- Quaderni EUROPEI N. 7 - quaderni europei sul nuovo welfare
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QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE svecchiamento e società N. 7, Febbraio 2007 VERSO IL NUOVO WELFARE: OBIETTIVI E STRATEGIE Pubblicato da L’ISTITUTO DEL RISCHIO TRIESTE - MILANO - GINEVRA MACROS RESEARCH MILANO QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE svecchiamento e società Abbonamenti / Subscriptions • quattro numeri (solo inglese o solo italiano o ambedue le versioni) - four issues (English only or Italian only or both versions) • per società / for companies: 7 400 (5 copie/copies: 7 1.500) • per enti pubblici / for public institutions: 7 300 (5 copie/copies: 7 1.100) • per università, studenti, ricercatori / for universities, students, researcher: 7 200 (5 copie/copies: 7 700) Pagamento / Payment • Bonifico bancario intestato a / Bank transfer payable to: Macros, Banca Popolare di Intra, Ag. 96, c/c 191863 CIN B CAB 34090 ABI 5548 (please fax a copy to +39 02 6554128 / inviando copia via fax al numero 02 6554128) • Carta di credito / Credit card: Visa - Mastercard - Eurocard - Cartasì (inviando richiesta via fax / please fax your request) • tramite il sito / Via internet: www.macrosgroup.it Informazioni / Information Macros Research Largo Donegani, 3 - 20121 Milano - Tel. (0039) 02 29006727 Fax (0039) 02 6554128 - E-mail: [email protected] VERSO IL NUOVO WELFARE: OBIETTIVI E STRATEGIE Editoriale 4 Il pensionamento flessibile in Europa Elsa Fornero e Chiara Monticone 7 I problemi aperti nella previdenza complementare italiana Marcello Messori 21 Il pensionamento progressivo negli USA: chi lo sceglie e a che scopo Yung-Ping Chen e John C. Scott 39 Una montagna troppo lontana? La saga dei conti individuali previdenziali negli Stati Uniti Sheila Bair 54 Lavorare oltre i 60 anni: aspetti fondamentali e raccomandazioni Geneviève Reday-Mulvey 65 L’occupazione degli anziani: cosa possiamo imparare dal Giappone Bernard H. Casey 82 Un commento: tra pensione e vecchiaia il passo è lungo! Raimondo Cagiano de Azevedo e Benedetta Cassani 99 L'invecchiamento demografico in Italia: verso un miglioramento della relazione tra età e lavoro 102 Manuela Stranges Lavoro e salute in età avanzata: l’influenza reciproca Cristina Giudici 119 I portafogli delle famiglie 1995-2004 e la previdenzanei principali paesi OCSE: Primi segnali di convergenza verso veicoli a più lungo termine? 126 Daniele Fano e Teresa Sbano Il risk-adjustment nei contratti di assicurazione malattia di lungo periodo in Germania Johann Eekhoff, Markus Jankowski e Anne Zimmermann 137 Sponsor 150 3 Editoriale Verso il nuovo welfare: punti di arrivo di Orio Giarini e Mara Tagliabue Quasi vent’anni orsono, in un programma di ricerca intitolato “I Quattro Pilastri”, l’Associazione di Ginevra, considerando l’allungamento in vari paesi del ciclo di vita, ipotizzava che prima o poi si sarebbe cominciato a ritardare l’età della pensione. Le prime reazioni a questa ipotesi furono decisamente negative: si mandino a casa le persone più anziane — si diceva — e largo ai giovani. Occorre tener presente che in Italia, come ha recentemente ribadito il governatore della Banca d’Italia, il tasso di occupazione nella fascia di età tra 55 e 64 anni supera di poco il 31%: oltre 10 punti in meno rispetto alla media dell’Unione Europea; quasi venti punti al di sotto dell’obiettivo per il 2010 condiviso dall’Italia al Consiglio europeo di Lisbona nel 2000. Quasi nessuno oggi osa riprendere quest’ultimo argomento perché significa far pagare ai giovani il peso di una popolazione che al momento del pensionamento effettivo ha in media circa 20 anni da vivere. L’articolo dei giovani Fernandez e Wollgam (vedi il n. 4 di questi Quaderni) inoltre mette in evidenza la preoccupazione che esista, fra 30 anni, un sistema di pensionamento “sostenibile”, soprattutto per i giovani di oggi. L’età della pensione dipende dai rapporti all’interno delle generazioni e una popolazione come la nostra, per la quale l’età media è aumentata di oltre 3 anni, è destinata a dover affrontare una vera e propria crisi del sistema pensionistico. Quindi è necessario assicurare l’equilibrio finanziario nel lungo periodo del sistema, dato che nel 2038 la spesa aumenterebbe del 2% del PIL. Vediamo quindi di elencare brevemente, per i prossimi, non lontani decenni, alcuni punti chiave di arrivo verso il nuovo welfare, che sono spesso alquanto offuscati: • l’allungamento della vita attiva, sotto varie forme, non è una punizione, ma una grande opportunità: è il modo migliore per essere vivi, in migliore salute, integrati nella società. Per la grande maggioranza di coloro che arrivano almeno agli 80 anni, si devono aprire le strade e le mentalità, verso la valorizzazione di un nuovo continente umano e sociale. Naturalmente con programmi e possibilità di formazione e di nuove opportunità. Vivere in un’economia fondata ormai prevalentemente su funzioni di servizio, facilita questo sviluppo; • molte imprese, in varie parti del mondo, hanno cominciato negli ultimi anni a riscoprire e valorizzare il contributo fornito dai lavoratori anziani con la loro esperienza; • elemento chiave in questo quadro è il lavoro a tempo parziale, anche se alcuni potranno naturalmente lavorare a tempo pieno. Il cosiddetto lavoro a metà tempo (attorno alle 20 ore settimanali) dovrebbe diventare il fondamento (lo “stumbling block”) del nuovo welfare, a partire dai 60 anni o con vari metodi graduali. Comunque sia il pensionamento obbligatorio a qualunque età sarà molto probabilmente, via via, abolito; • altro elemento essenziale: combinare lavoro e pensione in proporzioni adeguate. Ci sono già molti esempi, che cominciano a farsi luce in questa direzione, soprattutto nei paesi europei del nord. Alcuni paesi hanno già in pratica previsto le conseguenze fiscali di questa soluzione, che rende il costo del lavoro degli anziani (soprattutto a partire dai 65 anni) meno oneroso e migliora nello stesso tempo il gettito fiscale; • il sistema di pensionamento per ripartizione, dovrà via via cercare di rispondere sempre meglio a criteri di giustizia retributiva. Il sistema svizzero attuale è probabilmente il più adeguato in questo senso. 4 • il sistema di pensionamento per capitalizzazione, generalizzato (che alcuni paesi hanno già reso obbligatorio), dovrà rispondere sempre meglio a criteri di responsabilizzazione personale delle persone e delle famiglie, legato a politiche serie di controllo dell’inflazione; • le spese sanitarie che in Italia, nei prossimi 30 anni, potrebbero anche raddoppiare in percentuale al PIL, dovrebbero potersi gestire ed essere meglio garantite, da un sistema di doppio pilastro, come nel caso del pensionamento. Si creeranno anche dei ponti fra pensionamento e spese sanitarie (sia nella logica della ripartizione che in quella della capitalizzazione); • si dovrebbe arrivare prima o poi a una sintesi dei vari sistemi di “negative income tax”, redditi detti di “cittadinanza”, sovvenzioni e contributi di varie origini, che riguardano non solo gli anziani indigenti, ma l’insieme della popolazione; • per quel che riguarda la politica europea, questa è ancora di una estrema timidità (anche sul piano degli studi) in questo settore chiave per il futuro sociale e umano dell’ Europa e del mondo. Si avanza sovente l’ipotesi che i sistemi di protezione sociale resteranno diversi perchè dipendono dalla storia, dalla cultura e dalle tradizioni di ogni paese: se si tratta di attività benevole e comunque non monetizzate, ciò è spesso vero. In alcuni paesi africani, ad esempio, è più efficiente curare i malati in ospedale con l’ausilio e la presenza della famiglia. Ma sul piano delle attività monetizzate, le differenze fra paesi traducono quasi sempre gradi diversi di efficienza sia economica che sociale. E per tutti i paesi europei (e di gran parte del mondo, oggi o domani) i problemi di fondo sono essenzialmente gli stessi: allungamento del ciclo di vita, raccolta, gestione e distribuzione delle risorse finanziarie e tecnologiche. Tutto deve convergere per il miglior benessere dei cittadini. L’Unione Europea dovrebbe poter confrontare tutti i sistemi, misure e politiche, per facilitare la scelta delle più vantaggiose: da qui nascerà prima o poi una vera politica del Nuovo Welfare in Europa, che contemperi sia criteri di solidarietà che di efficienza. È a questo livello che l’Europa si guadagnerà una credibilità e un consenso più profondi, dove le promesse di un domani migliore saranno meglio fondate. Un domani che si misurerà dal fatto di saper conquistare e valorizzare il grande capitale umano dei “dopo 60 anni” — e non si dica ancora che questi problemi riguardano solo i paesi più avanzati e “vecchi”. Tutti i paesi “giovani” con folte schiere di popolazioni sotto i 30 o magari sotto i 20 anni, saranno i “vecchi “ che si aggiungeranno fra pochi decenni alle statistiche demografiche sull’invecchiamento del pianeta. Non si tratta però di invecchiamento, ma di allungamento del ciclo di vita, che è ben altra cosa. Approfitti l’Europa per gestire il fenomeno dello “svecchiamento” dal punto di vista di una prospettiva di “svecchiamento”. Significa essere avanti nelle cose e preparare il futuro. I Quaderni Europei cercano di apportare un modestissimo contributo in questa direzione. Il tema conduttore di questo numero è l’analisi delle dinamiche dei sistemi previdenziali, in particolare le policy che riguardano il pensionamento flessibile e la possibilità di continuare a lavorare una volta raggiunta l’età pensionabile. In particolare in questo numero Elsa Fornero e Chiara Monticone analizzano il pensionamento flessibile in Europa, quale proposta realizzabile per affrontare l’invecchiamento della popolazione europea e la questione della sostenibilità dei sistemi pensionistici, esaminando soprattutto il caso italiano, con gli interventi legislativi realizzati negli ultimi decenni, ed evidenziando come alcuni elementi di flessibilità siano stati ridotti. L’articolo di Marcello Messori offre un’analisi aggiornata della previdenza complementare italiana alla luce delle più recenti evoluzioni legislative, mostrando accanto agli elementi positivi i limiti delle direttive COVIP, della legge finanziaria e dei decreti legislativi. Benché il tasso di adesione atteso sia elevato (si stima un’adesione del 70% dei lavoratori dipendenti), permane un deficit di concorrenza fra fondi pensione collettivi (quote significative nella grande e media impresa) e quelli aperti (quote potenzialmente importanti nella piccola impresa) 5 determinano un ostacolo per il rafforzamento della previdenza complementare, mentre allo stato attuale rimangono esclusi sia i lavoratori autonomi, che non dispongono del TFR e che hanno i più bassi tassi di sostituzione da primo pilastro previdenziale, sia i lavoratori dipendenti pubblici. L’invito è a colmare le carenze legislative per rafforzare l’ancora giovane previdenza complementare alla luce dell’esperienza internazionale e delle specificità nazionali. Per gli Stati Uniti, Yung-Ping Chen e John Scott mettono in evidenza come il tasso di partecipazione dei lavoratori in età avanzata continui ad aumentare, vista la possibilità di adottare il pensionamento graduale. Nell’articolo vengono analizzati i fattori che conducono alla scelta di tale opzione da parte dei lavoratori e l’impatto economico di tale opportunità. Sheila Bair propone invece una panoramica sulla storia dei conti individuali previdenziali e l’attuale dibattito sulla riforma della previdenza negli Stati Uniti. Geneviève Reday-Mulvey nel suo contributo “Lavorare dopo i 60 anni” tratto dal libro “Work beyond 60” (pubblicato nel 2005), sostiene l’idea del prolungamento flessibile della vita lavorativa. Sottolinea la necessità di incoraggiare politiche che permettano di continuare a lavorare part-time dopo i 60 anni, ma anche la possibilità per alcune categorie di lavoratori che svolgono i cosiddetti lavori usuranti di andare in pensione prima di chi svolge lavori di natura intellettuale. Bernard Casey da un lato sottolinea il ruolo svolto dalla struttura dell’industria nell’affrontare la sfida dell’occupazione degli anziani mettendo nel contempo in evidenza le incongruenze del modello giapponese. Dall’altro lato rileva la difficoltà di individuare e sviluppare politiche e pratiche volte a migliorare l’impiegabilità degli anziani. In un breve commento Raimondo Cagiano e Benedetta Cassani sottolineano invece come fra pensione e vecchiaia il passo sia lungo. Manuela Stranges analizza poi i tassi di partecipazione dei lavoratori maturi in Italia cercando di individuare gli strumenti che possono incoraggiare l’aumento a tale partecipazione. L’autrice individua nei programmi di apprendimento continuo uno degli strumenti per favorire la partecipazione dei lavoratori maturi all’interno del mercato del lavoro. Cristina Giudici mette in evidenza il legame tra la durata e la qualità della vita. In modo particolare l’articolo tratta di che cosa si intende per “qualità” e come interagiscono i fattori economici e sociali sulla qualità della vita. L’articolo sulla relazione tra il portafoglio delle famiglie e la previdenza di Daniele Fano e Teresa Sbano, pone in primo piano la necessità di rispondere all’allungamento del ciclo di vita con soluzioni finanziarie “articolate” e “flessibili” in grado di ottimizzare la gestione del risparmio al medio-lungo termine. Infine, Johann Eekhoff, Markus Jankowski, Anne Zimmermann, prendono in esame le assicurazioni malattia sul mercato privato tedesco e le possibilità di rafforzare la concorrenza sul mercato delle assicurazioni malattie private. Ringraziamo ancora i lettori dei Quaderni per qualsiasi commento, proposta e suggerimento affinché la nostra pubblicazione si arricchisca di ulteriori contributi e possa diventare il punto di riferimento della COUNTER-AGEING SOCIETY. 6 Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 7-20 Il pensionamento flessibile in Europa di Elsa Fornero* e Chiara Monticone** 1. Introduzione I sistemi pensionistici dell’Europa allargata stanno progressivamente adattando le proprie caratteristiche alle necessità imposte dall’invecchiamento della popolazione in uno scenario in cui la loro sostenibilità finanziaria è posta sempre più sotto pressione. Uno dei canali principali attraverso cui tale obiettivo può essere raggiunto è l’innalzamento dell’età pensionabile. In questa ottica quasi tutte le recenti riforme pensionistiche riflettono la volontà di aumentare gli incentivi al posticipo del pensionamento e alla promozione di vite lavorative fino ad età più avanzate. L’introduzione di elementi di flessibilità — oltre a rispondere alla domanda di maggiore scelta individuale — è senz’altro da collocare tra gli strumenti volti innalzare l’età media di pensionamento. In tutti i paesi europei, i sistemi pensionistici consentono qualche margine di manovra a coloro che vogliono anticipare o ritardare l’uscita dal mondo del lavoro e collocare il momento del pensionamento diversamente rispetto all’età di riferimento stabilita dall’età di pensionamento “legale”. A ben vedere, però, il fatto stesso che ci si riferisca spesso ad un’età legale di pensionamento, fa intendere come la rigidità prevalga sulla flessibilità nei tempi e nelle modalità di pensionamento, anche se molti cambiamenti sono occorsi in questo senso nell’ultimo decennio. Esistono infatti quasi ovunque schemi di pensionamento anticipato che premiano le carriere precoci o offrono facilitazioni nei casi di invalidità e disoccupazione, con l’eccezione di quei paesi come Danimarca, Paesi Bassi, Irlanda e Regno Unito dove il beneficio pensionistico è flat-rate (cioè non è proporzionale a retribuzioni o contributi, ma alla durata del versamento dei contributi o della residenza nel paese). Tuttavia, la flessibilità vera a propria non si limita a questo, e, anzi, comporta caratteristiche qualitativamente diverse. Nelle prossime sezioni, si cercherà di descrivere in cosa consista il pensionamento flessibile, quali siano le sue caratteristiche e le implicazioni micro e macroeconomiche, nel panorama legislativo europeo. Una parte del paragrafo 3 — indirizzata alla situazione normativa corrente in Europa — sarà dedicata al caso italiano, al fine di mostrare l’evoluzione degli interventi succedutisi nell’ultimo decennio, nel corso dei quali alcuni fattori si flessibilità sono stati ridotti e altri non hanno trovato applicazione concreta. Center for Research on Pensions and Welfare Policies (CeRP) e Università degli Studi di Torino. Center for Research on Pensions and Welfare Policies (CeRP), [email protected]. Si ringraziano Serena Trucchi e Michele Belloni per la collaborazione nella ricerca delle fonti legislative e bibliografiche. * ** 7 2. Framework concettuale e caratteristiche generali Vista la notevole diversità nell’ideazione e applicazione di misure volte a introdurre elementi di flessibilità nei sistemi pensionistici europei, si procederà inizialmente a una disamina delle loro caratteristiche da un punto di vista generale senza soffermarsi sulle peculiarità nazionali, per poi passare ad una breve rassegna dello stato dell’arte a livello europeo nella prossima sezione. Astraendo dai singoli casi nazionali, la flessibilità nel pensionamento consiste nel lasciare al singolo lavoratore la possibilità di scegliere sia quando cominciare a ricevere la pensione sia quanto riceverne in proporzione al beneficio pensionistico pieno che gli spetta e, infine, come riceverlo, decidendo ad esempio tra liquidazione del montante (lump-sum) o rendita (annuity), e in questo ultimo caso, tra una dinamica della rendita costante o crescente in termini reali. Per evitare di replicare forme di pre-pensionamento che non possono essere se non onerose per il sistema, tutti questi elementi di scelta devono essere accompagnati dalla responsabilizzazione del lavoratore attraverso meccanismi di correzione attuariale dei benefici. Di conseguenza, la “ricchezza pensionistica”1 del singolo (social security wealth, SSW) deve essere indipendente tanto dal momento in cui avviene il pensionamento, quanto dalle modalità con cui la ricchezza pensionistica viene man mano incassata. Ciò implica correzioni attuarialmente neutrali dei benefici pensionistici. Tuttavia, va ricordato che la completa flessibilità non è possibile e forse neanche desiderabile. In sistemi obbligatori — come quelli europei — tutti e tre gli aspetti (quando, quanto e come) sono ovviamente delimitati, ad esempio rispetto alle età a cui è possibile accedervi. Nell’uso comune, si usa distinguere la flessibilità nel momento del pensionamento e quella riguardante l’importo di pensione ricevuto come due2 misure ben distinte — cioè la “flessibilità dell’età pensionabile” e il “pensionamento parziale” — rendendo meno evidente il legame tra loro.3 In realtà si tratta di due componenti che potrebbero essere ulteriormente integrate. Per quanto le modalità di pensionamento siano flessibili, il momento in cui si comincia a percepire un reddito pensionistico deve necessariamente essere limitato all’interno di una fascia di età, anche per una questione di adeguatezza, come si vedrà oltre. In alcuni casi, tuttavia, si sceglie di fissare solo un’età minima lasciando piena libertà ai lavoratori di posticipare il pensionamento — come accade in Polonia e Lettonia — oppure introducendo disincentivi che di fatto penalizzano la continuazione dell’attività lavorativa oltre una certa età, come avviene in Italia o come avveniva in Finlandia prima della riforma del 2005. Come già evidenziato, parte della flessibilità consiste anche nella possibilità di cominciare a ricevere una parte della pensione contestualmente a un reddito da lavoro ridotto proveniente da un’attività part-time. L’ammontare di pensione è in genere inversamente proporzionale al numero di ore lavorate o direttamente legato al reddito da lavoro perso a causa della riduzione di orario. Anche dove tale rapporto non sia proporzionale — ad esempio in Francia — il 1 La ricchezza pensionistica (social security wealth) per un lavoratore in età a che rivendicherà il suo primo beneficio pensionistico all’età A è definita come il valore attuale dei benefici pensionistici futuri meno il valore attuale dei contributi da versare nello schema pensionistico prima del pensionamento: dove a è l’età del lavoratore nel momento in cui è calcolata la ricchezza pensionistica, PiA è la pensione che sarà pagata, alla fine di ogni anno, al lavoratore pensionato dall’età A per tutta la durata della sua vita, T è l’età massima, cj rappresenta i contributi versati in età j, η, è la probabilità di essere in vita in età i, condizionato a essere vivi in età A (assumendo certa la vita in l’età lavorativa) (Ferraresi e Fornero, 2000). 2 Anche la possibilità di cumulo tra pensione e retribuzione da lavoro senza limiti reddito costituisce un elemento di flessibilità sempre più diffuso, che tuttavia non sarà trattato in questa sede. 3 Un esempio della distinzione tra le varie misure riguardanti la flessibilità si può trovare nelle tavole MISSOC (European Commission, 2006a). 8 lavoratore può comunque scegliere, all’interno di diverse fasce orarie, per quanto tempo dedicarsi all’attività lavorativa e quanto ad attività ricreative. Come nel caso della flessibilità relativa all’età, è possibile un pensionamento graduale, ma generalmente è limitato a una determinata fascia di età. L’ampliamento delle possibilità di scelta legate all’età di pensionamento si accompagna abbastanza naturalmente a sistemi “a contributo definito figurativo” (notional defined contribution, NDC), come avviene in Svezia, Lettonia e Polonia e come stabilito dalla legge Dini in Italia. Tuttavia, una certa libertà di scelta è data in molti casi anche in sistemi a “beneficio definito”, con correzioni dei benefici orientate alla neutralità attuariale del tutto simili a quelle applicate ai sistemi DC. La flessibilità vera e propria implica un avvicinamento alla neutralità attuariale, cioè ad un calcolo della pensione che non penalizzi né conceda benefici immeritati al cambiare dell’età del pensionamento, ceteris paribus. Ad esempio, a parità di ricchezza pensionistica, in caso di pensionamento successivo all’età di riferimento, il beneficio pensionistico risulterà relativamente più alto per effetto sia degli ulteriori contributi versati sia del ridotto orizzonte temporale durante il quale sarà corrisposta la pensione. In questo senso, al fine di salvaguardare la ricchezza pensionistica accumulata dal lavoratore, l’ammontare della pensione dipende — oltre che dai parametri stabiliti dal sistema per il computo di benefici pensionistici, quali contributi, salari degli ultimi anni, anzianità contributiva, ecc. — anche da fattori attuariali che possono premiare in misura maggiore o minore la scelta di ritardare il pensionamento e, viceversa, a penalizzare più o meno la decisione di affrettarlo. 3. L’introduzione della flessibilità in Europa e in Italia Lo stimolo all’introduzione di elementi di flessibilità nei sistemi pensionistici europei è duplice. Esso viene sia — in un’ottica di modernizzazione del sistema — dalla volontà di consentire margini di scelta individuale, sia dalla necessità di far fronte a problemi di sostenibilità finanziaria. La flessibilità nei tempi e modi del pensionamento è infatti uno strumento che può risultare efficace per l’innalzamento dell’età pensionabile, da affiancare ad innalzamenti uniformi e generalizzati del requisito di età. Queste diverse finalità sono visibili anche nel metodo di coordinamento (open method of coordination, OMC) adottato dall’Unione Europea in materia pensionistica. Dei tre obiettivi generali per la struttura dei sistemi pensionistici futuri — adeguatezza, sostenibilità e modernizzazione — gli ultimi due hanno a che fare anche con la flessibilità. In particolare, nell’ambito della sostenibilità, i sistemi pensionistici degli Stati Membri dovrebbero creare gli strumenti per l’estensione della vita lavorativa (obiettivo 5) attraverso l’aumento dell’occupazione nella fascia di età 55-64 e un mutamento radicale nella concezione del pensionamento anticipato, in modo che non sia più utilizzato principalmente come mezzo per creare occupazione a beneficio delle coorti più giovani o per ridurre la disoccupazione. Inoltre, quanto alla modernizzazione dei sistemi pensionistici, essi devono tener conto dei cambiamenti del mercato del lavoro europeo (obiettivo 9), adattandosi a modelli di occupazione e di carriera flessibili (European Commission, 2006b). Infine, fatta salva la necessità di incoraggiare o almeno non scoraggiare una permanenza più lunga nel mondo del lavoro, la flessibilità ha anche il pregio di mitigare il contrasto tra la generalità delle regole e la varietà delle esperienze e delle preferenze individuali (Diamond, 2005). In questa sezione si cercherà di delineare i principali elementi distintivi dei processi di riforma degli ultimi anni e la situazione attuale in materia di flessibilità pensionistica, dedicando una sotto-sezione all’Europa in generale (Italia esclusa) e poi all’Italia. 9 3.1 Lo stato dell’arte in Europa Le disposizioni europee in materia di flessibilità, così come il grado di libertà di scelta che esse consentono, sono abbastanza diversi fra gli stati. Alcuni garantiscono sia la facoltà di scegliere il momento del pensionamento sia la possibilità di ricevere una frazione dell’ammontare della pensione piena per un certo periodo, mentre in altri paesi non è data nessuna delle due. Le diversità nazionali sono abbastanza evidenti anche per quanto riguarda la partecipazione da parte di individui e imprese. Nel caso del pensionamento parziale, infatti, in alcuni dei paesi la partecipazione allo schema è minima o nulla. In questa sezione saranno passati in rivista solo quei paesi che garantiscono un certo livello di flessibilità — e comunque senza pretese di esaustività — tralasciando invece quelli dove gli elementi di flessibilità sono praticamente inesistenti. Dal momento che nei sistemi pensionistici europei la flessibilità dell’età pensionistica e il pensionamento parziale sono trattate come misure distinte, anche in questa panoramica saranno trattate distintamente per comodità. Per informazioni più dettagliate sulle normative nazionali si rimanda alla Tabella 1 (flessibilità dell’età pensionabile) e alla Tabella 2 (pensionamento parziale). Tabella 1: Flessibilità nell’età pensionistica in Europa Fonte: Danimarca: Bingley et al. (2005); Bingley et al. (2002); Herbertsson et al. (2000); OECD (2005c); - Estonia: European Commission (2006a), - Finlandia: Lassila e Valkonen (2006); OECD (2004b); - Francia: COR (2004); French Service Public, (2004); - Germania: Berkel e Börsch- Supan (2003); Börsch- Supan e Wilke (2004); Hinrichs (2003); - Lettonia: Bite e Zagorskis (2003); Casey (2004); Fox e Palmer (1999); Vanovska (2006). - Polonia: Chlon- Dominczak e Góra (2006); Góra e Rutkowski (2000); Perek Bialas et al. (2001); - Regno Unito: OECD (2004a); PPI (2006); - Spagna: OECD (2003a); Spanish Ministry of Labor and Social Security (2006); - Slovacchia: European Commission (2006a); - Svezia: Swedish National Social Insurance Board (2003); OECD (2003b). 10 Tabella 2: Pensione parziale Fonte: Svezia: Anderson (2005); Wadensjö (2006); - Danimarca: Danish Ministry of Foreign Affair of Denmark (2003); - Finlandia: Lassila e Valkonen (2006); OECD (2004b); - Spagna: Spanish Ministry of Labor and Social Security (2006); OECD (2003a); Francia: Buffeteau e Godefroy (2005); CNAV (2006); OECD (2005b); - Germania: Antolin e Scarpetta (1998); Börsch- Supan (2000); Mandin (2003); OECD (2005a). 3.1.1 Età flessibile I paesi europei che — oltre l’Italia — hanno adottato un sistema a “contributo definito figurativo” (NDC), cioè Svezia, Lettonia e Polonia, consentono tutti ampia flessibilità quanto all’età in cui cominciare a ricevere la pensione. Nel primo caso, vi è una vera e propria finestra delimitata da due età precise (61 e 67 anni), mentre per i restanti due paesi è stata fissata solo l’età minima con possibilità illimitata di posticipo. Anche tra paesi che non utilizzano una formula NDC vi sono margini di scelta dell’età di pensionamento con corrispondenti correzioni dell’importo della pensione. In Danimarca, i pensionamenti dopo l’età di riferimento di 65 anni sono premiati fino ai 70 anni. Nel Regno Unito l’età di pensionamento può essere spostata in avanti indefinitamente, e avere inoltre la possibilità di ricevere l’incremento attuariale sotto forma di liquidazione forfettaria, anziché come incremento mensile, per posticipi superiori ai dodici mesi. In Francia il pensionamento può avvenire tra i 60 e i 65 anni, con riduzioni o aumenti legati all’anzianità contributiva attraverso i meccanismi di surcote e décote. In Finlandia l’età di pensionamento è limitata da una finestra (63-68 anni), all’interno della quale non sono applicati fattori attuariali. Tuttavia tali correzioni sono adottate per pensionamenti anticipati o posticipati al di fuori della finestra. Ad ogni modo, una forma di adeguamento all’età anche tra i 63 e 68 anni è costruita dal coefficiente di rivalutazione delle retribuzioni che è legato all’età ed è tale da premiare in misura consistente il proseguimento della carriera oltre i 63 anni. Meccanismi analoghi a quelli descritti sopra sono applicati anche in Estonia, Germania, Slovacchia e Spagna (Tabella 1). 11 3.1.2 Pensione parziale Il primo tra i paesi europei a introdurre una forma di pensione parziale consentendo un ritiro più graduale dalla vita attiva fu la Svezia nel 1976 (Tabella 2). In Danimarca, Finlandia e Francia è invece stato introdotto per la prima volta verso la fine degli anni Ottanta e in Germania nel 1992. Al pensionamento parziale si può accedere all’interno di una fascia di età, in maniera non dissimile dal pensionamento pieno. In alcuni paesi — come Danimarca, Finlandia e Germania — questa fascia di età si colloca precedentemente all’età, o finestra di età, da cui è possibile il ritiro completo dall’attività lavorativa. In questo caso è difficile considerare il pensionamento graduale come un modo per estendere la vita lavorativa e sembrerebbe piuttosto rivolto a ridurre il ricorso al pensionamento anticipato, ove possibile. In Svezia, Francia e Spagna, invece, l’intervallo di età in cui accedere al pensionamento pieno e parziale si sovrappongono, configurando un ventaglio piuttosto ampio di combinazioni di tempi e modi del pensionamento a coloro che raggiungono tale soglia di età. In Francia e in Danimarca ai requisiti di età se ne sommano altri sull’anzianità contributiva — nel primo caso — e sul fatto di aver svolto la propria attività nel paese per almeno un certo periodo di tempo nel secondo. Tutti i paesi impongono restrizioni sull’orario di lavoro settimanale durante il quale il lavoratore può continuare a svolgere un’attività remunerata mentre riceve una pensione ridotta. Tuttavia, questi limiti non sono rigidi e prevedono delle fasce all’interno delle quali scegliere l’orario settimanale desiderato. In genere l’ammontare erogato è una frazione della pensione piena proporzionale alla riduzione dell’orario lavorativo — come in Germania, Danimarca, Spagna e Svezia — oppure al reddito da lavoro perso a causa della ridotta attività — come in Finlandia. In Francia, l’importo può essere il 30, 50 o 70% della pensione intera secondo lo scaglione di orario di lavoro scelto. In Danimarca l’importo della pensione parziale è calcolato applicando una quota basata sulla riduzione dell’orario di lavoro non alla pensione, bensì al sussidio di disoccupazione, quale ulteriore legame di questo tipo di schema con le misure di politica del lavoro più che con quelle pensionistiche. 3.2 Il caso italiano 3.2.1 Età (sempre meno) flessibile Così come il sistema svedese è stato pioniere nel pensionamento parziale, l’Italia è stato uno dei primi paesi europei a introdurre un sistema NDC e con esso la possibilità di scegliere l’età di pensionamento all’interno di un dato intervallo. Tuttavia, interventi legislativi successivi hanno ridotto drasticamente la possibilità di scelta. Fino al 1995 il sistema italiano era caratterizzato da un metodo retributivo per il computo della pensione, nonostante le innovazioni introdotte dalla riforma Amato del 1992, che mirava ad aumentare la sostenibilità del sistema attraverso requisiti più stringenti, l’indicizzazione delle pensioni all’andamento dei soli prezzi e al calcolo della pensione basato sulle retribuzioni dell’intera vita lavorativa. Con la riforma Dini (Legge 8 agosto 1995, n. 335) entrata in vigore nel 1996, il sistema pensionistico italiano adottò il metodo contributivo — rimanendo tuttavia un sistema a ripartizione — con una corrispondenza attuarialmente neutrale tra contributi e benefici. Nonostante l’adozione precoce rispetto agli altri paesi europei, il lungo periodo di transizione fa sì che a dieci anni di distanza ancora nessuna pensione sia liquidata col metodo contributivo. Infatti la legge stabilisce che solo per i nuovi assunti dopo il 1996 l’ammontare della pensione sarebbe stato calcolato interamente col metodo contributivo, mentre i lavoratori che avevano accumulato più di diciotto anni di contributi alla fine del 1995 avrebbero ricevuto una pensione calcolata interamente secondo il metodo retributivo. Infine, l’importo della pensione di coloro che cadevano nel caso intermedio di meno di 18 anni di contributi a fine 1995 sarebbe stato calcolato coi due metodi secondo un meccanismo pro rata temporis (art. 1 commi 12 e 13). 