bucanieri, fratelli della costa e la gastronomia "criolla"

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bucanieri, fratelli della costa e la gastronomia "criolla"
BUCANIERI, FRATELLI DELLA COSTA E LA GASTRONOMIA "CRIOLLA"
I Bucanieri, i veri Fratelli della Costa e la gastronomia “criolla”
Un bucaniere rappresentato sotto il titolo Buccaneer of the Caribbean nel libro di Howard Pyle ,
Howard Pyle's Book of Pirates.
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Cominciamo con il dire che una gastronomia di bordo, all’epoca della quale parleremo, non
esisteva. Gli unici a mangiare in modo adeguato erano il Comandante e gli Ufficiali; la ciurma si
nutriva male e in modo assolutamente inappropriato. Gli addetti alla cucina avevano, per
dedicarvisi, tempi risicati in quanto nessuno di loro rivestiva il solo ruolo di cuciniere, perché
impegnati principalmente a fare i marinai. D’altra parte il fuoco a bordo non era ben visto: basti
pensare a quando pioveva o il mare era mosso. Nel “fogon”, una sorta di armadio metallico per
contenere il fuoco a che non surriscaldasse il legno, la pece, il cordame e i teloni di cui era
piena la nave, lo si poteva utilizzare solo se le condizioni atmosferiche lo permettevano. Anche
gli orari erano variabili; intanto si mangiava una sola volta al giorno, attacchi ed arrembaggi
permettendo. Il migliore fra i vivandieri, abbiamo visto che erano tutti mozzi di bordo, si
occupava del Quadrato degli Ufficiali i quali erano gli unici a “sedersi a tavola”; la ciurma per
mangiare si appoggiava dove poteva e al rancio provvedevano i meno esperti. Con il passare
dei giorni di navigazione, per rendere appetibili i cibi che inevitabilmente tendevano a
deteriorasi, dovevano riempirli di aromi e spezie.
Per fortuna nella zona caraibica gli aromatici “insaporitori” non mancavano. Questo disordine
alimentare imperava non solo fra i pirati che bazzicavano la zona del Centro America, ma
anche fra tutti coloro che dovevano rimanere in mare a lungo. Era già problematico mantenere
“commestibile” la carne dopo qualche giorno dalla macellazione. Non c’erano frigoriferi e il
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magazzinaggio delle derrate secche in chiglia, luogo deputato allo scopo, non le preservava
dall’inumidirsi a causa del trasudare di acqua salmastra, attraverso il fasciame dell’opera viva
sempre sconnesso perché, per quanto calafato con stoppa o, più spesso, con fibra di cocco,
non restava “fermo” ai primi colpi di mare. Quel sito caldo e umido, non potendo contare su
ricambi d’aria, favoriva il deteriorarsi rapido di quanto conteneva.
Stessa sorte colpiva anche i “Fratelli della Costa” consorteria di pirati più noti come <i bucanieri
della Tortuga> dall’isola caraibica che elessero a loro rifugio nel 1640. Quasi tutti gli equipaggi
erano formati principalmente da marinai francesi, inglesi e, in misura assai minore, olandesi. La
“bassa manovalanza” era costituita invece da tutti quegli sbandati sopravissuti alle sconfitte
nelle guerre, che nel frattempo, qua e la, venivano combattute. A loro risale il Tricorno, che fu
adottato da Re Luigi XV che lo volle copricapo ufficiale delle divise militari, subito copiato da
diversi eserciti. Quel copricapo non è “pomposo” come quello della Nobiltà e della Borghesia
dell’epoca, caratterizzato da alte e divaricanti tese; è scarno, anch’esso in pesante feltro e ha le
tre “ali” ripiegate sulla “calotta” per non creare intralci nei combattimenti. Nei mesi caldi veniva
sostituto da uno di paglia.
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Ma torniamo al tema: la gastronomia “criolla”, cioè creola. Va da se che i “nostri” riuscivano a
mangiare come Dio comanda solo quando sbarcavano nei Caraibi; colà si potevano nutrire con
cibi più appetitosi e variati, già in allora conosciuti, ma soprattutto di verdura e frutta, beni
preziosi e rari a bordo.
Come non riprendere dai cassetti della memoria l’immagine legata indissolubilmente al castello
poppiero di un romantico veliero o su di un rabberciato pontile di un porto sotto il sole tropicale,
di uomini con il tricorno in testa, la sciabola in mano e gli alti stivali di cuoio?
