INTERVENTI DEL SERVIZIO SOCIALE RIVOLTI A FAMIGLIE E

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INTERVENTI DEL SERVIZIO SOCIALE RIVOLTI A FAMIGLIE E
INTERVENTI DEL SERVIZIO SOCIALE RIVOLTI A FAMIGLIE E MINORI
Introduzione
«Sostenere una famiglia in crisi significa porre in atto una serie di operazioni volte ad
appoggiare, fortificare, rendere più stabili le condizioni di vita del nucleo, facendo sì
che i genitori possano sperimentare nuovi comportamenti e nuovi modelli relazionali
più adeguati alle esigenze di crescita dei minori. Significa altresì promuovere lo
sviluppo di ambienti sensibili e solidali che favoriscano occasioni di scambio,
confronto, supporto sociale, mutuo aiuto fra le famiglie ed offrano ai bambini
opportunità di socializzazione, attenzione diffusa, ascolto: in una parola, si tratta di
evitare o favorire l’uscita da condizioni di isolamento sociale, fattore considerato
altamente incidente rispetto al maltrattamento infantile»1.
Un esempio di cooperazione tra famiglie e servizi, il progetto Famiglierisorse della
provincia di Reggio Emilia, realizzato nel periodo luglio 1996-1998.
Questo progetto è nato dalla considerazione che le famiglie, nella situazione attuale,
devono fronteggiare difficoltà nuove e di difficile decifrazione (problemi educativi,
problemi economici, occupazionali). Mentre i servizi per le famiglie e l’infanzia, in
particolare il servizio sociale, tendono a leggere il nuovo disagio delle famiglie con le
ottiche consuete (di routine). «Così, di fronte ai problemi quotidiani, le famiglie
trovano intorno a loro supporti non sempre adeguatamente attrezzati: da un lato
associazioni di familiari che tendono ad assumere una carica corporativa e ideologica,
dall’altro operatori sociali da cui spesso si sentono colpevolizzate e che tendono ad
affrontare i loro problemi secondo ottiche settoriali, inadeguate ad assumersi il
sostegno dei problemi che il nucleo familiare genera. Questa situazione si inserisce nel
più ampio scenario della ridefinizione del welfare, in cui l’aumento esponenziale del
numero e della complessità dei bisogni sembra rendere insufficiente la pur
imprescindibile politica delle buone collaborazioni tra pubblico e privato sociale e
richiede che la comunità locale nel suo insieme (società civile e istituzioni) si
riappropri del disagio che la attraversa. […] le forme stesse del disagio si sono fatte
sempre meno definibili secondo le categorie tradizionali: la devianza conclamata ha
abbandonato la massiccia visibilità in piazze e strade e si è insinuata nella vita
quotidiana di un numero crescente di famiglie normali: si è passati dal
tossicodipendente in piazza allo sballo circoscritto al fine settimana, dal minore
deviante in riformatorio a molti ragazzi problematici a scuola. Diminuiscono
simultaneamente le aree della devianza conclamata e della “normalità” mentre
aumenta la zona del disagio invisibile che riguarda in particolare bambini e ragazzi
normali, provenienti da famiglie normali, che viene intravisto alle elementari, si
manifesta ed esplode alle medie e successivamente diventa ingestibile2. È un
fenomeno che comprende non solo gli esiti più estremi (abbandoni scolastici,
comportamenti deviante) ma anche quelli più silenti (demotivazione, disaffezione,
smarrimento, passività, scarsa autonomia di giudizio e di condotta, ricerca di sicurezza
tramite sottomissione a modelli che si presentano forti) […] Si potrebbe dire che i
problemi sociali sono problemi di tutti. Non solo perché è giusto eticamente che tutti
se ne facciano carico o perché in qualche modo arrivano a toccare tutti, ma anche
perché occorre l’apporto di tutti per riconoscerli, nominarli e gestirli»3.
1
Dellavalle M., Forme di aiuto a sostegno o in sostituzione della famiglia biologica, in Lenti L. (a cura di), Tutela
civile del minore e diritto sociale della famiglia, Volume sesto, 2002, Giuffrè,p. 114
2
I media sottolineano, di fronte a particolari dati di cronaca che riguardano adolescenti e giovani, il dato della normalità
– è una tragedia non attesa, quella che si genera in un contesto normale. Mentre nel mondo della devianza può accadere
di tutto. Erika e Omar sono esempi di questa enfasi legata alla logica “come è possibile che delle famiglie normali
generino ragazzi così disturbati?”. Se il delitto fosse avvenuto in una periferia popolare, sarebbe stato l’esito di un
percorso di degrado che conteneva già gli elementi per finire in tragedia.