12 Il nuovo sistema è accompagnato da condizioni di pensionamento flessibili. Per i lavoratori la cui pensione è liquidata esclusivamente secondo il sistema contributivo, la pensione di anzianità è abolita e il lavoratore ha la possibilità di scegliere l’età del pensionamento tra i 57 e i 65 anni di età, avendo almeno cinque anni di contribuzione effettiva.4 Si prescinde dal predetto requisito anagrafico al raggiungimento dei 40 anni di anzianità contributiva. Oltre i 65 anni, rimane la possibilità di continuare a lavorare, ma senza ulteriori aumenti attuariali della pensione. Una forma di rigidità è comunque insita nel meccanismo di aggiornamento delle tavole di mortalità — riviste soltanto ogni dieci anni — usate nei coefficienti di trasformazione per la conversione del monte contributivo in rendita. Per il lavoratori del regime retributivo e di quello misto, rimane la possibilità di riceve una pensione di anzianità secondo requisiti di anzianità contributiva ed età anagrafica,5 che comunque non scende al di sotto dei 57 anni. La riforma del 2004 ha avuto tra gli obiettivi quello di innalzare l’età pensionistica al di sopra della soglia minima di 57 anni fissata precedentemente. Tuttavia, oltre ad innalzare tale soglia in maniera brusca, determinando trattamenti molto differenti per coorti contigue, l’ultima riforma ha eliminato la finestra di flessibilità ed ha nuovamente introdotto una differenza di età tra uomini e donne nella pensione di vecchiaia, contrastando la tendenza all’uniformità perseguita da tutti gli altri paesi europei. A partire dal 1° gennaio 2008, nell’ambito del sistema retributivo e misto i requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità per i dipendenti diventano 35 anni di anzianità contributiva e 60 di età (61 dal 2010 e 62 dal 2014) oppure 40 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica. Alla pensione nel sistema contributivo si potrà invece accedere con 65 anni di età per gli uomini e 60 per le donne che abbiano 5 anni di contributi oppure con la combinazione di età e anzianità contributiva 60 anni di età e 35 di contributi o con 40 anni di contributi. Un’eccezione a tale norma è offerta — in via sperimentale fino al 2015 — alle lavoratrici dipendenti che scelgano di ottenere già da subito la liquidazione della pensione col metodo contributivo. In questo caso potranno andare in pensione con 35 anni di contributi e 57 di età. Rimane la possibilità di continuare l’attività lavorativa anche dopo aver raggiunto i requisiti, senza però benefici aggiuntivi sull’importo della pensione. Inoltre l’ultima riforma ha introdotto, ma solo fino a dicembre 2007, un meccanismo per incentivare la permanenza sul posto di lavoro anche dopo aver raggiunto i requisiti per ricevere la pensione. I dipendenti del settore privato che abbiano i requisiti per il pensionamento, possono decidere di ritardarlo ricevendo in busta paga l’ammontare dei contributi sociali a carico del datore di lavoro (cioè il 32.7% della retribuzione lorda), senza alcun aumento sui contributi versati. 3.2.2 Pensione parziale: le leggi non bastano Nella sezione 3.1 si è scelto di non includere l’Italia tra il novero dei paesi in cui è possibile il pensionamento parziale, nonostante la normativa attuale lo consenta, perché di fatto la partecipazione a questa forma di pensionamento è numericamente irrilevante. Inoltre, nel dibattito corrente tale possibilità è quasi del tutto ignorata, sintomo (o causa) della completa inefficacia della norma. Inoltre l'importo della pensione non deve essere inferiore a 1,2 volte l’importo dell'assegno sociale (art. 1 comma 20). 5 Al raggiungimento di un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età anagrafica, oppure al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni, oppure al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 37 anni, […] nei casi in cui rapporto di lavoro sia stato trasformato in rapporto di lavoro a tempo parziale (art. 1 comma 25). Di quest’ultimo caso si tratterà più avanti. 4 13 Il primo atto a introdurre il pensionamento parziale in Italia è la legge n. 223 del 23 Luglio 1991 (art. 19), che dà diritto alla pensione di vecchiaia cinque anni prima dal limite legale ai dipendenti6 di aziende che soddisfino determinati criteri. L’impresa deve beneficiare da 2 anni dell’intervento straordinario di integrazione salariale (Cassa Integrazione Guadagni) e il contratto collettivo aziendale deve prevedere il ricorso al tempo parziale per consentire l’assunzione di nuovo personale o per evitarne la riduzione. L’orario di lavoro del lavoratore che benefici della pensione non deve superare le 18 ore settimanali e l’ammontare della pensione non deve essere superiore alla mancata retribuzione. Al fine di non penalizzare il lavoratore, questi può scegliere che sia usata, come base di calcolo per la determinazione della pensione, la retribuzione antecedente alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. La mancanza di incentivi per il lavoratore e la difficoltà che si realizzino le condizioni per cui un’azienda in crisi desideri trattenere i lavoratori anziani — seppure a tempo parziale — anziché ricorrere ad un pensionamento anticipato e pieno, sono tra le cause della mancata applicazione della norma. Successivamente, anche la riforma Dini tratta del pensionamento parziale (legge 335/95, art. 1, comma 25), stabilendo che possano ottenere il diritto alla pensione di anzianità anche7 i lavoratori dipendenti al raggiungimento di un’anzianità contributiva di almeno 37 anni,8 senza alcun requisito di età, nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale. In questo caso l’orario di lavoro deve essere ridotto non oltre il 50% e la pensione è ridotta in ragione inversamente proporzionale alla riduzione dell’orario di lavoro. In ogni caso, la somma di retribuzione e pensione non può superare l’importo della retribuzione spettante al lavoratore in caso di lavoro a tempo pieno e a parità di altre condizioni. Anche questa norma è rimasta praticamente inapplicata — dagli archivi dell’INPS risulta infatti che solo 13 persone ne abbiano usufruito — probabilmente anche a causa del requisito abbastanza stringente in termini di anzianità. La legge 662 del 23 Dicembre 1996 9 abroga esplicitamente la norma della legge Dini, riproponendo con alcune variazioni le disposizioni del decreto legge 508/96, mai convertito in legge, che trattava dell’ammissione alla pensione di anzianità dei lavoratori dipendenti che trasformano il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, previa assunzione di nuovo personale da parte del datore di lavoro. La legge dispone riguardo ai lavoratori dipendenti del settore privato e di quello pubblico, nonché dei lavoratori autonomi. Ai lavoratori dipendenti del settore privato in possesso dei requisiti per l’accesso al pensionamento di anzianità (di cui alla tabella B, nota 8), può essere riconosciuto il trattamento di pensione di anzianità e il passaggio al rapporto di lavoro a tempo parziale in misura non inferiore alle 18 ore settimanali. L’importo della pensione è ridotto in misura inversamente proporzionale alla riduzione dell’orario di lavoro. La somma della pensione e della retribuzione non può superare — come indicato già nella legge Dini — l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore nel caso di lavoro a tempo pieno. Tuttavia, il passaggio al tempo parziale con l’erogazione di una pensione di anzianità ridotta può avvenire solo a condizione che il datore di lavoro assuma nuovo personale per una durata ed un monte ore lavorativo non inferiore a quello ridotto ai lavoratori che si avvalgono della facoltà del pensionamento parziale. Inoltre, questa legge estende tutte le suddette norme anche al personale delle amministrazioni pubbliche, prescindendo tuttavia dall’obbligo di nuove assunzioni. Infine, ai lavoratori autonomi in possesso dei requisiti per l’accesso al pensionamento di anzianità spetta Inoltre il dipendente deve avere un’anzianità contributiva di almeno 15 anni. Oltre ai lavoratori che raggiungano a) un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età anagrafica; b) un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni; 8 O, se superiore, l’anzianità stabilita dalla tabella B allegata alla legge, colonna 2, che elenca i requisiti di età anagrafica e di anzianità contributiva necessari per conseguire la pensione di anzianità tra il 1996 e il 2008. 9 Art. 1, commi 185, 192, 209 e 216. 6 7 14 una riduzione sui contributi dovuti pari al 10%, nel caso in cui rinuncino al pensionamento, fino al compimento dell’anzianità contributiva di 40 anni e comunque fino al compimento dell’età necessaria per il pensionamento di vecchiaia. Anche in questo caso la legge impone una condizione e cioè che il lavoratore autonomo assuma una o più persone anche a tempo parziale o che regolarizzi posizioni lavorative non conformi ai contratti di categoria, oppure che affianchi un socio nell’esercizio dell’attività. Dal un lato, questa legge, così come la Dini, introduce incentivi a una permanenza più lunga nel mondo del lavoro (grazie al fatto di allineare i requisiti di età e contributi per il pensionamento parziale a quello ‘pieno’), dall’altro il vincolo dell’assunzione continua a renderne poco attraente l’applicazione da parte delle imprese.10 Infine, la legge Treu (legge 196/97 art. 13, commi 2 e 4) si occupa di pensionamento parziale a margine di norme per incentivare l’uso dell’orario di lavoro ridotto. In particolare, la legge stabilisce la riduzione delle aliquote contributive in funzione dell’entità della riduzione dell’orario di lavoro in una serie di casi, tra cui la trasformazione del rapporto di lavoro in contratto a tempo parziale per i lavoratori che conseguano i requisiti di accesso alla pensione nei tre anni successivi. Rimane la clausola che vincola il datore di lavoro ad assumere giovani inoccupati o disoccupati di età inferiore ai trentadue anni per un tempo lavorativo pari almeno a quello ridotto dai lavoratori che si avvalgono del pensionamento parziale. Tuttavia il decreto che avrebbe dovuto stabilire l’entità degli sgravi retributivi non è ancora stato emanato e non è chiaro dal testo della legge a favore di chi siano rivolte le riduzioni contributive né se vi sia una compensazione per i contributi non versati al fine del computo della pensione (per esempio sotto forma di contributi figurativi). Nel complesso, dall’osservazione della normativa sul pensionamento parziale in Italia emerge che a fronte di una cospicua attività legislativa i risultati sono stati scarsi. La volontà di usare il pensionamento graduale come strumento di stimolo all’occupazione — soprattutto quella in età avanzata — ha però introdotto ulteriori elementi di rigidità che hanno sicuramente contribuito a determinarne la mancata attuazione. Inoltre, gli incentivi ai lavoratori e alle imprese non sono stati tali da compensare i fattori di ostacolo alla sua realizzazione. 4. Implicazioni economiche e valutazione delle riforme europee L’introduzione di elementi di flessibilità in un sistema pensionistico ha delle implicazioni sia micro- sia macro-economiche. Per semplicità, qui si tratteranno solo le principali, come l’adeguatezza nel caso microeconomico e l’impatto sull’offerta di lavoro nel panorama macroeconomico, tralasciando ad esempio considerazioni sui vantaggi in termini di sostenibilità finanziaria dei sistemi a contributo definito rispetto a quelli a beneficio definito. La prima considerazione in termini di adeguatezza11 di un sistema che consenta flessibilità nell’età di pensionamento riguarda l’età minima o il margine inferiore di un’eventuale “finestra”. Infatti, nel caso in cui tale limite sia eccessivamente basso, un individuo che decida di ritirarsi appena ne ha i requisiti corre il rischio di ricevere un ammontare decisamente insufficiente a far fronte alle sue necessità in età anziana. 10 Secondo i dati degli archivi INPS, dal gennaio 1997 al luglio 1999, 186 persone si sono avvalse del pensionamento graduale in base alla legge 662/96. 11 Tre obiettivi comuni in termini di adeguatezza dei sistemi pensionistici sono stati individuati nel corso del Consiglio Europeo tenutosi a Laeken nel 2001. In particolare gli Stati Membri che intendano migliorare l’adeguatezza del proprio sistema pensionistico devono: 1. assicurare che gli anziani non siano a rischio di povertà e possano godere un tenore di vita decoroso; che partecipino del benessere economico del loro paese e possano di conseguenza partecipare attivamente alla vita pubblica, sociale e culturale; 2. provvedere all’accesso di tutti gli individui ad accordi pensionistici pubblici e/o privati appropriati, che consentano loro di ottenere diritti pensionistici che li mettano in grado di mantenere, in misura ragionevole, il loro tenore di vita dopo il pensionamento; e 3. promuovere la solidarietà tra le generazioni e all’interno delle generazioni (European Commission, 2004, traduzione nostra). 15 Variazioni nella generosità di un sistema al variare dell’età di pensionamento si possono osservare in studi su Italia e Lettonia. Ad esempio, nel caso dell’Italia, la generosità del sistema pensionistico misurata in termini di net present value ratio12 (NPRV) può essere osservata sia nel passaggio dal vecchio sistema retributivo a quello contributivo (attraverso una fase intermedia di transizione), sia per pensionamenti a età diverse (Ferraresi e Fornero, 2000; Fornero e Castellino, 2001). Da un lato, infatti, la generosità diminuisce progressivamente passando dalle coorti più anziane che beneficiano del metodo retributivo alle coorti più giovani che vanno in pensione col metodo contributivo — data la stessa età di pensionamento. Dall’altro, la generosità del sistema a contribuzione definita è sostanzialmente indipendente dell’età di pensionamento, mentre il sistema a beneficio definito è meno generoso nel caso di posticipo del pensionamento. Un discorso analogo vale per la Lettonia, che nel 1996 ha riformato il proprio sistema pensionistico, rendendo il pilastro pubblico a contribuzione definita. I tassi di sostituzione del vecchio e del nuovo sistema sono quasi identici nel caso di pensionamenti a 60 anni, età di riferimento. Tuttavia, i tassi di sostituzione del sistema precedente al 1996 presentano una dinamica più moderata rispetto all’età pensionistica in confronto ai tassi del nuovo. Quindi pensionamenti successivi ai 60 anni danno luogo a tassi di sostituzione decisamente più elevati rispetto al sistema precedente, a differenza di quanto accade per i pensionamenti anticipati che sono più penalizzati rispetto a prima (Fox e Palmer, 1999). Come nel caso dell’adeguatezza dei benefici pensionistici, l’impatto sul mercato del lavoro dell’introduzione di misure di flessibilità è difficilmente individuabile a priori. Da un lato questo dipende dalle proprietà attuariali del sistema, cioè da quale sia il suo grado di neutralità attuariale e se esso offra gli incentivi/disincentivi appropriati per pensionamenti posticipati/anticipati. Dall’altro, anche il comportamento individuale è determinante, a prescindere dagli incentivi offerti dal sistema. In generale interventi che siano efficaci nello spostare in avanti l’età media di pensionamento dovrebbero avere un effetto positivo anche sull’offerta di lavoro, dal momento che allungano la permanenza sul posto di lavoro dei lavoratori anziani prossimi alla pensione (anche se lo spostamento in avanti con cui si verifica l’ingresso nel mercato del lavoro adesso rispetto al passato fa sì che ad età di pensionamento più elevate non corrisponda necessariamente una carriera più lunga). Adottando una visione expost, l’effetto di misure direttamente mirate alla flessibilità dell’età pensionistica sul momento effettivo di pensionamento sembra essere nella maggior parte dei casi positivo. Con riferimento alle riforme francesi del 1993 e del 2003, lo studio di Aubert et al. (2005) sottolinea come i fattori di cambiamento che agiscono sull’età di pensionamento effettiva siano in realtà non solo quelli legati alla nuova normativa, ma anche dovuti all’aumento dell’età di ingresso nella forza lavoro. Tuttavia, una scomposizione dei due effetti mostra comunque come entrambi gli effetti siano positivi, anche se in misura differente per uomini e donne e per dipendenti pubblici o privati. Ad analoghe conclusioni conducono gli studi sulle due riforme occorse in Germania nel 1992 e 1999 (Berkel e Börsch-Supan, 2003). Dalle simulazioni condotte in questo articolo, l’età media di pensionamento aumenta in seguito a ciascuna delle riforme, così come la probabilità di pensionamento prima di determinate soglie di età diminuisce. Tuttavia, sottolineano gli autori, tale aumento sarebbe stato ancora maggiore se le riforme avessero introdotto un sistema NDC. Nel caso della Finlandia il lavoro di Lassila e Valkonen (2006) separa gli effetti sul tasso di occupazione delle varie componenti della riforma del 2005, in particolare degli incentivi al posticipo del pensionamento e del cambiamento dei coefficienti di rivalutazione dei salari usati nel calcolo delle pensioni (Tabella 1). Delle due, la prima misura Il net present value ratio è dato dal rapporto tra il valore attuale dei benefici pensionistici e il valore attuale dei contributi, entrambi valutati all’inizio della carriera lavorativa: 12 16 è decisamente più efficace nell’aumentare il tasso di occupazione negli anni futuri. Per quanto attiene al pensionamento graduale, in molti casi esso ha finalità legate a rendere meno brusca la cessazione della vita lavorativa piuttosto che a ritardarne il momento. Anche se in molti casi l’intento è quello di favorire la permanenza sul lavoro di lavoratori anziani e di arginare fenomeni di pensionamento anticipato, dato il minor sforzo che un orario di lavoro parziale consente, non è detto che tale scopo sia soddisfatto. Infatti, in molti casi tale fascia di età si colloca prima dell’età minima a cui cominciare a ricevere la pensione “piena”, configurando una sorta di pre-pensionamento graduale. Nei casi in cui, invece, la fascia di età in cui è possibile accedere al pensionamento parziale si sovrappone a quella relativa al pensionamento pieno, allora tale misura tende a spostare in avanti l’età media effettiva di pensionamento, con potenziali effetti benefici sull’occupazione. Come descritto con maggiore dettaglio nella sezione 3.1, in alcuni dei paesi europei dove è ammesso, il pensionamento parziale è possibile solo prima dell’età minima per il pensionamento vero e proprio, riducendo di fatto la probabilità che l’età effettiva di pensionamento aumenti, dato che il pensionamento parziale si trova a essere in diretta concorrenza con gli schemi di pensionamento anticipato. Proprio su questo punto si concentra l’analisi di Wadensjö (2006), che considera lo status lavorativo alternativo nel caso in cui il pensionamento parziale non fosse stato possibile. L’effetto sull’offerta di lavoro individuale è un incremento di quattro ore alla settimana, quale impatto netto risultante da una parte dall’effetto positivo dell’attività part-time rispetto al pensionamento completo e dall’altra dall’effetto negativo della riduzione dell’orario di lavoro rispetto a un lavoro a tempo pieno. Inoltre, l’effetto positivo sull’offerta di lavoro del pensionamento parziale è maggiore per le donne rispetto agli uomini. Infine, un altro aspetto di cui tener conto riguardo all’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento riguarda la domanda di lavoro e quindi la capacità del mercato di creare opportunità di lavoro, a tempo parziale e pieno, per lavoratori in età avanzata. Come si è visto nel caso italiano, non tutti i paesi sono caratterizzati da una tale flessibilità. Nel complesso, il ricorso al pensionamento graduale è ancora troppo limitato perché gli effetti possano farsi sentire significativamente a livello delle economie nazionali. Infatti, il paese con la partecipazione maggiore è la Finlandia, dove negli anni 2002 — 2003 le pensioni parziali corrispondevano al 3% circa del totale delle pensioni erogate (Finnish Centre for Pensions, 2005). 5. Conclusioni La flessibilità al pensionamento presenta diversi vantaggi. Permette, infatti, di adattare regole universali di un sistema pensionistico alla vasta casistica di esperienze e preferenze individuali riguardo ai percorsi lavorativi e famigliari. Inoltre, dal punto di vista dello Stato, può essere uno strumento per migliorare la sostenibilità finanziaria del sistema attraverso l’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento. Tuttavia è necessario che il sistema contenga gli incentivi appropriati, incoraggiando carriere lavorative più lunghe e disincentivando uscite precoci dal mercato lavoro. Tali incentivi non devono essere troppo elevati — pena un eccessivo peso sul bilancio del sistema — né troppo lievi, col rischio di risultare inefficaci, ma devono piuttosto ispirarsi a principi di neutralità attuariale. Inoltre, per quanto la flessibilità sia un valore in se stessa, essa deve essere opportunamente limitata, per non mettere a rischio l’adeguatezza dei benefici pensionistici individuali. La flessibilità al pensionamento può essere messa in pratica in vari modi strettamente legati tra loro, cioè sia attraverso la possibilità di scegliere l’età di collocamento a riposo — con le relative correzioni attuariali dei benefici — sia grazie alla facoltà di raggiungere gradualmente la cessazione 17 completa dell’attività lavorativa attraverso schemi di pensionamento parziale. In alcuni casi ci sono ancora ostacoli alla piena realizzazione dell’ideale di flessibilità, soprattutto nel caso del pensionamento parziale. Affinché la flessibilità sul piano pensionistico sia non solo attraente per tutte le parti coinvolte (Stato, imprese e lavoratori) ma anche efficace, è necessario che l’organizzazione del lavoro sia sufficientemente flessibile, soprattutto nel consentire rapporti di lavoro a tempo parziale ai lavoratori anziani. Infine, anche i vincoli imposti, per esempio legati all’assunzione di nuovo personale, ne rendono meno appetibile l’adozione da parte delle imprese. 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Premessa Alla fine del 2006 l’assetto della previdenza complementare italiana era caratterizzato da almeno quattro debolezze: 1. un basso rapporto fra l’effettivo numero di iscritti alle diverse forme pensionistiche complementari e la platea dei loro potenziali aderenti (tasso di adesione), apparente frutto di una distorta “maturità precoce” del settore;2 2. un insufficiente flusso unitario di finanziamenti imputabile sia alla limitata entità dei versamenti previsti contrattualmente, nel caso di adesione dei lavoratori dipendenti, sia ai modesti incentivi fiscali concessi a tutti gli aderenti nella fase di contribuzione; 3. una struttura inefficiente del mercato, che si traduce in una carenza di concorrenza fra i due tipi di fondi pensione con adesione collettiva (i FPc e alcuni FPa) e in una crescente concorrenza fra tali fondi pensione e le altre forme pensionistiche complementari con adesione individuale (i FPa e i Pip);3 4. una governance delle singole forme previdenziali tanto inadeguata da non garantire né sufficiente trasparenza né uniformità di tutela rispetto agli aderenti. Come è noto, dal 1° gennaio 2007 sono entrate in vigore le nuove norme previste dalla Legge delega n. 243/04 e dal connesso D.Lgs. n. 252/05 e modificate dalla recente Legge finanziaria per il 2007. Pertanto, l’obiettivo di questo lavoro è di rispondere al seguente interrogativo: le novità normative promettono efficaci soluzioni alle quattro debolezze oggi presenti nella previdenza complementare italiana? Nel paragrafo 2 si sostiene che la Legge delega n. 243/04, proposta fin dal dicembre 2001 e approvata dal Parlamento solo nel luglio 2004, mira effettivamente a disegnare incentivi per una più diffusa partecipazione al secondo pilastro previdenziale e per il rafforzamento delle fonti di finanziamento dei FP e dei Pip mediante la previsione di modalità attive o “tacite” di conferimento alle forme previdenziali dei flussi di Tfr da parte dei lavoratori dipendenti privati; e nel paragrafo 3 si mostra che, accrescendo la concorrenza fra le varie forme previdenziali e cercando di migliorare la governance del settore, tale legge persegue anche l’implicito obiettivo di eliminare dal mercato previdenziale i FP e i Pip più inefficienti sotto il profilo organizzativo o gestionale. Eppure gli stessi I paragrafi 2 e 3 del presente scritto riproducono, pur se con varie modifiche, i paragrafi 6 e 7 del saggio “La previdenza complementare in Italia: un quadro introduttivo” che funge da introduzione al volume. La previdenza complementare in Italia (a cura di M. Messori, il Mulino, 2006). Si ringrazia la casa editrice il Mulino per avermi permesso di utilizzare tali paragrafi. * Professore Dipartimento di Economia e Istituzioni, Facoltà di Economia, Università di Roma “Tor Vergata”. 2 Il riscontro empirico di questa affermazione e delle considerazioni sub (2) è offerto in: Messori (2006a), par. 4 e 5. Aggiornamenti, al riguardo, sono disponibili in: http://www.covip.it; http://www.mefop.it. Anche i due temi sub (3) e (4) sono affrontati in Messori (2006a). D’ora in poi si useranno i termini “previdenza complementare”, “forme pensionistiche complementari” o “forme previdenziali” per indicare l’insieme dei vari tipi di fondi pensione (FP) — fondi pensione contrattuali (FPc), fondi pensione aperti (FPa), fondi pensione preesistenti (FPp) — e i piani individuali pensionistici (Pip). 3 Ne discende che, a differenza di quanto avviene in molti Paesi con una sviluppata previdenza complementare, il sistema previdenziale italiano ha pressoché eliminato la distinzione fra secondo e terzo pilastro (cfr. anche par. 3). 1 21 paragrafi 2 e 3 fanno emergere che le soluzioni specifiche, offerte dalla Legge delega n. 243/04 e — soprattutto — dal connesso D.Lgs n. 252/05, palesano limiti così rilevanti da generare nuovi problemi o da aggravare problemi da tempo presenti nella previdenza complementare italiana.4 Nel paragrafo 4 si mostra poi che le modifiche, introdotte dalla recente Legge finanziaria e dai connessi decreti del gennaio 2007, non risolvono la maggior parte dei problemi aperti e ne aggiungono di ulteriori. Questa Legge ha il merito di anticipare al 1° gennaio 2007 l’entrata in vigore di quasi tutte le nuove norme, che il D.Lgs. n. 252/05 aveva inopinatamente posposto al 1° gennaio 2008, e di eliminare il distorsivo fondo di garanzia, che sempre il D.Lgs. n. 252/05 aveva previsto per i crediti bancari alle imprese sostitutivi del finanziamento prima assicurato dai flussi di Tfr. Essa altera però la configurazione del sistema previdenziale disegnata dalla “Legge Dini” del 1995, sovrapponendo al secondo pilastro previdenziale un fondo pubblico a ripartizione denominato “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto” e gestito dall’Inps (d’ora in poi: FondInpsR); inoltre, dilata i compiti della “forma pensionistica complementare residuale presso l’Inps” (d’ora in poi: FondInpsC) prevista dal D.Lgs. n. 252/05. Nelle Conclusioni, si riassumono i limiti del nuovo quadro normativo e si specificano alcune delle condizioni richieste per consentire un accettabile funzionamento della previdenza complementare italiana. 2. Le novità normative del 2004-2005 Dopo aver accarezzato a lungo l’incongrua ipotesi di vincolare i lavoratori dipendenti privati all’adesione alla previdenza complementare mediante l’obbligo di conferimento a una forma previdenziale dei loro flussi di Tfr,5 il governo Berlusconi ha accettato la soluzione dell’adesione tacita proposta da molti esperti della materia. Nel D.Lgs. n. 252/05 esso ha così previsto che, dall’inizio del 2008, i lavoratori dipendenti privati siano tenuti a conferire i flussi maturandi di Tfr a una forma previdenziale salvo che esprimano, entro sei mesi dalla data della loro prima assunzione oppure — se già occupati - dalla data del 1° gennaio 2008 o — se successiva — dalla data della nuova assunzione, la “diversa esplicita volontà” di mantenere (in tutto o in parte) tali flussi presso l’impresa di appartenenza;5 inoltre, come specifica il D.Lgs. n. 252/05 (art. 8, comma 7; art. 14, comma 1), il conferimento del Tfr maturando a una data forma pensionistica complementare comporta l’adesione a quella stessa forma e rende, così, irreversibile la scelta salvo nei casi previsti di riscatto parziale (procedure di mobilità e cassa integrazione o stato di disoccupazione per non meno di un anno e per non più di quattro anni) o totale (invalidità permanente per più di due terzi o stato di disoccupazione per più di quattro anni). Il ricorso a una qualche forma di adesione tacita e al trasferimento del Tfr maturando si pone come il più ovvio strumento per incrementare sia il tasso di adesione che il patrimonio In schemi a contribuzione definita, qual è quello italiano, l’obbligo di conferimento del Tfr, maturando alla previdenza complementare, sarebbe equivalso a vincolare l’allocazione di una componente del reddito (differito) dei lavoratori dipendenti a uno specifico investimento rischioso. Ciò avrebbe contraddetto un principio elementare che sta a fondamento di qualsiasi economia di mercato: ogni agente economico deve mantenere libertà di scelta circa l’utilizzo del proprio reddito al netto delle tasse (cfr., però, la diversa posizione espressa in Pessi 2004). 5 Come si è già accennato e come si specificherà nel par. 4, la Legge finanziaria per il 2007 ha anticipato al 1° gennaio 2007 l’entrata in vigore della nuova normativa e ha previsto il trasferimento a FondInpsR del Tfr maturando, destinato all’impresa, di quella parte dei dipendenti privati occupati in aziende con almeno 50 addetti. Si noti inoltre che la Legge delega n. 243/04 prevedeva una clausola del “tutto o niente” per il trasferimento dei flussi di Tfr alla previdenza complementare. Viceversa il D.Lgs. n. 252/05 (cfr. art. 8, comma 7, lettera a e lettera c, punti 1 e 2), dopo aver ricordato che i dipendenti privati possono revocare in ogni momento la loro precedente opzione conservativa spostando i flussi di Tfr dall’impresa di appartenenza alla forma previdenziale prescelta, specifica che i lavoratori, assunti fino alla data del 28 aprile 1993, hanno la facoltà di decidere di ripartire i loro flussi di Tfr fra la previdenza complementare e l’impresa di appartenenza. In particolare, se già iscritti a una forma previdenziale, questi lavoratori possono anche scegliere di continuare a detenere presso l’impresa la quota del flusso di Tfr prima non versata; e, se non ancora iscritti, essi possono anche scegliere di aderire versando soltanto la quota di Tfr prevista contrattualmente o — in mancanza di una tale previsione — una parte non inferiore al 50%. 6 L’affermazione fatta non è condivisa da Castellino e Fornero (2000; cfr. anche Fornero, 2005). I due studiosi sostengono infatti che il Tfr svolge, per i lavoratori dipendenti, funzioni precauzionali che ne richiedono un elevato grado di liquidità; e che la liquidità verrebbe meno con il conferimento del Tfr a forme di previdenza complementare. Al riguardo, va notato che: (i) l’uso precauzionale del Tfr è spesso la conseguenza di carenze nella legislazione sociale italiana (per es., in termini di ammortizzatori sociali) e rappresenta, quindi, una risposta distorta a un problema effettivo; (ii) fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 252/05, la destinazione del Tfr ai FP non ha impedito quegli usi alternativi previsti dalle norme nel caso di utilizzo tradizionale del Tfr presso le imprese; (iii) le maggiori restrizioni in termini di riscatti e di alcune forme di anticipazione, previste dal D.Lgs. n. 252/05 (cfr. anche infra), sono — almeno in parte — compensate da una fiscalità di favore. Va peraltro riconosciuto che l’investimento nella previdenza complementare sottopone a un rischio finanziario ogni riallocazione del Tfr. 4 22 totale della previdenza complementare.6 Per di più l’esperienza internazionale mostra che le modalità di adesione tacita al secondo pilastro previdenziale tendono a indurre elevati tassi di partecipazione (anche oltre il 70% della platea potenziale). Tenendo conto che l’attuale copertura dei lavoratori dipendenti privati italiani si attesta intorno al 13%, negli anni successivi all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 252/05 si potrebbe perciò registrare l’adesione alla previdenza complementare italiana di un ulteriore 55%-60% di questa tipologia di lavoratori; il che, dato il peso dei dipendenti privati sull’insieme dei lavoratori occupati e dati i possibili effetti — più contenuti ma comunque positivi — della nuova normativa su altre tipologie di lavoratori, potrebbe portare a un tasso complessivo di adesione alle forme previdenziali poco al di sopra del 50%. Va poi aggiunto che le modalità dell’adesione esplicita o tacita dovrebbero rafforzare i finanziamenti unitari delle forme previdenziali, in quanto estendono ai lavoratori assunti fino al 28 aprile 1993 il versamento dell’intero ammontare dei flussi di Tfr o comunque di quote più elevate di quelle passate. Dato il valore complessivo dei flussi di Tfr e degli accordi contrattuali vigenti, tutto ciò potrebbe comportare un afflusso aggiuntivo annuale alla previdenza complementare pari a circa 9 miliardi di euro.7 Le stime del Ministero del lavoro sono meno ottimistiche. Esse prevedono, per il 2007, il raggiungimento di un tasso di adesione dei dipendenti privati pari al 40% — ossia, un incremento del 27% invece che del 55%-60%. In realtà le soluzioni, proposte dalla Legge delega n. 243/04 e dal D.Lgs. n. 252/05, sono così parziali e distorsive da rendere di difficile realizzazione anche un incremento del genere.8 La parzialità è già evidente in quanto fin qui detto: lo schema di conferimento tacito non riguarda — come invece dovrebbe — l’adesione alla previdenza complementare di tutti i lavoratori, ma esclude sia i lavoratori autonomi, che non dispongono del Tfr e hanno i più bassi tassi di sostituzione da primo pilastro previdenziale, sia i lavoratori dipendenti pubblici.9 L’esclusione è di particolare gravità per quelle fasce deboli e precarie di lavoratori autonomi, in cui si addensano i lavoratori inseriti nel regime previdenziale pubblico a “ripartizione contributiva” (ossia i lavoratori “giovani”).10 La lacuna non viene compensata dal nuovo trattamento fiscale per le contribuzioni volontarie individuali. Al riguardo, la Legge delega mirava ad ampliare la “deducibilità” delle contribuzioni complessive (del lavoratore e del datore di lavoro) tramite la fissazione di nuovi “limiti in valore assoluto e in valore percentuale del reddito imponibile” e tramite l’applicazione del limite “più favorevole all’interessato” (cfr. art. 1, comma 2 lettera i). Viceversa il D.Lgs.: conferma il solo limite preesistente in valore assoluto, Di per sé, la decisione relativa al versamento di tutti i flussi maturandi di Tfr, è meno radicale di quanto non appaia a prima vista. Anche in base alla precedente normativa, si sarebbe infatti raggiunto un risultato simile all’uscita dal mercato del lavoro dei dipendenti assunti per la prima volta in data antecedente il 29 aprile 1993 (cfr. al riguardo: Mefop 2000). Resta il fatto che, combinandosi con il meccanismo dell’adesione tacita, il potenziale incremento dei versamenti annuali alle forme previdenziali aumenterebbe di circa lo 85% lo stock patrimoniale, detenuto dai nuovi FP alla fine del 2005. 