Ercole e il principe è in effetti proposta, da Libanio e da Ammiano55), c’è
l’Ercole in versione politico-religiosa romana, quella dell’ideologia tetrarchica, che sopravvive per molti versi alla fine del sistema dioclezianeo56; e c’è, su
un altro piano, quello allegorico del tardo paganesimo, soprattutto neoplatonico, dell’eroe iniziato che attraverso la purificazione e la teurgia giunge tra
gli dei. È una combinazione dei due che Giuliano stesso descrive nel Contro il
cinico Eraclio57, assimilando anzi di fatto la propria missione a quella dell’eroe
che «il grande Zeus, per mezzo di Atena Pronoia, generò come salvatore del
mondo»: anche il nipote di Costantino, di stirpe divina, era stato inviato a
riportare l’ordine sovvertito dalle dottrine dei cristiani58.
Si ha difficoltà a intendere quello che segue; come già osservato, sembra
mancare qualcosa. Mi limiterò a notare che il soggetto della relativa deve esser
ancora Giuliano; che costui ha fatto qualcosa per l’orbis suus, forse rovinato e
corrotto dai suoi predecessori; che i verbi sunistêmi e ekpiptô sono estranei al
registro lessicale di questo tipo di epigrafi59.
Non a torto l’editore K. Hallof e, in una recente breve nota, Denis Feissel60
hanno sottolineato il sapore filosofico del linguaggio di questa curiosa epigrafe samia: siamo certamente di fronte a qualcosa di diverso dalle iscrizioni
che si accontentano di proclamare Giuliano magister philosophiae, o ek philosophias basileuôn; allo stesso modo in cui il riferimento alle stragi di barbari
durante la campagna giulianea nell’Illirico nell’epigrafe di Ancira non può
esser equiparato alla comune formula debellator barbarorum.
nal Victory. Triumphal Rulership in Late Antiquity, Byzantium and the Early Medieval West, Cambridge
- Paris 1986, 4 nt. 12.
55
Lib. or. 13,28.48; in modo più vago, Amm. 22,12,4; su queste testimonianze S. CONTI, Da eroe a
dio: la concezione teocratica del potere in Giuliano, “AnTard” 17 (2009), 119-126.
56
Ercole, l’eroe kallinikos che ha attraversato il mondo, è ovviamente una figura chiave nell’ideologia
tetrarchica, ma anche in quella di Costantino all’inizio del suo regno: GRÜNEWALD, Constantinus…, 29.
57
Come ben evidenziato da P. ATHANASSIADI (Julian. An Intellectual Biography, London 1992, 132133), Giuliano si ricollega senza dubbio alla tradizione neoplatonica che, accogliendo l’idea pitagorica di
Eracle come dynamis tês physeos, aveva fatto di questo personaggio mitologico un eroe teurgo.
58
Or. 7,220a; si può quindi legittimamente affermare che, nella visione di Giuliano, «come quello
[sc. Eracle] aveva salvato il mondo per volontà divina, egli era stato mandato a restaurare l’ordine e la
religione nell’impero» (CONTI, Da eroe…, 123; cfr. anche ATHANASSIADI, Julian…, 133); la figura di Eracle
ritorna, sempre in chiave allegorica, in altri luoghi dell’opera di Giuliano: cfr. or. 8,166d ss.; 10,316b etc.
59
Per l’uso di questo termine nella titolatura del principe, spesso nell’espressione sotêr tou kosmou,
cfr. MASTINO, Orbis… Il verbo ekpipton dovrebbe riferirsi a panta e quindi allo stato di decadimento del
kosmos/orbis (cfr. CIL III 10648 = ILS 8946 = Conti, n. 73: …ob deleta vitia temporum praeteritorum).
60
FEISSEL, Chronique…, 75 definisce questa dedica: «originale par son tour philosophique».
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
353
5. Pur nella loro brevità, i due testi esaminati si presentano come composizioni originali, ove i temi consueti sono trattati a un livello di elaborazione superiore a quello delle ordinarie dediche onorarie, il che li avvicina a composizioni di
altro tipo, agli encomi. Il primo, un elogio che gioca con la tradizione costantiniana, molto ‘politico’, molto ‘romano’; l’altro un elogio filosofico, che sembra
rispecchiare una formulazione più ‘raffinata’ del ruolo del sovrano e del suo
rapporto con il mondo divino, e che ci riporta negli ambienti filosofici e religiosi
dell’oriente ellenistico in cui era maturata la cultura politica del principe (quegli
ambienti così vivaci nella vicina Efeso). Due ritratti diversi e complementari.
Se volessimo immaginare una loro trasposizione figurata, dovremmo figurarci,
nel primo caso, un imperatore a cavallo che schiaccia i barbari, nell’altro un
imperatore in veste di divinità, magari di Ercole (un Ercole teurgico, come lo
avrebbero concepito gli amici pagani del principe).
Il linguaggio epigrafico assorbiva elementi estranei alla sua tradizione, interagiva con produzioni di altro genere, di carattere celebrativo. Questo è certo,
ma in che rapporto stava rispetto ad altre forme di celebrazione e soprattutto
rispetto all’immagine che dell’imperatore era diffusa da editti, lettere, annunci
di vario tipo e ritratti? Conviene riconsiderare il contesto e i dedicanti. La prima
statua fu eretta in un centro, Ankara, crocevia strategico lungo il più importante
asse viario dell’Anatolia, attraversato di continuo da imperatori ed eserciti. Ma
soprattutto fu eretta dal più stretto collaboratore del principe, suo confidente
e prefetto al pretorio, l’uomo che ne poteva al meglio interpretare il volere.
Saluzio era stato niente di meno che il quaestor sacri palatii61, l’alto dignitario
incaricato di redigere il testo delle leggi: stoma basileos, come dicevano i greci
(mentre, tra i moderni, c’è chi l’ha definito un «ministro della propaganda»)62.
Nutrito di tale esperienza, Saluzio era poi divenuto prefetto al pretorio, ‘sovrano senza porpora’. Il testo dell’iscrizione di Ancira potrebbe quindi considerarsi un puro campione di ‘propaganda’, libero da filtri e mediazioni, direttamente
dalla ‘bocca’ del principe. Posto in un luogo strategico, rifletterebbe la versione più aggiornata, il messaggio ritenuto più adatto a comunicare l’immagine
61
Era stato precisamente comes ordinis primi intra consistorium et quaestor, forse il primo quaestor
stabilmente insediato a corte: sulla questione J. HARRIES, The Roman Imperial Quaestor from Constantine
to Theodosius II, “JRS” 78 (1988), 156. La cronologia di questa funzione è incerta: potrebbe porsi sotto
il cesarato di Giuliano stesso in Gallia, in alternativa sotto Costante.
62
Secondo Tony Honoré il quaestor «combined the roles of a Minister of Justice and of Propaganda» (T. HONORÉ, The Making of the Theodosian Code, “ZRG” 103, 1986, 139). Sul quaestor, oltre
al citato lavoro di HARRIES, The Roman Imperial Quaestor…, 148-172, vd. R. DELMAIRE, Les Institutions
du Bas-Empire romain de Constantin à Justinien, I : Les institutions civiles palatines, Paris 1995, 58-61.
Sul ruolo del quaestor nell’elaborazione del messaggio imperiale, ora C. RONNING, Rituale der Rhetorik
– Rhetorik der Rituale. Überlegungen zu Konstantin als Identifikationsfigur in der spätantiken Panegyrik,
in B. ALAND - J. HAHN - C. RONNING (edd.), Literarische Konstituierung von Identifikationsfiguren in der
Antike, Tübingen 2003, spec. 132-133 con nt. 64.
354
Ignazio Tantillo
imperiale a provinciali, funzionari e soldati che di lì avrebbero transitato. La
corrispondenza con il panegirico di Mamertino sembra confermarlo, e sembra
indicare che anche il panegirista si prestava a ripetere la versione ufficiale (evidentemente elaborata e diffusa già all’arrivo di Giuliano in Costantinopoli).
Tuttavia, se veramente così fosse – se questo era uno dei messaggi attraverso
i quali il principe meglio si autorappresentava e cercava di ottenere il consenso
dei sudditi –, allora dovremmo ammettere che questa indicazione fu mal recepita, mal compresa o ebbe poco successo al di fuori dell’ambiente di palazzo:
nelle circa 190 iscrizioni di Giuliano, miliari compresi, non si incontra niente
di simile. Si potrebbe obiettare invocando proprio il carattere straordinario di
questa composizione, lo stile elevato. Ma non meno elaborate dell’epigrafe di
Ancira, dal punto di vista di lingua e contenuti, sono altre iscrizioni poste, pressocché nello stesso periodo, in varie province dell’impero d’Oriente, ove i motivi sviluppati sono altri63. Bisognerà quindi ammettere che non v’erano pressioni
per allinearsi, che esprimere entusiasmo e dichiarare la propria lealtà al principe
non significava ripetere quello che veniva detto nel suo stretto entourage.
Con il secondo documento ci troviamo di fronte a una situazione diametralmente opposta a quella dell’epigrafe di Ancyra. Siamo molto lontano dai centri
nevralgici del potere. Nonostante le sue antiche glorie, da questo punto di vista,
Samo era un luogo piuttosto defilato. Nel testo manca il dedicante. Più che a
un privato o un collegio religioso pagano come pensa l’editore, direi che ci sono
due probabili candidati: la città dei Samii o il governatore della provincia delle
Insulae64. In quest’ultimo caso si potrebbe trattare di un personaggio noto per
altre vie. Il praeses Insularum di Giuliano è da molti identificato infatti in quel
Ploutarchos che fece incidere un epigramma nell’Heraion di Samo ricordando
il pellegrinaggio pagano da lui compiuto nella grotta di Zeus Idaios a Creta.
Questo uomo imbevuto di cultura neoplatonica e neopitagorica potrebbe forse
identificarsi in un corrispondente e amico di Giuliano; in ogni caso è probabile
63
Tra le iscrizioni per Giuliano che spiccano per l’originalità del formulario: quelle poste dal
proconsole d’Asia Aelius Claudius Dulcitius (a Efeso e in miliari dalla regione di Pergamo e di Smirne:
IKEph 313a = Conti, n. 26; IKEph 3021 = Conti, n. 27; CIL III 7088 = ILS 751 = IPergamon 633 = Conti,
n. 28; CIL III 14201, 8 = IKSmyrna II 1, 816 = Conti, n. 30); quella posta a Iasos dalla cittadinanza
(IKIasos 14 = Conti, n. 34), quelle poste dal concilium provinciale di Phoenice (DIETZ, Kaiser Julian…,
807-859 = Conti, nn. 17-18); quella posta dal governatore di Macedonia Calliopius a Tessalonica (D.
FEISSEL, Recueil des inscriptions chrétiennes de Macédoine du IIIe au VIe siècle, Paris 1983, n. 86bis =
Conti, n. 54; discussa infra, nt. 68).