3
Mazzoli G., Se la famiglia diventa risorsa, in Animazione Sociale, n. 2/2000, p.68
1
Questo progetto ha degli obiettivi che sono
- aiutare i servizi a considerare le famiglie non solo come portatrici di problemi ma
anche di risorse «in grado di cooperare nella definizione dei bisogni e nella
costruzione delle risposte»
- aiutare le famiglie ad abbandonare delle prospettive di soluzione problema
autoreferenziali, passando dalla rivendicazione di un diritto all’assunzione di una
responsabilità comune.
Dal punto di vista pratico non si è immaginato un servizio con una sede, ma una serie
di opportunità, formative, informative e consulenziali in varie sedi di servizi della
Provincia di Reggio Emilia.
Perché occorre aiutare i servizi a considerare le famiglie non solo come problema ma
anche come risorse?
Perché la prospettiva del problema – guardare il problema, scomporlo, risolverlo – sta
sia nelle competenze tecniche che nel mandato istituzionale dei servizi. Dice ancora
Mazzoli «la difficoltà a modificare l’atteggiamento dei servizi sembra derivare
prevalentemente dalla problematicità della reinterpretazione del mandato istituzionale
che considera esclusivamente le famiglie come bisognose di cure (in caso contrario
non le vede) e al contempo impone ai servizi un’unica modalità di erogazione: dare. Si
tratta di una situazione simile a quella della scuola dove il mandato istituzionale legge
lo studente solo come scatola vuota da riempire di saperi (e non come portatore di
esperienze, di risorse e di difficoltà specifiche), mentre all’insegnante è chiesto
esclusivamente di essere un trasmettitore di sapere e non un ascoltatore o un
attivatore di risorse»4.
Dellavalle (2002) distingue gli aiuti alla famiglia biologica in due livelli.
Nel primo colloca
- il segretariato sociale: offerta di informazioni, orientamento e facilitazione nell’uso
corretto dei servizi;
- la presa in carico dei casi si pone come obiettivo quello di aiutare la famiglia a
ritrovare o acquisire la capacità di svolgere i compiti esistenziali. All’interno della
presa in carico si può collocare la consulenza psicosociale;
- il sostegno educativo, che si caratterizza per l’accompagnamento dei soggetti nella
quotidianità, laddove è fondamentale per genitori, bambini e ragazzi poter
osservare, apprendere e sperimentare modalità costruttive di vivere le relazioni
educative.
Campanini (2000) definisce questo intervento come “appoggio
domiciliare con finalità educative”, finalizzato alla responsabilizzazione genitoriale
delle figure genitoriali. È un intervento che l’assistente sociale attiva a favore dei
minori in difficoltà, ma che non gestisce direttamente se non in alcune parti
(valutazione preliminare dell’intervento, definizione del progetto d’intervento al cui
interno si colloca il sostegno educativo, formulazione di un contratto con la famiglia
e il minore, in cui siano esplicitati i compiti della famiglia e i compiti del servizio
sociale (assistente sociale ed educatore) monitoraggio dell’intervento e sua
ridefinizione, se necessario, confronto con l’educatore).
Nel secondo livello, che Dellavalle definisce “concreto-strumentale”, si tratta di ridurre
le pressioni dovute a difficoltà concrete, materiali (problemi finanziari, abitativi,
assenza di un genitore, ecc). Si parla quindi di
- assistenza economica
- assistenza domiciliare
- centri diurni
- affidamento diurno
- borse di formazione lavoro
4
Mazzoli G., cit., p. 71
2
- accesso agevolato a soluzioni abitative, nell’ambito dell’edilizia popolare
- accesso agevolato ai servizi educativi e scolastici per la prima infanzia.
Questo secondo livello è quello che alcuni autori chiamano “intervento
socioassistenziale” (Dal Pra Ponticelli), “contesto assistenziale” (Campanini): è il livello
in cui si collocano le risorse materiali che l’assistente sociale utilizza nel trattamento di
un caso.
La consulenza psicosociale
«L’intervento più complesso nell’ambito del processo di aiuto del servizio sociale […]
è la consulenza psicosociale (nel passato indicata come casework) che tende ad
aiutare la persona a cambiare atteggiamento nei confronti dei propri problemi
attraverso una serie di colloqui volti alla chiarificazione, al sostegno, alla migliore
comprensione della situazione e alla progettazione di possibili soluzioni per uscirne.
Una volta intravisto, insieme all’utente, quale potrebbe essere il cammino da fare
(piano di intervento) per risolvere la situazione, sia l’utente che l’assistente sociale si
impegnano nell’attuazione di una serie di compiti che servono a risolvere la situazione.