8 Riportando i risultati di due indagini Isae (2004) e (2005) riguardo alla propensione dei lavoratori italiani ad aderire a una forma pensionistica complementare mediante il meccanismo del conferimento tacito del Tfr maturando, Cozzolino-Di Nicola-Raitano (2006) sottolineano come, negli ultimi mesi del 2004 e del 2005, in media più del 40% degli intervistati fosse ancora incerto circa la destinazione del proprio Tfr e — fra i non incerti — più del 77% optasse per mantenere il proprio Tfr in azienda. La comparazione fra tali cifre e l’attuale dinamica dei tassi di adesione non implica, di per sé, che il meccanismo del conferimento tacito sarà privo di effetti significativi. Si è già accennato e si specificherà fra breve che, mentre la scelta di trasferimento del Tfr maturando a una forma previdenziale ha elementi di irreversibilità, secondo il D.Lgs n. 252/05 la decisione del suo mantenimento in azienda è rovesciabile in ogni momento; pertanto, le indagini Isae potrebbero anche indicare un atteggiamento di attesa. Tuttavia la diffidenza verso le nuove regole e la forte preferenza per allocazioni liquide e poco rischiose del Tfr, espresse dalla maggior parte degli intervistati, e l’addensamento dei favorevoli all’utilizzo pensionistico del Tfr fra chi ha già aderito a una forma pensionistica complementare suggeriscono cautela. 9 Per tasso di sostituzione si intende il rapporto fra l’ammontare della prima pensione percepita e quello dell’ultimo reddito ottenuto dall’occupazione, cui si riferisce la pensione stessa. Si noti poi che i lavoratori dipendenti non sono vincolati a versare una contribuzione al FP o al Pip, cui hanno aderito mediante il trasferimento (totale o parziale) dei flussi di Tfr. La Legge delega (art. 1, comma 2, lettera e, punto 3) prevedeva “la possibilità” che il lavoratore dipendente e il suo datore di lavoro avessero l’obbligo di versare i loro rispettivi contributi “alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso” o a quella di destinazione tacita del Tfr. Viceversa, il D.Lgs. (art. 8, comma 10) afferma che “l’adesione a una forma pensionistica realizzata tramite il solo conferimento esplicito o tacito del Tfr non comporta l’obbligo della contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro” a meno dell’intervento di diversi contratti o accordi collettivi anche aziendali. 10 In una versione provvisoria dei decreti attuativi, si faceva riferimento ai lavoratori autonomi con rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto. Rispondendo ai rilievi espressi dalle Commissioni di Camera e Senato, il D.Lgs. n. 252/05 ha però espunto questo riferimento (cfr. la relativa Relazione). Di recente, il Ministero del lavoro si è impegnato a estendere una parte almeno delle nuove norme alle fasce deboli e giovani di lavoratori autonomi. 7 23 per gli attuali lavoratori (5.165 euro annui: cfr. art. 8, comma 4); concede agli assunti dopo l’entrata in vigore della nuova normativa di eccedere tale limite, nei vent’anni successivi al quinto anno di adesione a una forma pensionistica complementare, per un importo pari al minimo fra 2.582 euro annui e la differenza positiva fra il massimale ordinariamente deducibile (25.823 euro) e quanto effettivamente versato durante i primi cinque anni di adesione (cfr. art. 8, 6).11 Gli elementi distorsivi riguardano, invece, sia aspetti generali che aspetti più specifici. Fra gli aspetti generali, vanno almeno ricordati il posponimento dell’entrata in vigore della normativa al 2008 e il possibile eccesso di delega. Fra gli aspetti specifici vanno invece sottolineati: (1) gli altri incentivi fiscali previsti, (2) il raccordo fra la fase di capitalizzazione e quella di erogazione dei benefici; (3) le concrete modalità di conferimento esplicito e tacito del Tfr maturando e (4) le conseguenti modalità di concorrenza e di governance delle varie forme previdenziali. In quanto segue, si esaminano i due aspetti generali e i punti (1) e (2). Agli altri due punti specifici, che richiedono una trattazione particolarmente accurata, è invece dedicato il paragrafo 3. La decisione, assunta dal governo Berlusconi alla fine del novembre 2005 di posporre i nuovi assetti previdenziali al 2008 ma di dare immediata attuazione ai nuovi compiti dell’autorità di vigilanza (Covip) fissando — così — ai primi di giugno 2006 la scadenza per l’emanazione delle direttive alle forme previdenziali richieste dall’applicazione del D.Lgs. n. 252/05, apparve subito come una soluzione di compromesso rispetto al contrasto fra la posizione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e quella del Presidente del Consiglio che si era tradotta — circa due mesi prima — nella bocciatura, da parte del Consiglio dei ministri, del decreto attuativo nella versione approvata dalle Commissioni parlamentari.12 La materia del contendere riguardava l’insufficiente grado di concorrenza caratterizzante, secondo una parte del governo Berlusconi, il rapporto fra Fondi pensione e Pip (cfr. il successivo par. 3). Il largo anticipo nella predisposizione delle nuove direttive, che non poteva giustificarsi con l’esigenza di concedere ben diciannove mesi alle diverse forme previdenziali per gli adeguamenti richiesti, sembrava finalizzato a dare spazio di mercato ai Pip. La sospensione per un biennio del resto del D.Lgs. n. 252/05 creava infatti un’area di indeterminatezza rispetto alle norme vigenti e aumentava l’incertezza; ciò frenava le iniziative spontanee dei potenziali aderenti e offriva un terreno di caccia ideale per le reti di vendita più spregiudicate, come hanno mostrato di essere alcune di quelle assicurative. Questa prima distorsione, destinata soprattutto a pesare sulle fasce di lavoratori dipendenti con minore tasso di copertura dal pilastro pubblico, è aggravata dal fatto che il decreto legislativo in esame ha un oggetto così ampio da configurarsi come una vera e propria riscrittura della Legge n. 24/93 istitutiva dei nuovi FP. Prova ne sia, del resto, che il governo Berlusconi sollecitò il Parlamento a estendere alla previdenza complementare la delega per la predisposizione di un Testo unico, già prevista con riferimento alla previdenza pubblica. L’approvazione di tale estensione della delega non è stata, però, perfezionata secondo le procedure richieste (cfr. al riguardo: Sandulli 2006). Si pone dunque l’interrogativo se, mantenendo — nonostante l’infortunio procedurale — un impianto tanto generale del D.Lgs. n. 252/05, il governo Berlusconi non sia caduto in un eccesso di delega. A ciò si aggiunga che il decreto legislativo forza la delega anche riguardo a due dei quattro aspetti specifici sopra richiamati: i regimi fiscali della fase di capitalizzazione e di La rimozione del vincolo in percentuale elimina un disincentivo all’evasione e all’elusione fiscale. Inoltre il nuovo trattamento fiscale accentua la disparità relativa fra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi in quanto rimuove quello che è stato il vincolo più stringente per la contribuzione dei primi: il doppio dei flussi di Tfr versati. 12 La giustificazione governativa, secondo cui il posponimento avrebbe assicurato la coincidenza temporale fra la revisione dei requisiti per l’accesso alla pensione pubblica (l’introduzione del cosiddetto ‘scalone’) e il riassetto della previdenza complementare, è poco convincente. Infatti, al di là di ogni giudizio di merito, nel primo caso la dilazione al 2008 trovava giustificazione nell’impossibilità di creare senza preavviso una discontinuità di trattamento così rilevante; nel secondo caso, essa non avrebbe fatto che aggravare la precaria posizione previdenziale dei lavoratori “giovani”. Inoltre le scadenze ravvicinate, imposte alla Covip, avrebbero almeno dovuto accompagnarsi a un’immediata emanazione della direttiva ministeriale per la definizione delle disposizioni attuative del D.Lgs. n. 252/05; viceversa, la passata legislatura si è consumata senza che i Ministri competenti abbiano promulgato quella direttiva. 11 24 erogazione, il raccordo fra le due fasi. Sul primo aspetto la Legge delega prevedeva una revisione verso il basso nella “tassazione dei rendimenti delle attività delle forme pensionistiche”, oggi fissata all’11%, e non introduceva alcuna novità rispetto al livello di tassazione dei benefici erogati (cfr. art. 1, comma 2, lettera i). In questo modo, essa apriva la porta a un’auspicabile convergenza della previdenza complementare italiana verso il più internazionalmente diffuso e lineare regime fiscale EET (cfr. Giannini e Guerra 2006). Viceversa, il D.Lgs n. 252/05 non modifica l’aliquota fiscale sui rendimenti e introduce arbitrariamente aliquote di favore rispetto all’imposizione sulle prestazioni erogate in forma di rendita o liquidate in forma di capitale (al netto delle parti già assoggettate a imposta): da un massimo del 15% a un minimo del 9% (con riduzione dello 0,3% per ogni anno di adesione alla previdenza complementare eccedente il quindicesimo). È facile intuire la ratio politica di un simile intervento: risulta più semplice largheggiare con impegni lontani nel tempo e — in quanto tali — reversibili che con impegni a impatto immediato sul deficit pubblico.13 Nondimeno, ciò porta ad almeno due effetti paradossali: il trattamento fiscale delle rendite o della liquidazione in capitale nella previdenza complementare diventa più favorevole di quello sull’erogazione della pensione pubblica obbligatoria e sul Tfr; la connessa incentivazione fiscale agisce in senso regressivo, ossia a favore dei redditi più elevati. Riguardo poi al raccordo fra fase di capitalizzazione e fase di erogazione, ricalcando un principio della Legge delega n. 243/04 e della Delega fiscale (n. 80 del 2003), il D.Lgs. n. 252/05 (cfr. art. 11, comma 3) elimina i preesistenti disincentivi alla liquidazione della quota del montante capitalizzato compresa fra il 34% e il 50%, che erano stati introdotti (nella forma di doppia tassazione) dal D.Lgs. n. 47/00. Questo lassismo, che è rafforzato dalla facoltà di accedere (dopo almeno otto anni di iscrizione presso una forma pensionistica complementare) a una anticipazione per il 30% della posizione individuale maturata nel caso di non meglio specificate “ulteriori esigenze degli aderenti” con un’imposta fiscale di favore (aliquota del 23%; cfr. art. 11, comma 7, lettera c), allenta il rispetto di un cruciale vincolo dal lato della domanda di servizi previdenziali: la conversione in rendita della parte più elevata possibile del montante capitalizzato. Per giunta, esso depotenzia le auspicabili innovazioni da introdurre nelle modalità di erogazione delle rendite (cfr. al riguardo: Cardinale, Pickering e Wadsworth 2006). Il fatto più singolare è, però, un altro: la materia delle anticipazioni e dei riscatti subisce una modifica di segno opposto, e in misura talvolta persino eccessiva, in altre parti dello stesso articolo 11 e del successivo articolo 14, affrontando problemi non inclusi nella Legge delega.14 In proposito, basti ricordare: il trasferimento del montante individuale maturato ad altra forma pensionistica di riferimento in caso di cambio di lavoro; l’obbligo di permanenza nella forma previdenziale prescelta anche durante i periodi di disoccupazione inferiori ai dodici mesi; la parzialità del riscatto della posizione individuale maturata (il solo 50%) nel caso di un periodo di disoccupazione compreso fra l’anno e i quattro anni o nel caso di procedure di mobilità e cassa integrazione; l’accesso alle prestazioni con un anticipo massimo quinquennale, nel caso di un periodo di disoccupazione superiore ai quattro anni;15 la possibilità di anticipazione del solo 75% del montante individuale maturato (seppure con trattamento fiscale di favore) nei casi di emergenze sanitarie per l’aderente o i suoi famigliari (in ogni 13 Come ricordano Cozzolino, Di Nicola e Raitano (2006), le risposte degli intervistati all’inchiesta Isae (2005) mostrano piena consapevolezza del problema. La freddezza, mostrata rispetto alle agevolazioni fiscali sulle erogazioni, si fonda — in quasi la metà dei casi — sull’incertezza circa l’effettiva attuazione futura dei benefici promessi. 14 Le direttive generali alle forme pensionistiche complementari, emanate dalla Covip e pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’11-7-2006 (n. 159), attenuano però fortemente la portata della nuova normativa sulla materia in esame. Sostenendo un’interpretazione discutibile dell’art. 14 comma 5 del D.Lgs. n. 252/05, esse prevedono infatti la possibilità di mantenere le tipologie di riscatto ammesse dagli statuti e regolamenti delle forme pensionistiche complementari sulla base della precedente normativa o della contrattazione collettiva. Il risultato è che le vecchie possibilità di liquidazione della posizione pensionistica complementare si sommano alle nuove, contraddicendo così la volontà espressa dal legislatore. 15 Si ricordi che, negli altri casi di disoccupazione per un periodo superiore ai quattro anni e nei casi di invalidità permanente per più di due terzi, è consentito il riscatto totale con ritenuta fiscale del 15% (riducibile fino al 9%). 25 momento) oppure per l’acquisto o ristrutturazione della prima casa per sé e i figli (dopo otto anni di iscrizione al una forma previdenziale); la possibilità di reintegrazioni delle anticipazioni con crediti di imposta per gli importi eccedenti il limite massimo di esenzione annua (5.165 euro); la possibilità (per chi ha almeno un anno di iscrizione) di proseguire la contribuzione alla forma previdenziale prescelta oltre il raggiungimento dell’età pensionabile e fino alla determinazione volontaria del momento di fruizione delle prestazioni (cfr. art. 8, comma 11). Le novità e le distorsioni esaminate sono aggravate dalla mancata armonizzazione fra taluni principi del D.Lgs. n. 252/05 e le norme contenute in leggi ancora più recenti;16 per giunta, esse si sommano all’insufficiente attenzione dedicata ad altri rilevanti aspetti del secondo pilastro previdenziale italiano.17 I maggiori problemi specifici del decreto legislativo in questione riguardano, però, gli altri due temi sopra segnalati: la concorrenza fra le diverse forme previdenziali e la loro connessa governance. 3. Concorrenza e governance Come si è già accennato, la Legge delega n. 243/04 e i conseguenti decreti legislativi mirano ad accrescere la concorrenza nel mercato previdenziale, eliminando ogni barriera fra le diverse forme pensionistiche complementari — in caso di conferimento esplicito del Tfr — e prevedendo adesioni collettive ai FPc o ai FPa — in caso di conferimento tacito del Tfr. In particolare, il D.Lgs. n. 252/05 (art. 8, comma 7, lett. a) e b), e comma 10) specifica che: (i) ogni lavoratore dipendente privato può scegliere di trasferire il Tfr maturando, i suoi contributi volontari e — quando previsto contrattualmente (cfr. sopra, n. 9) — il contributo proprio e quello datoriale al FPc di riferimento, a un FPa o a un Pip; (ii) se tale lavoratore non esercita la scelta nei sei mesi previsti, il datore di lavoro ne trasferisce i flussi futuri di Tfr al FPc definito dai contratti collettivi (anche territoriali), a meno che uno specifico accordo aziendale non preveda la destinazione del Tfr ad altro FP (aperto) con adesione collettiva;18 (iii) in presenza di una molteplicità di FP che soddisfino i criteri sub (ii), la scelta deve cadere — salvo diverso accordo aziendale — sul FP collettivo con il maggior numero di aderenti dell’impresa, in cui il lavoratore in esame è occupato; (iv) in assenza di FP che soddisfino i criteri sub (ii), il Tfr maturando va trasferito a FondInpsC.19 Nel decreto in esame si aggiunge poi che: (v) il “conferimento tacito del Tfr” comporta il suo investimento nel comparto finanziario “a contenuto più prudenziale” fra quelli del FP selezionato così da “garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili” al rendimento del Tfr (art. 8, comma 8); (vi) dopo due anni di iscrizione a una data forma previdenziale l’aderente può trasferire la propria posizione individuale maturata, i futuri flussi di Tfr e — se previsto contrattualmente — il contributo proprio e quello datoriale a una forma concorrente (art. 14, comma 6); (vii) questo trasferimento può avvenire anche prima dei due anni previsti, se il lavoratore si trova inserito in FondInpsC (art. 9, comma 3). 16 Per esempio: è difficile tenere insieme la destinazione del Tfr maturando alle forme pensionistiche complementari e la previsione di cedibilità integrale del Tfr contenuta nella L. n. 80/05, art. 13 bis (cfr. al riguardo Sandulli, 2006). Inoltre, come si specificherà nel successivo paragrafo, vi sono contraddizioni fra il D.Lgs. n. 252/05 e la cosiddetta legge sul risparmio (cfr. L. 262/05) riguardo ai compiti di regolamentazione della previdenza complementare. 17 Basti qui menzionare due punti importanti: le troppo generiche linee di adeguamento previste per i FPp, che si sono poi tradotte in una bozza di regolamento poco stringente e approvabile in ritardo rispetto a quanto richiesto dall’art. 20 del D.Lgs. n. 252/05; la già richiamata esclusione dei dipendenti pubblici, che l’attuale Ministro del lavoro si è peraltro impegnato a correggere nei prossimi mesi. 18 La normativa successiva ha chiarito che, nel caso di lavoratori già aderenti a una forma pensionistica complementare alla fine del 2006 con trasferimento integrale dei loro flussi di Tfr, non è necessario esprimere alcuna scelta per mantenere il proprio status nel secondo pilastro. 19 Si tratta di un fondo residuale gestito a capitalizzazione che è, quindi, altra cosa rispetto a FondInpsR. Nel prosieguo del lavoro FondInpsC sarà assimilato a un FP con adesione collettiva. Si noti peraltro che l’impianto normativo sarebbe stato carente se non avesse previsto FondInpsC e non lo avesse regolato in via residuale. La Legge delega fa però riferimento a forme pensionistiche residuali istituite presso gli enti di previdenza obbligatoria; pertanto, la scelta dei decreti attuativi di selezionarne uno solo (ossia l’Inps) appare arbitraria. Inoltre, nella Legge finanziaria per il 2007 FondInpsC assume funzioni incompatibili con un ruolo residuale; e lo stesso vale per la sua complessa organizzazione disegnata dai decreti del Ministro del lavoro (cfr. par. 4). 26 I punti (ii)-(iv) non garantiscono un’adeguata apertura concorrenziale in presenza di conferimento tacito del Tfr.20 Le esperienze internazionali mostrano che le opzioni di default, cui può essere assimilata tale modalità di conferimento, attraggono un’ampia quota della platea degli aderenti (non inferiore al 70%); pertanto la tipologia di FP con adesione collettiva, privilegiata nel caso dalla normativa, ha buona probabilità di fungere da attore dominante nel mercato della previdenza complementare italiana. Come mostra il punto (ii), si tratta dei FPc. Questa scelta è coerente con l’architettura della previdenza complementare disegnata dall’originario D.Lgs. n. 124/93 ed è, quindi, il frutto della path dependence. Resta il fatto che, fino a oggi, i FPc aziendali e settoriali hanno attratto quote significative dei potenziali aderenti nelle realtà di medio-grande e grande impresa ma si sono dimostrati incapaci di realizzare soddisfacenti tassi di adesione nelle realtà di piccola e piccolissima dimensione con limitata presenza sindacale. Data la morfologia del nostro apparato industriale e dei servizi, in Italia il peso degli occupati nelle piccole e piccolissime imprese è peraltro elevato; e, spesso, sono lì sovrarappresentate le tipologie di lavoratori dipendenti con i più bassi tassi di sostituzione da previdenza pubblica. È ragionevole ritenere che la forma più flessibile di adesione collettiva, offerta dai FPa, potrebbe indurre aumenti significativi dell’iscrizione collettiva a forme previdenziali nelle realtà di piccola e piccolissima impresa. Se si condivide tale tesi, ne deriva che il deficit di concorrenza fra FPc e FPa con adesione collettiva funge anche da ostacolo per il rafforzamento della previdenza complementare. Per compensare questo deficit di concorrenza, il D.Lgs. n. 252/05 propone soluzioni peggiori del male. Esso include infatti fra le possibili forme di adesione collettiva ai FP anche gli accordi intercorsi fra i soli lavoratori “firmatari degli stessi” (cfr. art. 3, comma 1, lett. a)) e introduce una contrapposizione fra contratti collettivi e accordi aziendali (cfr. per es., il già citato art. 8, comma 7, lett. b, punto 1) che è assente nel D.Lgs. n. 124/93. Il risultato non è certo quello di accrescere la concorrenza fra FPc e FPa con adesione collettiva; si aumenta invece la probabilità del verificarsi della fattispecie sub (iii) che, obbligando a effettuare l’adesione tacita al FP in base all’instabile criterio della preventiva adesione del “maggior numero di lavoratori” di una stessa impresa, porta comunque alla creazione di posizioni di monopolio. Un’alternativa più efficiente ed efficace sarebbe stata quella di definire, per via normativa, un’esplicita gerarchia fra le diverse tipologie di FPc (settoriali, regionali, aziendali) e di adesioni collettive ai FPa che permettesse — nel rispetto della contrattazione collettiva — l’affermarsi di tali adesioni ai FPa nei segmenti di piccola e piccolissima impresa. È vero che anche una simile soluzione non sarebbe sfociata in un mercato concorrenziale, in quanto avrebbe causato segmentazioni. Tuttavia, in mercati non contendibili (qual’è il mercato previdenziale), la concorrenza monopolistica tende a determinare equilibri ‘migliori’ rispetto a quelli di monopolio (cfr. anche: Fornero e Fugazza 2002). L’insufficiente concorrenza in caso di conferimento tacito alle piccole e piccolissime imprese era poi aggravata dal modo con cui il D.Lgs. n. 252/05 dava soluzione a un punto problematico ma ineludibile della delega: “la subordinazione del conferimento del Tfr [...] all’assenza di oneri per le imprese” anche mediante “compensazioni in termini di facilità di accesso al credito” (cfr. la Legge delega n. 243/04, art. 1, comma 2, lettera e), punto 9). Al riguardo, l’articolo 10 del D.Lgs. n. 252/05 e l’articolo 8 della connessa Legge n. 248/05 prevedevano dal 2008: 1. un aumento delle deduzioni fiscali sui flussi di Tfr trasferiti a una forma previdenziale (dall’attuale 3% al 4% o — nel caso di imprese con meno di 50 addetti — al 6%); 2. una riduzione degli oneri impropri, fissati dai contributi sociali versati alla gestione delle prestazioni temporanee per i lavoratori dipendenti dell’Inps, pari a una quota annualmente Si ritiene invece compatibile con l’efficiente funzionamento del mercato il vincolo temporale posto alla portabilità: un passaggio da una forma previdenziale a un’altra (switch) ogni due anni. Come mostrano alcune esperienze di paesi sudamericani, la piena libertà di switch o vincoli temporali troppo laschi rischiano di assimilare l’allocazione del risparmio previdenziale a investimenti finanziari speculativi e di rendere troppo elevati i costi di transazione sopportati dai partecipanti. 20 27 crescente e compresa fra lo 0,12% (nel primo anno) e lo 0,28% (nel 2016) della retribuzione lorda dei lavoratori in proporzione al Tfr destinato a una forma previdenziale; 3. l’abolizione del finanziamento al fondo di garanzia sul Tfr detenuto dalle imprese, pari allo 0,15% della retribuzione lorda di ogni lavoratore, in proporzione al Tfr destinato a una forma previdenziale; 4. la costituzione di un fondo di garanzia statale rispetto ai prestiti bancari concessi, in sostituzione della perdita del finanziamento dovuta alla diversa destinazione del Tfr, alle imprese in grado di soddisfare determinati requisiti patrimoniali e finanziari (cfr. anche Abi 2005; Pammolli e Salerno 2006). L’operare del fondo di garanzia avrebbe introdotto gravi distorsioni nel funzionamento del mercato e frapposto ulteriori ostacoli per l’accesso alla previdenza complementare dei lavoratori delle piccole e piccolissime imprese, spesso incapaci di soddisfare i requisiti patrimoniali e finanziari richiesti per l’accesso al fondo. Di conseguenza, la nuova normativa avrebbe finito per penalizzare non solo le fasce deboli dei lavoratori autonomi ma anche le fasce deboli dei lavoratori dipendenti privati rispetto ai lavoratori più protetti che, già oggi, hanno elevati tassi di adesione ai loro FPc di riferimento. È quindi positivo che la Legge finanziaria per il 2007 abbia abrogato il fondo di garanzia, modificando marginalmente le altre compensazioni alle imprese (cfr. par. 4). È invece negativo che questa stessa Legge non sia intervenuta sull’inefficiente eccesso di apertura del mercato nel caso di conferimento esplicito del Tfr. Come si è già ricordato, in tale caso i FPc, le adesioni collettive ai FPa, le adesioni individuali ai FPa e i Pip sono equiparati nel senso che l’aderente è libero di decidere il versamento del Tfr maturando e — se previsto contrattualmente — del proprio contributo e di quello datoriale a una qualsiasi di queste forme pensionistiche. I servizi previdenziali costituiscono, però, una sorta di “bene pubblico”. Di conseguenza, per realizzare una piena concorrenza, non basta eliminare le classiche barriere di mercato; è anche necessario superare le ‘barriere’ di governance, definendo un “contesto di regole” in grado di assicurare la “sostanziale equiparazione” fra le diverse forme in termini di tutela degli aderenti e, dunque, in termini di trasparenza (disclosure e informazione) e — soprattutto — di semplificazione (facilità di scelta e portabilità) e di comparabilità (standardizzazione dei costi e dei benefici attesi) dei rispettivi prodotti previdenziali.21 In linea di principio, la Legge delega n. 243/04 affrontava il problema. Essa subordinava la libertà di scelta degli aderenti alla definizione di “regole comuni” fra le diverse forme previdenziali riguardo alla “comparabilità dei costi, alla trasparenza e portabilità” e a una “adeguata informazione” sui “rendimenti stimati” così da indurre una scelta “consapevole dei soggetti destinatari” e una sostanziale omogeneizzazione dei livelli di “trasparenza e tutela” (cfr. art. 1, comma 2, lettera e, punti 4 e 1). Per dare più concretezza a questi principi, tale legge proponeva poi interventi sulla governance dei FP, prevedendo standard di particolare qualificazione e di indipendenza per il relativo responsabile e caldeggiando l’istituzione o il rafforzamento di “organismi di sorveglianza” per i Fpa con adesioni collettive (cfr. lettera e, punto 6); inoltre, essa mirava a rafforzare le competenze dell’autorità di settore fino a unificare presso la Covip la regolamentazione sulla “trasparenza delle condizioni contrattuali” per “tutte le forme pensionistiche collettive e individuali” e la disciplina e la vigilanza “sulle modalità di offerta al pubblico” per tutti gli strumenti di previdenza complementare (cfr. lettera h, punto 2). Viceversa, la Legge in oggetto non prevedeva alcun intervento specifico riguardo alla governance dei Pip e alla semplificazione e standardizzazione (in termini di calcolo dei costi e dei benefici attesi) dei diversi prodotti previdenziali. 21 Cfr. Autorità garante della concorrenza e del mercato (2005), pp. 2-3. Cfr. anche: Boeri e Brugiavini (2006) e Fano e Onado (2006). Tali aspetti assumono un’importanza ancora maggiore, se si considera che gran parte degli aderenti alla previdenza privata non fonda le proprie scelte su calcoli razionali neppure in paesi con consolidata tradizione di investimento finanziario. Cfr. al riguardo: Madrian e Shea (2001); Benartzi e Thaler (2001); Choi, Laibson e Madrian (2005). 28 Il D.Lgs. n. 252/05 sviluppa alcuni corretti punti della delega. Riguardo ai Pip, il D.Lgs. afferma l’obbligo di “patrimoni autonomi e separati” e demanda a un regolamento, da sottoporre all’approvazione della Covip, il soddisfacimento dei criteri di “comparabilità dei costi e dei risultati di gestione” nonché di trasparenza delle “condizioni contrattuali” e della connessa portabilità (cfr. art. 1, comma 4; art. 13, comma 3); inoltre, esso dichiara la nullità di tutte le “clausole che, all’atto dell’adesione o del trasferimento, consentano l’applicazione di voci di costo [...] significativamente più elevate di quelle applicate nel corso del rapporto”;22 infine, esso estende ai Pip la figura del responsabile della forma pensionistica complementare. Più in generale poi, il D.Lgs. rafforza la terzietà del responsabile dei FP o dei Pip (cfr. art. 5, comma 2); e attribuisce alla Covip il compito di “perseguire la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione delle forme pensionistiche complementari”, pur se nel rispetto della “vigilanza di stabilità” esercitata dalle relative autorità di controllo sugli intermediari finanziari preposti alla promozione o gestione di forme previdenziali (cfr. art. 18, comma 2; art. 19, comma 2). Tali elementi sono positivi; essi non bastano, però, a colmare le lacune e le ambiguità della Legge delega. Per fare solo alcuni esempi. Il D.Lgs. n. 252/05 non chiarisce affatto come sia possibile rendere confrontabili i costi e i rendimenti dei FP, che effettuano i loro calcoli ai prezzi di mercato, e quelli di molti Pip, che si fondano viceversa sui costi storici. Il D.Lgs. insiste poi sulla terzietà del responsabile delle forme pensionistiche complementari (inclusi i FPc) e, per soddisfare un’indicazione delle Commissioni parlamentari (cfr. la relativa Relazione), ammette che il ruolo di responsabile dei FPc possa essere svolto dal direttore del Fondo. Tuttavia, nel caso dei FPc, la presenza di un responsabile crea — a seconda delle sue effettive funzioni — una negativa sovrapposizione di competenze con l’Assemblea o con il Consiglio di amministrazione; per di più, l’identificazione fra responsabile e direttore aggiunge un grave conflitto di interesse in quanto il controllato può così controllare il controllore o — alternativamente - essere delegato a controllare se stesso. Infine il D.Lgs. obbliga i FPa a istituire un organismo di sorveglianza, composto da almeno due membri “designati dai soggetti istitutori dei fondi stessi”, in presenza di adesioni sia individuali che collettive.23 Un simile organismo, che potrebbe svolgere la funzione essenziale di dare voce agli aderenti in forma collettiva, è invece ridondante perché privo di qualsiasi rappresentatività rispetto agli aderenti e con compiti analoghi a quelli del responsabile del Fondo.24 Il D.Lgs. n. 252/05 non realizza pienamente neppure l’obiettivo di unificare i compiti di vigilanza presso la Covip. Le relative prescrizioni si scontrano infatti con le recenti iniziative, intraprese da Isvap e Consob (cfr. il regolamento relativo ai prospetti e alla sollecitazione degli investimenti) in campo previdenziale, e — soprattutto — con le divergenti indicazioni contenute nella cosiddetta legge sul risparmio (cfr. Legge n. 262/05), che non sono state superate dal recente decreto legislativo di attuazione (il cosiddetto Decreto Pinza).25 21 Cfr. art. 14, comma 6. L’articolo non si riferisce specificamente ai Pip ma a tutte le forme previdenziali. L’evidenza empirica, offerta da Fornero, Fugazza e Ponzetto (2004), Covip (2004a, 2004 e 2005) e Fano e Onado (2006), mette però in luce che — in media — sono i costi dei Pip a essere fuori linea rispetto a quelli dei FPa e — soprattutto - dei FPc. Inoltre la pratica dei caricamenti precontati, che — fino a poco tempo fa — ha riguardato una quota amplissima dei Pip, e l’opacità del calcolo a costi storici, che caratterizza anche oggi molti prodotti previdenziali di tipo assicurativo (cfr. infra), hanno gravemente penalizzato ogni ‘uscita’ anticipata da tali prodotti (cfr. Covip 2005, pp. 21120). Le iniziative dell’Isvap (cfr. la circolare 551/D, 2005), volte a rendere più trasparente la struttura dei costi e a ridurre il peso dei caricamenti iniziali sulla portabilità dei Pip, stanno attenuando il problema per i flussi di prodotti assicurativi previdenziali (vecchi e nuovi); tuttavia, non applicandosi allo stock in essere, esse hanno anche l’effetto di introdurre una segmentazione del mercato. Sarà interessante verificare se, nel 2007, il D.Lgs n. 252/05 e le modifiche della Legge finanziaria saranno sufficienti per superare questa segmentazione. 23 Il D.Lgs. n. 252/05 (art. 5, comma 4) prevede l’organismo di sorveglianza per le forme pensionistiche complementari, che sono definite nel seguente art. 12, che esamina sia i FPa con adesione individuale sia quelli con adesione (anche) collettiva. Nelle sue direttive generali la Covip interpreta la previsione normativa come se l’organismo di vigilanza fosse richiesto solo per quei FPa con ambedue le forme di adesione. Tale interpretazione, che sembra ‘forzata’ sul piano letterale, evita di introdurre una ingiustificabile asimmetria fra i FPa con adesione solo individuale e i Pip. 24 Cfr. al riguardo: Francario (2006); Messori (2006b). Si noti che il deficit di rappresentatività dell’organismo di sorveglianza dei FPa si estende anche al caso delle adesioni collettive con più di 500 iscritti provenienti da una stessa azienda. In quel caso, il D.Lgs. n. 252/05 (cfr. comma 5) prevede la nomina di due rappresentanti aggiuntivi designati, rispettivamente, dalla stessa azienda (o dal gruppo) e dai lavoratori; ciò porta a una rappresentanza comunque insufficiente che, per giunta, rischia di inflazionare il numero dei membri dell’organismo di sorveglianza nel caso di successo delle adesioni collettive ai FPa. 25 La confusione è aumentata dall’art. 1, comma 751 della Legge finanziaria per il 2007 che, correggendo la nuova denominazione dell’autorità prevista dal D.Lgs. n. 252/05 come “Commissione di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari”, ripristina la vecchia e parziale denominazione “Commissione di vigilanza sui fondi pensione”. Inoltre, di recente il governo ha avanzato l’ipotesi di una riforma delle autorità di vigilanza che porterebbe alla soppressione della Covip. 