64
Hallof pensa a un privato o a un collegio pagano, senza prendere in considerazione la possibilità
si tratti di una dedica pubblica o del governatore, che pure è attivo sull’isola da questo punto di vista:
cfr. le tre dediche, rispettivamente a Giove Ottimo Massimo (CIL III 14199, 1), a Giunone Regina (CIL
III 7162 = ILS 3107) e a Ercole (IG XII 6, 2, 607) poste dal praeses perfettissimo Attius Epiicius (che
la PLRE I, 280 data «LIII/EIV»). In generale, molte delle dediche tarde agli imperatori sono poste dai
funzionari (un fenomeno che si rafforza dall’età tetrarchica) specialmente nel capoluogo provinciale, ma
anche in altri centri.
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
355
che egli appartenesse «al cerchio dei dotti pagani e degli alti amministratori che
avevano appoggiato la politica religiosa dell’imperatore»65. Se il dedicante della
nostra epigrafe fosse davvero il governatore, e se Ploutarchos fu il governatore
delle Insulae davvero sotto Giuliano, allora, calcolando i tempi medi di durata
dei mandati, è assai probabile che l’autore di questo eccentrico elogio epigrafico sia proprio Ploutarchos66. Ma non c’è bisogno di tale ipotesi, per quanto
suggestiva essa sia. Iscrizioni onorarie dal dettato complesso vengono da ogni
angolo dell’impero, anche dai più remoti67, e i loro autori rimangono per noi dei
perfetti sconosciuti68.
Perché il redattore di questo testo si è dato tanta pena di dipingere il proprio sovrano in tal modo? Rendendo il suo testo intelligibile solo a uno sparuto gruppo di uomini istruiti come lui? In effetti, nonostante la ricchezza della
documentazione di ogni genere su Giuliano, non abbiamo dei paralleli per
queste elaborazioni, tutt’al più ricollegabili a un ambiente culturale, ma che
rimangono uniche. Dobbiamo allora immaginare che esse siano riflesso di un
messaggio propagandistico, elaborato al centro di cui non è rimasta traccia? E
65
IG XII 6, 2, 584; A. CHANIOTIS, Plutarchos. Praeses insularum, “ZPE” 68 (1987), 227-231 da cui
cito (p. 231); una datazione all’età di Giuliano era proposta già da ROBERT, Hellenica…, 55-59. Diversamente M. DI BRANCO, Pellegrinaggi a Creta. Tradizioni e culti cretesi in epoca tardoantica, in Creta romana
e protobizantina. Atti del Congresso internazionale (Iraklion settembre 2000), I, Padova 2004, 12 nt. 46,
preferisce collocare questo governatore in età costantiniana (vd. poi A. CHANIOTIS, in SEG 54, 2004,
808). Sulla comunità degli Elleni come amministratori di Giuliano, per lo più retori o filosofi, cfr. ora M.
CALTABIANO, La comunità degli Elleni: cultura e potere alla corte dell’imperatore Giuliano, “AnTard” 17
(2009), 137-149.
66
Infatti, il governatore rimaneva in carica tra uno e due anni (ora D. SLOOTJES, The Governor and His
Subjects in the Later Roman Empire, Leiden - Boston 2006, 26-27; la durata del mandato era inferiore nelle
province più importanti e più appetite) e poiché è verosimile che Giuliano abbia proceduto alle nomine dei
nuovi governatori una volta giunto a Costantinopoli nel dicembre 361, non c’è posto per molti mandati prima
del 26 giugno 363, data della morte dell’imperatore. La possibilità di inserire tra i fasti provinciali dell’età
giulianea anche Aedesius (IG XII 6, 584 I; così ROBERT, Hellenica…, 55-59; e ancora A.-V. PONT, Le paysage
religieux grec traditionnel dans les cités d’Asie Mineure occidentale au IVe et au début du Ve siècle, “REG” 117,
2004, 546-577, spec. 553) è ora smentita dalla ricostruzione del monumento dell’Heraion e dalla conseguente
ridatazione di questo governatore agli anni 307-311: K. HALLOF - H.J. KIENAST, Zwei Monumente aus dem
Heraion von Samos, “Chiron” 31 (2001), 277-289, spec. 282-283; FEISSEL, Chronique…, 74.
67
Si potrebbero invocare numerose altre iscrizioni che, anche solo su due o tre righi, plasmano rappresentazioni originali e talora inedite della figura o dell’azione del sovrano: solo per limitarsi ad alcuni
casi cronologicamente vicini ai testi in esame cfr., oltre alla già menzionata iscrizione di Beroe (cit. supra
nt. 38), quella, sempre per Costantino, da Cirta (ILAlg II 1, 582-583) e le dediche a Costanzo II da Tralles
(IKTralles 44), da Leptis Magna (IRT 471 = I. TANTILLO - F. BIGI, edd., Leptis Magna. Una città e le sue
iscrizioni in epoca tardoromana, Cassino 2010, n. 8) e dalla remota Ain Mafra in Mauretania Caesarensis
(CIL VIII 8722 = 20542).
68
Solo raramente sono identificabili con uomini di cultura: cfr. il caso dell’iscrizione di Giuliano
posta dal governatore di Macedonia Calliopius a Tessalonica (FEISSEL, Recueil…, 247-248, n. 86bis =
Conti, n. 54), che Feissel ipotizza esser stata redatta dallo stesso Calliopius, retore e collega di Libanio
(PLRE I, 174-175 s.v. Calliopius 2).
356
Ignazio Tantillo
così ogni volta che ci imbattiamo in formulazioni eccentriche, originali? Oppure dobbiamo considerare tali strane formulazioni delle inserzioni, spurie,
opera di dedicanti sbadati o megalomani?
È più economico immaginare che, al pari dei panegirici, le iscrizioni rielaborino un materiale circolante in varie forme, e di varia provenienza (quindi
non solo di origine ‘centrale’). Gli uomini colti – educati ai discorsi e alla
retorica – possedevano gli strumenti per interpretare la figura del singolo imperatore, incasellandone la concreta specificità nell’ampia casistica messa a
disposizione da una tradizione plurisecolare di panegirici e trattati della regalità; essi erano in grado di completarne autonomamente il ritratto a partire dai
dati di cui disponevano, dispacci, altri panegirici, altre epigrafi, raffigurazioni.
Non c’erano controlli da parte del ‘potere’, e quindi non c’era livellamento69.
Perché dunque non considerare che in realtà, l’immagine dell’imperatore
fosse la creazione di vari autori? Innegabilmente v’erano messaggi che partivano dal centro, indicazioni che delineavano una tipologia di imperatore.
Non v’è dubbio che il sovrano amasse dar ‘buona impressione di sé’, che
proponesse ai sudditi un proprio ritratto (questo al di là del problema se egli
avesse davvero bisogno di convincerli). Ma questi messaggi (nel caso specifico: Giuliano è un filosofo) fornivano unicamente una linea guida. Panegiristi
e autori di epigrafi si sintonizzavano su queste indicazioni, che rilavoravano
con un ampio margine di libertà: non c’era il rischio che essi le trasformassero
in un qualcosa di aberrante, perché operavano con una strumentazione condivisa, la retorica dell’elogio e le sue trasposizioni epigrafiche.
Ora, gli autori di queste dediche in età tarda non sono più privati ma il
governatore, la città nel suo insieme, o addirittura il concilium provinciale:
tutti soggetti in grado di far circolare per altre vie quelle elaborazioni di cui
noi abbiamo una versione epigrafica: relazioni ufficiali, petizioni, ambascerie,
discorsi tenuti altrove. Tali rielaborazioni, come quelle dei panegiristi, potevano perciò tornare più facilmente al punto di partenza, alla ‘corte’. Qui, uomini
dotati della loro stessa cultura potevano farle proprie, e rimetterle in circolo.
Non è detto che la valorizzazione dell’origine ‘nordica’ di Costantino sia stata
inventata dal principe e dal suo ristretto entourage. E chi può escludere che
a tramutare la campagna dell’Illirico di Giuliano in una guerra esterna non
sia stato proprio Mamertino, che pronunciò il suo discorso nel senato di Costantinopoli il 1° gennaio del 362 alla presenza di Giuliano e probabilmente
di Saluzio?
69
Così parafrasando quanto affermato, per un altro periodo della storia romana e per altro genere
di testimonianze, da P. ZANKER (Augustus und die Macht der Bilder, München 19902, 332): «dass dies
gleichwohl nicht zu einer Uniformität modernen Ausmasses führte, hängt mit der Selbstläufigkeit und
der Systembildung zusammen … Es wurde nichts vorgeschrieben, es wurde nichts kontrolliert und es
gab keine Werbekampagnen».
Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città tardoantiche
357
Tutti partecipavano alla creazione dell’immagine imperiale. Lo facevano
con spirito di riconoscenza, ma anche nel loro interesse. Il panegirista, come
il dedicante di una statua imperiale non è al servizio di una ‘propaganda’:
nell’omaggiare rendeva il dovuto ringraziamento al suo signore e un servigio
a se stesso. Non è meno prestigioso e insigne dedicare una statua che riceverla, diceva Plinio70, e questo vale anche per i panegirici: da un bel discorso
non meno gloria veniva all’imperatore che al panegirista (basterà pensare alla
carriera di Libanio o a quanto ricorda Agostino sull’interruzione della propria carriera). In questo senso, proporre una versione personale, originale,
è indispensabile: permette eventualmente di emergere, farsi notare, e quindi ricavarne vantaggio. Le rappresentazioni del potere create da panegirici
e iscrizioni non sono solo il riflesso di idee concepite altrove, di un’ideologia
imperiale plasmata da un ristretto gruppo di persone vicine al principe. Esse
concorrono a costruire l’ideologia imperiale.
70
Ep. 1,17.
LA DINAMICA DEL CONSENSO NELLE LODI IMPERIALI
DEI POETI CAROLINGI E POSTCAROLINGI
FRANCESCO STELLA
1. Tipologia degli studi sulla letteratura di propaganda
La questione del rapporto col potere è stata, negli studi di letterature antiche, una delle linee portanti della riflessione critica europea degli anni ’70,
con ampi sconfinamenti nel decennio successivo, e la ripresa del tema offerta
da questo convegno è un ritorno gradito, che aiuta a misurare la felice asimmetria degli interessi di ricerca rispetto alle mode culturali. Oggi i cultural
studies e la pragmatica della comunicazione sembrano paradossalmente riavvicinarci alle gerarchie assiologiche di 40 anni fa, quasi riattualizzando la
subordinazione ottocentesca delle categorie letterarie a quelle storiche1, ma la
differenza nelle procedure d’analisi e l’incremento delle informazioni a disposizione ci pone davanti a una sfida relativamente nuova sul piano del metodo
e dei contenuti.
Anche negli studi sulla poesia tardoantica e medievale ogni esplorazione
su questo terreno può tener conto di una catena ininterrotta di saggi, convegni, edizioni e raccolte di testi relativi al ruolo politico della produzione
poetica i cui titoli menzionano il concetto di propaganda rilanciato da Alan
Cameron nel 1970 e ripreso fra gli altri da Mary Whitby nel 19982 o da Franca
Consolino nel 20003, fino al convegno medievistico di Todi 20024 o di Messina 20075, anche se approcci più sofisticati, come quelli di Weber e Zimmermann6, giustappongono o sostituiscono al termine propaganda formulazioni
più complesse come Selbstdarstellung, ‘autorappresentazione’, e Selbstdeu1
Questi paradigmi hanno guidato le grandi imprese filologiche degli istituti storici europei, sul
modello del Muratori o dei Monumenta Germaniae Historica.