Qui si colloca l’utilizzazione delle risorse dell’ente […e] si collocano anche una serie di
impegni (contratto) che si assume l’utente […] L’aiuto all’utente attraverso la
consulenza psicosociale è […] un processo consapevole e razionale da parte
dell’assistente sociale che segue un preciso procedimento metodologico, è basato su
principi e teorie esplicitabili e utilizzabili. Questo è il livello massimo di capacità
professionale dell’assistente sociale […] La consulenza psicosociale viene utilizzata dal
servizio sociale per affrontare problemi inerenti alle difficoltà da parte dell’utente o
della intera famiglia di far fronte a situazioni legate all’assunzione di nuovi e
improvvisi ruoli sociali o compiti esistenziali (pensionamento, adolescenza,
gravidanza, emigrazione, perdita del lavoro, scarcerazione, malattia) oppure nelle
situazioni in cui un individuo deve cambiare atteggiamento nei confronti della società
e delle sue norme (affidamento in prova al servizio sociale) oppure in situazioni in cui
vi siano difficoltà a livello delle relazioni interpersonali in famiglia o nei confronti di
istituzioni sociali (rapporto difficile giovani-anziani, disadattamento scolastico, ecc.)
oppure in situazioni croniche che possono portare a un logoramento o a un
peggioramento delle capacità individuali di affrontare i problemi o nelle relazioni
interpersonali (famiglie con anziani cronici, famiglie di handicappati, ecc.»5.
Campanini (2000) distingue tra le richieste consulenziali e le richieste di tipo
assistenziale.
Le richieste consulenziali sono richieste prevalentemente collegate alla richiesta di un
aiuto professionale come “sostegno alla normalità” (il che non impedisce che, anche in
un contesto assistenziale, maturino richieste di consulenza).
In questo ambito Campanini colloca la richiesta consulenziale alla fase di
disorganizzazione che la famiglia attraversa di fronte ad un evento stressante (interno
o esterno) del proprio ciclo di vita.
La consulenza psicosociale è un intervento immateriale, che si sviluppa attraverso una
serie di colloqui – luoghi di costruzione e strutturazione di una relazione di aiuto - in
cui l’assistente sociale ha dei compiti:
- dirimere e chiarificare i nodi problematici presenti nella situazione
- supportare il soggetto e/o la famiglia nel percorso di ridefinizione delle regole e
delle distanze tra i vari sosttosistemi
- favorire l’adempimento di compiti esistenziali da parte del soggetto e dei
componenti della sua famiglia.
La consulenza psicosociale si connette direttamente alla funzione educativo
promozionale del servizio sociale, che sottolinea «il valore di apprendimento del
5
Dal Pra Ponticelli, Lineamnenti di servizio sociale, 1988, Roma, Astrolabio, pp. 56-57
3
processo di aiuto come esperienza significativa [e rappresenta] la centralità del lavoro
con e per le risorse personali-ambientali […] All’interno di questa funzione educativa
si articolano molteplici attività proprie del servizio sociale; […] attività di consulenza,
di interlocuzione dialogica atta a sviluppare confronti, riflessioni, valutazioni,
autoanalisi, ecc.; ma soprattutto preoccupazione dell’assistente sociale è di far fare
esperienza alle persone (di vario tipo, come ad esempio di utilizzo di risorse, di piccoli
progetti di cambiamento nei comportamenti, nel modo di guardare la realtà, nel modo
di pensare), accompagnando tali esperienze con appropriate riflessioni, feed back,
verifiche, così da massimizzare apprendimenti che sviluppino capacità e autonomia»6
La consulenza psicosociale ha come fine il supporto, nell’analisi e nell’azione, rispetto
a compiti esistenziali che in un dato momento possono risultare critici e quindi è un
mezzo per riorganizzare le risorse di un sistema familiare in crisi; si distingue
dall’intervento psicoterapeutico, volto a superare dei blocchi evolutivi e a superare dei
modelli d’interazione rigidi che possono essere origine di gravi patologie.
Campanini sottolinea come sia necessario, per avviare un intervento consulenziale,
sviluppare una relazione empatica di ascolto nei confronti dell’utente.
Il termine empathy è stato coniato da Tichener nel 1908 come traduzione del termine
tedesco Einfűhlung7, introdotto in psicologia da Lipps.
Quanto Tichener tradusse il termine tedesco con empathy voleva sottintendere
un’identificazione talmente profonda con un altro essere da provarne i sentimenti.
La capacità empatica comprende la conoscenza dello stato interiore di un’altra
persona (vivere temporaneamente la vita di un’altra persona) e il processo
comunicativo (verbale e non verbale) finalizzato ad esprimere alla persona la
comprensione in atto.
«L’empatia profonda, essendo in un rapporto sostanziale con l’autoesplorazione della
persona, è collegata al cambiamento»8.