29 Questi (e altri possibili) esempi negativi mettono in luce un comune vizio di origine: un inadeguato disegno di governance per i FPc e per i FPa con adesione collettiva che deriva, a sua volta, dal velleitario tentativo di livellare tale governance a quella — diversa — delle forme pensionistiche ad adesione individuale. Il principale problema di governance, che i FPc devono affrontare, riguarda l’incorporazione di maggiori competenze tecniche senza sacrificare la rappresentanza degli aderenti; e il principale problema di governance, che i FPa con adesione collettiva devono affrontare, consiste nell’acquisizione di forme di rappresentanza senza mortificare le esistenti competenze interne. Ciò spinge verso una parziale omogeneizzazione che precipita nella comune esigenza di offrire un’appropriata informazione agli aderenti, di contare su una regolamentazione unitaria e di disporre di adeguati spazi di autoregolamentazione (cfr. Cafaggi 2006). L’adesione individuale alle forme previdenziali configura invece un mero rapporto di compravendita di un servizio sul mercato, che può aspirare alla trasparenza e all’efficienza ma che lascia poco spazio a problemi di rappresentanza; e la stessa informazione agli aderenti sfuma in un rapporto tradizionale di consulenza. Se le specifiche caratteristiche del servizio previdenziale offerto e i connessi problemi di governance impediscono la convergenza fra FP con adesione collettiva e forme ad adesione individuale anche sul terreno informativo, cade però il presupposto stesso che sta alla base della confluenza di tutte le diverse forme previdenziali in un unico mercato concorrenziale. La concorrenza, che assicura adeguati livelli di efficacia e di efficienza nel mercato previdenziale, è quella fra i diversi tipi di FP con adesione collettiva e non quella fra questi tipi e le forme previdenziali ad adesione individuale. La cosa trova, del resto, riscontro nell’architettura istituzionale: il tentativo di cancellare le differenze fra FP e Pip porta alla costruzione di un sistema previdenziale a due pilastri, che contrasta con il più affermato modello internazionale a tre pilastri.26 4. Le novità normative del 2006-2007 I vari problemi, sollevati dal D.Lgs. n. 252/05 ed esaminati nei due precedenti paragrafi, non sono stati attenuati dalla regolamentazione prodotta nei mesi del 2006 precedenti la discussione della Legge finanziaria per il 2007. Anzi si è già avuto modo di notare come le direttive generali alle forme pensionistiche complementari, emanate dalla Covip alla fine di giugno 2006, abbiano acuito le contraddizioni normative rispetto alle possibilità di riscatto delle posizioni previdenziali (cfr. sopra, n. 14); e lo stesso vale anche riguardo all’impropria sovrapposizione fra la figura del responsabile e quella del direttore generale nei FPc.27 L’aspetto più controverso di quelle direttive riguarda, però, un punto all’apparenza tecnico ma — in realtà — di cruciale importanza per la parte (nelle attese, consistente) dei lavoratori dipendenti privati che rimarrà silente nel primo semestre del 2007 (o nel primo semestre della sua nuova occupazione) e che si troverà, così, tacitamente iscritta a un dato FP con adesione collettiva: la specifica allocazione finanziaria dei suoi flussi di Tfr presso quel fondo. Come si è ricordato nel paragrafo 3, il D.Lgs. n. 252/05 (cfr. art. 8, comma 9) prevede che i flussi di Tfr dei lavoratori silenti siano investiti nel comparto finanziario del FP a “contenuto L’esperienza internazionale mostra anzi che l’inserimento delle forme previdenziali individuali nel secondo pilastro può portare a gravi problemi di misselling che pesano sulle spalle degli aderenti. Basti riferirsi, al riguardo, allo scandalo dei prodotti individuali britannici fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Per intuire la portata del fenomeno, si consideri che le autorità di regolamentazione britanniche hanno riconosciuto il diritto al risarcimento a più di un milione e mezzo di investitori previdenziali; e che l’ammontare del risarcimento ha superato gli 11 miliardi di sterline. Cfr. Mangiatordi e Pace (2003). 27 Infatti, mentre il D.Lgs. n. 252/05 si limita a prevedere che l’incarico di responsabile del FPc possa essere “conferito anche al direttore generale” (cfr. par. 3), le direttive generali della Covip privilegiano il caso di una mera integrazione delle “competenze del direttore generale” per poi aggiungere che, “eventualmente, potrà essere valutata l’opportunità di conferire il predetto incarico di responsabile del fondo anche a soggetto distinto dal direttore generale”. 26 30 più prudenziale” e con garanzia sia di “restituzione del capitale” che di rendimenti nominali “comparabili” a quelli finora assicurati dal Tfr investito nell’impresa di appartenenza (1,5% più 75% del tasso di inflazione). Tale prescrizione normativa è, tuttavia, ambigua. Basta sfogliare un qualsiasi manuale di finanza (cfr. per es.: Brealey e Myers 1991, seconda parte) per rendersi conto che è problematico individuare, in astratto, la linea di investimento più prudenziale per lavoratori con differenti propensioni soggettive e oggettive al rischio. Per esempio: per un aderente giovane che ha davanti a sé un lungo orizzonte temporale di lavoro e che può contare su un solido patrimonio famigliare, è davvero più prudenziale allocare il proprio risparmio previdenziale in un comparto monetario (esposto al rischio di inflazione e a “costi opportunità”) o in un comparto obbligazionario (esposto al rischio di aumenti nei tassi di interesse di lungo termine) invece che in un comparto diversificato ma con una forte componente azionaria (esposta al rischio di volatilità dei mercati)? Per giunta, non è affatto chiaro cosa debba intendersi per garanzia. Si tratta forse di una garanzia “assicurativa”, in grado di dare con certezza determinati rendimenti cumulati al momento del pensionamento o del riscatto; oppure di una garanzia finanziaria in grado di minimizzare, in ogni punto del tempo, la probabilità di rendimenti reali al di sotto di una data soglia? È evidente che, a seconda delle risposte fornite a questi interrogativi, la norma sopra richiamata sfocia in divergenti strategie prudenziali di investimento per il Tfr dei lavoratori silenti. Resta tuttavia fermo un punto (cfr. De Felice e Moriconi 2006; Messori 2006c): una garanzia di tipo assicurativo, che si applichi a ogni aderente di un comparto finanziario prudenziale (valorizzato a prezzi di mercato) e che sia valida per uno spettro piuttosto ampio di fattispecie incerte, ha un costo così elevato da non poter dare con certezza un rendimento allineato a quello tradizionale del Tfr. Nel redigere le direttive generali, la Covip avrebbe potuto superare il problema, interpretando la garanzia come la fissazione di una soglia probabilistica minima (per eempio il 97%) di ottenere — in ogni punto del tempo o in orizzonti più lunghi - rendimenti superiori a quelli del Tfr (garanzia finanziaria).28 Viceversa, la scelta della Covip è stata di segno opposto: essa impone una garanzia assicurativa riguardo al mantenimento del capitale nominale di ogni aderente al comparto “più prudenziale” dei FP e si accontenta di una “raccomandazione” non quantificata riguardo alla ‘comparabilità’ fra rendimenti di tale comparto e rendimenti del Tfr. L’autorità di vigilanza stabilisce infatti che la linea più prudenziale di investimento debba: “assicurare con certezza il risultato della restituzione integrale del capitale [nominale], al netto di qualsiasi onere...”, al momento del pensionamento o nei casi previsti di riscatto per decesso, per disoccupazione superiore a 48 mesi o per invalidità permanente pari a più di due terzi rispetto alla capacità di lavoro;29 erogare “con elevata probabilità rendimenti che siano pari o superiori a quelli del Tfr, quantomeno in un orizzonte temporale pluriennale”. È ragionevole attendersi che gli sforzi per la realizzazione della garanzia assicurativa sul capitale nominale domineranno quelli per il soddisfacimento della “raccomandazione” non quantificata. L’effetto sarà di schiacciare le linee più prudenziali di investimento dei FP con adesione collettiva, dove saranno obbligatoriamente allocati i flussi di Tfr degli aderenti silenti, su portafogli molto liquidi o sulla costosa acquisizione di opzioni put protettive per i patrimoni Una scelta del genere avrebbe aperto la strada a gestioni finanziarie ‘dinamiche’, ossia a gestioni in grado appunto di minimizzare — in n periodi di tempo piccoli a piacere — la probabilità che i rendimenti si attestino al di sotto di una soglia predefinita. In tale contesto il benchmark, cui fanno riferimento gli investimenti finanziari di tipo previdenziale, avrebbe cessato di essere identificabile in un paniere di indici per assumere la forma di una strategia di minimizzazione di eventi sfavorevoli; per esempio, nel caso di modelli di asset-liabilities management (Alm), esso si sarebbe tradotto nella minimizzazione della probabilità di non ‘battere’ le passività. Le implicazioni di questo cambiamento sarebbero state molteplici. Sotto il profilo strettamente finanziario, le gestioni ‘dinamiche’ dei FP avrebbero approssimato strategie di hedging; sotto il profilo della vigilanza e del controllo del rischio, la Covip e i singoli FP avrebbero dovuto dotarsi di competenze tecniche e di strumenti di ‘monitoraggio’ sufficientemente sofisticati da fronteggiare la maggiore complessità propria alle gestioni ‘dinamiche’. 29 Gli eventi, cui la garanzia in esame si applica, sono specificati nella delibera della Covip del 31-10-2006 relativa agli “Schemi di regolamento” dei FPa. 28 31 dei singoli aderenti.30 In ambedue i casi l’“elevata probabilità”, che il comparto finanziario “più prudenziale” dei FP realizzi — almeno nel lungo periodo — rendimenti uguali o superiori a quelli del vecchio regime del Tfr, rischia di essere — in realtà — così bassa da indurre rendimenti attesi di lungo termine inferiori a tale obiettivo.31 Se così fosse, i lavoratori dipendenti privati con un orizzonte di lavoro sufficientemente lungo non avrebbero convenienza ad aderire tacitamente alla previdenza complementare. Fermo restando che il comportamento ottimale consiste nell’aderire esplicitamente — in modo informato e collettivo — al fondo pensione scelto in base ai parametri di efficienza e di governance e nell’allocare i flussi di Tfr nel comparto finanziario meglio adatto al proprio profilo di rischio, sarebbe preferibile rifiutare in modo esplicito l’iscrizione a una forma pensionistica complementare piuttosto che aderire a un FP in forma tacita. Come si è più volte ricordato, a livello internazionale, opzioni di default assimilabili all’adesione tacita hanno attratto una quota largamente maggioritaria di lavoratori. È quindi preoccupante che, nel caso italiano, questa opzione dia luogo a prospettive finanziarie così scoraggianti. La preoccupazione è poi accresciuta da altri due elementi: (1) la Legge finanziaria per il 2007, approvata pochi giorni prima di Natale 2006, non si è limitata ad anticipare al 1° gennaio 2007 il varo della nuova normativa ma ha anche apportato modifiche di rilievo — e non sempre positive — al D.Lgs. n. 252/05; (ii) nonostante le previsioni legislative e gli impegni assunti dai vari ministri coinvolti (cfr. D.Lgs. n. 252/05, art. 22, comma 1; Legge finanziaria, comma 765), all’inizio del semestre di scelta i potenziali aderenti non hanno ancora fruito di una sistematica informazione istituzionale in merito ai contenuti del D.Lgs. n. 252/05 e — a maggior ragione — in merito alle novità introdotte dalla Legge finanziaria.32 Oltre a sottolineare l’urgenza della stabilizzazione del quadro normativo e di una sistematica e accurata campagna informativa, è qui opportuno soffermarsi su due aspetti positivi e su due aspetti negativi delle più recenti modifiche normative. Oltre il condivisibile anticipo al 1° gennaio 2007 dell’entrata in vigore della nuova normativa, un aspetto positivo della Legge finanziaria risiede nell’eliminazione del distorsivo fondo di garanzia statale rispetto ai prestiti bancari concessi alle imprese in sostituzione della perdita del finanziamento indotta dalla diversa destinazione di parte del Tfr maturando (cfr. sopra par. 3; e D.Lgs. n. 252/05, art. 10, comma 3). In proposito, tale Legge mira a soddisfare la previsione della Legge delega n. 243/04, relativa alla “assenza di oneri per le imprese”, mantenendo l’insieme delle altre misure compensative prima concesse alle stesse imprese con poche modifiche derivanti dalla costituzione di FondInpsR, dall’eliminazione di ogni residuo Nel caso di lavoratori con un orizzonte di lavoro sufficientemente lungo, si tratta delle scelte peggiori di portafoglio finanziario. In questo caso, meglio sarebbe ricorrere a una strategia meccanica e subottimale di investimento quale è quella “life cycle”, che prevede una progressiva riduzione delle componenti più volatili del portafoglio all’aumentare dell’età del lavoratore e al conseguente ridursi del suo orizzonte temporale di lavoro. Blake, Lehmann e Timmermann (1999) hanno peraltro provato che, in termini di rendimenti storici, la strategia “life cycle” è stata dominata non solo dalle gestioni ‘dinamiche’ ma anche da differenti gestioni finanziarie statiche con significativa componente azionaria. 31 Questo rischio è accresciuto dalla complessità di costruzione della garanzia che ne fa lievitare il costo. Infatti, un FP può assumersi direttamente l’impegno corrispondente alla garanzia solo se dispone — in quanto tale (nel caso di FPc) o come società istitutiva (nel caso di FPa) — di adeguati requisiti patrimoniali e di idonei sistemi di quantificazione e di controllo dei relativi rischi; in alternativa, esso può stipulare una convenzione di gestione assicurativa di ramo VI mediante il trasferimento a una compagnia assicurativa dell’attivo del comparto interessato che deve essere gestito secondo le modalità definite nella nota informativa del FP e nella convenzione, essere valorizzato a prezzi di mercato ed essere separato sia dal restante patrimonio del FP sia da quello della compagnia assicurativa. 32 Per quanto mi consta le sole iniziative, volte a informare i lavoratori dipendenti privati sulle possibili destinazioni del Tfr, sono quelle assunte dai sindacati alla fine del dicembre 2006 e da vari mezzi di comunicazione fra la fine dell’anno 2006 e il mese di gennaio 2007. Dal 1° gennaio 2007 questi stessi lavoratori dovrebbero peraltro aver ricevuto la prevista informativa da parte dei loro datori di lavoro; e solo da aprile 2007 dovrebbero fruire di una vera campagna “pubblicità-progresso”, che esamini i problemi e non si limiti a enunciarli. Si tratta di un ritardo preoccupante specie perché varie analisi fanno emergere che le diverse tipologie di lavoratori sottovalutano l’impatto negativo delle riforme degli anni Novanta sul tasso di sostituzione da pensione pubblica (cfr. al riguardo: Jappelli, Padula e Bottazzi 2003). Si noti poi che il nuovo quadro normativo, pur entrando in vigore dal 1° gennaio 2007, al 31 dicembre 2006 non era ancora completo. Come si è già accennato e come si specificherà fra breve, la Legge finanziaria (cfr. commi 757 e 765) prevede due decreti che sono stati emanati dal Ministro del lavoro (di concerto con il Ministro dell’economia) il 30 gennaio 2007 — ossia poco prima della data limite prevista dalla legge. Per di più, solo intorno al 20 gennaio il Ministero del lavoro ha annunciato che le opzioni dei lavoratori devono essere effettuate mediante specifici moduli standardizzati poi allegati a uno dei due decreti. Pertanto i lavoratori, che avevano già effettuato l’opzione fra il 1° gennaio e la data di disponibilità dei moduli ufficiali, potranno mantenere i tempi della loro scelta originaria solo reiterando la loro opzione — entro 30 giorni dalla pubblicazione dei decreti — mediante i moduli standardizzati. Come si è già ricordato (cfr. n. 18), ciò non riguarda i lavoratori che già versavano l’intero flusso di Tfr a una forma pensionistica complementare alla fine del 2006. 30 32 onere legato al tradizionale fondo di garanzia del Tfr e dall’allentamento dei tetti per i mancati introiti dovuti alla riduzione (dal 1° gennaio 2008) degli oneri impropri (cfr. D.Lgs. 252/05, art. 10, commi 1-2 e 4; e Legge finanziaria commi 764 e 766).33 Gli aspetti negativi risiedono invece nella costituzione di FondInpsR, destinato a raccogliere i flussi di Tfr dei lavoratori dipendenti che decideranno — in modo esplicito — di non aderire ad alcuna forma pensionistica complementare e che sono occupati in aziende con almeno 50 dipendenti,34 e nelle nuove funzioni attribuite a FondInpsC, che potrebbe trasformarsi da fondo residuale (cfr. D.Lgs. n. 252, art. 9) a forma pensionistica complementare permanente (cfr. Legge finanziaria per il 2007, art. 1 comma 760). FondInpsR, che è gestito dall’Inps per conto dello Stato mediante uno specifico conto corrente di Tesoreria (cfr. Legge finanziaria per il 2007, commi 755 e 756), assicura le medesime condizioni di rendimento e di liquidazione proprie al Tfr allocato presso le imprese. Esso non sembra, quindi, modificare la posizione del singolo lavoratore dipendente privato. In realtà FondInpsR introduce una modifica strutturale nell’assetto previdenziale italiano, disegnato dalla riforma Dini, in quanto crea un pilastro pubblico aggiuntivo a ripartizione contributiva che è caratterizzato da tre distorsive peculiarità: riguarda solo una parte dei lavoratori dipendenti; ha un patrimonio instabile data l’elevata liquidità del Tfr lì accumulato e la variabilità dei partecipanti;35 prevede la liquidazione dell’intero montante capitalizzato all’uscita dall’età lavorativa. Con la costituzione di FondInpsR il sistema previdenziale italiano, che era stato costruito dalle riforme degli anni Novanta sui classici tre pilastri e che era stato ridotto a due pilastri a seguito della progressiva assimilazione fra previdenza complementare con adesione collettiva e previdenza integrativa ad adesione individuale, torna così a essere strutturato su tre pilastri. A differenza di quanto accade in quasi tutti i paesi economicamente avanzati, due di tali pilastri sono però pubblici e a ripartizione e assorbono, per una parte dei lavoratori, contributi pari al 40% della retribuzione lorda.36 Una simile modifica strutturale incide sulla scelta di allocazione del Tfr da parte del singolo lavoratore perché aumenta il rischio ‘politico’ e rende ancora più complesse le procedure di allocazione del Tfr previste dal D.Lgs. n. 252/05 (cfr. art. 8, comma 7; art. 9). A quest’ultimo riguardo, si faccia riferimento ai soli lavoratori dipendenti occupati in aziende che, secondo i criteri di calcolo specificati in uno dei due decreti del Ministro del lavoro (cfr. n. 35), hanno almeno 50 addetti.37 33 Riferendosi ai calcoli effettuati in Abi (2005) in merito alle vecchie compensazioni previste dal D.Lgs. n. 252/05, Chiorazzo e Milani (2006) mostrano che le nuove compensazioni eccedono — fin dal 2007 e in misura crescente negli anni successivi - la differenza fra oneri dei finanziamenti bancari sostitutivi del Tfr e oneri dello stesso Tfr. Come si è ricordato nel par. 3, la Legge delega specificava però che le compensazioni dovevano anche riguardare la “facilità di accesso al credito” così da evitare che un’impresa non fosse in grado di sostituire il precedente finanziamento da Tfr a causa di un razionamento di quantità nel mercato finanziario. Al di là delle sue gravi distorsioni, il fondo di garanzia statale rispondeva innanzitutto a tale esigenza che, oggi, è relegata sullo sfondo data la fase congiunturale di abbondante liquidità. La sua soppressione lascia, comunque, aperto il problema. Prova ne sia che il punto 4) del “Memorandum di intesa sul Trattamento di fine rapporto”, che è stato siglato fra il governo e le principali parti sociali il 23 ottobre 2006 e che è stato alla base delle modifiche introdotte nella Legge finanziaria in materia di previdenza complementare, afferma: “il Governo si impegna a riprendere e concludere la discussione aperta con il sistema bancario, al fine di trovare forme per venire incontro alle imprese che trovassero difficoltà nell’accesso al credito. In questo ambito si studierà la costituzione di un fondo di garanzia”. Non è chiaro il significato del punto citato alla luce della successiva evoluzione normativa. 34 Il decreto, emanato il 30 gennaio 2007 dal Ministro del lavoro in esecuzione dell’art. 1 comma 757 della Legge finanziaria (cfr. anche n. 32), specifica che la norma non riguarda i lavoratori con un contratto inferiore ai 3 mesi, i lavoratori a domicilio, varie tipologie di occupati nel settore agricolo e i lavoratori con Tfr periodicamente liquidato o attribuito ad altri destinatari. 35 Le imprese cambiano continuamente di dimensione, cosicché è impossibile definire due sottoinsiemi stabili in base al numero di addetti. Prova ne sia che il decreto del Ministro del lavoro, derivante dal comma 757 della Legge finanziaria, dedica due commi dell’art. 1 (6 e 7) alla definizione di due discutibili criteri di calcolo. Il limite dei 50 addetti è determinato (almeno fino al 2008: cfr. il “Memorandum di intesa sul Trattamento di fine rapporto”) dalla media annuale dei lavoratori occupati nell’anno solare 2006, per le imprese già esistenti al 31 dicembre 2006, e in quello di inizio attività, per le imprese nate in tempi successivi; e i lavoratori occupati comprendono tutti i lavoratori con contratto di lavoro subordinato, a prescindere dalla loro tipologia, inclusi (quota parte) quelli a tempo parziale ed esclusi gli assenti se sostituiti. 36 La liceità dell’assimilazione di FondInpsR a un pilastro pubblico è confermata dalla tolleranza mostrata dalle autorità statistiche comunitarie rispetto alla costituzione di un simile fondo (cfr. anche: Legge finanziaria, comma 762). Negare il nulla osta a FondInpsR imporrebbe infatti di far emergere, nei bilanci pubblici di tutti i paesi dell’Unione europea, il debito pensionistico nascosto negli schemi a ripartizione. 37 Infatti, nel caso di lavoratori occupati in aziende con meno di 50 addetti, l’art. 8, comma 7 del D.Lgs. n. 252/05 non richiede particolari specificazioni; e gli aspetti, che vanno comunque dettagliati (per esempio, le regole di versamento ritardato del Tfr alle forme pensionistiche complementari), sono chiariti per analogia con l’altro caso. 33 Tale decreto e l’altro derivante dal comma 765 della Legge finanziaria specificano che, se i lavoratori scelgono esplicitamente di non trasferire i loro flussi di Tfr ad alcuna delle possibili forme pensionistiche complementari, l’impresa è tenuta a versare questi flussi a FondInpsR a partire dal mese successivo alla scelta.38 Peraltro, se si tratta di lavoratori già occupati al 31 dicembre 2006, il primo versamento a FondInpsR deve essere pari al Tfr maturato dal 1° gennaio 2007 accresciuto del tasso di rivalutazione dello stesso Tfr vigente al 31 dicembre 2006; analogamente, se si tratta di lavoratori occupati dopo quella data che non abbiano già deciso una diversa destinazione del Tfr a seguito di precedenti rapporti di lavoro, tale primo versamento deve essere pari al Tfr maturato dalla data della (nuova) assunzione accresciuto del tasso di rivalutazione dello stesso Tfr vigente al termine dell’anno precedente. Se invece i lavoratori destinano - in forma esplicita o tacita — flussi di Tfr alla previdenza complementare, il rapporto con FondInpsR cambia a seconda che: (1) si tratti di lavoratori già occupati al 31 dicembre 2006 oppure di lavoratori occupati dopo quella data che non abbiano già deciso una diversa destinazione del Tfr a seguito di precedenti rapporti di lavoro; (2) il sottoinsieme della prima tipologia di lavoratori, assunto in data antecedente il 29 aprile 1993, scelga di versare in tutto o solo in parte i suoi flussi di Tfr (cfr. sopra, n. 5). Nel caso in cui i lavoratori già occupati al 31 dicembre 2006 destinino tutto il Tfr maturando al secondo pilastro previdenziale, nulla va attribuito a FondInpsR: dal 1° luglio del 2007, l’impresa verserà il Tfr (e gli eventuali contributi contrattuali o volontari) alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore — se l’adesione è avvenuta in forma esplicita — o al fondo pensione designato con adesione collettiva — se l’adesione è avvenuta in forma tacita;39 inoltre, il primo versamento dovrà comprendere il Tfr maturato fra la data dell’adesione di ciascun lavoratore e il 30 giugno 2007 e dovrà essere accresciuto del già specificato tasso di rivalutazione del Tfr. Invece, nel caso in cui — avendone i requisiti — questi stessi lavoratori destinino solo una parte del Tfr maturando al secondo pilastro complementare, l’impresa verserà la quota del Tfr destinata a una forma pensionistica complementare secondo le modalità specificate per il caso precedente; la quota rimanente sarà invece versata a FondInpsR secondo le modalità sopra specificate per i lavoratori già occupati al 31 dicembre 2006 che decidono esplicitamente di non versare il loro Tfr ad alcuna forma pensionistica complementare (ossia con retroattività dal 1° gennaio 2007). Si passi infine al caso di lavoratori occupati dopo il 31 dicembre 2006, che non abbiano già deciso una diversa destinazione del Tfr a seguito di precedenti rapporti di lavoro e che destinino i flussi del loro Tfr alla previdenza complementare. In tale caso, restano valide le modalità di versamento del Tfr (e degli eventuali contributi) alla forma pensionistica prescelta o al fondo pensione con adesione collettiva dal mese successivo alla data di consegna del modulo predefinito (se questa data è successiva a maggio 2007) o dal 1° luglio 2007 (se è anteriore a maggio 2007); tuttavia i flussi di Tfr, relativi al periodo occupazionale precedente la scelta codificata di adesione e accresciuti del tasso di rivalutazione vigente al termine dell’anno precedente, andranno versati a FondInpsR. La paradossale complessità delle procedure, a cui dovranno sottoporsi i dipendenti privati e i datori di lavoro per l’allocazione del Tfr maturando a seguito della Legge finanziaria per il 2007 e dei due decreti del Ministro del lavoro, dovrebbe emergere con nettezza da quanto si è Il decreto del Ministro del lavoro, basato sul comma 757 della Legge finanziaria, specifica (art. 3, comma 1) che la scelta va qui intesa come il momento della consegna da parte del lavoratore del modulo standardizzato sopra specificato (cfr. nota 32). Ciò appare inevitabile ma contraddittorio con la possibilità di mantenere i tempi della scelta originaria (cfr. sempre 32). Fortunatamente la contraddizione non dovrebbe avere effetti pratici data la retroattività del trasferimento e l’invarianza del rendimento. 39 Il posponimento al 1° luglio 2007 dell’effettivo versamento alle forme pensionistiche complementari dei flussi di Tfr, maturati nel primo semestre 2007, è imposto dai tempi di autorizzazione di queste stesse forme alla raccolta del Tfr. Si noti che, se una delle forme previdenziali prescelte dai lavoratori non ottenesse l’autorizzazione, gli iscritti a tale forma dovrebbero trasferire immediatamente la loro adesione ad altra forma autorizzata. Si ricordi inoltre che tutto ciò non si applica ai lavoratori che, alla fine del 2006, già aderivano a una forma pensionistica complementare e versavano l’intero flusso di Tfr (cfr. n. 18). 38 34 appena illustrato. Per di più tali procedure discriminano, in modo arbitrario, fra tipologie analoghe di lavoratori dipendenti privati al solo fine di accrescere la probabilità che FondInpsR incassi nel 2007 e negli anni successivi l’ammontare previsto nella “Relazione tecnica” di una prima versione della Legge finanziaria.40 I problemi, posti dalla Legge finanziaria per il 2007, non finiscono però qui. Ancora più preoccupanti sono le nuovi funzioni di FondInpsC, che vengono adombrate nel comma 760 e che trovano sostanziosa conferma nelle modalità organizzative previste nel decreto del Ministro del lavoro (derivante dal comma 765). Si è detto che il D.Lgs. n. 252/05 riserva a FondInpsC la sola funzione residuale di offrire una temporanea forma pensionistica di secondo pilastro a quei dipendenti privati ad adesione tacita e sprovvisti di un FP di riferimento con adesione collettiva, tanto da prevedere la possibilità di una loro uscita prima del termine dei due anni (cfr. nota 20) anche in mancanza della istituzione di un simile FP. Sarebbe stato perciò lecito aspettarsi una struttura agile di FondInpsC, orientata a spingere i lavoratori a un’uscita immediata e — proprio per questo — vincolata a investimenti di breve termine. Viceversa, il decreto del Ministro del lavoro: trasforma il comitato di amministrazione (previsto dall’art. 9, comma 2 del D.Lgs. n. 252/05) in un sovrabbondante organo di nove membri,41 cui si aggiunge il responsabile del fondo; istituisce la possibilità di una gestione multicomparto di modo che gli aderenti, inseriti — in quanto silenti — in un comparto prudenziale con la garanzia prima specificata, possano poi scegliere — dopo un anno — il passaggio a un altro portafoglio; prevede che un regolamento di FondInpsC specifichi le modalità (variabili) di contribuzione volontaria degli aderenti; vincola l’uscita di ciascun aderente al mantenimento della “posizione individuale” presso FondInpsC per “almeno un anno dall’adesione” anche nel caso di creazione di un FP di riferimento con adesione collettiva. Tale assimilazione di FondInpsC a una ‘normale’ forma pensionistica complementare, anziché a un fondo residuale, pone gravi problemi di gestione; in particolare essa rende ancora più distorsiva l’offerta di una garanzia, secondo le modalità previste dalla Covip (cfr. sopra), a fronte della possibile uscita continua (dopo un anno) di ciascun aderente.42 Inoltre, essa tende a trasformare l’aderente da soggetto passivo a un iscritto attivo che va trattenuto anziché spinto a trasferirsi a una ‘normale’ forma pensionistica complementare. Questa trasformazione di FondInpsC appare così radicale da richiedere una spiegazione che può essere, forse, trovata nel comma 760 della Legge finanziaria per il 2007. In quel comma si prefigura infatti la possibilità, da specificare nella prima relazione annuale del Ministro del lavoro al Parlamento sullo stato della previdenza complementare (prevista entro il 30 settembre 2007), di versare il Tfr a FondInpsC anche per scelta volontaria del lavoratore che otterrebbe così dallo Stato una pensione aggiuntiva a quella di primo pilastro. Se un’ipotesi del genere trovasse conferma, in Italia il secondo pilastro previdenziale cambierebbe di natura perché incorporerebbe una componente pubblica destinata a imporsi nel tempo grazie all’implicita assicurazione statale sui rendimenti minimi. La conseguente inutilità delle forme pensionistiche private si accompagnerebbe, così, a un aggravio aleatorio della futura spesa pensionistica pubblica. 40 Secondo i dati della Ragioneria generale, il flusso annuale di Tfr dell’insieme dei lavoratori dipendenti è pari a poco più di 18,9 miliardi di euro. Di questi 18,9 miliardi, alla fine del 2006 circa 1 miliardo era già allocato nella previdenza complementare. Peraltro, secondo i calcoli di Bardazzi-Pazienza (2005), circa il 65% dello stock di Tfr è detenuto da lavoratori privati occupati in imprese con almeno 50 addetti. È quindi ragionevole valutare in circa 11,6 miliardi di euro i flussi annuali di Tfr di tali lavoratori che possono essere destinati annualmente a una forma pensionistica complementare o a FonInps oppure essere in parte mantenuti — nel primo semestre del 2007 — presso l’impresa di appartenenza. 41 È singolare la scelta di un numero dispari, dato il vincolo della rappresentanza paritetica dei lavoratori e dei datori di lavoro e senza aver previsto la presenza di una figura indipendente. 42 La sola soluzione credibile, che avrebbe però l’effetto di minare le fondamenta del secondo pilastro previdenziale, sarebbe quella di un’assicurazione di ultima istanza da parte dello Stato (cfr. infra). 35 5. Conclusioni L’analisi dell’evoluzione normativa più recente ha mostrato i molti limiti delle direttive Covip, della Legge finanziaria e dei conseguenti decreti del Ministro del lavoro. Si è vanificata un’opportunità di correggere i molti punti deboli del D.Lgs. n. 252/05, sopra denunciati, e si è reso ancora più problematico l’assetto della previdenza complementare italiana. In particolare, la Legge finanziaria per il 2007 non ha neppure tentato di estendere il meccanismo dell’adesione tacita ai lavoratori autonomi o a una parte di essi; accrescere l’insufficiente concorrenza fra le diverse tipologie di FP con adesione collettiva e attenuare l’eccessiva concorrenza fra tali FP e le forme previdenziali ad adesione individuale; modificare le palesi incongruenze introdotte nella governance delle diverse forme pensionistiche complementari; correggere l’eccesso di delega e i distorsivi interventi in campo fiscale riguardo alla fase di contribuzione e di capitalizzazione e — soprattutto — riguardo alla fase di erogazione dei benefici;43 sanare le contraddizioni nel regime delle anticipazioni e dei riscatti. Inoltre, la Legge finanziaria non si è preoccupata di chiarire l’ambiguo passaggio del D.Lgs. n. 252/05 relativo alla necessità di allocare i flussi di Tfr dei lavoratori con adesione tacita nel comparto più prudenziale e garantito del FP (FPc o FPa con adesione collettiva) di destinazione. Come si è prima mostrato (cfr. par. 4), la regolamentazione ha posto le premesse perché il rendimento atteso di questo comparto risulti inferiore al rendimento tradizionale del Tfr. Oltre a ciò la Legge finanziaria (con la creazione di FondiInpsR) e i conseguenti decreti del Ministro del lavoro hanno reso così farraginose le modalità di adesione alla previdenza complementare da scoraggiare i lavoratori dipendenti privati a una scelta consapevole e ponderata. Per di più, rafforzando in modo distorto il ruolo di FondInpsC, essi hanno adombrato uno stabile ingresso della mano pubblica nel secondo pilastro previdenziale con l’effetto di introdurre un’implicita garanzia statale sui rendimenti minimi. In una situazione normale, una normativa così carente solleciterebbe ulteriori interventi correttivi. La travagliata storia legislativa della giovane previdenza complementare italiana (almeno cinque rilevanti modifiche e una pletora di interventi minori in tredici anni) e l’esperienza recente mostrano, però, che non si tratta della via più efficiente. Per giunta, i nostri lavoratori più “giovani” non hanno tempo per aspettare. La prossima entrata a regime delle riforme del pilastro pubblico attuate negli anni Novanta, la dinamica demografica (allungamento della speranza di vita e connesso invecchiamento della popolazione) e la precarietà occupazionale implicano infatti che ogni ritardo nell’affermarsi della previdenza complementare implicherà, in un futuro più o meno lontano, la presenza di una coorte di pensionati incapaci di difendere il proprio tenore di vita e a rischio di povertà. L’auspicio è, quindi, che la previdenza complementare italiana possa fornire un massiccio sostegno pensionistico ai lavoratori più “giovani” nonostante i numerosi limiti dell’attuale normativa. A tale fine, è essenziale che questi lavoratori partecipino alla previdenza complementare in modo massiccio e attraverso un’adesione informata, esplicita e consapevole. Per ognuno di essi risulta, innanzitutto, essenziale sfuggire all’alternativa peggiore: essere inseriti, mediante adesione tacita, nei comparti prudenziali e garantiti o nella forma pensionistica residuale ad alto rischio politico. Si tratta, poi, di selezionare la forma previdenziale e il comparto più appropriati alle proprie esigenze e al proprio profilo soggettivo e oggettivo di rischio. 