2
A. CAMERON, Poetry and Propaganda at the Court of Honorius, Oxford 1970; M. WHITBY (ed.), The
Propaganda of Power. The Role of Panegiric in Late Antiquity, Leiden 1998.
3
F.E. CONSOLINO (ed.), Letteratura e propaganda nell’Occidente latino da Augusto ai regni romanobarbarici. Atti del Convegno internazionale, Arcavacata di Rende, 25-26 maggio 1998, Roma 2000.
4
La propaganda politica nel basso medioevo (Todi, 14-17 ottobre 2001), Spoleto 2002.
5
R. CASTANO - F. LATELLA - T. SORRENTI (edd.), Comunicazione e propaganda nei secoli 12. e 13. Atti
del Convegno internazionale (Messina, 24-26 maggio 2007), Roma 2007.
6
G. WEBER - M. ZIMMERMANN (edd.), Propaganda – Selbstdarstellung – Repräsentation im römischen
Kaiserreich des 1. Jhs. n. Chr., Stuttgart 2003.
360
Francesco Stella
tung, ‘autointerpretazione’ (Hauck). In questi casi il soggetto espresso o sottinteso dell’iniziativa è il centro di potere che promuove, diffonde o favorisce
comunicazioni autorevoli finalizzate alla creazione di consenso: questo è stato, per l’età carolingia, il punto di vista privilegiato dagli storici interessati
anche ai testi poetici come Percy Ernst Schramm7, Ernst Kantorowicz8, Carl
Erdmann9, Joseph Fleckenstein, Helmut Beumann10, Karl Hauck11, Robert
Folz12, Gerd Althoff13. La ricerca che invece privilegia termini retorici come
panegirico o encomio, tornata di attualità nei volumi recenti di Claudia Schindler14 sul panegirico tardoantico e di Fulvio Delle Donne sull’encomiastica
federiciana15, si colloca dal punto di vista del produttore di testi, o di altre
creazioni artistiche, che elabora più o meno volontariamente una narrazione propagandistica nei confronti del centro di potere cui si rivolge e di cui
intende fornire una rappresentazione: quest’ultima, sempre relativamente al
sistema carolingio, è la specola di osservazione minoritaria rappresentata fra
gli altri da Dieter Schaller16, Christine Ratkowitsch17, Fidel Rädle18, Alfred
Ebenbauer – la cui dissertazione del 1978 Carmen Historicum19 a 32 anni di
7
P.E. SCHRAMM, Kaiser, Rom und Renovatio, Leipzig 1930.
E.H. KANTOROWICZ - M.F. BUKOFZER, Laudes Regiae. A Study in Liturgical Acclamations and Mediaeval Ruler Worship, Berkeley - Los Angeles 1946 (= 1974).
9
Storico dell’idea di crociata, rientra in questa schiera per alcuni articoli sul Deutsches Archiv e per
il libro postumo Forschungen zur politischen Ideenwelt des Frühmittelalters, ed. F. BAETHGEN, Berlin 1951.
10
J. FLECKENSTEIN, Ordnungen und formende Kräfte des Mittelalters: Ausgewählte Beiträge, Göttingen 1989; H. BEUMANN, Die Kaiserfrage bei den Paderborner Verhandlunghen von 799, in V. ELBERN (ed.),
Das erste Jahrtausend. Kultur und Kunst im werdenden Abendland an Rhein und Ruhr, I, Düsseldorf
1962, 296-317; e l’edizione del Karolus magnus et Leo papa: ein Paderborner Epos vom Jahre 799, Paderborn 1966.
11
K. HAUCK, Karolingische Taufpfalzen im Spiegel hofnaher Dichtung. Überlegungen zur Ausmalung
von Pfalzkirchen, Pfalzen und Reichsklostern, “Nachrichten der Akademie der Wissenschaften zu Göttingen”, Phil.-Hist. Klasse 1 (1985), 3-95.
12
R. FOLZ, Le couronnement impérial de Charlemagne (Trente journées qui ont fait la France : 25
décembre 800), Paris 1964.
13
G. ALTHOFF, Die Macht der Rituale. Symbolik und Herrschaft um Mittelalter, Darmstadt 2003.
14
C. SCHINDLER, Per carmina laudes. Untersuchungen zur spätantiken Verspanegyrik von Claudian bis
Coripp, Berlin - New York 2009.
15
F. DELLE DONNE, Il potere e la sua legittimazione. Letteratura encomiastica in onore di Federico II
di Svevia, Arce (Frosinone) 2005.
16
Contributi raccolti in D. SCHALLER, Studien zur lateinischen Dichtung des Frühmittelalters, Stuttgart 1995.
17
Ha tematizzato le ricerche sulla rappresentazione encomiastica di Carlo dall’VIII secolo a Ugolino Verino in C. RATKOWITSCH, Karolus Magnus – alter Aeneas, alter Martinus, alter Iustinus. Zu Intention
und Datierung des «Aachener Karlsepos», Wien 1997.
18
F. RÄDLE, Tugenden, Verdienste, Ordnungen. Zum Herrscherlob in der karolingischen Dichtung, in
P. GODMAN - J. JARNUT - P. JOHANEK (edd.), Am Vorabend der Kaiserkrönung. Das Epos «Karolus Magnus
et Leo papa» und der Papstbesuch in Paderborn 799, Berlin 2002, 9-18.
19
A. EBENBAUER, Carmen Historicum. Untersuchungen zur historischen Dichtung im Karolingischen
Europa, Wien 1978.
8
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 361
distanza è ancora il riferimento più citato sulla questione – e Peter Godman,
che nel 198720 ha dedicato un rapido ma efficace panorama al panegirico carolingio e merovingio nelle sue diverse forme, collocandosi però sulla linea della
tradizionale interrogazione sulla questione “poesia e potere” come riflesso
delle biografie dei poeti e del rapporto personale con il patrono, mentre mancano tuttora una ricostruzione delle dinamiche socioletterarie21 come quella
tracciata lucidamente sulla transizione tardoantica da Heinz Hofmann in un
lungo saggio su “Philologus” nel 198822.
2. Letteratura di propaganda in età carolingia. La prima fase
Un’osservazione preliminare riguarda il peso statistico della letteratura direttamente classificabile come encomiastica nella produzione carolingia: su
un patrimonio di circa 3200 pagine in folio dei Poetae latini medii aevi i testi
direttamente relativi a un imperatore assommano a poche decine di pagine.
Come si sa, il vero monumento letterario a Carlo Magno è la biografia in
prosa composta da Eginardo intorno all’825, poi romanzata da Notker di San
Gallo, mentre non si può parlare di un epos celebrativo coevo paragonabile
a quello che saranno, tre secoli dopo, la Chanson de Roland e tutti i suoi derivati. La presenza di Carlo nella poesia carolingia è pervasiva e inevitabile,
ma viene tematizzata molto meno di quanto si potrebbe credere: diventa una
sorta di sfondo permanente che ogni poeta richiama in elementi significativi
ma accessori della struttura, come l’invocazione, o un omaggio occasionale,
o la preghiera finale che colloca la recitazione del testo nella sua occasione
concreta, e funge da connotazione identificativa di un ambiente, di un clima
culturale, di una cerchia in cui l’autore si riconosce ed è riconosciuto23. Le
opere relative a Carlo Magno che si avvicinano di più alla definizione di panegirico diretto sono solo due: la più antica è il cosiddetto De Karolo rege et
Leone papa, un elegante poemetto o frammento di poema di 536 esametri che
descrive quasi in tempo reale l’arrivo di papa Leone III, assalito e mutilato a
Roma da avversari politici, a Paderborn dove Carlo teneva nell’estate 799 l’as20
P. GODMAN, Poets and Emperors. Frankish Politics and Carolingian Poets, Oxford 1987.
Avviata da M. FERRARI, Potere, pubblico e scrittura nella comunicazione letteraria dell’alto medioevo, in Comunicare e significare nell’alto medioevo. LII Settimana del CISAM, 15-20 aprile 2004, Spoleto
2005, 575-652.
22
H. HOFMANN, Überlegungen zu einer Theorie der nichtchristlichen Epik der lateinischen Spätantike, “Philologus” 132 (1988), 101-159.
23
RÄDLE, Tugenden…, 17: «Selten is, wie schon angedeutet, das Herrscherlob so frontal wie
manchmal bei Alkuin: Die karolingischen Dichter haben die indirekte Annäherung bevorzugt und ihre
Rühmung, wo sich das machen liess, sogar ganz ins Objektive verlegt».
21
362
Francesco Stella
semblea imperiale e presenta scene come il sogno premonitore, l’accoglienza
al papa, il corteo reale e la battuta di caccia che resteranno paradigmatiche
nella poesia medievale; l’altra sono gli Annales de gestis Karoli Magni, opera
in 2963 versi di un anonimo poeta sassone che poco prima dell’891, cioè quasi
80 anni dopo la morte del protagonista, versifica in 4 libri di esametri le fonti
annalistiche sulle imprese militari e politiche di Carlo; poi, in un quinto libro
in distici, traccia un bilancio agiografico del suo ruolo storico e metastorico,
attingendo alla biografia di Eginardo e alla sua proiezione oltremondana. A
queste si aggiungono poche forme di respiro più limitato e di composizione
più occasionale originate da eventi precisi, come l’epillio di 103 esametri del
cosiddetto Hibernicus Exul, cioè l’irlandese Dungal, che celebra la vittoria sui
Bavari al seguito del duca Tassilone, e un poemetto di 80 versi sulla conversione dei Sassoni attribuito da Schaller a Paolino, il grammatico longobardo
poi nominato vescovo di Aquileia, che esalta il valore della conversione di un
popolo, sia pure indotta dalla forza, nella storia sacra.
Anche sul piano quantitativo è dunque improprio definire la dinamica della comunicazione in cui queste produzioni esercitano il proprio ruolo come
processo di creazione di un consenso, così come è possibile che si sia ecceduto in passato nell’immaginare un’attività di propaganda imperiale in termini
moderni che presuppongono l’esistenza di un’opinione pubblica in grado di
influire sui processi decisionali. È anche improbabile, o almeno non sufficientemente documentato, immaginare per Carlo Magno una committenza diretta
o indiretta del centro di potere come avviene per i panegyrici tardoantichi o
nei circoli di Messalla o Mecenate. Il rapporto che emerge nel caso carolingio è di natura sensibilmente diversa, con complesse differenziazioni fra un
sovrano e l’altro e fra categorie di intellettuali diverse per cronologia di affiliazione e per tipologia di espressione, perché l’epistola o il trattato politico
o teologico si configurano come consulenza attiva primaria, mentre la poesia
è percepita sostanzialmente o come forma di intrattenimento oppure come
apparato di valorizzazione secondaria, perfino di sacralizzazione liturgica, di
altre espressioni intellettuali o di occasioni pubbliche, compresi naturalmente
ma non prevalentemente i successi militari o politici24.