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La pirateria moderna inizia nel XVII secolo nel Mar delle Antille ed in meno di cinquant’anni si
estende in tutti i continenti; il Mar delle Antille rimane ad ogni modo il centro della pirateria, sia
perché là i pirati riescono a godere di una serie di appoggi e favori sulla terraferma, sia perché
le numerose isole presenti sono ricche di cibo e di anfratti, per di più circondate da bassi fondali che impedivano eventuali inseguimenti da parte delle lente e “pescose” navi da guerra;
sia in fine perché in quei mari transitavano navi cariche di imbarchi preziosi provenienti dalle
appena scoperte Americhe. Tra le cause dello sviluppo della moderna pirateria non va
dimenticata l’azione della Francia e dell’Inghilterra che, per contrastare il dominio commerciale
della Spagna nel Mar dei Caraibi, finanziarono vascelli corsari a che saccheggiassero i
mercantili spagnoli. La concorrenza commerciale anche allora non andava tanto per il sottile.
Successivamente, sia per il venir meno dell’appoggio anglo-francese, sia per una acquisita
abitudine allo stile di vita libero ed indipendente, molti corsari divennero …. pirati.
Il potentissimo impero spagnolo, alla metà del diciassettesimo secolo aveva dichiarato il
monopolio commerciale delle ricche Antille, tappa obbligatoria dell’oro centroamericano per
arrivare nel vecchio continente, il tutto a seguito dell’approdo in loco di Cristoforo Colombo, nel
1493 a St. Croix. I coloni, spagnoli, francesi, inglesi ed olandesi vivevano quasi tutti sull’isola di
Hispaniola ( tra l’attuale Haiti e Santo Domingo ). Si specializzarono nella produzione di
alimenti a lunga conservazione, come carni essiccate o trattate, indispensabili per i lunghi viaggi
in mare. Questo metodo sarebbe stato insegnato loro dagli Arawak, tribù di Santo Domingo. La
capanna dove avveniva l’essicazione, su graticole fatte di sottili strisce di legno denominate
barbicoa
(
dal quale deriva l’attuale termine “barbecue”
) si chiamava
boucan
: da questo ne derivò il nome di “bucanieri”. Questi erano di diversa nazionalità e non servivano
alcun paese anche se in certe occasioni potevano essere sollecitati e supportati. Formarono
legami stretti con i coloni ai quali svendevano le merci saccheggiate e dai quali ricevevano la
possibilità di entrare nelle città per ogni più varia necessità; queste pullulavano di pirati per via
anche delle locande e degli altri “servizi” ad esse correlate. I bucanieri erano presenti nelle navi
corsare o pirata anche perché famosi per la loro infallibile mira, allenata da quando erano stati
cacciatori. La loro dieta quotidiana, a terra, consisteva in verdura e frutta, come papaia, patate
dolci, guaiave e manioca. La mancanza della verdura e della frutta fresca a bordo, uniche fonti
di vitamina C, procurava invece il devastante scorbuto. Solo nel 1747 il medico scozzese
James Lind intuì sperimentandolo, che bastava mangiare agrumi a bordo per debellarlo. Che
fosse poi la carenza di vitamina C, lo scoprirono dopo. Inizialmente la cottura della carne e del
pesce avveniva in grandi vasi di un materiale simile alla terracotta, facilmente trasportabile ed
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immagazzinabile. Trasferitisi sull’isola di Tortuga e a Port Royal, nel 1640 fondarono la
Fratellanza della Costa, (
tra di loro i pirati si autodefinivano< Fratelli della Costa>
) smisero di affumicare carne e depredare solo navi: si dedicarono alla predazione dei villaggi
lungo le coste, dando vita a quella che noi oggi identifichiamo come “ pirateria”. Redassero un
vero e proprio
Codice Etico dei Pirati
–(
Code of the Brethren States
) che conteneva regole di massima che tutte le navi della “Fratellanza” erano impegnate ad
onorare: a lui si è ispirato l’
Ottalogo
, il codice etico degli attuali Fratelli della Costa.
Nei viaggi che solcavano i mari, i pirati avevano a disposizione per lungo tempo solo carne
affumicata e rum. Il resto, verdure, formaggi, uova deperiva velocemente ammuffendo e
marcendo. Si aggiunsero quindi alla dotazione della dispensa legumi secchi o cibi conservati in
salamoia; per i Comandanti anche frutta candita. Polli, ovini e mucche venivano tenuti in vita
fino a quando l’approvvigionamento per mantenerli era sufficiente; dopo finivano macellati.