43 Va peraltro notato che, pur rimanendo invariata all’aliquota dello 11%, la tassazione nella fase di capitalizzazione delle forme pensionistiche complementari subirà una sensibile riduzione in termini relativi a seguito dell’unificazione delle aliquote sui redditi finanziari e del connesso passaggio dal 12,5% al 20% per le attività finanziarie di medio-lungo termine. Non a caso, vi sono state proposte di aumentare pro quota anche l’aliquota sulla capitalizzazione delle forme pensionistiche. 36 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Abi (2005): “Tfr e riforma della previdenza integrativa: alcune note”, AFO. Rapporto di previsione 2005-2007, dicembre, Roma. Autorità garante della concorrenza e del mercato (2005): Osservazioni su la “Disciplina delle forme pensionistiche complementari”, Roma. Bardazzi, R. e Pazienza, M.G. 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Un simile incremento del tasso di partecipazione alla popolazione attiva da parte degli americani in età avanzata può anche non essere il semplice riflesso dell’invecchiamento della popolazione in generale. I motivi suscettibili di spingere gli anziani a continuare a lavorare possono comprendere il bisogno di denaro, un livello di istruzione più elevato, il miglioramento delle condizioni di salute, la diminuzione delle invalidità, il cambiamento dei fondi pensione, un ambiente giuridico ed economico più favorevole ai lavoratori anziani e il passaggio dall’economia industriale a quella informatizzata. Inoltre, da parte dei lavoratori anziani vi può anche essere il desiderio di rimanere attivi a prescindere dalle condizioni economiche. Il lavoro potrebbe garantire vantaggi di ordine sociale e psicologico che la pensione non permette, e qualcuno potrebbe non assegnare al tempo libero la stessa importanza che dà all’attività lavorativa. Tuttavia, la volontà di continuare a lavorare potrebbe non tradursi nel desiderio di un’occupazione a tempo pieno. Alcuni dipendenti riescono a modificare i propri orari in modo tale da “disimpegnarsi” gradualmente dall’attività professionale mentre si avvicinano al pensionamento completo.2 Chi non può usufruire del pensionamento progressivo presso l’azienda per cui lavora spesso “va in pensione” per poi trovare un altro impiego part-time. In genere nessuna di queste due opzioni risulta formalizzata, né rientra in programmi di ampio respiro, anche se esistono ricerche che hanno evidenziato l’interesse dei datori di lavoro nei 1 Il presente articolo è tratto dalla pubblicazione dell’istituto AARP Public Policy Institute, organizzazione fondata nel 1985 in seno al Policy and Strategy Group di AARP. Uno degli obiettivi dell’istituto è promuovere studi e ricerche su alcuni aspetti delle politiche pubbliche che hanno un notevole impatto sugli americani di mezza età e anziani, e la pubblicazione di cui sopra rientra in questo intento. Le opinioni qui presentate sono intese a informare i lettori e stimolare il dibattito, ma non necessariamente rappresentano le politiche ufficiali di AARP; http://www.aarp.org/ppi. * Yung-Ping Chen, Ph.D, University of Massachussets, Boston. ** John C. Scott, J.D., M.A., Cornell University. Questa possibilità è stata variamente descritta come pensionamento progressivo, parziale e graduale. In alcuni studi il “pensionamento progressivo” indica schemi in base ai quali il dipendente riduce gradualmente la propria attività lavorativa pur mantenendo il proprio inquadramento, mentre per “pensione parziale” si intende la riduzione del lavoro al di fuori della carriera professionale perseguita nel corso dell’esistenza; nel presente articolo le due espressioni saranno utilizzate con questi significati. 39 confronti della futura adozione di una qualche forma di pensionamento progressivo (Watson Wyatt Worldwide, 1999; Ehrenberg, 2001; Hutchens, 2003). Il presente lavoro esamina diversi aspetti del pensionamento progressivo e contribuisce per diversi aspetti alle attuali ricerche sul regime di pensione/lavoro adottato dai dipendenti anziani. Vengono prese in considerazione numerose questioni, ivi compresi i fattori che in casi particolari conducono al pensionamento progressivo, l’impatto che esso ha sulle probabilità di pensionamento completo e le ricadute economiche su chi opta per questa soluzione. Tali aspetti vengono affrontati per mezzo di una vasta indagine longitudinale condotta mediante interviste tra i lavoratori anziani, prendendo in considerazione l’atteggiamento dimostrato nei confronti del lavoro e del tempo libero come pure altre variabili di natura demografica, familiare, lavorativa e finanziaria. 2. Premesse Esistono diverse tendenze di natura demografica ed economica suscettibili di rendere possibili nuovi scenari in termini di lavoro e pensionamento e di generare negli americani in età avanzata un nuovo atteggiamento nei confronti dell’attività lavorativa. Gli americani vivono più a lungo e, durante gli ultimi anni della loro esistenza, paiono godere di condizioni di salute migliori, risultando così in grado di lavorare più a lungo, se lo desiderano. Le necessità economiche derivanti dalle insufficienze patrimoniali, dall’assenza di una copertura garantita da un fondo pensione, dall’aumento delle spese sanitarie o dalla mancanza di un’assicurazione sanitaria durante la pensione sono tutti fattori che negli Stati Uniti possono spingere gli anziani a rimanere o a rientrare sul mercato del lavoro. Allo stesso tempo, l’adozione di normative contro la discriminazione in base all’età e i cambiamenti relativi alla natura delle mansioni lavorative offrono sempre più opportunità e sempre più incentivi volti all’aumento della partecipazione alla popolazione attiva da parte degli anziani. Di conseguenza, potrebbe esservi anche più spazio per i pensionamenti progressivi. In questa parte dell’articolo si fornisce un’analisi preliminare di tali fattori di influenza e di sviluppo, molti dei quali verranno ripresi nei modelli metodologici e analitici discussi nei paragrafi successivi. 2.1 Aspetti demografici dell’invecchiamento In base alle tendenze relative a fertilità, mortalità e condizioni di salute, si prevede che nel corso della prima metà del Ventunesimo secolo la popolazione americana continuerà a invecchiare. È naturalmente possibile che tali stime vadano riviste, ma esiste uno studio che indica che le previsioni attuali potrebbero essere eccessivamente prudenti e che la società potrebbe invecchiare più rapidamente di quanto non dicano i dati ufficiali (Anderson, Taljapurkar, and Li, 2002). Qualunque siano gli sviluppi futuri, è probabile che gli anziani continueranno a lavorare. Uno dei principali fattori che conducono all’invecchiamento della popolazione è dato dalla diminuzione della fertilità. Il tasso di fertilità medio (il numero medio di figli concepiti da una donna nel corso della sua esistenza) è crollato da 3,61 nel 1960 a 2,04 nel 1998 e si prevede che entro il 2025 scenderà ancora a 1,90 (U.S. Census Bureau, 2000). Se nascono meno bambini, gli anziani rappresenteranno una fetta sempre più grande del totale della popolazione, mentre se vi saranno sempre meno lavoratori giovani, gli anziani diventeranno sempre più necessari e avranno più opportunità di continuare lavorare. Dato che vivono più a lungo, negli Stati Uniti gli anziani dovrebbero avere sempre di più 40 la possibilità di partecipare alla popolazione attiva. La speranza di vita alla nascita è aumentata da 70,6 anni nel 1970 a 76,9 anni nel 2000 e ci si attende che continuerà a crescere nel corso di tutto il secolo. Oggi la speranza di vita dei sessantacinquenni è 18 anni, quando nel 1950 arrivava a 13,9 anni (U.S. Census Bureau, 2000; 2004). La figura 1 illustra l’aumento della speranza di vita dei sessantacinquenni negli Stati Uniti tra il 1950 e il 2000. Figura 1: Speranza di vita a 65 anni d’età, 1950-2000 Fonte: U.S. Census Bureau, 2004. In America gli anziani non solo vivono più a lungo: in genere godono anche di una salute migliore. I problemi fisici aumentano con l’età e le malattie croniche non sono diminuite di molto con l’andare degli anni.3 Tuttavia, benché gli individui tendano in genere a perdere efficienza fisica mentre invecchiano, le indagini sanitarie indicano che oggi in America gli anziani siano meno “anziani” (in termini di abilità e funzionalità) rispetto alle generazioni precedenti (Riche, 2001). Tra il 2001 e il 2003, il 73% degli Americani in età avanzata riteneva le proprie condizioni di salute buone, molto buone o addirittura ottime, con uno scarto minimo in base ai sessi. La percentuale di ultrasessantacinquenni che lamentavano condizioni di salute discrete o insoddisfacenti è passata dal 29% del 1991 al 27% del 2001 (Federal Interagency Forum on Ageing Statistics, 2004).4 Anche le dimensioni delle coorti influisce sul quadro generale: il grande numero di baby-boomers (circa 76 milioni di nati tra il 1946 e il 1964) nei prossimi decenni farà aumentare la popolazione anziana ancor più rapidamente. 3 I disturbi cronici come l’artrite, il diabete e le affezioni cardiache sono malattie raramente curate in maniera definitiva e rappresentano un notevole fardello a livello economico e sanitario. Nel periodo 2001-2002, il 40% degli ultrasessantacinquenni era affetto da artrite, il 50% da ipertensione, il 31% da problemi cardiaci e il 21% soffriva di una qualche forma di cancro (Federal Interagency Forum on Aging Statistics, 2004). Tra il 1982 e il 1994, la percentuale di americani affetti da malattie croniche è leggermente diminuita, passando dal 24% al 21%, ma il totale dei malati è aumentato da 6,4 milioni a 7 milioni di persone (Manton et al., 1997). 4 Tra il 1984 e il 1995, in America gli ultrasessantacinquenni hanno indicato un miglioramento dell’efficienza fisica valutata in base alla capacità di camminare per un quarto di miglio, salire le scale, raggiungere un oggetto posizionato al di sopra della propria testa, chinarsi, accovacciarsi o inginocchiarsi. Emergono tuttavia grandi differenze tra i vari gruppi etnici. Per esempio, nel 1995 il 33% degli anziani afroamericani non era in grado di eseguire almeno un’attività fisica su nove, mentre tra i bianchi la percentuale era di appena il 25%. Considerando uomini e donne in ogni fascia d’età, neri non ispanici e ispanici avevano meno probabilità dei bianchi di descrivere come buone le proprie condizioni di salute, mentre il numero di valutazioni soddisfacenti tendeva a diminuire per tutti con l’aumentare dell’età (Federal Interagency Forum on Ageing Statistics, 2000). 41 Le variazioni dei dati relativi a fertilità, longevità, condizioni di salute e dimensioni delle fasce d’età fanno sì che in America il gruppo dei lavoratori giovani si restringa mentre aumenta il numero di anziani ancora abili al lavoro, il che dovrebbe condurre a un aumento della manodopera oltre i 65 anni d’età pronta a sfruttare l’opportunità data dal pensionamento progressivo. Inoltre, i vincoli normativi per l’assunzione di manodopera in età avanzata vanno indebolendosi, alterando a favore degli anziani la composizione della popolazione attiva. 2.2 Partecipazione degli anziani alla popolazione attiva Sebbene nella seconda metà del XX secolo la partecipazione degli anziani alla popolazione attiva americana si sia indebolita, emergono segnali in base ai quali saremmo di fronte a un’inversione di tendenza. Nella fascia d’età che va dai 55 ai 64 anni, i tassi di partecipazione alla popolazione attiva hanno subito variazioni comprese tra il 56,7% nel 1950 al picco del 61,8% del 1970, per toccare il minimo storico del 55,7% nel 1980 prima di riprendere a crescere fino al 61,9% del 2002. Per il 2015 le proiezioni indicano un tasso del 61,6%. I tassi di partecipazione alla popolazione attiva relativi agli anziani (oltre i 65 anni d’età) sono diminuiti in maniera costante sin dagli anni Cinquanta, arrivando al 10,8% nel 1985. Tuttavia, in questa fascia d’età la partecipazione alla popolazione attiva è salita al 12,8% nel 2000 e si prevede un ulteriore aumento fino a superare la soglia del 16% entro il 2015 (Toossi, 2002; 2004). Anche l’età media della manodopera ha subito variazioni negli ultimi 40 anni. Come sottolineato da Toossi (2004), questo valore ha raggiunto il picco di 40,5 anni nel 1962, per poi diminuire quando la generazione del baby-boom è arrivata sul mercato del lavoro, fino a un minimo di 34,6 anni nel 1982. Da quel momento in poi, l’età media dei lavoratori ha iniziato a salire fino a toccare 40 anni nel 2002. Anche se i recenti aumenti sono indubbiamente il riflesso dell’invecchiamento dei baby-boomers, si potrebbe ipotizzare anche l’influsso dell’accresciuta partecipazione alla popolazione attiva da parte degli ultrasessantacinquenni. La tipologia del lavoro sta cambiando in modo tale che potrebbe facilitare il prolungamento dell’attività lavorativa. Un’indagine condotta da AARP tra i responsabili risorse umane indica che gli anziani ricevevano una valutazione inferiore agli altri lavoratori per quanto riguardava gli aspetti legati all’apertura nei confronti di nuovi approcci, all’apprendimento di nuove tecnologie e all’acquisizione delle qualifiche professionali più recenti (AARP, 2000). Ciononostante, i minori requisiti in termini di prestanza fisica che caratterizzano un’economia basata sull’informazione potrebbero rivelarsi un vantaggio per gli anziani che riescono ad aggiornare le proprie competenze. Tra i 50 e i 59 anni d’età, la percentuale di chi utilizzava un computer per lavoro è passata dal 43,9% del 1993 al 50,7% del 1997, un dato non troppo dissimile dal 55% registrato nella fascia d’età compresa tra i 40 e i 49 anni. Un aumento analogo ha riguardato gli ultrasessantenni: se nel 1993 solo il 27,3% utilizzava un computer sul luogo di lavoro, nel 1997 si era arrivati al 32,6% (U.S. Census Bureau, 1995: Tabella 671; 2000: Tabella 690). Anche se l’ufficio censimenti americano dopo il 1997 non ha più aggiornato i dati, rilevazioni più recenti indicano sviluppi simili in relazione alla presenza di un computer a casa: la percentuale dei proprietari di computer tra gli ultrasessantacinquenni è passata dall’8,3% del 1993 al 24,3% del 2000 (U.S. Census Bureau, 1993; 2001). Anche per quanto riguarda la struttura delle prestazioni sanitarie e pensionistiche si stanno verificando dei cambiamenti, il principale dei quali è stato il mutato atteggiamento delle imprese, passate dai piani pensionistici di assegni definiti a quelli di contributi definiti, come per esempio il 401(k). Se nel 1980 esistevano oltre 148.000 piani di assegni definiti che coprivano 30 milioni di lavoratori economicamente attivi (38% della popolazione attiva), entro il 1999 questi dati hanno registrato un calo enorme: poco meno di 50.000 piani di assegni definiti per neppure 23 milioni di lavoratori americani (21% della popolazione attiva). Nello 42 stesso lasso di tempo, i piani di contributi definiti sono passati da 340.850 a 683.100, mentre i lavoratori interessati sono cresciuti da 14 milioni (14% della popolazione attiva del 1980) a oltre 46 milioni — 43% della forza lavoro del 1999 (U.S. Department of Labour, 2004: Tabella E24). In genere i piani di assegni definiti assicurano il pagamento di una rendita per l’intera durata della vita del lavoratore o del beneficiario, mentre quelli di tipo contributivo non prevedono una simile possibilità, per cui chi va in pensione in base a questi ultimi potrebbe anche esaurire le risorse accumulate ed essere obbligato a tornare a lavorare. 2.3 Flessibilità sul lavoro L’aumento dei lavoratori anziani, accompagnato dalla concomitante diminuzione di quelli più giovani, il miglioramento delle condizioni di salute, determinati cambiamenti istituzionali e, in alcuni casi, le necessità economiche perduranti nella terza età sono tutti fattori suscettibili di determinare il prolungamento della vita lavorativa degli americani. Se il fenomeno si fa evidente, potrebbe incoraggiare la modifica delle norme che regolano il pensionamento e il concetto stesso di pensione. L’idea di un’età pensionabile stabilita e uguale per tutti ha ceduto il passo a un’ampia varietà di accordi aziendali relativi ai lavoratori anziani (Wiatrowski, 2001). I dati indicherebbero un aumento dei “lavori transitori”, cioè dei contratti a tempo determinato o parziale che facilitano la transizione dalla piena occupazione al pensionamento. Che lo facciano volontariamente o perché obbligati, dopo essere andati in pensione molti anziani continuano a lavorare presso un’azienda diversa da quella per cui hanno lavorato tutta la vita (Quinn and Kozy, 1996). Inoltre, l’orario di lavoro flessibile sta diventando sempre più comune: nel 2004 il 28% degli assunti a tempo pieno oltre i 20 anni d’età sfruttava questa opportunità, quando nel 1985 erano solo il 12% (U.S. Department of Labour, 2004: Tabella A).5 Nel 2004 il 27% dei lavoratori di età compresa tra i 55 e i 64 anni disponeva di un orario di lavoro flessibile, percentuale che passava al 35% tra gli ultrasessantacinquenni (U.S. Department of Labour, 2004: Tabella 1). La maggiore flessibilità dell’orario di lavoro può dunque contribuire all’adozione dei programmi di pensionamento progressivo. 2.4 Il ruolo delle politiche statali Esistono diverse proposte politiche che potrebbe far crescere le opportunità lavorative per gli anziani: si pensi all’aumento della soglia minima per il pensionamento e/o il prepensionamento in seno alla previdenza sociale, all’indicizzazione di tale soglia minima in relazione alla speranza di vita, alla possibilità di attribuire a Medicare la responsabilità principale per la copertura delle prestazioni sanitarie dei lavoratori che hanno superato i 65 anni d’età, all’eliminazione delle misure che nei piani pensionistici impediscono di maturare ulteriori prestazioni dopo aver raggiunto l’età pensionabile, al miglioramento dell’offerta formativa per il lavoratori anziani, alla maggiore applicazione delle norme contro le discriminazioni sul luogo di lavoro basate sull’età, come l’Age Discrimination in Employment Act (Rix, 2004). I dati si riferiscono a disoccupati e occupati economicamente attivi del settore privato. La tendenza rimane invariata anche se si utilizzano numeri diversi. Se si contano i lavoratori economicamente attivi, i pensionati e gli altri beneficiari, i piani pensionistici di assegni definiti coprivano quasi 38 milioni di americani nel 1980, diventati 41 milioni nel 1999. I lavoratori e i beneficiari affidati ai piani di contributi definiti sono invece aumentati da quasi 20 milioni di individui nel 1980 a oltre 60 milioni nel 1999 (U.S. Department of Labour, 2004: Tabelle E1, E5). 5 43 3. Panoramica sulle ricerche disponibili 3.1. Fattori determinanti per il prolungamento della partecipazione alla popolazione attiva da parte degli anziani Le ricerche relative ai fattori determinanti per il prolungamento della partecipazione alla popolazione attiva da parte degli anziani forniscono le basi per la metodologia seguita nel presente studio. Gli esperti hanno identificato un insieme di fattori che possono influenzare la decisione di continuare a lavorare da parte degli anziani americani, ivi comprese caratteristiche individuali, famigliari e professionali. 3.1.1 Caratteristiche individuali • • • A causa degli svantaggi registrati in termini di capitale umano, opportunità di lavoro e profilo sanitario, i membri anziani della popolazione di colore, ispanica e femminile si trovano a dover lasciare la propria occupazione contro la propria volontà più frequentemente dei maschi bianchi e spesso i periodi di disoccupazione che ne derivano conducono a uno stato di “pensionamento” indesiderato o all’espulsione coatta dal mondo del lavoro (Flipen e Tienda, 2000). Chi ha un livello di istruzione elevato continua a lavorare anche in età avanzata (Haider and Loughran, 2001). L’impatto negativo della scarsa scolarità sulla partecipazione alla popolazione attiva risulta maggiore per le donne che per gli uomini e per i neri che per nonneri (Williamson e McNamara, 2001). I soggetti che godono di condizioni di salute migliori continuano a lavorare anche in età avanzata (Haider e Loughran, 2001; Quinn et al., 1998). Al contrario, eventuali problemi di salute possono far tornare sulla decisione di prolungare la vita lavorativa (Dwyer, 2001; Haider e Loughran, 2001) e indurre a optare per il pensionamento (Reitzes et al., 1998). 3.1.2 Caratteristiche familiari • • Reddito e patrimonio sono fattori importanti che entrano in gioco quando si decide dell’eventualità di continuare a lavorare, ma gli effetti che hanno sono diversi. Le maggiori dimensioni del patrimonio spiegano perché storicamente si assiste al calo della partecipazione alla popolazione attiva da parte dei maschi anziani (Costa, 1998). Tuttavia, proprio i soggetti più ricchi hanno maggiori probabilità di lavorare in età avanzata (Haider e Loughran, 2001). Chi è benestante riesce ad attenuare il calo del reddito da lavoro attingendo a fonti diverse del proprio patrimonio. Le dimensioni del nucleo familiare influenzano la decisione di continuare a lavorare in età avanzata. Si è visto che la propensione al pensionamento è inversamente proporzionale al numero di figli, che a sua volta può tradursi in obblighi economici derivanti dal fatto di avere persone a carico. La presenza di figli aumenta la probabilità di continuare a lavorare più per le donne che per gli uomini (Reitzes et al., 1998; Gustman e Steinmeier, 1994). 3.1.3 Caratteristiche del lavoro • È probabile che i soggetti impegnati in lavori usuranti vadano in pensione prima degli altri lavoratori (Hayward et al., 1989). 44 • • • • • È stato riscontrato un collegamento tra la posticipazione del pensionamento e le professioni più complesse, che richiedono maggiore creatività e sono caratterizzate da compiti meno ripetitivi (Reitzes et al., 1998; Hayward et al., 1989). La flessibilità sul lavoro è un incentivo a continuare, in parte perché rende più soddisfacenti i compiti dei dipendenti (Reitzes et al., 1998; Hurd e McGarry, 1993). Queste caratteristiche dell’occupazione (impegno fisico, flessibilità e aspetti finanziari), agendo sul livello di soddisfazione del lavoratore, influenzano le decisioni relative alla prosecuzione della vita professionale (Mueller et al., 1994). I lavoratori che partecipano a piani pensionistici a contributi definiti in genere vanno in pensione dopo quelli che usufruiscono di piani di assegni definiti (Frieberg e Webb, 2000). Benché la copertura sanitaria fornita dal datore di lavoro contribuisca a rimandare il pensionamento, anche la disponibilità di un’assicurazione malattia durante la pensione permette di fare previsioni in questo senso (Gruber e Madrian, 2002). Per esempio, esiste uno studio che ha rilevato che se l’azienda fornisce la copertura sanitaria ai pensionati, la percentuale di abbandoni per pensionamento aumenta del 2% annuo in caso di condivisione dei costi assicurativi tra datore di lavoro e dipendente, e del 6% annuo qualora il datore di lavoro si faccia pienamente carico dell’assicurazione malattia (Blau e Gilleskie, 2001). Di norma la decisione di uscire dal mondo del lavoro viene influenzata dall’interazione tra le prestazioni sanitarie destinate ai pensionati e la disponibilità di una pensione privata (Wise, 1997). Secondo una ricerca condotta sull’auto-valutazione dei casi di discriminazione basata sull’età, i lavoratori che se ne dicono più colpiti hanno maggiori probabilità di abbandonare il proprio datore di lavoro e meno probabilità di continuare a lavorare (Johnson e Neumark, 1997). 3.2 Definire e misurare il pensionamento parziale Anche se il presente articolo si concentra principalmente sul pensionamento progressivo, ci accingiamo a discutere gli studi relativi al pensionamento parziale alla luce dei punti di somiglianza che accomunano i due sistemi. Per comodità si utilizzerà l’espressione “pensionamento parziale” per indicare lo svolgimento di mansioni part-time a favore di un datore di lavoro diverso da quello per il quale si è lavorato nel corso della propria carriera professionale. Tuttavia, nella maggior parte delle ricerche sulle alternative al pensionamento completo questo termine viene impiegato per riferirsi a qualsiasi riduzione graduale dell’attività lavorativa, a prescindere dall’identità del datore di lavoro. I tassi di partecipazione alla popolazione attiva vengono comunemente utilizzati quali indici della prosecuzione dell’attività lavorativa da parte di soggetti anziani (Quinn, 1999; Toossi, 2002; 2004), anche se si tratta di strumenti poco adatti a rendere conto della transizione dal lavoro alla pensione. In un qualsiasi momento, il tasso di partecipazione alla popolazione attiva rilevato per una fascia di età avanzata è dato dal numero degli anziani che abbandonano la popolazione attiva e di quelli che entrano a farne parte: di conseguenza non si tratta di un flusso unidirezionale di individui dal lavoro alla pensione. Sono dunque necessarie altre misurazione per valutare le variazioni relative alla situazione pensionistica (Hayward et al., 1994). Un ulteriore aspetto teorico riguarda il valore attribuibile alle valutazioni personali rispetto a uno standard oggettivo come le ore lavorate o il reddito da lavoro. È abbastanza chiaro che l’autovalutazione circa lo status di pensionato possa evidenziare differenze sostanziali rispetto a una misurazione oggettiva (Honig e Hanoch, 1985; Ruhm, 1990; Gustman e Steinmeier, 2001; ma cfr. anche la nota 7 in Gustman e Steinmeier, 1984). Molti tra quelli che si descrivono 45 come pensionati parziali percepiscono una retribuzione uguale o analoga allo stipendio precedente, mentre molti di quelli che hanno assistito a una riduzione dello stipendio si considerano dipendenti o pensionati a tempo pieno (Honig e Hanoch, 1985: 23). Si vede dunque che affidarsi esclusivamente alle autovalutazioni può non essere molto utile se si vogliono analizzare i dettagli del passaggio dal lavoro alla pensione. Anche le misurazioni assolutamente oggettive possono nascondere delle insidie. Per esempio, la diminuzione della retribuzione, sia essa dovuta a demansionamento o trasferimento, potrebbe far erroneamente concludere che siamo di fronte a un pensionamento progressivo, mentre in realtà il soggetto non ha ridotto l’orario di lavoro né ha iniziato la transizione verso il pieno pensionamento. L’utilità dell’autovalutazione risiede nel fatto che ci dà un’idea delle intenzioni individuali. Alcuni degli studi descritti più avanti si rifanno a una definizione del pensionamento parziale che è il risultato congiunto dell’autovalutazione e di misurazioni oggettive (Ruhm, 1990). L’approccio qui utilizzato, come è stato descritto nel paragrafo dedicato alla metodologia, ai risultati dell’autovalutazione affianca l’analisi delle variazioni delle ore lavorate. Gustman and Steinmeier hanno condotto una delle prime ricerche empiriche su quello che hanno definito “pensionamento parziale”. Grazie alle prime quattro onde dello studio storico sulle pensioni realizzato dalla previdenza americana (Social Security Administration’s Retirement History Study—RHS), consistente in un’indagine longitudinale condotta su soggetti maschi in età compresa tra i 58 e i 63 anni all’inizio dei rilevamenti nel 1969, si è dimostrato che non è corretto affidarsi a un esito dicotomico (pensionato, non pensionato) se si intende prevedere il comportamento individuale di fronte alla pensione. Il campione è stato limitato ai maschi di razza bianca la cui occupazione principale non era un lavoro autonomo, intendendo per “occupazione principale” il lavoro a tempo pieno svolto all’età di 55 anni. Lo studio ha dimostrato che circa il 3% dei lavoratori non soggetti al pensionamento obbligatorio si trovava in regime di pensione parziale in relazione all’occupazione principale, mentre nell’11% dei casi il pensionamento parziale non riguardava l’occupazione principale. Inoltre, i pensionati parziali aumentavano con l’avanzare dell’età. Per esempio, sull’onda del 1975 la percentuale del campione che denunciava il pensionamento parziale evidenziava un incremento monotonico dal 23,5% a 64 anni fino al 38% a 69 d’età (Gustman e Steinmeier, 1984). Nel 2000 Gustman e Steinmeier si sono occupati nuovamente del pensionamento parziale ricorrendo all’autovalutazione, anche se stavolta hanno utilizzato un insieme di dati diverso, fornito dallo Health and Retirement Study (HRS). Se nel 1992 il 6,3% degli intervistati si dichiarava pensionato parziale, nel 1998 questo dato era salito al 12,7%. L’esame del reddito fornisce un altro metodo per definire il pensionamento parziale. Honig e Hanoch (1985), utilizzando le prime tre onde descritte nei dati RHS ricordati sopra, hanno correlato la nozione di “pensione parziale” al rapporto tra reddito individuale corrente e reddito massimo nel corso della vita lavorativa. Se il rapporto è uguale o inferiore a 0,5 , il soggetto in questione è un pensionato parziale. In base a tale definizione, quasi il 20% del campione si trovava in questa condizione; di questo 20%, il 39% si considerava pienamente in pensione, il 43% in pensione parziale e il restante 18% non si riteneva affatto in pensione. Alcuni studi hanno definito il pensionamento parziale in base al numero di ore lavorate. Per esempio Haider e Loghran (2001), grazie ai dati forniti dal censimento Current Population Survey, hanno scoperto che dal 1996 a tutto il 1998 il 20% di coloro in età compresa tra i 50 e i 58 anni e il 31% di quelli tra i 59 e i 61 anni hanno lavorato a tempo parziale (meno di 1.750 ore annue). Gustman e Steinmeier (2000) sono ricorsi a due metodi per stabilire la condizione di pensionamento parziale basandosi sulle ore di lavoro: numero di ore lavorate normalmente alla settimana (il pensionamento parziale insorgeva tra 1 a 24 ore la settimana) e numero di ore lavorate normalmente all’anno (tra 1 e 1,199 ore all’anno). Grazie al primo indicatore si è stabilito che nel 1992 il 7% degli intervistati si trovava in un regime di pensione parziale, 46 percentuale poi passata al 9,3% nel 1998. Il secondo metodo di misurazione ha invece prodotto risultati leggermente superiori, compresi tra l’8,1% del 1992 e il 10,6% del 1998. Anche la ricerca condotta da Gustman e Steinmeier nel 2000 si basava sulle condizioni lavorative per stabilire l’eventuale regime di pensionamento parziale. Questo insorgeva quando il soggetto aveva abbandonato un impiego a lungo termine (e per “lungo termine” si intendeva almeno 10 anni di assunzione) per passare a una nuova occupazione. In virtù di tale criterio, il 24% delle quattro onde descritte dai dati HRS risultava in pensione parziale, mentre se il periodo di assunzione veniva esteso a 20 anni, la media dei pensionati parziali si attestava al 21% del totale. Nella sua analisi dei dati RHS, Ruhm (1990) ha combinato il criterio del reddito con quello dell’autovalutazione perché temeva che gli eventuali tagli coatti all’orario lavorativo o allo stipendio potessero falsare la distinzione tra pensionamento totale e parziale. In base al criterio seguito, circa la metà del totale dei lavoratori a un certo punto della loro esistenza venivano a trovarsi in un regime di pensionamento parziale, ma solo il 6,2% aveva lasciato parzialmente l’occupazione principale. Ruhm inoltre si è concentrato sulla durata della pensione parziale, scoprendo che questa in media superava i cinque anni (dall’insorgere del pensionamento parziale al pensionamento completo). Tabella 1: Confronto tra le ricerche sul pensionamento parziale: definizioni e risultati Autore(i) (Anno) Definizione di Pensionamento parziale % compresa nel regime di pensione parziale Gustman e Steinmeier (1984) Autovalutazione 33% (“in un dato momento”) Honig e Hanoch (1985) Reddito < 50% del reddito massimo durante la vita lavorativa 19,7% Ruhm (1990) Reddito e autovalutazione Oltre il 50% (“in un dato momento”) Gustman e Steinmeier (2000) Autovalutazione Numero di ore lavorate normalmente alla settimana Numero di ore lavorate normalmente all’anno Abbandono di occupazione ultradecennale Abbandono di occupazione ultraventennale Variazione della retribuzione oraria Variazione della retribuzione settimanale dal 6,6% al 12,9% dal 7,6% al 10,2% Haider e Loughran (2001) Meno di 1.750 ore annue Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, Censimenti della Popolazione. 