«Nell’attività dell’assistente sociale è particolarmente importante un atteggiamento
correttamente empatico, proprio al fine di favorire il compito che rientra nella specifica
mission di questa figura professionale, cioè salvaguardare la salute globale della
persona e prendere in considerazione la domanda dell’utente nella sua globalità […]
applicare ai servizi sociali la proposta [del modello di intervento empatico] evidenzia
l’importanza di sgombrare il campo da premesse mentali che siano caratterizzate da
una focalizzazione difensiva su se stessi invece che da un orientamento verso gli altri.
L’incontro con il disagio, la sofferenza, la patologia può avere effetti evocanti delle
difficoltà che ogni persona attraversa nel corso del proprio ciclo vitale oppure può far
risuonare intensamente emozioni ed esperienze passate. Si possono cosi produrre
effetti destabilizzanti nell’operatore […] Un operatore che non riesca ad utilizzare le
capacità empatiche come uno strumento di lavoro, senza restarne invischiato, rischia
di avviarsi ad una carriera di infelicità ed assumersi ruoli, come quello del salvatore, o
del farsi carico di problemi altrui per espiare chissà quali colpe, che utilizzano
meccanismi […] difensivi piuttosto che l’empatia […] Solo un modo di essere
veramente empatico potrà favorire il riconoscimento nell’utente e nel suo contesto di
vita, non solo delle carenze, per colmarle attraverso interventi assistenziali, ma anche
delle risorse, per affiancarsi al soggetto senza sostituirlo ed aiutarlo a riappropriarsi
delle proprie competenze»9.
«Compito essenziale della relazione d’aiuto è quello di facilitare l’autoesplorazione
dell’utente, attraverso la percezione accurata delle sue emozioni e del contesto nel
quale si verificano. Chi chiede aiuto deve essere stimolato ad assumersi la
6
Neve E., Il servizio sociale, 2000, Carocci, Roma, pp. 194-195
Immedesimazione
8
Fortuna F., Tiberio A., Il mondo dell’empatia, 1999, Angeli, Milano, p. 75
9
idem, pp. 170-171
7
4
responsabilità delle proprie esperienze e ad entrare in contatto con il proprio mondo.
Nella relazione d'aiuto questo accade soprattutto con comunicazioni verbali, ma anche
con espressioni non verbali. Sono richiesti quindi, all’operatore, oltre alla capacità
empatica, altri comportamenti che si possono ritenere facilitanti nelle relazioni
interpersonali […] l’operatore costruisce le basi della sua relazione con l’utente, oltre
che attraverso l’empatia, per mezzo della cordialità e del rispetto. Attraverso l’utilizzo
di queste competenze, in una prima fase dell’intervento, il facilitatore è visto degno di
fiducia, investito di potere esperto, legittimo e referenziale. In questo modo egli
costruisce il suo diritto ad agire, gettando le basi per poter attuare, in seguito,
interventi per il cambiamento. Dopo questo primo investimento il consulente potrà
intervenire utilizzando le altre dimensioni facilitanti: apertura di sé, concretezza,
genuinità, franchezza, immediatezza»10.
La segnalazione all’autorità giudiziaria minorile
In un recente testo dal titolo “La tutela giudiziaria dei minori in Piemonte”, edito dalla
Regione e scritto dai Presidenti della Sezione Famiglia e Minori della Corte d’Appello,
del Tribunale per i Minorenni e dal Procuratore della Repubblica per i Minorenni, a pag.
15, viene specificato quando segnalare
a. i servizi hanno l’obbligo di procedere alla segnalazione quando
- vengono a conoscenza che un minorenne si trova in situazione di abbandono
- hanno collocato in luogo sicuro un minore moralmente o materialmente
abbandonato o allevato in locali insalubri o pericolosi oppure da persone per
negligenza, immoralità, ignoranza o altri motivi incapaci di provvedere alla sua
educazione (art. 403 C.C.).
- hanno notizia di un minore che esercita la prostituzione
- hanno notizia di un minore, straniero, privi di assistenza, vittima dei reati di
prostituzione e pornografia minorile o di tratta e commercio
b. in generale i servizi sociali e sanitari devono procedere ad una segnalazione
quando vengono a conoscenza di un pregiudizio grave o di un pericolo serio di
pregiudizio relativi ad un minorenne, per rimuovere i quali non bastano gli
interventi sociali e sanitari11 e occorre un provvedimento che incida sulla potestà
dei genitori. Il provv. Può disporre
- l’allontanamento del figlio [o dei genitori o dei conviventi dalla residenza familiare]
- la decadenza dei genitori dalla potestà sul figlio
- la dichiarazione dello stato di adottabilità del figlio
- la regolamentazione della potestà divisa dei genitori
- l’imposizione di prescrizioni affinché i genitori tengano una condotta positiva o si
astengano da una condotta pregiudizievole.
10
11
Fortuna F., Tiberio A., cit., pp. 46-47
esempio di Anna Cremona
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