La vie en rose - Associazione Dialogare Incontri

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Premio Dialogare 2016
Dalla parte del dubbio
IL RACCONTO SEGNALATO
La vie en rose
di Michele Lonardi
Lugano, 3 marzo 2016
La vie en rose
di Michele Lonardi
«Bella questa canzone, come si chiama?»
Era la terza volta che l’ascoltavano in quel pomeriggio di metà novembre. Fuori la nebbia
andava a coprire ogni cosa: le macchine parcheggiate, gli alberi ormai spogli, le strade deserte.
Le stesse luci della città apparivano stanche ed ovattate, quasi lontanissime.
«Non lo so nonna. Potrei vedere col cellulare ma non prende molto, forse se esco…»
«Mi ricorda molto Big Boy Blue».
Il ragazzo scrollò la testa sconsolato, tornando a sedersi svogliatamente sulla sedia.
«Parigi era così bella in quel periodo sai» fece l’anziana, guardando il muro davanti. I suoi
occhi azzurri, ormai sbiaditi e coperti da una sottile patina traslucida, fremevano eccitati,
guizzando a destra e a sinistra.
«Dovevi vedere i caffè in Rue Norvins, sempre pieni di giovani. Alcune volte ci fermavamo ad
ascoltare le band jazz che improvvisavano per pochi soldi».
«Sì, dev'essere la seconda volta che me lo dici» borbottò l'altro a bassa voce.
«C’era un bistrot in cui si andava spesso, si chiamava La Mère Catherine. Ci sedevamo sempre
fuori, sui tavolini lungo la strada. Quando faceva caldo, invece, andavamo a prendere il sole
sul lungofiume. C’era un’atmosfera frizzante, allegra…»
«Ed era così bello» conclusero assieme.
«Lo so, l’hai già detto prima» disse il nipote alzandosi e giocherellando coi palloncini appesi
al bordo del letto, «ascolta nonna, provo a vedere se è pronto da mangiare?»
«In quel periodo lavoravo al numero 12 di Boulevard des Capucines, proprio a pochi passi
dall’Opéra Garnier».
«Oh santo dio» sussurrò il ragazzo, ritornando a sedersi sconsolato sulla scomoda sedia di
legno.
«Lavoravamo ad ogni ora, raccogliendo e sistemando tutte quelle uniformi che arrivavano
giorno e notte. Eravamo in pochi e nonostante fosse stremante, non ci lamentavamo. Oh no! E
sai perché? Mi bastava uscire, prendere la bicicletta ed andare in Rue de Rivoli per ritornare a
sorridere. Avresti dovuto vedere quanto era magnifico. I palazzi, gli alberghi maestosi, la nostre
bandiere che garrivano al vento. Era tutto lì, per noi».
Il nipote ascoltava svogliatamente, non poteva nemmeno giocherellare col cellulare, in quanto
fra quelle mura una connessione fluente risultava impossibile.
«Scusami caro» fece l’anziana, interrompendosi con un sorriso stampato sul volto.
«Sì, lo so» rispose il ragazzo, sistemandosi con calma davanti ad un vecchio stereo impolverato,
posato su un’altrettanta impolverata mensola.
«Potresti rimettere la canzone di prima?»
«Immaginavo» borbottò l'altro fra sé, «anche a me piaceva molto».
Le prime leggere note di un pianoforte risuonarono nell’aria, accompagnate da una solitaria
tromba graffiante. «Che bella» rispose contenta la donna «chissà come si chiama, mi ricorda
molto» «Big Boy Blue!» conclusero assieme.
In realtà la voce del nipote si sentì a malapena, in quanto trattenuta dalle mani raccolte
disperatamente attorno al viso.
L’anziana rimase qualche attimo a canticchiare le note della canzone, con le labbra curvate in
un cenno di sorriso e gli occhi chiusi, quasi a gustarsi quel momento di serenità. Poi trasse un
breve sospiro, ritornando a fissare il muro davanti.