47 dall’8,6% al 10,9% dal 22,7% al 26,0% dal 19,1% al 23,8% dal 10,1% al 12,6% dall’11,7% al 15,6% Dal 22% per la fascia d’età compresa tra i 55 e i 58 anni al 72% per gli ultraottantenni ancora occupati 3.3 Ricerche sul pensionamento progressivo Ai fini della presente relazione, per “pensionamento progressivo” si intende una riduzione graduale dell’attività lavorativa svolta per il datore di lavoro di lungo termine nel momento in cui un impiegato anziano si sta avvicinando al completo pensionamento. Fino a oggi le ricerche condotte negli Stati Uniti per stabilire quante persone si avvalgano di un tale percorso sono state relativamente poche. Gustman e Steinmeier (1984) sono stati tra i primi a operare una distinzione tra il pensionamento parziale e quello progressivo e hanno scoperto che il 3% del campione analizzato apparteneva al secondo regime. Successivamente, Ruhm ha notato che il 6,2% dei lavoratori compresi nel suo campione era composto da pensionati parziali che continuavano a essere al servizio del loro datore di lavoro principale (Ruhm, 1990: 492). Da ultimi, Even e Macpherson (2004) hanno scoperto che il pensionamento progressivo riguarda una percentuale di lavoratori compresa tra il 2,7% e il 14,3%, a seconda della fascia d’età.6 Secondo l’ERISA Advisory Council (2000) i dipendenti che contemplano la possibilità di andare in pensione in genere considerano con favore l’opzione di un percorso progressivo. Uno studio AARP (2005) ha scoperto che sebbene solo il 19% dei lavoratori anziani considerati fosse a conoscenza dell’espressione “pensionamento progressivo”, dopo avere letto una descrizione del suo funzionamento si avevano dimostrazioni di interesse in quasi il 40% dei casi. Analogamente, Abraham e Houseman (2004) hanno analizzato i progetti futuri dei lavoratori e hanno rilevato un grande interesse per un’eventuale riduzione dell’orario lavorativo. Analizzando i dati HRS relativi alle prime cinque onde, si è scoperto che il 18% degli intervistati avrebbe desiderato una riduzione dell’orario di lavoro, a un ulteriore 5% sarebbe piaciuto cambiare le mansioni svolte, il 25% avrebbe voluto smettere di lavorare del tutto, quasi l’8% non avrebbe mai voluto smettere, mentre oltre il 45% non esprimeva alcuna preferenza o dava una risposta non compresa tra quelle appena viste. Tra chi prevedeva di smettere di lavorare, quasi due terzi realizzavano il proprio proposito, mentre continuava a lavorare l’86% di quelli che avevano espresso un simile auspicio. Tuttavia, solo un terzo di coloro i quali speravano in una riduzione dell’orario lavorativo riuscivano veramente a ottenerla, e cambiava mansioni solo il 22% degli intervistati che si erano espressi a favore di questa opzione. La reazione dei dipendenti di fronte al pensionamento progressivo può variare a seconda delle modalità di funzionamento del piano (cfr. per esempio Bertelsen, 1983; Berry, 1998).7 Lo stesso studio AARP in cui il 40% dei lavoratori aveva dimostrato interesse per tale opzione indicava anche che per il 48% degli intervistati il pensionamento progressivo avrebbe perso di attrattiva se avesse comportato lo svolgimento di mansioni diverse per il medesimo datore di lavoro. Inoltre, il 63% di tutti i lavoratori aveva risposto che una simile soluzione sarebbe risultata meno attraente se accompagnata dalla riduzione delle prestazioni pensionistiche. Analogamente, Even e Macpherson (2004) sostengono che i lavoratori che usufruiscono di fondi pensione hanno meno probabilità di passare a un impiego a tempo parziale rispetto a chi ne è sprovvisto e, tra quelli che fanno questa scelta, chi gode della copertura pensionistica ha maggiori probabilità di cambiare datore di lavoro. Nel caso dei lavoratori che desiderano ridurre l’orario lavorativo o cambiare le mansioni svolte, non risulta sempre possibile frazionare o modificare altrimenti certe funzioni (Abraham and Houseman, 2004). 6 Even e MacPherson (2004) hanno calcolato che il pensionamento progressivo riguarda il 3,9% dei lavoratori in età compresa tra i 50 e i 54 anni, il 2,7% tra i 55 e i 59 anni, il 3,5% tra i 60 e i 61 anni, l’8,3% tra i 62 e i 64 anni e il 14,3% degli ultrasessantacinquenni. 7 Una ricerca relativa alle facoltà universitarie ha rivelato che la percentuale globale di coloro i quali lasciavano l’impiego a tempo pieno aumentava notevolmente, mentre l’incremento dei pensionati a tempo pieno risultava minimo. Prendendo in considerazione fattori analizzabili quali l’età, il reddito, gli anni di servizio e le caratteristiche del lavoro, i dipendenti che usufruivano di un programma di pensionamento progressivo offerto ufficialmente dal datore di lavoro risultavano più simili a chi continuava a lavorare a tempo pieno piuttosto che a coloro i quali optavano per il pensionamento totale. La probabilità di partecipare a questi programmi era anche legata alle prestazioni lavorative, al carico di lavoro e alla massimizzazione del reddito individuale (Allen, Clark and Ghent, 2001). Il caso di una grande università statale ha rivelato che la presenza di un programma di pensionamento progressivo aumentava la probabilità che le facoltà che ottenevano i risultati peggiori dessero prima il via ai pensionamenti (Allen, 2004). 48 A proposito dell’atteggiamento di chi opta per il pensionamento progressivo, l’analisi in Watson Wyatt Worldwide (2004) indica che nel 57% dei casi la scelta è stata volontaria e dettata dal desiderio di disporre di più tempo libero. In questo sottogruppo, il 42% ha spiegato che la progressività era dovuta al fatto che amava lavorare, mentre il 28% aveva bisogno del reddito percepito continuando a lavorare. Tuttavia, il 32% dei partecipanti ai programmi di pensionamento progressivo optava per la pensione completa, per poi tornare a lavorare parttime, nel 40% dei casi per motivi di ordine economico. Quasi il 10% degli intervistati affermava di avere scelto il percorso progressivo a seguito di una ricomposizione delle mansioni e il 60% di questi ultimi continuava a lavorare perché aveva bisogno dello stipendio. Inoltre, i dati forniti da Watson Wyatt Worldwide dimostravano che il pensionamento progressivo può influenzare il momento dell’uscita dal mondo del lavoro: quasi il 25% di coloro i quali avevano scelto questa opzione prevedeva di continuare a lavorare dopo il compimento del 65° anno d’età, mentre il 20% non prevedeva affatto di andare in pensione. Questi risultati sono confermati dalle ricerche relative ai lavoratori anziani, i quali hanno espresso la disponibilità a continuare a lavorare più a lungo di quanto preventivato qualora il datore di lavoro avesse offerto loro programmi di pensionamento progressivo (Watson Wyatt Worldwide, 2004; AARP, 2005). Nel caso dell’indagine AARP (2005), il 78% dei lavoratori anziani interessati al pensionamento progressivo ha affermato che una simile opzione li avrebbe incoraggiati a lavorare anche dopo aver raggiunto l’età pensionabile. Nel corso di un’altra indagine condotta tra i dipendenti di uno dei sistemi scolastici pubblici, il 44% degli intervistati ha affermato che avrebbe preso in considerazione l’eventualità di posticipare il pensionamento completo qualora fosse stata offerta una qualche forma di progressività (Bartle, 1989). Anche i datori di lavoro vedono di buon occhio il pensionamento progressivo, ma la maggior parte dei programmi di questo tipo non è né di ampio respiro né parte di una politica ufficiale scritta (Watson Wyatt Worldwide, 1999; Hutchens, 2003). Un’indagine condotta su 600 grandi aziende private ha rivelato che nel 16% dei casi viene offerto un qualche programma ufficiale per la progressività della pensione, mentre il 40% dei datori di lavoro si dice interessato ad adottare una simile soluzione (Watson Wyatt, 1999). Nel corso di una ricerca riguardante 950 organizzazioni pubbliche e private con almeno 20 dipendenti, Hutchens (2003) ha scoperto che sebbene il 73% dei datori di lavoro concedesse riduzioni di orario prima del pensionamento ufficiale, solo nel 14% dei casi esisteva una politica di progressività scritta e ufficiale generalmente valida per i lavoratori. Programmi di questo tipo sembrano essere più comuni tra le organizzazioni più piccole e non sindacalizzate nel settore dei servizi, anche se sono poi le imprese di grandi dimensioni a formalizzarli più frequentemente. I college e le università, con il loro peculiare sistema di entrata in ruolo, sembrano essere all’avanguardia per quanto concerne la concessione del pensionamento progressivo in seno alle singole facoltà. Un’indagine in questo settore ha rivelato che nel 27% dei casi esistono programmi ufficiali in virtù dei quali il personale di ruolo può andare gradualmente in pensione lavorando part-time per un certo numero di anni prima di smettere del tutto (Ehrenberg, 2001). Spesso accadeva anche che insieme al pensionamento progressivo venissero offerte altre tipologie di gestione delle risorse umane, come il job sharing, la flessibilità degli orari e l’assicurazione malattia per i dipendenti a tempo parziale (Hutchens, 2003). Quasi tre quarti dei datori di lavoro modificavano le prestazioni dell’assicurazione malattia destinate a chi iniziava il processo di pensionamento progressivo, mentre nel 34% dei casi la copertura assicurativa veniva a decadere. Esistono importanti barriere giuridiche, culturali e istituzionali che ostacolano l’applicazione generalizzata dei programmi di pensionamento progressivo. La complessità della normativa fiscale relativa alla distribuzione e alla maturazione delle prestazioni derivanti dai piani pensione può impedire ai datori di lavoro di gestire tali prestazioni in maniera compatibile con i programmi di pensionamento progressivo, anche se di recente il fisco 49 americano ha avanzato proposte volte alla semplificazione di tali aspetti. Inoltre, rimangono incerte le eventuali modalità di applicazione delle leggi contro la discriminazione basata sull’età ai programmi di pensionamento progressivo. Un’ulteriore fonte di preoccupazione per i datori di lavoro è data dalla possibilità che i dipendenti intacchino le prestazioni disponibili, soprattutto nel caso di determinati piani di contributi definiti. È dunque poco probabile che i datori di lavoro istituiscano dei programmi di pensionamento progressivo, soprattutto su larga scala, senza che prima sia stata fatta chiarezza sugli aspetti normativi e sia stata garantita la flessibilità necessaria ad adattare tali programmi alle necessità delle imprese (Chen e Scott, 2003). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI AARP, (2005): Attitudes of Individuals 50 and Older Toward Phased Retirement, Washington, DC: AARP. AARP, (2000): American Business and Older Employees, Washington, DC: AARP. Abraham, K.G., and Houseman, S.N. (2004): “Work and Retirement Plans Among Older Americans”, Employment Research, 11(4): 1-4. Allen, S.G. (2004): “The Value of Phased Retirement”, Working Paper 10531, National Bureau of Economic Research, Cambridge, MA. Allen, S.G., Clark, R.L. and Ghent, L.S. (2001): Phasing Into Retirement. Paper presented at the Society of Labor Economists annual meeting in Austin, Texas. Anderson, M., Tuljapurkar, S. and Li, N. 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(2001): “The Survey of Changes in Faculty Retirement Policies”, American Association of University Professors, Washington, DC, http://www.aaup.org/newweb/Issues/retirement/retrpt.htm. 8 Proposta di regolamento da parte del Dipartimento del Tesoro Americano 114726-04, Federal Register, vol. 69, no. 217, 10 nov. 2004. Le normative proposte dall’Internal Revenue Service in genere prevedono una distribuzione di assegni definiti realizzata in seno a un programma di pensionamento progressivo “autentico”. Chi sceglie questa opzione potrebbe ricevere una quota proporzionale delle prestazioni maturate stabilita in base alla riduzione delle ore lavorate durante il pensionamento progressivo. Il lavoratore potrebbe continuare a maturare le prestazioni previste dal fondo pensione. La proposta si limita solo ad alcuni tipi di erogazione delle prestazioni e non contempla altre questioni come la discriminazione in base all’età o la copertura delle assicurazioni malattia. 50 ERISA Advisory Council (2000): Report of the Working Group on Phased Retirement, U.S. Department of Labor. The Advisory Council on Employee Welfare and Benefit Plans, Washington, DC, http://www.dol.gov/ebsa/publications/phasedr1.htm. Even, W.E. and Macpherson, D.A. (2004): “Do Pensions Impede Phased Retirement?”, Discussion Paper, No. 1353, Institute for the Study of Labor, Bonn, Germany, http://ideas.repec.org/p/iza/izadps/dp1353.html. Federal Interagency Forum on Aging-Related Statistics (2004): “Older Americans 2004: Key Indicators of Well-Being. Washington, DC: U.S. Government Printing Office. http://www.agingstats.gov/chartbook2004/default.htm. 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La saga dei conti individuali previdenziali negli Stati Uniti di Sheila Bair* Riassunto In quanto regime che prevede la ritenuta alla fonte, nel lungo termine la previdenza sociale si scontra con sfide importanti dovute al rapido aumento dei pensionati, al mancato rialzo dei tassi di fecondità e all’incremento della longevità. Purtroppo, negli Stati Uniti il dibattito sui possibili rimedi alla crisi della previdenza pubblica è stato caratterizzato da un muro contro muro. I repubblicani, guidati dall’amministrazione Bush, si sono dichiarati a favore di un parziale finanziamento anticipato del sistema previdenziale tramite la creazione di conti individuali su base volontaria e una graduale diminuzione dell’indice utilizzato per definire le prestazioni iniziali per i lavoratori ad alto reddito. Dal canto loro, i democratici non hanno avanzato proposte di riforma, pur criticando aspramente le proposte relative ai conti individuali in quanto tentativi di “privatizzare” la sicurezza sociale. Dopo una panoramica sulla storia dei conti individuali e sull’attuale dibattito che li riguarda, nell’articolo si giunge alla conclusione che un simile sistema, finanziato stornando le imposte sul ruolo paga che contribuiscono alle prestazioni pensionistiche tradizionali, non rappresenta una strada politicamente praticabile ed è di ostacolo a un dialogo bipartisan sulle possibilità di ovviare ai problemi di solvibilità del sistema previdenziale. Inoltre, l’articolo sposa la strategia proposta dal senatore Robert Bennett (repubblicano eletto nello Utah) che prevede l’avvio di negoziati con i democratici su questo tema a prescindere dal giudizio relativo ai conti individuali. 1. Introduzione In una conversazione informale che abbiamo avuto nel suo ufficio in presenza del suo staff, il senatore Robert Bennett (repubblicano eletto nello Utah) ha avuto modo di affermare: “Per quanto riguarda la previdenza sociale, il Presidente si è trovato a dover scalare due montagne. La prima consisteva nel convincere il popolo americano che esiste un problema di solvibilità, e la cima è stata conquistata brillantemente. La seconda prevedeva invece di perorare la causa di una riforma strutturale e dei conti individuali. Non è ancora giunto in vetta, ma si trova in una posizione migliore per l’assalto finale ora che può sferrarlo partendo dalla sommità della prima montagna”. La metafora descrive efficacemente lo stato attuale del dibattito che ha luogo negli Stati Uniti a proposito della previdenza pubblica, una delle principali eredità del periodo del New Deal e fonte delle prestazioni pensionistiche per vecchiaia, invalidità e superstiti per quasi 48 milioni di americani. Il Presidente ha creato le condizioni politiche per discutere apertamente dei problemi che affliggono il sistema previdenziale, tradizionalmente considerato Dean’s Professor of Financial Regulatory Policy, University of Massachusetts-Amherst. Questo articolo è pubblicato in inglese sui “Geneva Papers on Risk and Insurance”, volume 30, n. 4, ottobre 2005. * 54 l’intoccabile “terzo binario” della politica statunitense. Egli ha inoltre compiuto grandi passi avanti nel convincere l’opinione pubblica dell’esistenza di reali problemi di solvibilità — problemi che non faranno altro che peggiorare quanto più a lungo il Congresso tarderà nell’affrontarli. Tuttavia, non ha ancora raggiunto un consenso sufficiente per riformare il sistema e offrire ai suoi assistiti la possibilità di spostare una parte delle ritenute sugli stipendi su conti individuali che potrebbero essere investiti sui mercati finanziari privati. In realtà i sondaggi più recenti indicano che, nonostante l’intenso sforzo promozionale fatto dall’Amministrazione, il favore del pubblico in relazione ai conti individuali sta scemando. Il Presidente ha spalleggiato lo sforzo compiuto dal Senatore Bennett per affrontare i democratici sul primo aspetto del dibattito (la solvibilità), pur rimanendo fortemente favorevole ai conti individuali. Il Senatore Bennett, imprenditore di successo prima di essere eletto al Senato 13 anni fa, è un membro molto influente della direzione del gruppo repubblicano al Senato. L’anno scorso, durante la sua presidenza del Joint Economic Committee, ha condotto ricerche e interventi di ampio respiro sui problemi che affliggono la previdenza sociale. Al momento della stesura del presente articolo, stava preparando un progetto di legge volto a far fronte al 90% degli ammanchi in termini di finanziamento anticipato del sistema previdenziale tramite la revisione della formula utilizzata per calcolare le prestazioni destinate ai lavoratori ad alto reddito e l’innalzamento graduale dell’età pensionabile. Un secondo progetto di legge, che dovrebbe essere presentato più avanti nel tempo, proporrà i conti individuali previdenziali, oltre ad altre riforme riguardanti il sistema pensionistico privato (entrambe le proposte verranno descritte più in dettaglio nel prosieguo dell’articolo). La strategia del Senatore Bennett consiste nell’indurre i democratici ad abbandonare le proprie posizioni fortemente critiche nei confronti dei conti individuali offrendo in cambio la possibilità di intavolare negoziati separati in materia di solvibilità. Come osservato dal noto commentatore politico David Broder in un recente articolo sul Washington Post, il problema dell’insolvenza è concreto e deve essere risolto. Se i democratici sono persone responsabili, prenderanno Bennett in parola. Un eventuale rifiuto di fronte a una simile offerta indicherebbe che mettono la politica davanti agli interessi della Nazione (Broder, 2005). E gli interessi della Nazione indicano la necessità di agire — prima è, meglio è. Secondo le stime più recenti presentate dagli amministratori dei Social Security and Medicare Trust Funds,1 le prestazioni previdenziali rappresentano già il 4,3% del prodotto interno lordo (PIL) e si prevede che arriveranno al 6,4% del PIL entro il 2079. Tali prestazioni sono finanziate da un’imposta sul ruolo paga del 12,4%. Il gettito fiscale non destinato a coprire prestazioni e spese di amministrazione viene indirizzato verso i Social Security Trust Funds2 e investito in obbligazioni speciali emesse dal governo statunitense. Le eccedenze accumulate nei fondi fiduciari toccheranno il loro massimo nel 2017; a quel punto, il sistema dovrà ricorrere agli interessi sulle obbligazioni per versare gli assegni previdenziali e, a partire dal 2027, dovrà iniziare a rimborsare il debito. Entro il 2041 si esauriranno le eccedenze e le imposte previdenziali sul ruolo paga saranno sufficienti soltanto a coprire il 74% delle prestazioni erogate. Di conseguenza, se il Congresso non agisce subito, gli ammanchi nei finanziamenti Esistono sei amministratori fiduciari dei Social Security and Medicare Trust Funds, che comprendono i Segretari dei dipartimenti del tesoro, del lavoro, della sanità e del welfare, il Commissario per la sicurezza sociale e due membri eletti dal Presidente. Ogni anno gli amministratori forniscono una relazione sullo stato attuale e sullo sviluppo previsto dei Social Security and Medicare Trust Funds per i 75 anni successivi. 2 Questi fondi fiduciari sono stati creati dal Dipartimento del tesoro americano per rendere conto di tutti gli introiti e le spese registrati dal programma. I fondi rappresentano il valore accumulato, compresi gli interessi, di tutte le eccedenze precedentemente registrate. Esistono quattro fondi fiduciari distinti. Le prestazioni per vecchiaia, invalidità e superstiti sono versate dall’Old-Age and Survivors Insurance (OASI) Trust Fund mentre gli assegni di invalidità provengono dal Disability Insurance (DI) Trust Fund. I due fondi sono spesso designati congiuntamente per mezzo della sigla OASDI. Per quanto concerne Medicare, anche in questo caso esistono due fondi fiduciari: lo Hospital Insurance (HI) Fund, che copre le spese di ricovero e correlate, e il Supplementary Medical Insurance (SMI) Trust Fund, che versa gli assegni per l’assistenza medica, ambulatoriale e — a partire dal 2006 — per le prescrizioni farmacologiche. Il presente articolo si occupa esclusivamente delle questioni connesse all’OASDI. Come segnalato da diversi commentatori, i Medicare Funds si trovano di fronte a problemi di solvibilità ancora più gravi, dato che le stime attuali indicano che i fondi per l’assicurazione sanitaria saranno esauriti entro il 2020. 1 55 porteranno a tagli indiscriminati pari al 26%. Al contrario, se il Congresso prende immediatamente l’iniziativa, il sistema potrebbe raggiungere l’equilibrio attuariale grazie a un aumento delle imposte sul ruolo paga del 15%, alla riduzione del 13% delle prestazioni previdenziali o a una qualche combinazione tra queste due misure. Più il Congresso aspetta, più difficili saranno le decisioni da prendere per assicurare la solvibilità a lungo termine del sistema. Togliendo dall’agenda i conti individuali — almeno per il momento — i repubblicani come Bennett sperano di dare una scossa ai negoziati e spingere i democratici a unirsi a loro o a proporre un proprio progetto per garantire la solvibilità previdenziale a lungo termine ed evitare di dover operare in futuro tagli indiscriminati alle prestazioni. Simili riduzioni andrebbero a colpire in maniera sproporzionata le famiglie a basso reddito proprio perché queste si affidano maggiormente alla previdenza sociale per vedere garantito il proprio reddito dopo il pensionamento. Per i nuclei familiari in età pensionabile la previdenza pubblica rappresenta in pratica l’unica fonte di sostentamento. Il destino dei conti individuali è segnato? Oppure i problemi di insolvenza possono essere affrontati separatamente senza impedire ai loro fautori di riprendere la battaglia in un secondo momento? Per rispondere a queste domande è necessario dare qualche informazione preliminare sulla storia della previdenza sociale e sull’evoluzione delle proposte di riforma in materia. 2. Il regime contributivo: l’idea originaria di Franklin Delano Roosevelt Naturalmente, le pecche del sistema previdenziale sono proprie di qualsiasi regime in cui i contributi versati da chi lavora finanziano le prestazioni versate ai pensionati e ad altri beneficiari. Questo tipo di ritenute alla fonte funziona bene quando la forza lavoro cresce a un tasso maggiore rispetto a quello della popolazione dei percipienti. Tuttavia, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, si sta assistendo a un grande cambiamento demografico. L’invecchiamento della generazione del baby boom, insieme a tassi di fecondità costantemente bassi e all’innalzamento della speranza di vita, fa sì che in proporzione ci saranno sempre meno lavoratori a mantenere una popolazione anziana in espansione. In effetti, negli anni Cinquanta si avevano 16 lavoratori per ogni assistito della previdenza sociale; oggi sono poco più di tre, tra una generazione il rapporto scenderà a poco più di due a uno. Ironicamente, quando ha proposto per la prima volta misure legislative in materia di previdenza sociale, il Presidente Franklin Delano Roosevelt aveva in mente un sistema di rendite pensionistiche finanziato dai contributi dei lavoratori stessi. Nel suo messaggio rivolto al Congresso nel gennaio 1935, fece appello a favore di pensioni di vecchiaia non contributive per chi era troppo anziano per finanziarsi un’assicurazione da solo, parallelamente a rendite contributive obbligatorie che nel tempo sarebbero sfociate in un sistema autosufficiente per i giovani e le generazioni future. Di conseguenza, le due disposizioni principali sulla sicurezza sociale adottate dal Congresso nel 1935 furono il Titolo I, che finanziava i programmi previdenziali statali per gli anziani, e il Titolo II, il precursore del sistema odierno, che prevedeva prestazioni basate sui contributi prelevati dal ruolo paga dei lavoratori stessi. È interessante notare che il discorso tenuto da Roosevelt nel 1935 prevedeva anche rendite contributive volontarie grazie alle quali l’iniziativa individuale poteva far lievitare l’importo delle pensioni di vecchiaia. Settant’anni dopo, questo programma è ancora oggetto di discussione. Il nuovo programma previdenziale era volto a garantire un regime contributivo finanziariamente stabile nel quale i lavoratori stessi contribuivano alle prestazioni pensionistiche che avrebbero ricevuto in futuro effettuando versamenti regolari in un fondo 56 comune. Tuttavia, a causa delle necessità economiche verificatesi dopo la Grande Depressione e della forte recessione del 1938, l’anno successivo il Congresso apportò modifiche sostanziali al programma stesso. Nello specifico, vennero aggiunte due classi di prestazioni: quelle dei dipendenti riservate ai pensionati e gli assegni per i superstiti, destinabili alle famiglie nel caso della prematura scomparsa di un lavoratore assistito. Per far fronte all’aumento delle prestazioni, invece di dar luogo a un regime in cui attività e passività si equivalessero, si optò per un sistema volto a trasferire il reddito dalle generazioni più giovani a quelle più anziane. Negli anni ’70 l’ulteriore rafforzamento delle prestazioni, comprendente l’adeguamento automatico al costo della vita, e la situazione economica sfavorevole determinarono la prima grossa crisi nel finanziamento a breve termine del sistema di previdenza sociale. Nel 1977 il Congresso modificò in maniera incrementale sia le imposte sul ruolo paga che le prestazioni previdenziali: una mossa del tutto inadeguata. Nel 1983 il regime previdenziale si trovò a fronteggiare un ammanco finanziario immediato di $150-200 miliardi, oltre a una previsione di insolvenza a lungo termine a causa del futuro pensionamento della generazione del baby boom. Il Presidente Ronald Reagan nominò una commissione bipartisan presieduta da Alan Greenspan la quale, dimostrando notevole visione politica, giunse ad un accordo su un pacchetto di riforme che scongiurò la crisi immediata e permise al sistema di accantonare eccedenze, eccedenze che continueranno ad aumentare fino al 2017. In base alle raccomandazioni della Commissione Greenspan, il Congresso apportò numerose modifiche al sistema, per esempio tassando le prestazioni previdenziali, prevedendo il graduale aumento dell’età pensionabile e includendo i dipendenti federali tra gli assistiti. La Commissione Greenspan aveva guadagnato tempo ma non era riuscita a risolvere i problemi di solvibilità a lungo termine del sistema. L’Amministrazione Clinton incaricò tre commissioni nazionali di analizzare le eventuali possibilità di riforma: si trattava della Bipartisan Commission on Entitlement and Tax Reform (1993-1995), dell’Advisory Council on Social Security (1994-1996) e della National Commission on Retirement Policy (19971998). Tutte e tre le commissioni stilarono relazioni in cui i conti individuali erano annoverati tra le opzioni valide per la riforma. I commenti della stampa indicano che i funzionari del Tesoro avevano preso in seria considerazione una soluzione di questo genere, ma l’Amministrazione Clinton non avanzò alcuna proposta ufficiale in tal senso. 3. Gli sforzi dell’Amministrazione Bush mirati a una riforma strutturale Nel corso della sua prima campagna presidenziale, il Governatore Bush fece riferimento ai conti individuali come a un tassello della sua generale visione della “società dei proprietari”, secondo la quale la proprietà non avrebbe dovuto essere appannaggio di un club esclusivo, né si poteva riservare l’indipendenza a una comunità ristretta: tutti avrebbero dovuto essere comproprietari del sogno americano. Durante il primo anno della sua Amministrazione, il Presidente Bush nominò una commissione bipartisan per esaminare le riforme strutturali — ivi compresi i conti individuali — volte a garantire la sopravvivenza della previdenza sociale. La commissione — presieduta dall’ex senatore democratico Daniel Patrick Moynihan in coabitazione con il dirigente d’azienda Richard Parsons — presentò la relazione finale nel dicembre 2001, concludendo che era giunto il momento di introdurre i conti individuali. Nella relazione venivano illustrati tre modelli di riforma e in tutti si prevedevano mezzi alternativi che permettessero ai lavoratori di “ritagliarsi” una piccola fetta di imposte sul ruolo paga da investire sui mercati azionari e obbligazionari. Le tradizionali prestazioni sarebbero state controbilanciate dai contributi destinati ai conti individuali dei lavoratori. Nel perorare questa soluzione, la Commissione elencò i principali argomenti a favore: 57 • • • • • • i conti individuali avrebbero garantito una parte dei finanziamenti anticipati dei redditi pensionistici, rafforzando così la stabilità finanziaria del sistema, che a sua volta sarebbe risultato più sostenibile. Le pensioni sarebbero state più sicure perché i conti individuali facilitano la creazione di ricchezza da parte dei singoli assistiti dalla previdenza sociale. Sulla scorta di ricerche universitarie, la Commissione Moynihan scoprì che la proprietà patrimoniale contribuisce al verificarsi di mutamenti psicologici e comportamentali comprendenti anche una maggiore sensazione di sicurezza economica e una più spiccata propensione al risparmio. La proprietà patrimoniale avrebbe aumentato la sicurezza, se il diritto alle prestazioni fosse stato costantemente oggetto di contrattazione politica. Analogamente a qualsivoglia diritto acquisito su scala federale, le prestazioni previdenziali risentono di eventuali cambiamenti delle regole, mentre i conti individuali risentirebbero meno di eventuali interventi del Congresso. I conti individuali rappresenterebbero proprietà ereditabili. La Commissione Moynihan scoprì che la possibilità dar luogo alla successione sarebbe un vantaggio in particolare per i lavoratori maschi afroamericani e per altri gruppi demografici caratterizzati in genere da redditi più bassi e inferiore speranza di vita. I conti individuali permetterebbero ai singoli di ricevere utili maggiori sui contributi sul ruolo paga. La maggior parte delle stime indica che nel sistema tradizionale i rendimenti dei contributi derivati dall’imposta sul ruolo paga si aggirano attorno al 2%, mentre i lavoratori potrebbero aspettarsi guadagni notevolmente maggiori da adeguati investimenti sui mercati finanziari, ottenendo così un incremento delle prestazioni globali. Con tutta probabilità i conti individuali determinerebbero un aumento del risparmio a livello nazionale e incoraggerebbero la partecipazione alla popolazione attiva. Poiché le eccedenze della previdenza sociale storicamente sono state usate per permettere la spesa in disavanzo da parte dello Stato, la Commissione giunse alla conclusione che, destinando parte delle imposte sul ruolo paga ai mercati finanziari, il risparmio sarebbe aumentato a livello nazionale. Inoltre la Commissione scoprì che i conti individuali avrebbero fornito un incentivo alla partecipazione alla popolazione attiva perché i contributi avrebbero corso un minor rischio di essere considerati delle “tasse”. Nonostante le reiterate raccomandazioni e le probanti analisi fornite dalla Commissione, l’Amministrazione Bush, consapevole del fatto che i conti individuali si prestavano facilmente alla manipolazione politica, decise di incoraggiare ulteriormente il dibattito pubblico in proposito. Tuttavia, all’inizio del secondo mandato presidenziale, per l’Amministrazione Bush la riforma della previdenza sociale e i conti individuali si trasformarono in una questione interna di primo piano. Il Presidente e l’intera squadra economica portarono avanti un intenso sforzo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui problemi di insolvenza a lungo termine del sistema previdenziale e sull’importante ruolo svolto dai conti individuali per una durevole riforma strutturale. Con eguale energia, gli oppositori — che comprendevano i parlamentari democratici e organizzazioni di base come l’associazione dei pensionati americani (American Association of Retired Persons — AARP) — denunciavano i conti individuali come un tentativo di “privatizzare” la previdenza sociale. Le argomentazioni principali addotte in questo senso erano le seguenti: • Assorbendo parte delle imposte sul ruolo paga, i conti individuali peggiorano la solvibilità e rendono ancor più necessari i tagli alle prestazioni e gli aumenti fiscali. I conti individuali assorbirebbero ricchezza alcuni decenni prima di vedere controbilanciata la riduzione delle prestazioni tradizionali. Per esempio, se ai lavoratori fosse concesso di contribuire ai conti individuali per il 2% del ruolo paga in cambio di una riduzione delle prestazioni tradizionali, al valore attuale non ci sarebbero conseguenze sul sistema previdenziale. Tuttavia il flusso di cassa risulterebbe negativo oltre i 45 anni — il lasso di tempo 58 • • • • necessario affinché le prestazioni compensative superino il reddito reindirizzato (Orszag, 2004). I conti individuali esporrebbero gli assistiti al rischio di mercato, che potrebbe rivelarsi maggiore nel caso dei lavoratori a basso reddito perché in materia di investimento non dispongono delle stesse competenze di chi percepisce redditi elevati. Dato che le pensioni private hanno sposato sempre più la strategia dei fondi di contribuzione definita come quelli denominati 401(k) e IRA, i quali chiedono al lavoratore di assumersi il rischio di mercato dei propri investimenti, non ha molto senso incrementare ulteriormente tali rischi tramite la previdenza sociale. Il lavoratori hanno bisogno di almeno una fonte di reddito stabile e affidabile che tenga il passo dell’inflazione e perduri finché rimangono in vita. Difficilmente i conti individuali offriranno le stesse garanzie delle prestazioni previdenziali nei confronti dell’inflazione, del rischio di esaurire il proprio patrimonio e — per chi è a carico — in caso di decesso prematuro del lavoratore. Di conseguenza, anche se il fatto che siano “ereditabili” può rappresentare un vantaggio per i lavoratori che vivono meno a lungo della media, i conti individuali non garantirebbero lo stesso reddito ai famigliari a carico e ai superstiti. I conti individuali indurranno gli assistiti del sistema previdenziale a usufruire anticipatamente delle relative prestazioni, il che potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza della pensione. In assenza di eccedenze di bilancio o di aumento delle imposte, i conti individuali non contribuiscono al risparmio nazionale, oltre a rendere più incerto il futuro della previdenza sociale a causa della riduzione dei finanziamenti alle prestazioni correnti. Nonostante i grandi sforzi compiuti dall’Amministrazione americana per estendere il consenso popolare sui conti individuali, i sondaggi hanno sempre dimostrato che le argomentazioni opposte riuscivano a far presa sulla maggioranza della popolazione. Secondo l’ultima ricerca Gallup, realizzata il 30 giugno 2005, solo il 44% degli intervistati era favorevole ai conti individuali, mentre il 53% si dichiarava contrario. Le opinioni politiche spiegavano la divisione più netta, essendo due terzi dei repubblicani favorevoli all’idea, mentre quasi tre quarti dei democratici erano contrari. Ma anche le differenze tra fasce d’età risultavano quasi altrettanto nette: il 57% degli intervistati di età compresa tra i 18 e i 29 anni vedeva di buon occhio i conti individuali, così come il 51% del gruppo compreso tra i 30 e i 49 anni d’età. Al contrario, si opponeva il 63% di chi aveva tra i 50 e i 64 anni e il 57% degli ultrasessantacinquenni. Il favore relativamente marcato di cui godevano i conti personali tra le generazioni più giovani trova conferma in un’indagine informale che ho condotto tra i miei studenti, che nella maggior parte sono convinti democratici. In genere essi pensano che, quando andranno in pensione, del sistema di previdenza sociale non sarà rimasto nulla, quindi preferiscono i conti individuali perché li rendono proprietari di un patrimonio. Ma non si tratta dell’unica ragione. Uno studente, tra l’altro un oppositore particolarmente fiero dell’amministrazione Bush, mi ha detto che era favorevole ai conti individuali perché non voleva che le imposte sul ruolo paga da lui versate a fini previdenziali finissero per finanziare la guerra in Iraq voluta dal Governo. 