Con una forzatura banalizzante potremmo definire questa relazione, soprattutto in una prima fase, come elaborazione clientelare di un codice identitario più che committenza ideologica, anche se i cliché simbolici assumono un
effetto anche ideologico nelle interpretazioni e riscritture successive, creando
24
La cronologia di affiliazione influisce perché le modalità con cui i primi autori, chiamati a corte (termine con cui significhiamo la collaborazione con le attività del governo centrale), sono portati a formulare
espressioni di esaltazione del sovrano e dei suoi successi sono relativamente diverse e certamente primitive
e più scolastiche, rispetto a quelle con cui gruppi entrati a corte successivamente, o impegnati sugli stessi
temi ma con sovrani successori di Carlo Magno, interpretano il codice già strutturato dai primi arrivati.
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 363
una topica basata fondamentalmente su tre pilastri: la missione apostolica di
Carlo come convertitore di popoli pagani, il ruolo di promotore delle lettere e della scrittura e, a partire dalla prossimità con l’incoronazione dell’800,
la costruzione di una nuova Roma come riferimento politico universale. Per
chiarire l’accenno alla connotazione clientelare mi limiterò a ricordare che
più volte i poeti carolingi alludono a dinamiche di ascesa sociale legate alle
proprie prestazioni intellettuali, citando spesso i precedenti classici di poeti
che – secondo le informazioni tramandate dalle vite dei grammatici latini –
trassero vantaggio dal proprio impegno di intellettuali organici, come Virgilio
e il primo Lucano e, per i contemporanei, Angilberto, Alcuino, Teodulfo ed
Eginardo, tutti beneficati con la direzione di abbazie o vescovati; a questo in
qualche caso si sovrappone o contrappone l’esempio negativo di Ovidio, cui
non giovò l’adulazione del sovrano. Questa dialettica elegge a topos lessicale
l’uso del termine praemium ma non allude mai a richieste dirette o indirette del sovrano o di suoi mediatori, e nasconde sotto l’abituale copertura del
dialogo pastorale una contrapposizione di gruppi in competizione nella cerchia carolingia più immediatamente vicina a Carlo e insieme una dinamica
di iniziazione e ammissione al patronato che comporta e assorbe un’iniziale
ostilità. Ne vediamo una dimostrazione vistosa nella prima delle due Ecloghe
di Modoino-Muadwin, poi diventato vescovo di Autun, che frequentò la corte fra l’ultimo decennio dell’VIII secolo e i primi due del IX. Nel brano che
riproduciamo in appendice David è il nickname arcadico di Carlo, sovranopoeta, mentre Homerus è il poeta Angilberto, Flaccus l’alias di Alcuino di
York e Nardus il diminutivo di Eginardo, e la nuova Roma è la reggia di Aachen in costruzione, descritta dal poeta nei termini della Cartagine virgiliana.
Carlo non appare committente, ma destinatario e dedicatario di poesia alla
quale si interessa in maniera sincera e attiva, come sappiamo anche da altre
fonti e dai numerosi testi lirici composti a suo nome: le commissioni di lavoro
intellettuale dal centro, gli haud mollia iussa, non mancano25, ma si orientano
per lo più verso impegni di natura scolastica, scientifica e teologica. Come è
noto l’imperatore sollecita più volte gli specialisti che insegnano nella scuola
di palazzo o frequentano a vario titolo la corte a adoperarsi per migliorare la
condizione linguistica dei testi liturgici o l’attendibilità filologica delle versioni bibliche in circolazione, per redigere documenti della legislazione politicoculturale, ecclesiastica o diplomatica, per compilare manuali di grammatica e
retorica o commenti ai libri della Bibbia. In quest’ambito il suo intervento è
25
Un caso esemplare è nella prefazione metrica di Vigbodo a un codice di esegesi biblica sull’Ottateuco, dove si esplicita la committenza regia sia nel titolo (Carolus rex Francorum et Langobardorum
ac Patricius romanorum hunc codicem ad opus suum scribere iussit) sia alla fine della dedica: haec tibi,
rex summe, iussu compulsus herili / servulus, ut potui, devota mente dicavi. La iussio però, pur essendo
espressa in versi, si riferisce all’opera in prosa che li segue.
364
Francesco Stella
diretto, specialmente su collaboratori stretti come Alcuino o Teodulfo, e produce com’è noto una legislazione avanzata, una politica di accesso scolastico
che in termini moderni potremmo definire democratica, una circolazione libraria che si impenna moltiplicando per dieci le unità di testo in circolazione
e le aree geografiche interessate alla lettura. Sul piano della produzione specificamente intellettuale è celebre la curiosità di Carlo per enigmi e problemi
matematici e ancor più per questioni filosofiche, astronomiche o teologiche,
su cui chiede di volta in volta responsi agli intellettuali vicini alla corte, suscitando così qualche volta dei veri e propri dibattiti pubblici sull’argomento. È
esemplare, fra queste, l’interrogazione sulla definizione del Nulla di cui ci è rimasta la risposta di Fridugiso, allievo di Alcuino a Tours26. Ma non sembrano
dimostrabili, o non sono statisticamente significative, richieste anche indirette
di composizione poetica che non appartengano ai settori sopra elencati o si
distinguano dallo scambio di indovinelli o dalle descrizioni spiritose e festive
dei banchetti di corte.
Le forme carolinge di poesia encomiastica rispondono dunque a una sorta
di progettualità ambientale indipendente da committenze precise perché diretta verso un centro di potere relativamente disarmato sul piano culturale e non
in grado di predeterminare orizzonti di attesa strutturati, dunque aperto alla
sollecitazione dei visiting poets – quelli che Peter Brown ha definito “i primi
tecnocrati europei” – chiamati dal sovrano per finalità scolastico-burocratiche
in seguito a incontri casuali, come per Alcuino, oppure dopo conquiste estere,
come per Paolo Diacono e Paolino d’Aquileia, o per ospitalità verso profughi
come Teodulfo d’Orléans, o per soddisfare la curiosità verso conferenzieri in
tournée come erano gli irlandesi, che la leggenda (riportata da Notker di San
Gallo all’inizio dei suoi Gesta Karoli Magni) descrive mentre, appena sbarcati
a Calais, aprono uno stand di “prodotti culturali” in vendita, di cui Carlo è il
primo compratore.
3. Forme extracurriculari di poesia encomiastica
3.1. L’attività scrittoria
Se si esce dunque dall’attesa di articolazioni panegiristiche di tipo paraepico, come imporrebbe una previsione di continuità con l’epoca claudianea, si
26
Edizione con trad. italiana in Fredegiso di Tours, Il nulla e le tenebre: la nascita filosofica dell’Europa, ed. F. D’AGOSTINI, Genova 1998. Questa abitudine restò prerogativa del rapporto fra imperatore
e teologi, termine che per l’epoca equivale a intellettuali, per tutto il periodo carolingio, come retaggio
della genuina e insaziabile curiosità che era stata caratteristica del capostipite.
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 365
riscontra che tante altre sono le forme di collaborazione col potere elaborate
dalla fucina carolingia: le dediche paratestuali di manoscritti di lusso, la Zirkulardichtung della nuova rete intellettuale, le iscrizioni per luoghi o personalità
composte anche a gara dai poeti più rappresentativi, i planctus funebri per
imperatori, abati o duchi, le apparizioni dei potenti nelle visioni dell’aldilà
come la Visio Wettini di Valafrido Strabone (vd. estratto in Appendice), o
nelle mascherate arcadiche come le ecloghe di Modoino o l’enigmatico De
imagine Tetrici del medesimo Valafrido. Sono tutte forme in gran parte nuove
che in Poets and Emperors Peter Godman ha saputo collegare alla capacità
di quest’epoca di «adaptation and invention of poetic form in response to
political actuality»27 e alla creatività di poeti che «had responded to the legacy
of antiquity with a fresh inventiveness that distinguishes their work from the
stale mimicry of the classics pursued by their contemporaries in the East»28.
Una tipologia di celebrazione indiretta, relativamente frequente fin dai primi anni del regno è quella dei paratesti dei manoscritti la cui produzione
com’è noto si moltiplica in pochi decenni: dediche, argumenta, subscriptiones,
versus scribarum. Nel 781 l’evangeliario di Godescalco commissionato come
dono per il battesimo del principe Pipino a Roma29 definisce Carlo studiosus
in arte librorum30, e nelle subscriptiones poetiche dei copisti sangallesi Vinidario e Iacob egli è il re che ha dichiarato guerra agli errori dei testi: la prima
lo descrive come Qui sternit per bella truces fortissimus heros, / Rex Carolus,
nulli cordis fulgore secundus, / Non passus sentes mendarum serpere libris, /
En, bene correxit studio sublimis in omni31, la seconda celebra la progettualità
di un re che promuove la produzione di memorie future Inclitus invictum
Christi virtute tropheum / Qui regit, haec fieri Karlus rex namque modestus /
mandat ut in seclis rutilet sophisma futuris. / Legit enim famulus stilo anomoque Iacobus32.
27
GODMAN, Poets…, xi.
GODMAN, Poets…, 184.
29
Paris BN n.a. lat. 1203; cfr. GODMAN, Poets…, 46; F. MÜTHERICH, Die Buchmalerei am Hofe Karls
des Grossen, in Karl der Grosse, III, Aachen 1965, 9 s.; F. STELLA, La comunicazione nella poesia carolingia,
in Comunicazione e significazione nell’alto medioevo. Spoleto 15-22 aprile 2004, Spoleto 2005, 615-652.
30
Subscriptiones librorum saec. VIII, dal ms. Paris BN n.a. 1203 del 781.
31
W. WATTENBACH, Schriftwesen, Leipzig 1896 (= Graz 1958), 327. Wien ÖNB 743 saec. VIII f. 78v,
ed. E. DÜMMLER, MGH, Poetae, I, 89-90. L’altro ms., Zürich C 78 del IX sec. da San Gallo, contiene l’opera
di Quinto Sereno Sammonico, ed. DÜMMLER, 97-98, vv. 17-20.
32
Pur non utilizzando queste soscrizioni GODMAN, Poets…, 47, collega espressioni di questo tipo,
che si ritrovano anche in Vigbodo, Adam di Masmünster e altri estensori di poesie dedicatorie, alla
maturazione del cliché del rex doctus formatosi nella panegiristica merovingia di Venanzio Fortunato:
credo però che ci si trovi qui di fronte a un caso di sopravvalutazione critica dei processi convenzionali
o intertestuali, che rischia di oscurare la differenza di peso fra un’adulazione isolata, come nel caso di
Venanzio, e un vero e proprio repertorio di formulazioni che trasformano in cliché un processo socioculturale effettivo e anzi imponente.