Spesso l’impossibilità di conservazione delle carni per il caldo umido dei tropici, ne favoriva la
putrefazione. Tutto ciò rendeva carente la qualità e la varietà dell’alimentazione dei viaggiatori
del mare. Le erbe e le spezie usate in abbondanza coprivano in parte il sapore degli ingredienti
viziati e spesso avariati. La fortunata cattura di una tartaruga marina era motivo di gioia perché
fonte di un insperato prelibato pasto. Un caso limite ce lo testimonia Pigafetta nel suo diario di
bordo redatto durante la traversata del Pacifico nel 1520, dove si legge << Mangiavamo
biscotto non più biscotto, ma polvere di quello con vermi a pugnate perché essi avevano
mangiato il buono: puzzava grandemente di orina de sorci e bevevamo acqua gialla putrefatta
per molti giorni e mangiavamo certe pelli de bove, che erano sopra l’antenna maggiore ( n.d.r.:
strisce di cuoio che rifasciavano le scanalature di testata degli alberi, fungendo da carrucole
così da consentire, con un minimo attrito, lo scorrervi delle sartie per issare le vele )
a ciò che l’antenna non rompesse la sartia …..e ancora assai volte segatura di asse. Li sorci si
vendevano a mezzo ducato l’uno e se pur ne avessimo potuto avere …>>
Le spezie che trovarono abbondanti e rigogliose in loco, la facevano quindi da padrone. Salse
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di peperoncino, con l’aggiunta di limone e succo di lime marinavano carne e pesce. Alla cucina
caraibica dobbiamo la realizzazione del primo pepatissimo stufato, altro che l’ungherese
Gulasch! Oltretutto queste “droghe”un po’ camuffavano i cibi quando iniziavano ad alterarsi,
rendendoli ancora appetibili. Così è nato pure il nostro livornese Cacciucco; reso forte per
rendere appetibile quel pesce di ritorno, invenduto al mercato. Non esistevano però precise
ricette di bordo, in quanto di volta in volta si modificavano e aggiungevano nuovi ingredienti.
Importante, lo abbiamo visto, l’utilizzo delle spezie locali, come il curry in polvere, sempre
presente sulle carni, dello zafferano peyi , il pepe bianco e nero, il cumino e tutte le varietà di
peperoncini.
I nativi della zona, gli Indiani Carib, hanno contribuito a caratterizzare con forte impatto la storia
della zona dei Caraibi, tanto che da quella tribù il sito prese nome.
Presto i Caraibi divennero il crocevia del mondo. Venduti dagli europei, arrivarono i primi
schiavi provenienti dall’Africa, e con essi nuove “contaminazioni” alimentari. La cucina caraibica
si arricchì così con l’introduzione di torte di pesce, manioca, mango, ackee, budini e souse. Ma
anche banane e farina di mais.
Gli uomini provenienti dal continente africano erano anch’essi cacciatori nelle loro terre e quindi
spesso e per lunghi periodi lontani da casa. Sapevano cucinare carne di maiale piccante su
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carboni ardenti, e codesta tradizione si affinò maggiormente in Giamaica. Questa preparazione,
oggi conosciuta come “jerk”, comporta un lungo processo di cottura della carne. Tutt’ora in molti
piatti prelibati giamaicani troviamo ancora il pollo ed il maiale. Dai marinai portoghesi arrivò il
baccalà: il riso e la senape, dalla Cina.
Il clima caldo ed in passato anche la scarsità di legname, fecero prediligere metodologie di
cottura veloci, quale fritture e grigliate, molto raramente cotture in forno.
La maggior parte dei visitatori che si recano ai Caraibi mai immaginerebbe che gli alberi da
frutta così familiari e rigogliosi in queste isole, siano stati introdotti invece dai primi esploratori
spagnoli. Da quella nazione giunsero infatti arance, lime, zenzero, banane, fichi, palme da
datteri, uva, tamarindi, noci di cocco e canna da zucchero.
Proprio da quest’ultima, si realizzò, attraverso un processo di distillazione, un liquore molto
calorico e ad alta gradazione alcolica: il rum, l’indispensabile protagonista del rito finale che
chiude sempre gli Zafarrancho (riunione conviviale) degli attuali Fratelli della Costa.
All’America dobbiamo l’introduzione di fagioli, mais, pomodori e patate. Dai Caraibi questi
alimenti si diffusero poi nel resto del mondo. Una menzione va anche all’albero del pane dai
frutti assai particolari, che ricorderemo presente nel film “Gli ammutinati del Bounty”.