4. Entra in scena il Senatore Bennett In questo scenario, il Senatore Bennett si è fatto avanti con un progetto legislativo caratterizzato da un doppio approccio. In primo luogo, come si è avuto modo di dire, desidera affrontare separatamente i problemi di insolvenza della previdenza sociale e la questione dei conti individuali. Sebbene sia un convinto fautore di questi ultimi, vuole evitare che lo scarso favore di cui godono sia d’inciampo al tentativo di evitare l’insolvenza del sistema previdenziale nel lungo periodo. La proposta di legge volta a coprire gli ammanchi finanziari a lungo termine della previdenza sociale prevede tre componenti. 59 5. Indicizzazione progressiva Quando l’amministrazione responsabile della previdenza sociale stabilisce la pensione iniziale2 di un lavoratore, ne rettifica i redditi precedenti in base all’aumento dei salari. In media i salari crescono più dell’inflazione in ragione di circa l’1% annuo, per cui le prestazioni iniziali così calcolate risultano notevolmente superiori rispetto a una pensione determinata in base all’aumento dei prezzi. La differenza può risultare ragguardevole. Se lo stipendio fosse indicizzato rispetto all’inflazione, chi guadagnava $20.000 nel 1970 oggi percepirebbe $97.454. In altre parole, i $97.454 di oggi garantiscono lo stesso potere d’acquisto che si aveva nel 1970 con $20.000. Tuttavia, se lo stipendio fosse indicizzato sulla crescita dei salari, oggi la stessa persona guadagnerebbe $119.000. L’indicizzazione dei salari tiene conto di tutti i fattori che hanno condotto al miglioramento dello standard di vita e garantisce che le pensioni iniziali cresceranno nel tempo più dell’inflazione. Nell’esempio riportato sopra, il risultato fa pensare che il lavoratore in questione percepisca il 20% in più del reddito effettivo (Joint Economic Committee, 27 aprile 2005). Le opinioni circa l’opportunità di passare dall’indicizzazione basata sui salari a un sistema basato sui prezzi sono discordi. Robert Pozen, esperto finanziario democratico e membro della Commissione Moynihan, ha proposto un approccio denominato “indicizzazione progressiva”, a sua volta fatto proprio dal Senatore Bennett e valutato positivamente dal Presidente Bush. In base a questo sistema, per chi rientra nella fascia salariale più bassa (meno di $25.000 annui), ai fini del calcolo della pensione iniziale gli stipendi passati continuerebbero a essere indicizzati in base all’aumento dei salari. Chi si trova nella fascia più alta (oltre $113.000 annui) sarebbe soggetto all’indicizzazione basata sulla variazione dei prezzi, mentre i lavoratori della fascia intermedia vedrebbero i propri stipendi passati rettificati secondo un “mix progressivo” di aumenti salariali e inflazione (Pozen, 2004). 6. Indicizzazione in base alla longevità ed età pensionabile Per gli americani che compivano 65 anni nel 1945 la speranza di vita media era di 78 anni. Per chi compie 60 anni oggi siamo arrivati a 83 ed entro il 2040 arriveremo a 85 anni. Un simile sviluppo demografico, oltre al mero numero di pensionati della generazione del baby boom, rappresenta uno dei principali fattori che nel lungo periodo determineranno l’insolvenza della previdenza sociale. Praticamente tutti gli esperti di politiche pubbliche che hanno parlato al Congresso si sono raccomandati di affrontare il problema riducendo le prestazioni nel corso dell’esistenza, innalzando l’età pensionabile o combinando in diversi modi queste due soluzioni. Purtroppo, anche se gli esperti in materia vedono di buon occhio l’innalzamento dell’età pensionabile, si tratta di una delle opzioni meno amate dagli americani, i quali, stando ai sondaggi, vogliono andare in pensione prima e non dopo. Con gli emendamenti del 1983 l’età a cui un lavoratore può ritirarsi dall’attività e percepire la pensione per intero (definita Età Pensionabile Normale — Normal Retirement Age o NRA) sarà gradualmente portata a 67 anni nel 2022. La proposta di legge del Senatore Bennett prevede una leggera accelerazione, in virtù della quale la NRA sarà di 67 anni già nel 2017. In seguito le pensioni iniziali verranno corrette periodicamente per tenere conto delle variazioni nella speranza di vita media dei futuri pensionati. 2 Una volta stabilite le prestazioni iniziali, la previdenza sociale statunitense calcola gli adeguamenti automatici annui in base al costo della vita (cost of living adjustments — COLAs), indicizzati sui prezzi al consumo (Consumer Price Index). Molti economisti ritengono che l’indice dei prezzi al consumo sopravvaluti gli incrementi del costo della vita, ma si tratta di una questione distinta che non viene affrontata nel disegno legge di Bennett. 60 Protezione dei lavoratori disabili: il Senatore Bennett prevede di non applicare le modifiche alle formule per il calcolo delle pensioni a chi è affetto da invalidità. Una volta andati in pensione e dopo aver iniziato a percepire gli assegni versati dal fondo Old Age and Survivor Trust Fund, si procederebbe a modificare le formule per il calcolo delle prestazioni. La proposta del Senatore Bennett si occupa esclusivamente della parte dell’equazione che riguarda le prestazioni e per questo è già stata criticata da alcuni democratici che probabilmente preferiscono aumentare le tasse per ristabilire la solvibilità del sistema. L’eventualità che il Senatore Bennett riesca a portarli al tavolo dei negoziati dipenderà dai calcoli politici che essi faranno per stabilire che cosa sia meno dannoso: 1) sviluppare una proposta per risolvere il problema che comporterà necessariamente un aumento delle tasse, tagli alle prestazioni o entrambi i provvedimenti; 2) non fare nulla, peggiorando il taglio alle prestazioni e l’aumento delle tasse necessari in futuro. A complicare la vita al Senatore Bennett vi sono alcuni senatori repubblicani dell’ala conservatrice che insistono affinché la solvibilità e i conti individuali siano affrontati nello stesso pacchetto. Egli deve riuscire a convincere da un lato i senatori democratici del fatto che hanno tutto l’interesse a negoziare e dall’altro i fautori dei conti individuali del fatto che un eventuale accordo sulla questione della solvibilità non pregiudicherebbe la possibilità di arrivare a una riforma strutturale. Che cosa direbbe il Senatore Bennett in materia di conti individuali? La sua proposta prende atto del fatto che i conti individuali a fini previdenziali sono solo uno dei fattori volti a garantire la sicurezza della crescente comunità dei pensionati americani. Di conseguenza, tiene conto della necessità di operare riforme strutturali sia nel sistema previdenziale pubblico che nel regime pensionistico privato. Conti individuali previdenziali “intagliati”: in opposizione ai conti “ritagliati” previsti da altre proposte in materia, il Senatore Bennett proporrebbe di “intagliare” volontariamente tali conti. Secondo quest’approccio, il lavoratore destinerebbe un ulteriore 2% del proprio stipendio a un conto individuale. Se opta per questa soluzione, sul conto individuale verrebbero versati anche contributi dalle imposte sul ruolo paga in ragione del 2% dello stipendio considerato. Le prestazioni offerte dal sistema tradizionale verrebbero rettificate per rispecchiare il minore livello contributivo del lavoratore in questione. L’approccio basato sull’”intaglio” — cioè sul fatto che i lavoratori contribuiscano a finanziare i conti individuali con ulteriori contributi volontari sul ruolo paga — dovrebbe servire a ridurre i costi transitori determinati dai conti “ritagliati”, cioè quelli finanziati interamente tramite le imposte sul ruolo paga già in vigore. In questo modo, si controbatte a uno dei principali argomenti addotti in opposizione ai conti individuali, ovvero il fatto che, anche se nel lungo periodo finiscono per migliorare la solvibilità del sistema, nella fase di transizione essi non fanno che peggiorare i problemi finanziari della previdenza sociale, spostando risorse fiscali che altrimenti verrebbero destinate a contribuire alle prestazioni tradizionali. Il Senatore Bennett risponderebbe a chi dubita che sia opportuno che, per mezzo dei conti individuali, i lavoratori si assumano il rischio di mercato limitando le possibilità di investimento al ventaglio relativamente ristretto oggi disponibile per i dipendenti federali in base al programma Thrift Savings Plan (TSP). Il TSP si configura essenzialmente come un programma di tipo 401(k) destinato a chi lavora per il governo federale. Creato nel 1986, è caratterizzato da cinque possibilità di investimento ben distinte: un fondo di investimento (di società) a rendimento fisso, un fondo d’investimento indicizzato in azioni ordinarie, un fondo indicizzato in titoli a bassa capitalizzazione; un fondo d’investimento indicizzato in titoli internazionali. I fondi sono ben gestiti e le spese contenute, perciò hanno riscosso un notevole successo tra i dipendenti federali, con una partecipazione superiore all’85%. Riforma delle pensioni private: il pacchetto del Senatore Bennett prevederà anche riforme 61 volte a far crescere la partecipazione ai regimi pensionistici privati, aumentando la quota di risparmio a essi destinata. Il progetto si basa sulle ricerche condotte dal Professor Richard H. Thaler presso l’Università di Chicago nel tentativo di conciliare le moderne teorie psicologiche e le analisi economiche. Gli studi svolti da Thaler hanno stabilito che la partecipazione dei dipendenti ai programmi pensionistici promossi dai datori di lavoro è soprattutto il frutto dell’inerzia: se l’adesione viene resa automatica, i tassi di partecipazione si alzano a dismisura. Parlando al Congresso, Thaler ha citato il caso di una società che registrava un tasso di partecipazione al proprio progetto 401(k) pari al 49% dei nuovi assunti. In questo caso si era ricorsi all’adesione esplicita: i dipendenti dovevano riempire un modulo in cui affermavano di voler partecipare al programma. A un certo punto la società è passata al silenzio-assenso, cioè ha comunicato ai dipendenti che sarebbero stati inseriti automaticamente nel programma 401(k) a meno che non avessero firmato un modulo con cui chiedevano di esserne esclusi. In seguito a questa variazione, il tasso di adesione tra i neoassunti è schizzato all’86% (Thaler, 10 marzo 2004) Inoltre Thaler ha scoperto che è più facile convincere i lavoratori a risparmiare in futuro invece di aumentare la fetta di reddito attualmente destinata al risparmio. Di conseguenza, con il suo collaboratore Shlomo Benartzi della University of California at Los Angeles (UCLA), ha sviluppato il Save More Tomorrow Plan (progetto “Risparmia di più domani”), noto anche con la sigla SMarT, in base al quale i datori di lavoro contattano i lavoratori pochi mesi prima del successivo scatto di stipendio, chiedendo se desiderano aumentare la quota di risparmio nel momento in cui ricevono l’aumento. Come nel caso del silenzio-assenso, SMarT ha riscosso un enorme successo. Thaler menziona un esempio in cui oltre l’80% dei dipendenti contattati ha aderito al programma, quadruplicando il proprio tasso di risparmio nel giro di due anni. Le proposte del Senatore Bennett tengono conto dei risultati della ricerca nella misura in cui spingono i datori di lavoro a imporre l’adesione automatica (silenzio-assenso) ai programmi 401(k) e altri piani pensionistici fondati sulla sospensione d’imposta, oltre a offrire programmi del tipo “SMarT” per permettere ai dipendenti di risparmiare automaticamente una percentuale maggiore dei futuri aumenti di stipendio. Come incentivo, secondo il progetto di legge di Bennett, i datori di lavoro che offrono questi programmi sarebbero considerati in regola con diversi requisiti anti-discriminazione — norme complesse volte a garantire che i benefici fiscali associati ai piani pensionistici per i dipendenti non vadano indebitamente a vantaggio dei lavoratori con gli stipendi più alti. Se le ricerche di Thaler sono affidabili, l’adozione generalizzata dell’adesione automatica ai programmi SMarT potrebbe portare a un sensibile miglioramento del tasso di risparmio tra i lavoratori americani. 7. Ce la farà il Senatore Bennett? Il dibattito sulla sicurezza sociale è giunto a un’impasse a causa dei conti individuali. La strategia del Senatore Bennett sembra la più promettente se si desidera dare una scossa ai negoziati sulla solvibilità pur continuando a permettere ai repubblicani di fare pressione a favore dei conti individuali. I fautori di questi ultimi — i quali possono contare sul migliore portavoce possibile, il Presidente Bush — negli ultimi 18 mesi si sono adoperati senza risparmiarsi per spiegarne i benefici al pubblico. Tuttavia, le buone politiche non sempre sono realizzabili. I medesimi cambiamenti demografici causa dei problemi finanziari della previdenza pubblica sono in parte responsabili del clima politico ostile alle riforme strutturali. Gli americani in pensione o prossimi al pensionamento aumentano vertiginosamente e dispongono di lobby molto sofisticate ed efficaci che si oppongono ai conti individuali. Gli anziani sono quelli che meno hanno da guadagnare — e più da temere — dai conti individuali 62 per via dall’andamento dei costi di transizione. I lavoratori più giovani — quelli che hanno più da guadagnare dai conti individuali e da perdere a seguito dei futuri tagli alle prestazioni se il Congresso continuerà a non fare nulla — formano una forza politica meno potente e non dispongono di una lobby organizzata in maniera efficiente. Inoltre, le associazioni di anziani e i loro rappresentanti sono spinti da motivazioni più forti perché si trovano a dovere difendere in concreto le prestazioni tradizionali. Al contrario, per i giovani i conti individuali non sono altro che un’astrazione politica. Tutto quello che si poteva fare per promuovere i conti individuali è stato fatto e più si va avanti, più il consenso pubblico sembra scemare, invece di crescere. Inoltre, il muro contro muro a livello politico sulla questione impedisce un dialogo costruttivo in un settore in cui tutte le generazioni desiderano che si faccia qualcosa per garantire la solvibilità del sistema. Forse è il caso di mettere da parte i conti individuali, almeno per un po’. Le richieste insistite affinché i tentativi di riforma affrontino entrambe le questioni simultaneamente potranno solo condurre a un atteggiamento ancor più demagogico da entrambe le parti sul problema della “privatizzazione” della previdenza sociale, spaventando ulteriormente gli americani e contribuendo a nascondere il fatto che i fautori dei conti individuali non sono riusciti a presentare una proposta alternativa. Inoltre, chi è favorevole ai conti individuali dovrebbe prestare orecchio alle proposte di modifica avanzate dal Senatore Bennett. Persino i democratici hanno ammesso che i conti individuali potrebbero favorire i lavoratori a basso reddito, di cui solo un quinto aderisce a piani di pensionamento privati tipo 401(k) o IRA. I democratici hanno fatto capire che appoggerebbero i conti individuali che si configurassero come “strumenti paralleli”, cioè finanziati da contributi aggiuntivi rispetto alle imposte sul ruolo paga. L’opera di “intaglio” che caratterizza l’approccio del Senatore Bennett rappresenta un buon compromesso tra il “ritaglio” dei conti e le mere “aggiunte”. Adottando tale approccio, da astrazione politica i conti individuali diventerebbero una realtà concreta, otterrebbero un maggior consenso e forse si creerebbe un clima migliore anche per riforme di più ampio respiro. Recentemente mi è capitato di chiedere al mio ex datore di lavoro, il Senatore Robert Dole, nel 1983 Presidente della Commissione finanze al Senato e co-presidente della Commissione Greenspan, perché allora si era riusciti a raggiungere un accordo bipartisan, mentre oggi sembra impossibile. La risposta è stata semplicissima: “Dovevamo fare qualcosa o non sarebbe stato possibile pagare le pensioni”. Speriamo che il Congresso stavolta non aspetti di scorgere una crisi dietro l’angolo prima di agire. Le decisioni si faranno più difficili ogni anno che passa. Io sono un esponente della generazione del baby boom ma un sistema previdenziale insolvente non è il tipo di eredità che desidero lasciare ai miei figli, e penso che altri esponenti della mia generazione siano d’accordo con me. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI American Association of Retired Persons (2005): “Policy on Social Security”, http://www.aarp.org. Broder, D. (2005): “A Social Security Plan to Talk About”, Washington Post, June 2. 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Washington Times (2005): “Bill Clinton’s Social Security Options”, January 30. 64 Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 65-81 Lavorare oltre i 60 anni: aspetti fondamentali e raccomandazioni di Geneviève Reday-Mulvey* Riassunto Questo articolo dedicato al lavoro oltre i 60 anni consiste innanzitutto in una breve panoramica su alcuni aspetti e risultati illustrati in un volume pubblicato di recente dall’autore, in cui si dimostra come i vincoli demografici e pensionistici possano rappresentare una sfida costruttiva alla luce dei nuovi scenari sociali e occupazionali, oltre ad analizzare il modo in cui la riduzione dell’orario lavorativo e la promozione della gestione dell’età possono contribuire al prolungamento della vita lavorativa. Nella seconda parte dell’introduzione si riporta un estratto del capitolo 9 del libro, riguardante il bisogno di equità, diversità e flessibilità. Nella terza parte si riassumono le principali raccomandazioni politiche fatte. Parole chiave: occupazione; pensioni; lavoratori anziani; politiche pubbliche sociali e occupazionali; gestione dell’età in azienda. 1. Introduzione A causa dei cambiamenti demografici presenti e futuri, tutti i membri dell’UE hanno recentemente proceduto a importanti riforme dei sistemi pensionistici. Tali innovazioni in genere prevedono l’innalzamento dell’età pensionabile, (o l’aumento degli anni di contribuzione), una maggiore flessibilità riguardo al pensionamento obbligatorio e sforzi tesi a estendere il periodo di contribuzione necessario a ricevere le prestazioni pensionistiche nella loro interezza. In poche parole, si incoraggiano un pensionamento tardivo e più flessibile e la combinazione di pensione e reddito da lavoro. I responsabili a livello politico e la Commissione europea1 hanno anche compreso che per applicare tali riforme e rispondere in maniera efficace alle sfide demografiche è essenziale rafforzare il tasso di attività dei lavoratori “anziani”. Se è diventato chiaro perché sia necessario lavorare oltre i 60 anni, rimane da decidere chi e come sia chiamato a farlo. Nel contesto del Programma dei quattro pilastri, l’Associazione di Ginevra, già da 20 anni consapevole della necessità di definire politiche globali in grado di affrontare la crisi dei nostri sistemi di previdenza sociale, si è fatta promotrice del prolungamento flessibile della vita lavorativa (il “quarto pilastro”), uno dei passi essenziali da compiere per garantire il finanziamento delle pensioni in futuro.2 Tuttavia, se si vuole che il prolungamento della vita lavorativa risulti fattibile e sufficientemente generalizzato, è necessario tenere in The Geneva Association, 53, rue di Malagnou 1208, Switzerland, E-mail: [email protected]. Geneviève Reday-Mulvey è a capo del Programma dei Quattro Pilastri presso l’Associazione di Ginevra e nel 2005 ha pubblicato il libro Working Beyond 60: Key Policies and Practices in Europe, Palgrave Macmillan, Basingstoke. Questo articolo è apparso in inglese sui Geneva Papers on Risk and Insurance, volume 30, n. 4, ottobre 2005. 1 European Commission (2003a, b). 2 Delsen and Reday-Mulvey (1996). * 65 considerazione i desideri e le necessità di lavoratori e aziende. Il Programma dei quattro pilastri si è concentrato sull’idea del pensionamento graduale innanzitutto come possibile modalità di transizione tra l’uscita dal mondo del lavoro e il raggiungimento dell’età pensionabile e in seconda battuta in quanto percorso “naturale” verso il prolungamento della vita lavorativa. È emerso che part-time e flessibilità riflettono i recenti cambiamenti avvenuti a livello di mercato del lavoro, del settore dei servizi e delle nuove strutture sociali che influiscono sul ciclo biologico. Si è quindi proposto di affiancare politiche mirate a incoraggiare impieghi part time e flessibili dopo i 60 anni ad altre misure volte alla gestione dell’età (per esempio la formazione permanente o continua), parallelamente a una diversificazione delle carriere che permetta ad alcune categorie di lavoratori di andare in pensione prima di chi svolge compiti di natura principalmente intellettuale. 2. Breve panoramica sui contenuti del volume Working Beyond 60 2.1 Lavorare oltre i 60 anni: perché? Limiti e opportunità Probabilmente è l’allungamento della vita la conquista principale del XX secolo: non solo si vive più a lungo, ma si è anche avuto un miglioramento delle condizioni di salute della popolazione di età compresa tra i 60 e gli 80 anni. Rispetto a mezzo secolo fa, le persone vivono in buona salute tra 10 e 20 anni di più. Non è solo la vecchiaia a durare di più: anche l’età adulta si è allungata e i giovani oggi possono dedicare allo studio un numero maggiore di anni. Di conseguenza, si va in pensione prima che si sia superata la soglia della terza età, che dunque va ridefinita perché non corrisponde più al momento del pensionamento, tantomeno a quello dell’abbandono della vita attiva.3 Rimane però senza risposta la domanda più importante: come riusciremo a finanziare 20 anni di pensione per gli uomini e 25 per le donne (media delle proiezioni nell’Europa dei 15)? Nel corso degli ultimi due decenni, il prepensionamento è diventato una pratica generalizzata e si è progressivamente trasformato in un importante paradosso sociale, costituendo spesso un’esperienza difficile per i lavoratori a causa della mancanza di un periodo di transizione vero e proprio tra lavoro e pensione a tempo pieno. Il problema derivante da un’uscita relativamente anticipata dal mercato del lavoro si è fatto sempre più pressante man mano che si allungava la speranza di vita in buone condizioni di salute, per cui un numero crescente di sessantenni restava attivo e sano pur essendo estromesso del tutto dal mondo lavorativo. In diversi Paesi, soprattutto nell’Europa continentale (per esempio Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi e Austria), e in molte aziende (in particolare quelle più grandi) questa situazione è stata e continua a essere ritenuta da molti un nuovo “diritto sociale”.4 Previsioni demografiche e limiti di bilancio hanno costretto i membri OCSE a una profonda revisione e a un aggiornamento dei rispettivi sistemi previdenziali, soprattutto per quanto riguarda i regimi pensionistici. Rimane però la questione principale: come rendere possibile il lavoro dopo i 60 anni? Come incoraggiare aziende e dipendenti ad adottare un approccio costruttivo che renda possibile per entrambi prolungare il rapporto di lavoro oltre i limiti odierni? 2.2 Nuovi scenari sociali e occupazionali Negli ultimi anni, per la maggior parte di noi il ciclo biologico è profondamente mutato: l’organizzazione della vita lavorativa in tre periodi verticali distinti in base all’età (formazione, 3 4 Auer and Fortuny (2000). Guillemard (2003). 66 lavoro e pensione) sta gradualmente cedendo il passo a una classificazione orizzontale in cui studiamo, lavoriamo, mettiamo su famiglia, passiamo il tempo libero e andiamo in pensione secondo modelli diversi da quelli seguiti in passato. La formazione continua e permanente cominciano a essere considerate parti integranti dell’esistenza e dell’esperienza professionale di ciascuno; il tempo parziale e il lavoro flessibile hanno guadagnato molto terreno; la maggior parte delle persone non è più “anziana” a 60 o 65 anni (rimaniamo giovani e in buona salute per più anni: O. Giarini parla di svecchiamento5) e molti “invecchiano attivamente”, svolgendo attività di volontariato e compiti in ambiente famigliare che sono essenziali per le nostre comunità. L’andare in pensione da un giorno all’altro era una temibile mannaia per generazioni di lavoratori che, in base alle indagini effettuate, desiderano fortemente un periodo di transizione tra l’impiego a tempo pieno e il pensionamento completo. L’effetto di coorte farà sì che chi va in pensione oggi (e ancor più chi lo farà nei prossimi anni e decenni) è e continuerà a essere molto diverso dai pensionati di ieri, i quali hanno iniziato a lavorare quando erano molto giovani, spesso in condizioni disagiate. Le nuove tendenze occupazionali sono favorevoli al prolungamento dell’età lavorativa oltre i 60 o anche i 65 anni. Se non consideriamo solo le attività strettamente appartenenti al terziario ma anche i servizi prestati nella produzione e nell’agricoltura (per esempio ricerca, pianificazione, marketing, manutenzione, gestione magazzini, controllo qualità, sicurezza e igiene sul lavoro, distribuzione), oggi l’80% delle occupazioni svolte nella nostra economia rientra tra i servizi e questa percentuale è destinata a crescere nei prossimi anni. Nel settore nei servizi, non solo il lavoro part-time e flessibile è più frequente, ma gran parte delle mansioni prevede soprattutto competenze intellettuali e sociali. Le seconde difficilmente peggiorano col tempo e in certi casi possono persino migliorare. Non solo la manodopera è invecchiata ed è caratterizzata da un tasso di partecipazione femminile più alto, le donne e gli anziani rappresentano risorse disponibili non ancora sfruttate. Tuttavia, si tratta di due categorie di lavoratori spesso impiegate part-time nei servizi e che si dichiarano disposte a lavorare anche dopo aver compiuto 60/65 anni se viene loro offerta la possibilità di flessibilizzare le proprie mansioni. Quindi, eventuali politiche volte ad aiutare donne e anziani a conciliare il lavoro con gli impegni familiari e i limiti fisici, migliorando le prestazioni pensionistiche, daranno un contributo tangibile nel far fronte alla sfida posta dall’invecchiamento della popolazione. Il miglioramento dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro permetterà agli anziani di condurre una vita attiva più lunga. 2.3 Lavorare oltre i 60 anni: come? Riduzione dell’orario di lavoro e promozione della gestione dell’età 2.3.1 Riduzione dell’orario di lavoro La riduzione dell’orario di lavoro è fondamentale per facilitare e incoraggiare il lavoro sopra i 60 anni. La ricerca scientifica ha dimostrato che oltre questa soglia i lavoratori non sono meno efficienti o produttivi rispetto ai giovani, anche se spesso evidenziano punti di forza e debolezza specifici: le prestazioni fisiche diminuiscono con l’età ma le capacità intellettuali e sociali migliorano, soprattutto in condizioni di stress contenuto.6 Il tempo pieno dopo i 60 anni risulta apprezzato solo da una minoranza dei lavoratori, quelli più motivati che spesso sono autonomi o in grado di gestire gli impegni in modo flessibile. I vantaggi del lavoro part-time (e del pensionamento graduale) sono notevoli sia per i datori di lavoro (per esempio riduzione dei costi, maggiore produttività, ridotto assenteismo), come 5 6 Cfr. per esempio The Four Pillars Newsletter, 27 agosto 2000. Ilmarinen (1999). 67 dimostrato dalle scelte operate in azienda, sia per i dipendenti (per esempio minor stress e migliori condizioni di salute, maggiore soddisfazione dal lavoro, transizione tra l’impiego a tempo pieno e il completo pensionamento), ma anche per la comunità (per esempio gettito contributivo superiore, riduzione del lavoro nero). Il tempo parziale può essere un ponte efficace tra l’età in cui avviene l’effettiva uscita dal mondo del lavoro (per esempio 60 anni) e l’età pensionabile stabilita per legge: talvolta ci si riferisce a questa soluzione col termine di prepensionamento parziale. Paesi come la Finlandia, la Francia e la Germania sono riusciti a sfruttare tale possibilità con successo. Nel lungo periodo, il lavoro part-time diventerà idealmente un prolungamento della vita lavorativa oltre i 65 anni, e questo per diversi motivi: il bisogno di far fronte all’innalzamento dell’età pensionabile, di aumentare gli anni di contributi e di offrire pensioni migliori (per esempio alle donne); il desiderio di continuare a sentirsi attivi, utili e parte dell’azienda; i vantaggi derivanti dall’esercizio delle proprie capacità mentali, sociali e fisiche.7 2.3.2 Politiche pubbliche di interesse recentemente adottate nei Paesi dell’UE Le organizzazioni sovranazionali e le parti sociali hanno svolto un ruolo importante, aiutando i singoli Stati a definire e adottare politiche e obiettivi atti a invertire l’attuale tendenza al prepensionamento. In particolare, per il 2010 la Commissione europea ha definiti due obiettivi principali: in primis il raggiungimento di un tasso di occupazione del 50% per i lavoratori in età compresa tra i 55 e i 64 anni; in seconda battuta, l’innalzamento di cinque anni dell’età a cui si smette di lavorare (età di effettivo abbandono della vita attiva).8 Negli ultimi anni, diversi Paesi dell’UE hanno adottato una politica globale o un approccio olistico che potrebbero essere presi a esempio da altre nazioni: alla riforma delle pensioni si sono aggiunte riforme dei sussidi di invalidità e disoccupazione, incentivi a trovare lavoro e misure che si sono già tradotte in vantaggi pratici, come le seguenti: • l’età di uscita dal mondo del lavoro è stata aumentata di due anni in Finlandia e nei Paesi Bassi; • in Finlandia, Danimarca e nei Paesi Bassi si è avuta una diminuzione dei sussidi di disoccupazione; • in totale, il 60% delle aziende danesi ha adottato una o più misure incentivanti per la gestione dell’età;9 • le autorità del Regno Unito hanno convinto molte aziende a ricorrere al pensionamento flessibile ed adottare un codice di condotta adeguato, mentre si è incentivato economicamente il ritorno al lavoro da parte degli anziani; • i Paesi Bassi hanno incoraggiato il lavoro atipico, con particolare riferimento al part-time durante gli ultimi anni della carriera. Altri membri dell’UE, nella maggior parte dei casi caratterizzati da un alto tasso di abbandoni anticipati del mondo del lavoro, hanno cercato di invertire la tendenza attuale adottando politiche specifiche, benché i risultati ottenuti finora siano risultati modesti: • la Germania e la Francia hanno approvato la riforma delle pensioni e della previdenza sociale, per esempio sostituendo il prepensionamento completo con quello a tempo parziale; attualmente sono impegnate nell’adozione di misure di più ampia portata. 7 8 9 Reday-Mulvey (2000-2005). European Commission (2004). The Geneva Association (2003). 68 • • • L’Italia ha proceduto a una drastica riforma delle pensioni, ma ora deve affrontare il problema della disoccupazione. La Svizzera rappresenta un caso particolare perché evidenzia un alto tasso di disoccupazione dopo i 60 anni in assenza di politiche ufficiali a riguardo (con l’eccezione di una previdenza sociale non molto generosa), mentre solo di recente è emersa la tendenza all’uscita anticipata dal mondo del lavoro. L’Ungheria ha compiuto una svolta drastica in materia di pensioni, finora senza però registrare alcun risultato in termini di disoccupazione. 2.3.3 Misure chiave volte alla gestione dell’età recentemente adottate dalle imprese dell’UE La gestione dell’età10 in ambito aziendale comprende: la riduzione degli orari di lavoro, l’adozione di pensioni graduali/flessibili e del lavoro part-time, la pianificazione delle carriere, la formazione permanente e continua, ergonomia e mobilità, gli scatti di anzianità, i regimi pensionistici, valorizzazione delle differenze d’età, la prevenzione della discriminazione in base all’età e i codici di condotta. Per ciascuna di questi settori vengono esaminate alcune aziende che hanno ottenuto risultati positivi. Riportiamo di seguito gli esempi principali: • riduzione degli orari di lavoro, pensioni graduali/flessibili e lavoro part-time: si tratta di misure relativamente facili da adottare e sia le imprese britanniche che quelle europee ne hanno tratto beneficio mantenendo intatte l’esperienza e la cultura aziendali, migliorando la soddisfazione dei clienti, andando incontro ai bisogni dei consumatori legati all’età, riducendo l’assenteismo (per esempio in Francia) e migliorando la propria immagine. • Pianificazione delle carriere: sono riscontrabili esempi positivi in Germania, Norvegia e Francia (per esempio in Axa France la pianificazione delle carriere incoraggia la mobilità delle mansioni all’interno dell’azienda). • La formazione permanente e continua è ritenuta fondamentale e sta diventando sempre più comune nelle aziende di grandi dimensioni della maggior parte dei Paesi, ma soprattutto in Svezia, Germania, Francia, nei Paesi Bassi e nel Regno Unito. • Ergonomia e mobilità. • Le modifiche al sistema di indicizzazione dei salari all’anzianità procedono lentamente ma sono essenziali se si intendono prevenire le discriminazioni nei confronti dei lavoratori anziani. • I regimi pensionistici, che in passato spesso tenevano conto dell’ultimo stipendio (per esempio nei Paesi Bassi e nel Regno Unito), oggi vengono modificati per prendere in considerazione gli ultimi 10 o 20 anni al massimo. • Misure atte a prevenire le discriminazioni in base all’età: entro il 2006 tutti i membri dell’Europa dei 15 devono aver approvato leggi in proposito, e molti (chi più, come i Paesi Bassi, chi meno) lo hanno già fatto. • In diversi Paesi le autorità governative hanno approntato codici di condotta, poi approvati dalle aziende, che prevedono linee guida valide per datori di lavoro e dipendenti: il Regno Unito offre uno degli esempi migliori.11 Esiste anche un codice di condotta europeo che disciplina il rapporto tra età e occupazione. 10 11 Walker and Wigfield (2003). Taylor (2003). 