28
366
Francesco Stella
3.2. Poesia cerimoniale e mitizzazione della conversione sassone
A queste forme di encomiastica obliqua appartengono i poemetti cerimoniali non mirati alla celebrazione diretta del sovrano ma al coronamento di
particolari festività di corte, come la Pasqua, seguendo una tradizione che
risale almeno ai tempi di Ausonio e Claudiano: un esempio significativo sono
il set di carmi esametrici greco-latini del teologo irlandese Giovanni Scoto
Eriugena, che suscitarono l’ammirazione di Ezra Pound. A queste occasioni
di ambito religioso appartengono le liturgie del potere studiate per l’antichità
imperiale da Sabine MacCormack e per il medioevo da Kantorowicz, Hauck
ed Elze (vd. nota 37): vi appartengono le laudes istituzionali e le formule parapoetiche di saluto al sovrano in arrivo o di passaggio, canonizzate per la
cerimonia di adventus nel sottogenere dei susceptacula regum documentato
da Walter Bulst33. Questo tipo di produzione poetica subisce in età carolingia
una proliferazione e una diversificazione di forme, di generi e livelli tale da
farne una caratteristica della elaborazione culturale e documentale dell’epoca,
e si sovrappone o comunque influenza probabilmente anche la composizione
di poesia più tradizionale: anche per il frammento epico De Karolo rege et
Leone papa infatti Karl Hauck ha sostenuto una funzione di susceptaculum
fondata sull’enfatizzazione dei dettagli cerimoniali, anche visivi. E situazione analoga presentano i tardocarolingi Gesta Berengarii di cui parleremo più
avanti, che pur nella struttura decisamente epica sono stati interpretati come
testo di apparato o di memoria per la cerimonia di incoronazione imperiale
del re d’Italia che viene descritta sontuosamente nel IV libro. Una testimonianza precoce in questo senso ma ancora sconosciuta a Godman la offre un
testo in versi ritmici scoperto da Bernhard Bischoff e pubblicato pochi anni
fa da Dieter Schaller, che ne proponeva l’attribuzione a Paolino d’Aquileia:
la poesia ritmica con incipit Regi regum34 in 18 terzine di doppi settenari, o
quindicisillabi, che celebrano la resurrezione del re del mondo e il riscatto
degli uomini con cui inaugurò una nuova era della storia (testo 3 dell’appendice). L’invito conclusivo al giubilo per la salvezza così ottenuta si associa alla
lode per Cristo che con magna providentia incoronò nobis, “per noi” cioè per
la collettività che sta cantando, il re qui regit in magna clementia / et sublimium redigit colla qui spumantia, cioè sottomise i superbi quos gubernat prudens rector, che ora governa con saggezza iusto moderamine e che obbliga alla
fede cristiana, Christo cogit famulari, procurando alle gentes la salvezza. Una
dossologia finale conclude il ritmo, evidentemente destinato a essere cantato
33
Susceptacula regum. Zur Kunde deutscher Reichsaltertümer, in Corona quernea. Festschrift für Karl
Strecker, Leipzig 1942 (= Stuttgart 1952; 1962), 97-135.
34
Conservata nel ms. Paris BN lat. 13027 da Corbie, del IX secolo, che contiene le Etymologiae di
Isidoro e pochi testi liturgici, fra i quali appunto questo.
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 367
dinanzi al popolo e al re35. Schaller ha pensato che si tratti di un inno composto in occasione delle festività pasquali trascorse da Carlo Magno a Treviso il
14 aprile 776, dopo la vittoria sui Longobardi di Rodgaudo del Friuli, che si
erano ribellati a Carlo ed erano stati sconfitti. Paolino, che Carlo chiamò poi
a corte donandogli dei terreni36, assumerebbe la responsabilità di dar voce al
sentimento collettivo della comunità longobarda grata, almeno ufficialmente,
della propria integrazione nel dominio franco e nel buon governo di Carlo,
o meglio sceglierebbe di diffondere attraverso il canto la rappresentazione
della nuova identità politico-culturale della comunità di appartenenza nella
liturgia di accoglienza del sovrano che associava probabilmente laudes come
quelle canonizzate nei documenti ufficiali37 a innodie religiose38 strettamente
35
Riporto le ultime strofi (14-18) dall’edizione Schaller: Regi celso seculorum regum <qui> ditissimus /
nunc et semper sit perennis laus et honor pristinus, / qui salutis auxit dona largitor largissimus, // Quando nobis coronavit magna providentia / Carolum regem, qui regit in magna clementia / et sublimium redigit colla qui
spumantia. // Quos gubernat prudens rector iusto moderamine, / Christo cogit famulari tranquillo regimine, /
[per] cuius dogma gentes alta recto pergunt tramite. / Gaudemus sub tanto cuncti rege rectitudinis, / sub quo
simul proferamus antro nostro pectoris: // Patri semper sempiterno sit laus atque gloria, / unigenitoque nato
summa sit potentia, / spiritu cum paraclito seclo permanenti: D. SCHALLER, Ein Oster-Canticum des Paulinus
von Aquileia für Karl den Großen. Erstedition und Kommentar, in Studien…, 1-26; 399-403.
36
MGH, Dipl. Karolinorum. Die Urkunden der Karolinger, I, 1906, 158 s., n. 112: Carolus gratia dei
rex Francorum et Langobardorum ac patricius Romanorum omnibus episcopis abbatibus ducibus comitibus
gastaldiis vel omnibus fidelibus nostris presentibus et futuris. Merito quidem e nobis sublevantur muneribus, qui nostris fideliter obsequiis famulantur, et ideo, si petitiones eorum, pro quibus nostras pulsaverint
aures, ad effectum perducimus, regiam consuetudine exercemus atque illorum animum nobis deserviendo
amplius provocamus. Igitur notum sit omnium vestrum magnitudini, qualiter cedimus atque donamus a
nobis viro valde venerabili Paulino, artis grammatice magistro, hoc est res quasdam et facultates, que fuerunt
Waldandi, filii quondam Immoni de Laberiano, que ad nostrum palatium devenerunt, pro eo quod in campo
cum Roticauso inimico nostro a nostris fidelibus fuit interfectus […]. Se l’ipotesi fosse giusta, questo famoso diploma di Ivrea che dona a Paolino i beni confiscati a un Gualdando figlio di Immone di Lavariano,
prima attestazione storica del rapporto fra Carlo e Paolino, troverebbe in questa poesia un precedente
di estrema importanza e forse una motivazione concreta della donazione. Nel diploma di Ivrea Paolino
viene apostrofato come uno di coloro qui nostris fideliter obsequiis famulantur. E questa prova poetica
potrebbe essere la prima dimostrazione del “servizio” di Paolino per la corte franca in qualità di artis
gramatice magister, una qualifica che poteva prevedere la composizione di dictamina ufficiali. I nuovi dati
richiamano l’attenzione sulla funzione pilota che Paolino assume autorevolmente non solo nell’elaborazione e nella romanizzazione di una teologia e di una liturgia protocarolinge, ma anche nella creazione
di una poesia politica dotata di una propria intenzionalità mitopoietica e di una lucida consapevolezza
escatologica. La cifra peculiare di Paolino in questo è la capacità di intuire immediatamente, prima che
si definiscano i rapporti di Carlo col papato e prima che si elabori una teoria della cristianità carolingia,
la necessità di una connessione culturale fra l’imperialismo dei Franchi e la cornice religiosa della storia
universale, e di dare a questa legittimazione politico-religiosa una veste poetica, uno stile di corte che
faccia riferimento costante al significato teologico del fatto politico.
37
Cfr. KANTOROWICZ - BUKOFZER, Laudes…; R. ELZE, Die Herrscherlaudes im Mittelalters, Weimar 1954;
e recentemente A.T. HAUCK, Das Empfangzeremoniell bei mittelalterlichen Papst-Kaiser-Treffen, Köln 1999.
38
Se facciamo attenzione anche l’inno Congregavit, celebrato giustamente come capolavoro di lirica
religiosa cantato ancora oggi, si conclude con un invito a pregare per la vita dei Signori, proprio come
il ritmo scoperto da Schaller: Pro vita dominorum exoremus, / Multos ut cum ipsis annos gaudeamus, /
368
Francesco Stella
intrecciate alle prime nel tema e nel repertorio di immagini, che faceva leva in
entrambi i casi sul senso della regalità39.
In un altro convegno friulano di qualche anno fa avevo osservato che non ci
sono prove sul riferimento di questo ritmo ai Longobardi e che anzi, siccome l’inno sembra festeggiare l’asservimento di un popolo non cristiano, mentre i Longobardi erano cattolici da 150 anni, potrebbe trattarsi di una celebrazione della
vittoria sui Sassoni. A questo evento storico Paolino aveva dimostrato la propria
sensibilità componendo il citato Carmen de conversione Saxonum, 75 esametri
curatissimi per tessuto retorico e profusione di termini rari o unici, composto
in occasione del campo di maggio del 77740, che inserisce la conquista in una
visione universale del fatto storico, elevandola a segno del passaggio a una nuova era come episodio della storia della salvezza, e contrassegnando il re – in un
paragone implicito con Giovanni Battista – come strumento del disegno divino.
Il battesimo di massa dei Sassoni, che suscitò le riserve esplicite di Alcuino, è
dipinto come una liberazione, necessariamente sanguinosa e anzi meritoriamente
eroica, da riti pagani subumani: il fatto è oggetto di una quadruplice similitudine
come passaggio da lupi ad agnelli, da grifoni e arpìe a uccelli miti, da molossi a
cerbiatti, da tigri e leoni a pecore. Questa acquisizione procurerà a Carlo, alla
fine dei tempi, l’elezione al paradiso diffusamente descritta 100 anni dopo negli
Annales del Poeta Sassone41. Karl Hauck considera il poemetto una sorta di iscrizione solenne42 da dipingere o incidere sulle pareti di quella chiesa del Salvatore
che Carlo aveva consacrato a Paderborn nella medesima adunanza del regno43.
Propter quorum hic amorem congregamur. I detentori del potere politico sono celebrati come garanti
dell’unione religiosa dei vescovi convocati nel sinodo, che è appunto uno strumento non solo di elaborazione teologica ma soprattutto di deliberazione di politica religiosa.
39
SCHALLER, Ein Oster-Canticum…, 210.
40
Annales Mosellani, MGH, Scriptores, XVI, 496; Annales Petaviani, MGH, Scriptores, I, 16.
41
Il testo, che era edito nei Poetae Latini aevi Carolini da Dümmler come settimo carme di Angilberto,
è stato ripubblicato nel 1985 dallo storico Karl Hauck sulla base di un secondo manoscritto non conosciuto
al precedente editore: HAUCK, Karolingische Taufpfalzen…, ed. e trad. alle pp. 62-67. Il ms. è il Pommerfeld,
Schönborn 2883 del 1494, mentre il primo, di S. Paolo a Regensburg, scritto intorno alla metà del IX sec., è
andato perduto ed è sostituito dalla stampa di FROBENIUS (FORSTER), Alcuini Opera, II, Regensburg 1777, 615.
42
Come altre di Venanzio Fortunato e Aldelmo di Mamesbury.