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L’elenco potrebbe continuare … Non c’e da meravigliarsi quindi se la Cucina Caraibica sia una
commistione così ricca, colorata, creativa e variegata, coacervo di sapori provenienti da ogni
dove: Africa, India, Cina, insieme alle influenze giunte dalla Spagna, Portogallo, dalla
Danimarca, Francia e Gran Bretagna. I cibi caraibici sono stati influenzati dalle culture di tutto il
mondo, ma ogni isola ha assunto ed aggiunto il suo particolare sapore e le proprie tecniche di
cottura.
Qualche cenno specifico, luogo per luogo, in una sorta di aggiornato itinerario gastronomico.
Partendo dagli aperitivi non possiamo non menzionare un bicchiere di punch al rum agricole ,
prezioso distillato e vera istituzione caraibica, parte integrante della cultura delle Antille. E’
considerato uno dei migliori del mondo, l’unico ad aver ottenuto il riconoscimento della DOC
locale. Si consuma puro o mescolato a innumerevoli cocktails. Comparve per la prima volta nel
1635 alla “Mardinica”, l’isola dei fiori, antico nome della Martinica. Bevanda regina, possiede un
proprio museo sito a Sainte-Marie, dove si può ripercorrere la sua lunga storia.
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La cucina Dominicana è prevalentemente di ispirazione spagnola e africana. Molto simile a
quella di altri paesi latino-americani, ma con nomi assai differenti. Il piatto-colazione è a base di
uova e mangù, diffuso anche a Cuba e Puerto Rico. Può essere accompagnato da fritti di carne
e formaggi. Il pranzo è in genere il pasto principale della giornata, e consiste in riso, carne di
pollo o maiale, o pesce, fagioli e insalate. La
bandera, uno dei piatti tipici, si
compone di carne e fagioli rossi su riso bianco.
Soncocho
è uno stufato cucinato con ben sette varietà di carni. Molte pietanze si realizzano con
sofrito
, ampia miscela di erbe locali, che ne esaltano i sapori. Ricca la lista dei dolci, dalla torta
dominicana (
bizcocho
) ai flan,
dulce de leche
e
cana
(
canna da zucchero
). Bevande diffuse birra, rum,
batida ( frullato
)e
jugos naturales,
succhi di frutta appena spremuti.
In Guadalupa, seconda consumatrice al mondo di pesce, troveremo ottime zuppe di vongole,
aragoste alla griglia, fricassea di lambis, sorta di conchiglioni locali originari dell’Oceano
Indiano. Da quasi 100 anni si rinnova nel mese di Agosto un vero e proprio evento del
patrimonio culturale della Guadalupa, la “festa delle cuoche”, ghiotta occasione per gustare
prelibatezze preparate secondo ricette ancestrali.
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Nel periodo pasquale in Martinica, imperdibili le Fiere dei granchi accompagnate da grandi
frittelle ripiene di carne e verdure, o altre farcite con merluzzo e verdure, cuori di palma in
insalata, e pollo alle spezie, prelibato ed entusiasmante concentrato della cucina creola. Frutta
e verdura locale da scoprire nei variopinti mercati locali, dove si troveranno anche caffè e
cacao.
Capitale gastronomica dei caraibi è però considerata Saint-Martin. Straordinari i lolos, sorta di p
unti di ristoro
all’aperto in riva al mare dove è possibile gustare pesce, crostacei di ogni tipo, cucinati si
improvvisate griglie e che fanno concorrenza ai tradizionali ristoranti che si incontrano nelle
caratteristiche stradine. Imperdibili specialità sono il melone maturato a quel sole ed il caffè
caraibico, come pure il “cibo degli Dei”, il cacao, sotto forma di praline e tavolette.
Concludendo questo “breve viaggio” nei paesi sudamericani che si affacciano sul Mar dei
Caraibi, dalla storia lunga, sofferta e gioiosa, la cucina caraibica ne esce come unica ed
esprime la singolare ed immensa fusione di unione di sapori, colori e profumi che solo la
gastronomia di tutti i popoli che vi hanno contribuito, ha saputo portare ad un risultato così
stupefacentemente universale.
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Un ultimo suggerimento ai possibili viaggiatori: diffidate sempre, se volete mangiare veramente
creolo, dei locali che inalberano vistosi riferimenti ai pirati dei caraibi. Sono specchietti per le
moderne allodole.
Renzo BAGNASCO
Ricerche a cura di Rosa Grazia ALLARIA
11 Maggio 2014
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