«Com’era bella Parigi quell’estate. Fu un periodo fantastico, il migliore della mia vita.
Ci sentivamo come dire, invincibili».
La donna tornò qualche attimo ad osservare il ragazzo, si soffermò sui regali presenti in un
angolo della stanza, i palloncini colorati attaccati al bordo del letto, il monitor alla sua sinistra
che scandiva i battiti del cuore. Emise un debole sospiro, ingobbendosi e ritornando alla
tranquillità del muro.
«Anche se lavoravo alle uniformi, desideravo con tutto il cuore diventare un’infermiera».
A sentir quelle parole il nipote s’illuminò.
«Infermiera!» esclamò ad alta voce, alzandosi di scatto dalla sedia, «vedo che sta terminando
la flebo, cerco un’infermiera e la cambiamo», continuò avvicinandosi all’anziana e stampandole
un frettoloso bacio sulla fronte, «faccio in un attimo» concluse altrettanto velocemente, non
lasciandole tempo e modo di rispondere.
La donna rimase immobile, osservandolo in silenzio mentre usciva dalla stanza. Restò sempre
ferma anche nel fissare la porta che si andava a richiudere. Abbassò poi la testa, scrutandosi le
mani rovinate dall’artrite.
«Ho sempre voluto fare l’infermiera» fece a bassa voce, sospirando ed alzando gli occhi al
soffitto «nonostante i miei sforzi con gli studi, il Comitato del Lavoro non ne volle mai sapere»
concluse tristemente.
«Rimasi all’Heereskleiderkasse diversi mesi, finché alcune ragazze della Bund Deutscher
Mädel mi segnalarono l’annuncio di un giornale».
Le sue parole uscivano leggere e delicate, quasi sussurrate.
«Avrebbero selezionato alcune donne per inserirle all’interno dei Gefolge. La paga era buona
e c’era qualche prospettiva di far carriera. Devi capire che avevo solo voglia di riscattarmi, per
questo accettai».
Un altro sospiro uscì dall’anziana, questa volta più denso e pesante.
«Mi ritrovai dopo poche settimane a Ravensbrück. Fu un duro colpo passare dalla ridente
Parigi alla desolazione dell’Oberhavel, ma tant’è».
A questo punto si rivolse verso la sedia vuota, poco prima occupata dal nipote.
«Non era un posto per tutti Ravensbrück. Oh no! Voi giovani d'oggi non sareste durati molto.
C’era rispetto, c’era disciplina, c’era obbedienza».
Si bloccò qualche secondo, abbassando lo sguardo verso un punto indefinito sul pavimento.
«Adesso è tutto cambiato, come puoi immaginare».
«Terminato l’addestramento, alcune di noi vennero trasferite altrove. Io fui spostata a
Flossenbürg, dove incontrai un uomo che ogni tanto mi fa ancora dimenticare tuo nonno» fece
giocherellando con la fede al dito.
«Suvvia, non fare quella faccia, è successo tanto tempo fa» esclamò divertita, rivolta alla sedia.
«Sai, era uno zotico, un bigotto maschilista» continuò sorridendo «e me ne innamorai fin dal
primo minuto che lo vidi. Si chiamava Max Kögel» aggiunse arrossendo vistosamente.
Fuori alcuni passi si diffusero lungo il corridoio, ma arrivati all’altezza della porta proseguirono
oltre, senza fretta.
«Mi spezzò il cuore» fece sempre delicatamente, come con nostalgia.
«Per lui feci di tutto. Ogni giorno mi svegliavo con l’ansia di non essere alla sua altezza e ogni
notte mi addormentavo con l’angoscia di poterlo perdere. Fu terribile. Fu una guerra che pagai
solo io» i suoi occhi fremevano, quasi sbattevano ripetutamente contro le pareti di quella
stanza.