43
D. SCHALLER, Der Dichter des “Carmen de conversione Saxonum” in G. BERNT (ed.), Tradition und
Wertung. Festschrift für Franz Brunhölzl zum 65. Geburtstag, Sigmaringen 1989, 27-45 (rist. in SCHALLER,
Studien…, 313-331). Hauck propone un’attribuzione a Lullo, il discepolo e successore di Bonifacio,
educato a Malmesbury, sulla base del forte coefficiente di imitazione dal modello del poeta anglolatino
Aldelmo. Ma chi legga i pochi resti della mediocre e incerta poesia di Lullo, conservati in calce alle sue
lettere nell’edizione di Tangl Bonifatii et Lulli Epistolae, a cura di M. TANGL, in MGH, Epistolae Selectae,
I, Berlin 1916 non potrà aver dubbi sull’assoluta impossibilità che sia lo stesso autore del De conversione
Saxonum. La dimostrazione di Schaller è molto più convincente, e anche se le attribuzioni su base stilistica possono sembrare fragili e provvisorie, sappiamo bene che sono spesso più affidabili di quelle “materiali” dei codici, che non hanno esitato ad assegnare il Liber exhortationis di Paolino a sant’Agostino.
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 369
Altri studiosi44 hanno confutato questa interpretazione rilevando che non ci sono
documenti sulla committenza di Carlo, ma in entrambe le ipotesi si tratterebbe
di una sorta di composizione d’apparato legata a un contesto ufficiale e pubblico,
che solennizza un evento immediatamente percepito come storico anche in altre
fonti45. Anche se la sottomissione dei Sassoni, avviata nel 77246, si sarebbe rivelata ancora parziale e superficiale, questa celebrazione rivela una precisa intenzionalità propagandistica, che appare precocemente condivisa47. Intorno a questo
documento si concretizza infatti una piccola costellazione di protopanegirici, che
si associano alla celebrazione della vittoria sui Bavari e precedono il vertice del
De Karolo rege et Leone papa48: ai testi citati si aggiunge, ad esempio, il carme 41
Dümmler49 di Pietro da Pisa, anch’esso inteso a celebrare la conquista e conversione dei Sassoni, la giustizia del governo di Carlo, la sua attività di edificatore di
chiese e battezzatore di popoli. Le isotopie fra i vari testi dimostrano l’esistenza di
temi comuni della propaganda carolingia già convergenti, e attestano che Pietro
da Pisa e Paolino d’Aquileia, poi Angilberto, Dungal e Modoino ne furono fra i
principali realizzatori durante la prima fase del regno, istituendo una topica, con
costanti e variabili di genere, destinata a istituzionalizzarsi nella produzione successiva. I meccanismi che presiedono alla selezione di questa simbologia sono a
mio avviso piuttosto indipendenti da una continuità strutturale con la tradizione
tardoimperiale o merovingia, e men che meno con la tradizione classica, anche se
singole formulazioni ne recuperano elementi isolati: la similitudine col sole (che
sappiamo risalire almeno a Lucano) nel De Karolo rege e nella prima ecloga di
Modoino dipende certamente da Corippo, mentre la contestualizzazione bucolica deriva da Virgilio; analogamente le scene di caccia di Ermoldo Nigello o la
topica proemiale del De Karolo rege reimpiegano episodi della Vita Martini di
Venanzio Fortunato, mentre la mitologia della nuova Roma comune a Modoino
e al De Karolo rege recupera scenografie dell’Eneide, e la metaforica del re-poeta
sfrutta le tante varianti letterarie della figura davidica: ma la selezione dei temi
centrali – missione ecclesiastica e promozione culturale – risponde piuttosto alla
44
Condivide l’attribuzione D. BULLOUGH, Aula renovata: the Carolingian Court before the Aachen
Palace, in Carolingian Renewal: Sources and Heritage, Manchester - New York 1991, 133.
45
Gli Annales Mosellani segnalano infatti che, 172 anni dopo la morte di Gregorio Magno e la conversione degli Angli, un’altra grande popolazione europea è passata alla cristianità, MGH, SS XVI, 496.
46
La sequenza degli eventi è ben ricostruita da EBENBAUER, Carmen…, 10 sg.: nel 772 l’assemblea
di Worms decide la guerra, ne consegue la prima vittoria sui Sassoni; nel 775 ha luogo la sottomissione
vassallatica, con consegna di ostaggi; nel 777 la dichiarazione di dipendenza.
47
Gli storici finora non avevano riconosciuto questa capacità di programmazione al Carlo dei primi
anni di regno. Sintesi in GODMAN, Poets…, 40; nuova prospettiva comparatistica in M. GARRISON, The
emergence of Carolingian Latin literature and the court of Charlemagne (780-814), in Carolingian Culture:
Emulation and Innovation, ed. R. MCKITTERICK, Cambridge 1994 [rist. 1997], 111-140, 131-135.
48
Il punto sulla situazione nel recente GODMAN - JARNUT - JOHANEK (edd.), Am Vorabend…
49
38 Neff, incipit Culmina si regum dudum cecinere poetae.
370
Francesco Stella
necessità di un riconoscimento del ruolo degli estensori di questi documenti, cioè
della classe intellettuale, che è di formazione ecclesiastica anche quando di stato
civile laico, e che dunque è portata a valorizzare la funzione missionaria e culturale del re come proiezione autoriflessa del proprio ruolo e del proprio orizzonte.
È per questo che nel poemetto in cui Dungal celebra la vittoria sui Bavari la gran
parte del testo che ci è pervenuta è dedicata a un dialogo con la Musa che serve
a enfatizzare il ruolo monumentalizzante della poesia più che ad esaltare l’eroe.
4. Letteratura di propaganda: seconda fase
Dopo l’814 mutano le condizioni storiche, che vedono frantumarsi la centralità e la stabilità del potere centrale in conflitti permanenti prima fra un imperatore debole come Ludovico il Pio e la chiesa franca, poi fra i figli di Ludovico in
contesa per l’impero. In questa mobilità di situazioni gli studiosi hanno creduto
di individuare fasi differenti di una politica culturale in cui l’impulso centrale si
fa intermittente, riacquistando intensità con Carlo il Calvo ma senza recuperare
più l’ampiezza di respiro di Carlo Magno. Tuttavia, indipendentemente dalle
fluttuazioni delle reti di produzione, a mio avviso le modalità espressive del
rapporto col potere, pur registrando innovazioni di tono, di misura e di cornice,
continuano a fondarsi su una motivazione sociale che rimane costante: l’autoriflessività della classe intellettuale nel determinare l’immaginario letterario e
il suo formulario. Nelle generazioni successive si individuano soprattutto due
opere paragonabili per stile e funzione agli Annales del Poeta Saxo (su cui vd.
infra): una è il doppio encomio di Ermoldo Nigello, monaco di stirpe franca al
seguito di Pipino d’Aquitania, esiliato nell’825 a Strasburgo, da dove nella vana
speranza di essere richiamato e di ottenere i munera di cui lamenta la mancanza
scrive sia un panegirico anepigrafo a Pipino in forma di dialogo fra il fiume
Reno e i monti Vosgi, sia un poema In honorem Hludovici a suo padre l’imperatore Ludovico il Pio, raccontando in 4 libri di 2649 versi, distici elegiaci,
le imprese soprattutto belliche di Ludovico in Spagna, Britannia e Danimarca
con ampio riuso delle scene topiche della tradizione da Virgilio a Venanzio ma
anche di creazione carolingia – come accoglienza papale e battuta di caccia – e
copioso ricorso alla strumentazione epica, specialmente discorsi e descrizioni,
ma con un coefficiente di ironia, sconosciuto all’antichità, che sembra una delle
innovazioni più diffuse e sorprendenti della poesia carolingia.
L’altra opera si riferisce al destino di un nipote di Ludovico, il re d’Italia
Berengario I del Friuli, di cui gli anonimi Gesta Berengarii50 narrano in quat50
Su cui vd. ora Gesta Berengarii. Scontro per il regno nell’Italia del X secolo, ed. F. STELLA, intr. G.
ALBERTONI, Pisa 2009.
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 371
tro libri di circa 1090 versi le guerre italiche e descrivono l’incoronazione
imperiale del 915 con stile sicuro ed elegante, capace di amalgamare senza
visibili suture massicce riprese da Stazio e dall’Ilias Latina, riesumando dopo
un silenzio di secoli il temine Panegirico, scritto in greco nella titolazione del
poema e definito, nelle glosse che corredano il manoscritto marciano, licentiosum et lasciviosum genus dicendi in laudibus regum, sulla traccia di un passo
misterioso di Isidoro di Siviglia che sembra squalificare il genere come frivolo
e pagano51. Nel riprendere la struttura dei panegirici epici tardo antichi senza imitarli, e saltando anzi il rapporto con l’encomiastica carolingia, i Gesta
Berengarii sembrano collocarsi come un momento stilisticamente felice ma
isolato di ripresa scolastica della composizione epica, che è stata ricondotta
al classicismo della cultura norditaliana fra la fine del IX secolo e l’inizio del
X, ma che si collega comunque al sistema carolingio sia per lo scrupolo di
cristianizzazione dell’eroe sia per la funzione cerimoniale di componimento
d’apparato e l’orientamento fortemente propagandistico nell’interpretazione
dei fatti storici, anche se il rapporto con il destinatario ha perso definitivamente la complicità della vera letteratura di corte.
Come abbiamo visto per la prima generazione carolingia, anche per quelle
successive l’epica encomiastica conosciuta da Claudiano a Prisciano e Corippo è solo una, e forse la meno influente, delle modalità di espressione del
consenso o comunque del rapporto di collaborazione intellettuale col potere.
Delle forme di poesia politica più sottili e sofisticate elaborate nei primi anni
di Carlo la seconda e la terza generazione carolingia sviluppano invece, ad
esempio, le dediche librarie o le parti in versi degli specula principum, cioè di
quei trattati di consigli morali e religiosi all’autorità civile la cui creazione è
appunto un contributo di quest’epoca: in questo campo un piccolo capolavoro è il De rectoribus christianis, prosimetro composto, forse per Lotario II,
dall’irlandese Sedulio Scoto, che contiene poesie dedicate a governatori di
vario livello: l’imperatore Carlo il Calvo, la moglie Ermengarda, il duca Eberardo del Friuli, il conte Roberto e il vescovo Artgario di Liegi. Con quest’ultimo, il suo referente sociale, Sedulio esprime un atteggiamento decisamente
clientelare ma capace di trasformare la richiesta di sostegno in un ironico apo51
Altra attestazione di quest’accezione del termine panegyricus nell’Expositio in Psalmum 44 di Pascasio Radberto, libro II, PL 120, 1029A: Hinc quoque sequitur vox Patris ad Filium: Intende, ait, prospere procede, et regna. Porro in Hebraeo habet rursus, decore tuo; ut sit sensus: decore tuo prospere ascende,
et accingere gladio tuo, gloria, et decore tuo. Secundo vero decore tuo lecto, intende prospere. Quod idcirco
dixerim, ne quis putet in Hebraico vitium scriptoris esse. Sed est repetitio nominis tropice figurata, more panegyrico, quo genere laudatores rhetores et saeculares viri loquuntur, quando suis efferunt praeconiis quod
laudare decreverunt. Nel De universo o De natura rerum dell’enciclopedista Rabano Mauro (15,2, PL 111,
419D) la descrizione dei generi letterarii distingue un genere d’azione o imitativo, che i Greci chiamano
drammatico o mimetico, da uno enarrativum, quod Graeci exegematicon vel panegyricon nuncupant, nel
quale il poeta parla senza ullius interpositione personae.