«E in tutto questo lui che fece?» disse agitandosi, «mi illuse. Mi mise alla prova divertendosi
coi suoi amici, mi umiliò facendomi cenare spesso vicino a sua moglie» continuò
freneticamente, farfugliando le ultime parole con rabbia.
Poi si bloccò, forse spaventata dai numerosi bip che scaturivano dal monitor alle sue spalle.
Restò qualche attimo in apnea, facendo fatica a riempire d’ossigeno i suoi polmoni.
«Calmati» si disse infine, accarezzandosi il volto con un mano tremante, «hai ragione, alla fine
è andata bene».
Proprio in quel momento la porta venne spalancata.
«Qualcuno doveva pur avvertire di Schwabach» concluse ridacchiando.
Nella stanza entrarono rumorosamente il nipote, seguito poco distante da un uomo adulto
brizzolato.
«Cosa?» esclamò quest’ultimo, andandole incontro con un sorriso che si spense in pochi attimi.
La donna si voltò, lasciandosi scappare un piccolo urlo di sorpresa. Poi li salutò con la mano,
sorridendo e facendosi allegramente baciare le guance.
«Come stai caro?» sussurrò accarezzando i riccioli di barba dell’uomo.
«Bene, grazie. Ma con chi stavi parlando?» chiese questi, guardandosi attorno lievemente
infastidito.
«Oh cosa?» fece l’anziana con dolcezza, «non stavo parlando con nessuno, che dici!» ribatté
con un largo sorriso.
«Suvvia, sedetevi invece. Anzi, chiamate l’infermiere che si potrebbe mangiare qualcosa
magari. È da tanto che non vi vedo assieme, sono così cont…»
L’uomo si girò, scambiando uno sguardo col ragazzo.
«No mamma, in realtà siamo di fretta. Lo devo accompagnare alla partita». Il giovane scosse
la testa, perplesso o forse sorpreso.
«Bè, ma è presto. Possiamo restare ancora un po’ di tempo, non c’è fretta».
«No» proseguì l'adulto scompigliando i capelli al figlio, «ti porto alla partita e dopo ritorno
qua, va bene?» concluse rivolto verso la madre.
La donna restò in silenzio, annuendo e borbottando qualcosa.
«Va bene» rispose, «non dimenticartene però» ammonì divertita.
Infine, dopo averli salutati, indicò il ragazzo con una mano tremolante.
«Prima di andare caro» chiese con un sincero sorriso, «rimetteresti quella canzone?»
Padre e figlio uscirono dall’edificio, immergendosi nella fredda nebbia e dirigendosi verso
l’unica macchina presente ancora nel parcheggio.
«Senti, ma ha mai vissuto a Parigi?» chiese il giovane d’un tratto, rompendo un lungo momento
di silenzio.
«Scusa?»
«La nonna intendo, ha mai vissuto a Parigi?»
«Perché me lo chiedi?»
«Così» rispose il ragazzo incerto, «per curiosità. Quindi?» Il padre si schiarì la gola, avviando
il motore dell’auto.
«Non penso proprio».
«Sicuro?» insistette il giovane, «va bene, sappiamo dell’Alzheimer ma oggi sembrava lucida
nel raccontare del suo passato».
L’uomo scosse la testa, balbettando incerto le prime parole.
«Tua nonna si è mossa dal paese due volte» fece schiarendosi nuovamente la gola,
«a Venezia per il viaggio di nozze e a Osnabrück per vedere il Papa. Tutto qua».
Il ragazzo annuì pensieroso, ma non aggiunse altro. Si perse nell’osservare dal finestrino lo
scorrere del paesaggio attraverso il fitto banco di nebbia.
«La vie en rose» aggiunse poco dopo il padre. «Cosa?»
«La vie en rose» ripeté, «è il nome della canzone che abbiamo sentito prima».
«Ah…» disse il figlio distratto, continuando ad osservare fuori dal finestrino, «mi ricorda
molto Big Boy Blue».