372
Francesco Stella
logo visionario che supera in una sorta di surrealismo bohémien il sarcasmo
piccolo-borghese di Marziale ma gli è vicina per la condizione di migrante
inurbato, smarrito ma cosciente dei propri mezzi intellettuali così valorizzati
in quella cultura irlandese di cui si sentiva rappresentante. In molti passi dei
carmi dedicati al re, Sedulio presenta gli eruditi irlandesi come portatori di
competenze non comuni, paragonandoli ai magi che recano doni ai potenti
del continente Partibus occiduis Scotti veniuntque sophistae, / sophica dona
ferunt partibus occiduis (II 11,31-32) e ripetutamente li accomuna ai sapienti
greci ed ebrei, tentando così di creare una sorta di mitologia pluralistica del
popolo del libro che accomuni la propria etnia a quelle storiche e contribuisca
ad accreditare il proprio prestigio52 nel processo di ricerca di un patrono, sul
quale egli stesso è il primo a scherzare: un esempio fra tutti la richiesta di un
montone al conte Roberto, accompagnata dalla garanzia che «noi irlandesi,
che siamo tanti, sappiamo mangiarlo bene»: Quaesumus ut multis multetur
multo superbus / Nobis Scottigenis, hunc qui bene mandere scimus.
Con questa generazione dunque le dinamiche clientelari e l’autoreferenzialità dei temi restano linee costanti del sistema di produzione poetica impostato dall’epoca di Carlo Magno, pur mutando tonalità e colori al variare delle
situazioni concrete. Lo conferma anche la persistenza dei motivi protocarolingi negli Annales de gestis Caroli Magni, composti ormai alla fine dell’evo
carolino, al tempo di Carlo il Grosso: il ruolo storico che il poeta riconosce a
Carlo è soprattutto quello dell’apostolo, che converte popoli non cristiani e
acquista nuovi spazi all’universo della fede, ma l’immagine che lo caratterizza
nel rapporto con l’estensore del testo resta ancora quella del promotore, più
che protettore, del processo di alfabetizzazione. All’inizio del V libro53 Carlo
non è solo il re che ha sottomesso Bavari e Longobardi e convertito i Sassoni,
non è nemmeno semplicemente il sovrano mecenate che protegge e sollecita
52
Nel carme 12 a Carlo il Calvo, ricordando i popoli che lo onorano, dopo i Franchi annovera solo
gli Irlandesi che egli difende dal timore dei Normanni (Scottus amore sonat vestrum laudabile nomen /
Nortmannusque tremens splendida castra timet) come se Franchi e Irlandesi costituissero il nucleo del
regno. Allo stesso modo nel carme 17, un planctus in strofe saffiche per la morte di Artgario, elenca –
come nel planctus per Carlo Magno – i popoli in lacrime e questa volta accanto ai Franchi e agli Irlandesi
mette gli Italici, a causa dei rapporti del defunto con Roma. Sullo stesso schema nella poesia 20 per l’imperatrice Ermengarda la celebrazione per la sua fama è cantata da Ebrei, Greci e Irlandesi, accomunati
dall’essere tutti e tre popoli della sapienza. Lo stesso triplice gruppo, Ebrei, Greci e Irlandesi, esalta le
imprese belliche di Carlo il Calvo nel carme 28 (67-70: Francia laetatur vestri praeclara trophea, / Iudaeus,
Graecus fortia facta canunt; / Scottus ab occiduis vos diligit, inclite rector, / Partibus, hinc sophicis vos sonat
ipse melis), ma solo per gli irlandesi si specifica la caratteristica distintiva: il canto «sapiente»: sophicis vos
sonat ipse melis. E lo schema, evidentemente diventato un topos del repertorio di questo poeta, si ripete
nel carme 30 e nel 39 al conte Everardo del Friuli. Recente edizione di R.W. DYSON: Sedulius Scottus, De
Rectoribus christianis – On Christian Rulers, Woodbridge 2010.
53
Anni 888-891. Ed. P. VON WINTERFELD, MGH, Poetae, IV/1, Berlin 1899, 1-71. Vd. POETA SASSONE, Le gesta dell’imperatore Carlo Magno, ed. A. ISOLA, Milano 1988.
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 373
e ricompensa poeti e intellettuali, ma soprattutto è il re che ha portato la
scrittura dove non esisteva, e con questo ha dato la parola a popoli che non
l’avevano: il Poeta Sassone si chiede a chi, se non a Carlo, riconoscere il merito della scintillula che ispira le sue scripturae, della scientiola d’arte che le
illustra, dal momento che i suoi genitori sassoni non solo non conoscevano
gli insegnamenti della fede, ma ignoravano del tutto le lettere: questa dignità,
honestas, è stata donata da poco ai Sassoni grazie a Carlo, e attraverso questa
dignità la speranza di una vita eterna. Nel dono della scrittura e della lettura,
oggetto in questo secolo di numerosi passi poetici, non solo si esprime l’autocoscienza della classe intellettuale, ma è offerto uno strumento insostituibile
di definitivo riscatto morale e sociale. La scrittura coinvolge nei processi della
civiltà popoli finora confinati nella provvisorietà dell’espressione orale, e la
sua propagazione diviene uno dei punti qualificanti dell’immagine letteraria
dell’imperatore, una delle virtù originali delle sue aretalogie poetiche54.
Nella costanza della selezione topica quello che cambia è sostanzialmente la
tonalità con cui la classe degli scribi religiosi manifesta al re la coscienza della
propria influenza sull’autorappresentazione del potere. Nella dedica a Carlo il
Calvo della lussuosissima Bibbia di Tours55, oggi manoscritto numero 1 della
Bibliothèque Nationale di Parigi, i dignitari che nella miniatura centrale offrono il codice al re, e che sono responsabili del fastoso apparato di dediche e di
introduzioni poetiche alla Bibbia, ricordano al dedicatario in una sorta di inno
alla sapientia che il modello di regalità – come in Sedulio Scoto – è Salomone, la
cui dignità derivava dalla sapienza, e come la causa è superiore all’effetto, così la
cultura è superiore alla virtù politica che essa produce, in una sorta di espressione del primato dell’intellettuale sul potente che santifica il secondo solo come
riflesso del primo e che costituisce a mio avviso l’apoteosi della ristrutturazione sociale carolingia. E la sostituzione del modello biblico di sovrano ideale
– che si riscontra anche in Sedulio Scoto e altri poeti – da Davide, re-cantore e
dunque protettore dei poeti, a Salomone, re-sapiente e dunque rispettoso degli
intellettuali, non fa che confermare l’evoluzione della medesima istanza. Questo atteggiamento di lealismo critico trova il suo apice nella condanna di Carlo
Magno al Purgatorio nella Visio Wettini di Valafrido Strabone (vd. estratto in
Appendice), il primo poema esclusivamente dedicato a un viaggio nell’aldilà,
nel quale il giovane autore, per bocca del protagonista, giunge a rivolgersi perfino all’imperatore in carica, Ludovico il Pio, per criticarne il lassismo e invitarlo
a intervenire con decisione contro il tracollo morale della classe politica.
54
Ne serba traccia il De Karolo rege et Leone papa, nei versi 67-77, che esaltano la cultura di Carlo.
Vd. l’ed. L.E. VON PADBERG, De Karolo rege et Leone papa, Paderborn 1999; F. STELLA, Autore e attribuzioni del “Karolus Magnus et Leo papa”, in GODMAN - JARNUT - JOHANEK (edd.), Am Vorabend…, 19-33.
55
Per un’analisi più diffusa del testo rimando a F. STELLA, Poesia carolingia latina a tema biblico,
Spoleto 1993, 81-91; 154-156.
374
Francesco Stella
5. Bilancio
Un’analisi retrospettiva della tradizione encomiastica, come quella effettuata
da studiosi del periodo federiciano56 o rinascimentale57, tende a ricostruire una
continuità nella struttura, nell’immaginario e nel formulario della Preisgedicht
politica dal Panegirico di Messalla a Claudiano e Corippo fino a Pietro da Eboli
e Ugolino Verino, ma per illuminare i fattori di condivisione rischia di assegnare
un ruolo accessorio a elementi portanti e sopravvalutare collegamenti marginali. Intorno a Carlo Magno invece si registra una frattura e una innovazione che
non sembrano risentire tanto dei modelli di genere quanto della ristrutturazione di materiali eterogenei in nuove configurazioni condizionate dai rapporti
sociali della classe intellettuale con il centro di potere. È certamente vero che
gran parte delle virtù imperiali elencate nel De Karolo rege si trovavano già nel
Panegirico a Traiano o nel discorso funebre di Ambrogio per Valentiniano, e
che la risemantizzazione cristiana della topica encomiastica58 aveva già prodotto potenziali modelli nel panegirico di Optaziano Porfirio a Costantino o nel
perduto panegirico a Teodosio di Paolino da Nola. Ma è altrettanto vero che in
età carolingia la scuola non trasmetteva questi modelli, come dimostra il codex
unicus al quale si riduce la tradizione manoscritta dei Panegyrici latini, e che
nell’VIII e IX secolo la funzione encomiastica si trovava a dover ricostituire un
suo codice utilizzando elementi del repertorio liturgico, epistolare, bucolico,
agiografico e solo accessoriamente epico.
In età carolingia il rapporto della attività poetica col potere si reimpagina
in un sistema di comunicazione totalmente nuovo, nonostante le apparenti
analogie col momento augusteo, e un diverso sistema di relazioni sociali ed
etniche produce una nuova tradizione che tende ben presto a una propria
stabilità intorno a valori forti come la diffusione della cultura e della religione
sentite come fenomeni interdipendenti e insieme come competenze in grado
di valorizzare il ruolo sociale degli autori e legittimarne il prestigio. Questa
stabilità, che resiste anche dinanzi al mutare del quadro politico e delle relazioni personali, non può che essere ricondotta alla persistenza della struttura
di produzione culturale, che agisce in condizioni completamente diverse rispetto alla romanità imperiale: i produttori di poesia, che sono anche elaboratori dell’impianto ideologico del nuovo impero, provengono tutti dalle scuole
monastiche o capitolari. L’identità del potere che essi mitizzano nella poesia
non risponde all’interpretazione che una classe di magistrati, senatori e fun56
DELLE DONNE, Il potere…
RATKOWITSCH, Karolus Magnus…
58
La studiai in Fra retorica e innografia: sul genere letterario delle “Laudes Dei” di Draconzio; che
accompagnava il saggio di Heinz Hofmann nel citato fascicolo di “Philologus” 132 (1988), 258-274.
57
La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e postcarolingi 375
zionari civili o militari può dare della propria missione storica per legittimare
il proprio ruolo e il proprio peso, come poteva essere all’epoca di Probino e
Olibrio, ma all’interpretazione della missione metastorica del potere che la
classe di intellettuali ecclesiastici intende accreditare per imporne le condizioni al potere stesso. L’accentuazione della grandezza agiografica di Carlo come
protagonista della storia sacra rispetto alla grandezza politica e militare può
utilizzare certamente strumenti espressivi che risalgono al repertorio panegiristico in prosa e in versi, ma dipende soprattutto dagli interessi e dalla scala
di valori della classe intellettuale che, da una posizione autonoma rispetto
ai centri di potere politico, costruisce il mito di un gigante della storia come
riflesso della propria autocoscienza.
Appendice. Testi
MODOINUS Ecl. 1
Hic, audax iuvenis, qui te cupis esse poetam,
Rustica raucisonae meditaris carmina Musae?
Huc tibi, stulte puer, quae causa palatia tanta,
Quae fuit alta novae cernendi moenia Romae?
Hic frustra in longum deducis carmina tractum:
Publica nulla canis, nulli tua carmina digna,
Sed cunctis despecta patent, vilissime vates.
Horrida precipuus nuper tua carmina David
Sprevit et ingratae delusit munera Musae,
Nec te, credo, velit tantus cognoscere Caesar.
O felix vates, senioris nomen adeptus,
Arboreis recubas formosus miles in umbris.
Quo caput orbis erit, Roma vocitare licebit
Forte locum: omnis erit huc, omnis sexus et aetas.
Hic requies fessis demum venientibus extat.
Ipse locus magnos modicosque ex ordine cunctos
Quippe receptat ovans, meritis pro premia reddit.
Spreta adeo domino non sunt mea carmina magno:
Ille solet calamo silvestri ludere saepe,
Nec vilem tantus iudex me iudicat esse.
Ante cadunt imis miscentia sidera terris
Sese aut ad summos extollunt flumina caelos,
Ante peregrinis errans ferus exul in arvis
Heridanus Nilo properet pugnantibus undis,
Aut Tigris Rhodanum furioso verberet ictu,
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Francesco Stella
Inque vicem miscent famosa flumina rixas,
Ibimus aut vastum quaerentes regna per aequor,
Forte toris miserans tandem nos ultima Thile
Suscipiet, Thetis quo nos miserata videbit,
Ignotisque loci tribuet stipendia fessis,
Illius inmensas quam cesset fistula laudes
Promere nostra sacro gracili modulamine cantu.
Dic, quae causa, puer, haec te cantare coegit,
Unde tibi venit modulandi tanta cupido?
Carmine Naso loquax iamdudum lusit inani,
Dicta peregrinis cumulavit plurima biblis,
Caesaris invisam demens delapsus in iram,
Nequicquam variis mulcebant carmina verbis.
Nulla suae tribuere sibi suffragia musae.
Unde venire putas igitur tibi premia tanta?
Quis te musarum tantus seduxerat error?
Rura colendo fuit melius tibi stiva tenere,
Agricolam patrio cantando imitarier usu.
Nonne senex nosti vates, post perdita rura
Romam Virgilium quondam venisse poetam?
Desperata suis hic dulcibus arva reduxit
Carminibus; post haec opibus florebat opimis,
Dux propriis vates generosus factus in oris.
Depositis quondam miles crudelibus armis,
Lucanus cecinit famosi Caesaris arma:
Idcirco pollebat opum ditissimus heros.
Carmina lusit item variis en maximus odis
Ennius, ingenuis scribens monimenta priorum;
Propterea in terris tenuit tum culmen honoris.
Ast alios plures simile cernemus honore
Ditatos, longum quos est tractare per omnes.
Sic iterum haec etiam nostro nunc tempore cerne:
Nam meus ecce solet magno facundus Homerus
Carminibus Carolo studiosis saepe placere.
Ni Flaccus calamo modulari carmina nosset,
Non tot presentis tenuisset premia vitae.
Theudulfus gracili iam dudum lusit avena:
Plurima cantando meruit commercia rerum.
Aonias vide solitus recitare camenas
Nardus ovans summo presenti pollet honore.
Cede, senex, victus dudum puerilibus armis.
Crede, satis gratas dominis consistere musas,
Praecipuis meritis hinc esse memento poetas.
[...]
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Subscriptiones
Wien ÖNB 743 saec. VIII f. 78v
Qui sternit per bella truces fortissimus heros,
Rex Carolus, nulli cordis fulgore secundus,
Non passus sentes mendarum serpere libris,
En, bene correxit studio sublimis in omni
Zürich C 78 del IX sec. da San Gallo:
Inclitus invictum Christi virtute tropheum
Qui regit, haec fieri Karlus rex namque modestus
mandat ut in seclus rutilet sophisma futuris.
Legit enim famulus stilo animoque Iacobus
PS. PAULINUS AQUILEIENSIS, Regi regum
[...] Regi celso seculorum regum <qui> ditissimus
nunc et semper sit perennis laus et honor pristinus,
qui salutis auxit dona largitor largissimus,
Quando nobis coronavit magna providentia
Carolum regem, qui regit in magna clementia
et sublimium redigit colla qui spumantia.
Quos gubernat prudens rector iusto moderamine,
Christo cogit famulari tranquillo regimine,
[per]cuius dogma gentes alta recto pergunt tramite.
Gaudemus sub tanto cuncti rege rectitudinis,
sub quo simul proferamus antro nostro pectoris:
Patri semper sempiterno sit laus atque gloria,
unigenitoque nato summa sit potentia,
spiritu cum paraclito secla per manentia.
POETA SAXO, Annales V
Si qua meam scripturarum scintillula mentem
Artis et illustrat si qua scientiola,
Nonne dabit iuste Carolo praeconia laudum,
Per quem nancisci tale bonum merui?
Nostri non solum fidei documenta parentes,
Sed penitus cunctos nescierant apices;
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Francesco Stella
Per Carolum nuper nobis est huius honestas
Ac pariter uitae spes data perpetuae.
SEDULIUS SCOTTUS
II 28,67-70
Francia laetatur vestri praeclara trophea,
Iudaeus, Graecus fortia facta canunt;
Scottus ab occiduis vos diligit, inclite rector,
Partibus, hinc sophicis vos sonat ipse melis.
BIBLIOTHECARUM ET PSALTERIORUM VERSUS, 5 (Bibbia di Carlo il Calvo, Paris B.N.F.
lat. 1)
Biblorum seriem Karolus rex inclitus istam
Contexit chryso corde colens catharo.
O miranda nimis domini sapientia summi,
Quae praesens aderas, dum caelos ipse parabat.[...]
Diversas gentes habitus sic mosque reservant,
Sed tu primatum cunctis in gentibus aequum
Sola tenes propria reprimens virtute superbos.
Regibus et regnis semper tu iura dedisti:
Paruit atque tuis quisquis de regibus orsis,
Culmine sublimi micuit sublimior ipse.
Felices dicti, felices sunt quoque facti,
Quique haesere tibi: tua laus et gloria regnant.
Biblorum serie de multis multa feruntur:
Correctis aliis, reprobatis denique multis
Quosdam glorifico rexisti nomine reges;
Sed servasse tuum tibimet specialiter unum
Ac proprium Karolum claret sapientibus orbis.
Quem solem solum regali scemate clarum
Lumine conspicuum ponis, sapientia, primum.
Nunc licet atque libet scrutari funditus illum
Rite modum, reges tibi quo placuisse sciuntur:
Sique tuus dici Karolus vel possit haberi,
Pandatur saltem paucis rudibusque loquelis.
Fortis nam David per te regnavit et egit
Arma beatorum nec non et norma reorum
Stare docens sanctos rursusque resurgere lapsos.
Non pateris humiles penitus tu, sancta, perire,
Quos te corde tuo satis acceptasse fateris:
Corripis et reprimis; quos corrigis, erigis aeque;
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Exerces cunctos, animo quos diligis almo;
Viribus et validis virtutes grata ministras;
Displicuisse putant stolidi quos, diligis immo.
Rex Salomon, quoniam potius tua dona petivit
Ut sapiens posset fieri, praecelsior ullis
Regibus existens opibus pollebat opimis
Iudicioque rato tecum bona plurima sanxit
Doctrinaque tua mundum redimivit abunde,
Mirificum domino meruit quoque condere templum:
A te secedens, in se dispendia passus,
Dogma quod exhausit de te, per saecula lucet.
Ergone tute tuum Karolum non diligis ultro?
An hominum cuiquam humili fit corde secundus?
An pietate calet caluitque tanta vel alter?
Qui memorans adeo cunctarum pectore rerum,
Ut nihil auditum vel visum oblivio carpat:
Propria sola latet delata iniuria mente.
An de iustitiae dicam sileamve tenore?
Si quid forte minus, fateor: miseratio vincit.
Eia age, prome manum largam, vox libera dictu:
Testis erit verax nunc orphanus atque pupillus
(Sic merito cunctos istorum nomine signo,
Dum non excipitur quisquam nec pellitur usquam).
Nec mare praeterea fervens in gurgite vasto
Hanc retinere manum potuit poteritque vel unquam:
Diversae hoc linguae diversa parte loquuntur,
Diversi mores laudant concorditer ipsam.
Felix ergo manus, sed mens felicior huius,
Pauper quae potius secum, quin constat egena,
Non inflata tumens regalis stemmate typi;
Sed, caro dum gemmis auroque ornata refulget,
Haec secum semper meditatur nocte dieque,
Lucidior Christo quo sole resplendeat ipso:
Sicque tuum Karolum facis, o sapientia, solem.
Nempe ubi thesaurus cor, ibi fore rite probatur,
Quod huius domino semper constanter adhaeret,
In quo quicquid habet dulci pietate recondit.
Quid si nunc ipsum terris in carne videret?:
Quo sub amore pedes, quo voto figeret ori?
Quando datam legem tanto veneratur honore,
Quid de euangelico textu replicabo colendo?
En ipsos apices gemmis circumdat et auro [...]
Ecce patet, Salomon quoniam, o sapientia, temet
Non plus dilexit Karolo sine fine beando.
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Francesco Stella
Tu quoque nec David tantis per quaeque probasti;
Inter quae quaedam de quodam gratia facto
Multa tibi toto debetur corde ferenda:
Amisit David regnum rursusque recepit,
Morte tamen geniti tristatus valde dolebat;
Tuque tuo Karolo reparasti regna paterna
Nec dolor accessit, sed amor fraternus adhaesit:
Unde tuum Karolum semper servabis ubique.
Ergo nec hunc David nec Iob magis esse probatos
Apparet plane, pro te nec plura tulisse,
Quanta tuus Karolus mitis, pius atque benignus,
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NHFALEOS FRONIMOS SPOUDAIOS KAI DE DIKAIOS:
Aequivoco Karolo frustratus germine digno
Indulsit pro te saevo scaevoque tyranno,
Omnibus atque suis regno privantibus ipsum
Tam bonitate proba, tanta pietate pepercit;
Quin pervalde suis inimicis maxima rursus
Praedia restituit, donans ac plura quibusdam.
Quid? mereatur erus sanci, sapientia, tantus?:
Iudicio nostro primu