69 3. Chi potrebbe e vorrebbe lavorare dopo i 60 anni? 3.1 Il bisogno di tener conto delle differenze e l’importanza dell’equità Quando le aziende adottano e applicano politiche volte al prolungamento della vita lavorativa, grande importanza viene assegnata al bisogno di tener conto delle differenze. Ciò avviene perché gli accessi al mercato del lavoro avvengono a età diverse e in situazioni personali differenti, come diversa è l’aspettativa di vita di ciascuno. 3.2 Periodi di istruzione e formazione prolungati Nel corso delle ultime due generazioni, in tutti i Paesi sviluppati si è avuta una vera e propria rivoluzione in seguito alla quale in genere i giovani beneficiano di periodi di istruzione e formazione molto più lunghi che in passato, risultando maggiormente qualificati. Mai come ora i giovani sono entrati tardi a far parte del mondo del lavoro. Pur con variazioni in funzione dei singoli Paesi, in genere ciò avviene intorno ai 20 anni o anche dopo. Per esempio, l’età media in cui si inizia a lavorare risulta tra le più alte dell’UE in Francia e in Germania (rispettivamente 21 e 22 anni), è leggermente inferiore nel Regno Unito (circa 20 anni) e tocca la soglia minima in Danimarca, dove si avvicina ai 18 anni. Questi valori differiscono enormemente dall’età in cui hanno iniziato a lavorare molti di coloro i quali stanno per andare in pensione oggi (tra i 14 e i 17 anni). Il momento in cui i giovani ottengono il primo impiego cambia non solo da una generazione all’altra, ma anche nello spazio di una sola generazione e dipende principalmente dal livello di istruzione raggiunto. Ovviamente, se il sistema pensionistico prevede almeno 40 anni di contributi, risulterà fondamentale l’età a cui si inizia a lavorare. Proprio per questo motivo, molti sociologi pensano che sia ingiusto imporre a tutti la medesima età pensionabile. A ciò si aggiunga che le mansioni svolte differiscono enormemente a seconda del settore e della categoria professionali considerati. Per esempio, i lavoratori del comparto dell’edilizia non sono evidentemente in grado di continuare a svolgere le proprie mansioni per 40 anni ed è assolutamente necessario prevedere un’età pensionabile diversa. 3.3 L’età pensionabile deve essere stabilita in funzione delle condizioni di lavoro? L’età pensionabile dovrebbe dunque essere stabilita in base alle condizioni più o meno usuranti del lavoro svolto? In linea di principio la risposta è sì, ed è proprio per questo motivo che ciò già avviene, tra gli altri, nel caso dei vigili del fuoco, del personale militare e dei piloti di aerei. Oggi tutti i Paesi prevedono condizioni specifiche per determinate categorie di lavoratori. In Svizzera, l’età pensionabile delle donne va aumentando e, dietro consiglio dell’OCSE, si sta considerando la possibilità di arrivare a 67 anni per tutti. Ciononostante, qualche anno fa, l’età pensionabile degli addetti all’edilizia è stata ridotta da 65 a 60 anni in considerazione delle condizioni di lavoro usuranti, ma anche per abbassare il tasso di invalidità del comparto. Anche se il fattore appena descritto è stato e in parte continua a essere responsabile dei pensionamenti anticipati in alcuni settori, in molti casi si è verificato un netto miglioramento. In passato nelle miniere di carbone il lavoro era estremamente usurante, ma nella maggior parte degli Stati europei, se non in tutti, i minatori si possono dire estinti: oggi forse guidano un treno ad alta velocità e, anche se sotto molti punti di vista tale compito comporta maggiori responsabilità, non è certamente faticoso come lo era condurre una locomotiva a vapore 50 o 60 anni fa. 70 È necessario mantenere i privilegi e le prerogative concessi in passato ora che la situazione è cambiata? Quasi sicuramente no. Tuttavia, in molti casi, la seconda metà della vita lavorativa va profondamente riconsiderata e ridisegnata per prevedere mansioni che richiedano minor sforzo fisico e risultino più sedentarie. In alternativa, i vigili del fuoco e le infermiere che devono andare in pensione prima dei loro coetanei potrebbero trovare un impiego part-time di altro tipo. Per esempio i settori dell’educazione, delle iniziative culturali e della formazione offrono molte opportunità per iniziare una nuova “carriera”. Gli esempi sono numerosi. Ne forniamo alcuni a titolo illustrativo, ma il lettore non avrà sicuramente difficoltà a immaginarne altri. Dopo i 55 anni i membri del personale infermieristico trovano spesso difficile continuare a lavorare a tempo pieno in ospedale. Tuttavia, essi dispongono di esperienza e conoscenze e spesso sanno come trattare i pazienti; sarebbe dunque possibile assegnare loro funzioni diverse, per esempio al centralino dell’ospedale (per le emergenze), nelle scuole, nelle strutture mobili per l’emotrasfusione, nell’assistenza sanitaria a lungo termine per gli anziani residenti in città o nell’assistenza a domicilio per pazienti in età avanzata che necessitano di una presenza competente e di conforto morale. Anche gli insegnanti dopo i 55 anni e 30 anni di esperienza trovano difficile il loro lavoro. In molti casi se ne potrebbe ridurre l’orario lavorativo per trasferirli ad altre mansioni retribuite (biblioteche, librerie, lezioni private, attività in enti non governativi, ecc.). Anche i servizi al cittadino offerti dai comuni si giovano dell’apporto di personale di esperienza proveniente da background diversi e quindi rappresenterebbero uno sbocco valido per continuare a lavorare. 3.4 Differenze nella speranza di vita È possibile misurare quanto usurante sia un lavoro o una mansione? È sicuramente difficile, soprattutto quando le condizioni di lavoro cambiano continuamente. In presenza dei dati necessari, uno degli approcci evidentemente più funzionali consiste nell’esaminare la speranza di vita e il possibile sviluppo delle condizioni di salute. In media, in Francia, la speranza di vita di un collaboratore domestico trentacinquenne è 36,5 anni, quella di un colletto blu 37. Al contrario, la speranza di vita di dirigenti statali, artisti e lavoratori di concetto sale a 46 anni. La notevole differenza relativa alla speranza di vita tra categorie di lavoratori nel caso degli uomini è doppia rispetto alle donne.12 È per questi motivi che il concetto di età pensionabile dovrebbe essere gradualmente sostituito dal numero di anni di versamento dei contributi per la pensione. È di fondamentale importanza che in futuro i regimi pensionistici si basino su criteri più oggettivi ed equi di quanto non abbiano fatto finora. Le riforme analoghe a quelle adottate in Svezia13 seguono in gran parte questi principi. Tra l’altro, tranne in casi eccezionali in cui il prepensionamento rappresenta una compensazione per svantaggi acclarati, si è parlato della necessità di riallineare le condizioni dei dipendenti del settore pubblico e di quello privato. Nella maggior parte dei casi, tra cui anche l’Italia, si è riusciti a rispettare questi criteri, anche se in altri, come in Francia, esistono ancora notevoli disparità relative all’età e alle condizioni di pensionamento. Se dunque, per chiari motivi economici e finanziari, la società chiede ai lavoratori di rimanere più a lungo sul mercato del lavoro, occorre anche accettare il fatto che le fasi finali della vita lavorativa di ciascuno presentino delle differenze. Il dibattito pubblico sulla questione e le politiche che determina devono dunque stabilire un numero ridotto di eccezioni all’innalzamento dell’età pensionabile, contribuendo a confermare le nuove normative e a consolidare linee di condotta valide per il futuro. 12 13 Conseil Economique et Social (2001). Reday-Mulvey (1999, pp. 461-472). 71 In altre parole, se si intende evitare che tali misure vengano osteggiate, le imprese e le autorità pubbliche devono far sì che il nuovo corso preveda un’ampia gamma di possibilità in fine carriera e di modalità di transizione verso la pensione.14 Questa diversità si limiterebbe a riflettere le caratteristiche dei comparti, delle professioni, delle categorie in cui si dividono lavoratori e individui e delle preferenze culturali di cui occorre tenere conto. 3.5 Il bisogno di flessibilità e l’importanza di una scelta informata In gran parte dei Paesi europei, negli ultimi 25 anni il mercato del lavoro si è fatto estremamente più flessibile. Le nuove funzioni della nostra economia dei servizi hanno contribuito grandemente a promuovere e rafforzare tale tendenza, tanto che i lavori atipici hanno conquistato uno spazio enorme. La flessibilità degli orari oggi è fondamentale non solo per chi ha figli piccoli e deve conciliare famiglia e lavoro, ma anche per chi si trova al termine della vita lavorativa, rendendo sia possibile che necessario continuare a lavorare. Tuttavia, nel caso di mansioni a tempo pieno, tale prolungamento potrà avvenire solo in pochi casi, come i lavoratori autonomi, i quali usufruiscono di orari di per sé più flessibili, chi gode di buone condizioni di salute e chi ricava maggiori soddisfazioni dal proprio lavoro. Al contrario, il dipendente medio sarà con tutta probabilità più disposto a lavorare più a lungo se potrà usufruire del part-time e quindi disporre di più tempo libero da dedicare ad attività esterne al campo lavorativo. Anche le imprese beneficeranno della situazione poiché è ormai provato che il tempo parziale riduce l’assenteismo e il costo dei lavoratori anziani. In poche parole, una simile soluzione faciliterebbe il passaggio dal lavoro alla pensione sia per l’azienda che per il lavoratore. In tutta Europa, le aziende che hanno adottato questo approccio per prolungare la vita lavorativa per mezzo del part-time sono rimaste molto soddisfatte dei risultati. 3.6 Lavorare più a lungo — una necessità inevitabile Una notevole percentuale degli appartenenti alla generazione del baby boom dovrà lavorare più a lungo a cause della riforma delle pensioni. Inoltre, una certa fetta di quelli che hanno lavorato part-time per buona parte della vita (si tratta soprattutto di donne, anche se gli uomini sono in aumento) dovranno continuare a lavorare per rafforzare il secondo pilastro pensionistico. Al momento, però, le donne non solo sono più abituate al part-time e al lavoro flessibile e temporaneo ma, data l’esiguità dei contributi versati e alla luce del fatto che la loro attività ha sovente subito interruzioni per motivi famigliari, a parità di qualifiche le prestazioni maturate sono spesso inferiori a quelle spettanti agli uomini. Nonostante il graduale avvicinamento dei sistemi pensionistici nazionali in seno all’UE, la Commissione europea non nega che nel caso delle donne che hanno svolto lavori atipici permarrà a lungo una notevole differenza nelle pensioni maturate, soprattutto in riferimento al secondo pilastro. Di conseguenza, come per esempio dimostra una recente pubblicazione,15 nel Regno Unito tra le donne coniugate una su quattro vive nell’indigenza e il numero delle donne in pensione che si affidano a sussidi calcolati in base alla condizione economica risulta doppio rispetto a quello degli uomini. Fortunatamente, nella maggior parte dei membri dell’Europa dei 15 i dati non sono così allarmanti. Tuttavia, la maggior parte delle donne, soprattutto quelle che si trovano a invecchiare da sole (perché divorziate, vedove o non coniugate) avrà bisogno di continuare a lavorare anche dopo l’età pensionabile perché reddito e pensione raggiungano un livello accettabile. 14 15 Reday-Mulvey (1999, pp. 461-472). Conseil d’Analyse Economique (2000). 72 Dato che nella maggior parte dei Paesi le donne hanno una speranza di vita ben maggiore di quella degli uomini, non sarebbe giusto che lavorassero più a lungo? A prescindere dalla risposta che si vuole dare, pensiamo che occorra incoraggiare entrambi a lavorare per più tempo (e a continuare a formarsi fino al termine della vita attiva), soprattutto a tempo parziale, in modo da continuare a contribuire all’economia e massimizzare le proprie prestazioni pensionistiche. È tuttavia innegabile che le donne in genere si accollino più degli uomini la responsabilità della cura dei figli e di anziani e ammalati in seno alla famiglia e alla comunità. Per esempio, non è raro trovare donne di circa 60 anni che si occupano dei genitori o dei suoceri che invecchiano, fornendo in pratica la maggior parte dell’assistenza necessaria. Come nonne, svolgono un ruolo centrale anche nell’educazione dei più piccoli, rappresentando spesso l’unica soluzione che permette alle figlie e alle nuore di conciliare famiglia e lavoro. È anche indubbio che le donne spesso rappresentino la maggioranza dei collaboratori delle organizzazioni di volontariato. In effetti, in tutto il mondo, sono le donne che svolgono la quota di gran lunga maggiore del lavoro non retribuito (cioè non monetarizzato, benché essenziale per la comunità), mentre gli uomini svolgono gran parte delle mansioni retribuite. Nonostante quanto è stato fatto per ridurre le differenze in campo lavorativo, i ruoli maschili e femminili rimangono fondamentalmente complementari. È per questo motivo, se non altro, che la Commissione europea sta promuovendo sistemi e regimi pensionistici liberi da differenze di trattamento connesse al genere. 3.7 L’importanza della scelta informata Anche la flessibilità riveste un’importanza enorme al termine della vita lavorativa perché se si vogliono trattenere i lavoratori dall’andare in pensione, occorre motivarli e mantenerli produttivi, e ciò non sarà possibile a meno che non venga assicurata loro libertà di scelta (un valore fondamentale nella società moderna) in proposito essi devono essere pienamente a conoscenza delle alternative disponibili: in pratica, lasciare il lavoro prima con una pensione ridotta o continuare a lavorare per poi godere di prestazioni superiori. Di qui la necessità da parte dei lavoratori di ricevere regolarmente il saldo della pensione maturata in funzione del numero di anni in cui hanno lavorato (per esempio il bollettino arancione sulle pensioni distribuito ogni anno in Svezia). Ma la realtà della vita quotidiana di ciascuno non può né deve cambiare da un giorno all’altro. È dunque importante prolungare di qualche anno, rispetto alla sua durata odierna, la vita lavorativa al fine di massimizzare le prestazioni pensionistiche e garantire un passaggio dolce tra il lavoro a tempo pieno e il pensionamento completo. Tuttavia, è anche importante che questo prolungamento risulti flessibile e per lo più a tempo parziale; inoltre, tutti dovranno approvarne pienamente i termini e le condizioni. In altre parole, il pensionamento dovrebbe diventare un processo piuttosto che la brusca transizione che è oggi nella maggior parte dei casi. 4. Raccomandazioni principali Per riuscire a prolungare la vita lavorativa occorre soddisfare alcuni prerequisiti qualsiasi nuova politica o nuova misura adottate dalle autorità, qualsiasi cambiamento significativo della cultura d’impresa dovranno essere preceduti da un dibattito coerente, veramente democratico, ampio e informato sulle questioni sul tappeto. A questo proposito i Paesi scandinavi possono essere d’esempio. È inoltre di fondamentale importanza che tutte le normative che disciplinano pensioni, assicurazione sociale e disposizioni fiscali siano improntate allo stesso obiettivo: prolungare la vita lavorativa. In seno alle aziende, questa decisione dovrà essere accompagnata dalla modifica degli orari di lavoro, mentre i Paesi che dispongono di un numero elevato di manodopera qualificata a tempo parziale avranno molte meno difficoltà degli altri. 73 Analogamente, la formazione permanente fino al termine della carriera sarà fondamentale per mantenere livelli ottimali in termini di produttività e motivazione. Infine, il part-time porterà a una riduzione dei costi legati ai lavoratori anziani. Di seguito verranno esaminate brevemente quattro raccomandazioni relative alla necessità (1) di un approccio olistico, (2) di coordinare le politiche sociali ed economiche, (3) di un dibattito approfondito e informato e (4) di un piano d’azione rapido ed efficace. 4.1 La necessità di un approccio olistico I Paesi che finora hanno avuto più successo nel garantire la flessibilità del prolungamento della vita lavorativa, come la Finlandia, la Danimarca e il Regno Unito, hanno tutti adottato un approccio globale per permettere un invecchiamento attivo e in buone condizioni di salute e la gestione degli ultimi periodi di lavoro. Oggi a quasi tutti i livelli — istituzioni europee, governi nazionali, aziende e sindacati — si è convinti della bontà di tale scelta. Ciò si è dimostrato vero in particolare in Paesi come la Germania, la Francia, l’Italia, l’Austria e i Paesi Bassi, dove esisteva una cultura del prepensionamento particolarmente radicata. Solo quando cominciano a cambiare tutte le variabili — riforma delle pensioni, normative previdenziali, occupazione e politiche aziendali — cambiano progressivamente anche i comportamenti, le norme e la cultura che caratterizzano tutti gli attori sulla scena economica e sociale. Ricordiamoci che le questioni a lungo termine possono essere affrontate solo con politiche di ampio respiro perduranti nel tempo. Il grafico che segue indica non solo che le politiche socioeconomiche necessitano del corretto coordinamento ma che devono prendere atto anche della gestione dell’età a livello aziendale e della nuova configurazione del ciclo biologico. A questo punto risulta evidente che se vogliamo la riforma delle pensioni, dobbiamo farla accompagnare da una profonda revisione dei contesti in cui essa si troverà ad agire, marcatamente nell’ambito del pensionamento e delle fasi finali della vita lavorativa (Figura 1). 4.2 La necessità di politiche socioeconomiche coordinate Già nel 1996 un esperto giapponese, I. Shimowada, concludeva che non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza della corretta integrazione delle politiche pubbliche e private volte a promuovere il lavoro degli anziani.16 Effettivamente, nel corso degli anni ’90, la maggior parte dei Paesi occidentali ha riformato il proprio sistema pensionistico, ma i governi si sono accorti solo recentemente che, per incoraggiare il prolungamento della vita lavorativa, alle riforme sociali occorreva affiancare misure occupazionali a livello dello Stato e delle aziende. 16 Delsen and Reday-Mulvey (1996, p. 162). 74 Figura 1: Modello per prolungare il lavoro oltre i 60 anni POLITICHE SOCIALI RIFORMA DELLE PENSIONI - misure restrittive - incentivi LAVORATORI/COMUNITÀ NUOVO CICLO BIOLOGICO - capacità fisiche e mentali - formazione permanente - gestione degli orari PROLUNGAMENTO della VITA LAVORATIVA (flessibilità degli orari di lavoro) POLITICA ECONOMICA INCREMENTO DELL’OCCUPAZIONE - misure restrittive - incentivi AZIENDE GESTIONE DELL’ETÀ - formazione permanente - lavoro part-time - ergonomia Fonte: G. Reday-Mulvey, in Report Avenir Suisse, 2002. 4.3 Politiche pubbliche: la necessità di incentivi e misure restrittive Ciò che risulta essenziale è che le politiche pubbliche devono avere un respiro sufficientemente ampio e devono essere accompagnate da incentivi a vari livelli. Al fine di ridurre le possibilità di uscita anticipata dal mondo del lavoro, è fondamentale che le riforme pensionistiche siano accompagnate da altri cambiamenti al sistema previdenziale, volti in particolare a rendere più difficile e costosa la possibilità di usufruire della pensione anticipata e dei sussidi di disoccupazione e di invalidità, rendendone più severi i termini per la concessione. Tuttavia, è evidente che restrizioni di questo tipo devono essere affiancate da incentivi finanziati dallo Stato: per incoraggiare nuovi comportamenti e nuove idee sono necessari sia il bastone, sia la carota. Per cambiare la cultura del prepensionamento, ormai profondamente radicata nelle menti dei cittadini, occorrono interventi drastici e una collaborazione efficiente tra Stato e aziende mirata all’applicazione graduale delle nuove politiche di gestione dell’età. 4.4 Politiche aziendali: la necessità di misure di ampio respiro per la vita lavorativa Tra tutti gli aspetti degni di attenzione, ne esistono almeno quattro su cui deve concentrarsi l’approccio politico integrato qui descritto. Innanzitutto, la formazione. Per permettere ai lavoratori anziani di rimanere competitivi, la formazione permanente non dovrebbe cessare verso i 45-50 anni, ma continuare fino al termine della vita lavorativa ed essere maggiormente mirata alle necessità dei lavoratori dotati di esperienza (Figura 2). I Paesi già caratterizzati da simili politiche aziendali si trovano in una posizione di gran lunga migliore. In Svezia17 e in Svizzera la formazione rimane molto importante durante l’intera carriera del lavoratore e non 17 The Geneva Association (2004). 75 sembra che le cose cambino molto nel caso degli anziani. In Francia e in Germania questo approccio sta guadagnando terreno soprattutto nelle aziende più grandi. In particolare sorge la necessità di una profonda riorganizzazione della seconda metà della vita lavorativa, volta a garantire una nuova identità e nuove funzioni ai lavoratori in età compresa tra i 45 e i 65 anni. Figura 2: Coordinamento delle politiche economiche e sociali POLITICA SOCIALE Riforma delle pensioni Misure restrittive - innalzare l’età pensionabile - aumentare gli anni di contributi - ridurre leggermente le prestazioni - trovare nuovi metodi di finanziamento -… Incentivi - sviluppo del secondo pilastro pensionistico - incoraggiare fondi pensione privati (3° pilastro) - rafforzare il rapporto tra pensioni e anni di contributi - promuovere pensioni flessibili e personalizzate - permettere il cumulo di redditi da pensione e da lavoro -… PROLUNGAMENTO DELLA VITA LAVORATIVA Misure restrittive - limitare l’accesso al prepensionamento - limitare l’accesso ai sussidi di invalidità - limitare l’accesso ai sussidi di disoccupazione -… Incentivi - reintegrare i lavoratori ultracinquantacinquenni - rafforzare la partecipazione femminile - modificare le condizioni di lavoro negli ultimi anni: formazione permanente, part-time … - flessibilizzare l’uscita dal lavoro - fornire incentivi sotto forma di sussidi - applicare leggi contro la discriminazione - promuovere le buone prassi (codici ecc.) -… POLITICA ECONOMICA Occupazione: rafforzare la partecipazione degli ultracinquantacinquenni Fonte: G. Reday-Mulvey, The Geneva Association, 2003. Secondariamente, una variabile fondamentale è data dalla politica dei salari. È evidente che agganciare i salari all’anzianità di servizio significa aumentare il costo dei lavoratori che si trovano alla fine della carriera, il che ha sempre ostacolato qualsiasi tentativo fatto per prolungare la vita lavorativa. Occorre incoraggiare la tendenza che sta prendendo piede oggi per il calcolo degli stipendi e che prevede di ridurre l’importanza assegnata all’anzianità di servizio a favore della produttività. Le necessità economiche dei lavoratori più anziani di norma sono inferiori rispetto a quelle dei loro colleghi quarantenni. Inoltre, i cambiamenti nel calcolo delle pensioni fanno sì che non vi sia più bisogno che lo stipendio a fine carriera sia quello più alto, il che permette alle aziende di correlare gli stipendi alla produttività e non solamente all’età. In terzo luogo, gli stipendi part-time sono chiaramente una variabile importante nel tentativo di ridurre il costo dei lavoratori anziani. Il tempo parziale va accompagnato da una migliore rete di protezione sociale e da misure di promozione interne alle aziende. Queste ultime hanno in gran parte provveduto a migliorare le condizioni previste per i dipendenti in 76 regime di part-time e alcuni Paesi, tra cui Francia e Paesi Bassi, hanno modificato la legislazione in proposito. Da ultimo, le pensioni di lavoro devono tenere conto di cicli biologici più lunghi e più flessibili. Nonostante i progressi compiuti, in particolare in Inghilterra e nei Paesi Bassi, nel tentativo di indicizzarli allo stipendio medio, in molti Paesi i fondi pensione rimangono ancorati all’ultimo stipendio. 4.5 La necessità di un dibattito approfondito e informato Un ulteriore fattore essenziale per garantire il successo delle politiche volte a prolungare la vita lavorativa è dato dal quanto efficacemente siano state comunicate all’opinione pubblica e quanto siano state da essa accettate grazie a un dibattito ampio e informato sulla questione. Le esperienze compiute finora in molti Paesi che sono riusciti ad adottare politiche e disposizioni in questo senso dimostrano che l’argomento deve essere reso noto a tutti gli attori coinvolti — aziende, dipendenti e sindacati — e deve essere dibattuto per essere compreso pienamente. Inoltre, le imprese necessitano di un approccio a lungo termine per compiere investimenti e cambiare opinioni e atteggiamenti ormai invalsi. Di qui l’importanza di campagne di informazione e sensibilizzazione mirate e la necessità di dare vita a un dibattito aperto in seno alle aziende, ai sindacati e all’opinione pubblica in genere. Anche i media devono naturalmente svolgere un ruolo chiave nella comunicazione di questo nuovo messaggio, e cioè che oggi si invecchia più tardi e che occorre rivedere seriamente il modo in cui gestiamo le nostre vite tra i 50/55 anni e i 70 anni. Le aziende oggi devono dare il via a una discussione democratica su questi argomenti e incoraggiare un più ampio dibattito con le istituzioni dotate di potere decisionale e gli organi di stampa. I principi cui si ispira questa nuova concezione dell’invecchiamento devono essere veicolati con un linguaggio nuovo che sia comprensibile e nel contempo innovativo. L’esperienza: un tesoro nazionale (Finlandia), L’invecchiamento attivo (in tutto il mondo) o Invecchiare bene (Regno Unito) sono alcuni esempi di come sia possibile compiere questi importanti primi passi verso il cambiamento dei pregiudizi e degli atteggiamenti del pubblico. 4.6 La necessità di un piano d’azione rapido ed efficace Alcuni esperti ritengono che solo quando il mercato del lavoro avrà sofferto di gravi mancanze di manodopera (a seconda del Paese, ciò si verificherà nel giro di 4-10 anni) le aziende faranno di tutto per trattenere i lavoratori più a lungo di quanto non facciano oggi, modificando di conseguenza le condizioni di lavoro. In molte imprese danesi e inglesi che oggi fungono da modelli proprio in tal senso (cioè adottando questo nuovo approccio) la svolta è stata determinata dalla mancanza di forza lavoro. Tuttavia, siamo dell’opinione che ora stia al governo prevedere e pianificare questi fenomeni all’interno di una strategia globale per l’invecchiamento e il lavoro piuttosto che aspettare che venga a mancare la manodopera prima di agire. Eventuali forti variazioni nell’indice di dipendenza dimostreranno che nella maggior parte dei Paesi il benessere di tutta la popolazione dipenderà da un numero di lavoratori minore. Entro il 2010 i lavoratori sopra i 45 anni rappresenteranno il 40% della manodopera disponibile nell’UE. Si verificherà una mancanza di lavoratori in genere, non solo di giovani, e in alcuni Paesi si è già verificata. Tutte le fasce d’età dovranno prestare il proprio aiuto e quindi i più anziani si troveranno ad avere un ruolo chiave perché sono numerosi e garantiscono qualità ed esperienza. Inoltre sarà necessario applicare le politiche pubbliche e private su una certa scala e per un certo periodo di tempo prima di ottenere risultati apprezzabili. 77 4.7 Altre politiche Offriamo alcuni ulteriori esempi di misure politiche che consideriamo utili e che possono essere distinte in tre categorie. 4.7.1 La necessità di aumentare la partecipazione al lavoro in genere e di controllare i flussi migratori La prima misura riguarda l’incremento dell’occupazione totale, in questo caso aumentando i tassi di partecipazione di tre categorie specifiche di potenziali lavoratori: le donne, i disoccupati e gli invalidi. Come abbiamo visto, tra i membri dell’UE emergono differenze importanti nei tassi di partecipazione alla popolazione attiva di queste tre categorie. I paesi scandinavi, per esempio, ottengono risultati migliori rispetto agli stati meridionali, ma nel lungo periodo il principio della convergenza dovrebbe far sì che questi valori migliorino un po’ ovunque. Il lavoro a tempo parziale risulta essenziale soprattutto nel caso delle donne e degli invalidi perché non solo rappresenta un’ottima possibilità per passare dall’inattività all’attività, ma permette anche di conciliare lavoro e impegni famigliari, potendo così contribuire all’innalzamento del tasso di fertilità femminile. Una simile svolta richiede misure tese a favorire l’occupazione in maniera attiva e meno protezione sociale passiva. Paesi come la Finlandia, la Danimarca, la Svezia, i Paesi Bassi e altri hanno adottato ottime disposizioni speciali volte a favorire l’occupazione degli invalidi, compresi i lavori sorretti da sussidi statali, spesso con contratti a tempo parziale. Altri Stati membri (Austria, Francia, Germania, Irlanda e Regno Unito) hanno fissato degli obiettivi nazionali riguardanti l’occupazione degli invalidi. Un’altra soluzione, oggetto di frequenti discussioni negli ultimi anni, prevede di incrementare, ove possibile, i flussi migratori verso i membri dell’UE. Sia l’ONU18 che l’OCSE hanno calcolato il numero di nuovi immigrati necessario a controbilanciare lo sviluppo demografico e il conseguente calo della forza lavoro in Europa. Per esempio, in base alle stime redatte dall’ONU nel 2000, il numero di immigranti necessari per mantenere invariata la popolazione in età lavorativa in Francia e nel Regno Unito è circa il doppio rispetto al fabbisogno registrato negli anni Novanta. Analogamente, la Germania necessiterebbe di circa 3,4 milioni di immigranti ogni anno, cioè oltre 10 volte i nuovi arrivi registrati tra il 1993 e il 1998. Nel caso tedesco, per esempio, il solo fattore numerico condurrebbe a enormi problemi sociali e politici. È per questo motivo che a nostro avviso, in Germania come altrove, sarebbe utile aggiungere una qualche forma di controllo sui flussi migratori. 4.7.2 La necessità di rafforzare le politiche per la famiglia La seconda tipologia di misure da adottare riveste secondo noi una maggiore importanza rispetto all’immigrazione ed è rappresentata da politiche per la famiglia volte a promuovere un costante aumento dei tassi di fertilità a lungo termine in Europa. Diverse indagini dimostrano che le donne non concepiscono quanti figli vorrebbero. Riteniamo che vi sia una correlazione sia diretta che indiretta tra la presenza di politiche in favore della famiglia e il tasso di fertilità. Tali politiche devono comprendere, tra l’altro, assegni famigliari generosi, un sistema di imposte favorevole ai nuclei famigliari più estesi, la disponibilità di strutture adeguate alla cura dei bambini e di altre persone a carico e un migliore equilibrio tra lavoro e vita famigliare. Lo 18 United Nations (2000). 78 scarto tra il tasso di occupazione delle donne con e senza prole è particolarmente pronunciato in Irlanda (16,3%), Germania (21,4%) e Regno Unito (22,8%). In questi Paesi, come anche in Spagna o in Grecia, dove la forbice è relativamente più contenuta, i servizi assistenziali disponibili sono colpevolmente incapaci di far fronte alle necessità. Dove le strutture sono migliori, come in Svezia (1,7 nel 2002) o in Francia (1,9), il tasso di fertilità risulta superiore rispetto agli Stati del sud dell’Unione.19 A questo proposito, risulta alquanto interessante l’esempio offerto dalla Norvegia. Si tratta di uno dei Paesi contraddistinti dai tassi di fertilità più elevati in Europa (1,8) ma evidenzia anche uno dei migliori tassi di occupazione femminile. Tutto ciò risulta sorprendente, salvo poi scoprire che le aziende norvegesi attirano la manodopera femminile offrendo ottime strutture per l’infanzia. In breve, le politiche destinate alla famiglia svolgeranno un ruolo essenziale in Europa al fine di garantire un aumento dei tassi di fertilità nel lungo periodo ed evitare i pericoli di una società “anziana” affetta dal calo sia della popolazione che della manodopera. 4.7.3 La necessità di migliorare la qualità del lavoro Al glorioso trentennio successivo alla Seconda guerra mondiale ha fatto seguito un periodo di vent’anni durante il quale l’importanza assegnata agli interessi personali, alla famiglia e al tempo libero è andata aumentando, mentre si tendeva a dare meno valore al lavoro. Nei Paesi europei si è ridotto l’orario lavorativo, le condizioni lavorative sono state personalizzate e flessibilizzate, le vacanze si sono allungate e oggi la stragrande maggioranza della popolazione può dedicare il proprio tempo ai viaggi e ai propri interessi personali. Se l’invecchiamento attivo deve diventare un fenomeno comune, è necessario rivedere il ruolo assegnato al lavoro nella nostra vita. Dobbiamo migliorare la qualità del lavoro ad ogni costo per convincere un maggior numero di cinquantenni e sessantenni, ma forse anche di settantenni, a modificare l’equilibrio tra attività lavorativa e tempo libero a favore della prima. Come abbiamo già avuto modo di ricordare, chi ha un’occupazione di bassa qualità si ritira dal mercato del lavoro tra i 2 e i 4 anni prima di chi invece ha mansioni di alta qualità. L’effetto di coorte — in virtù del quale aumenta il numero dei lavoratori qualificati impiegati nel settore dei servizi con orari flessibili, i quali usufruiscono di corsi di formazione permanente e continua — renderà più semplice rispetto al passato ritardare l’uscita dal mercato del lavoro e flessibilizzare gli orari. Forse una delle maggiori sfide che ci attendono oggi è data dalla necessità di organizzare meglio la nostra società laddove la richiesta di moltissimi dei “servizi tradizionali” rimane inevasa. Dobbiamo ripensare il lavoro e il pensionamento e considerarli parte di un continuum integrato in cui riformando un aspetto se ne modifica un altro. Aumentare gli anni di contribuzione ai fondi pensione è semplicemente inconcepibile senza riconsiderare completamente il nostro concetto di lavoro e occupazione. Non basta chiedere alle aziende di far continuare a lavorare i dipendenti fino a 65 anni e oltre. Le attività e le mansioni assegnate, siano esse retribuite o meno, devono risultare soddisfacenti per chi le espleta e devono rimanerlo per tutto il periodo che va dall’ingresso all’uscita dal mondo del lavoro.20 Le nostre società non dovrebbero prevedere la scelta tra tempo libero e lavoro, mentre dovrebbero essere in grado di offrire un equilibrio soddisfacente tra i due. Ciò che è vero a livello individuale vale anche a livello dell’intera società se si prendono in considerazione 19 20 Godet (2003). Buck and Dworschak (2003). 79 benessere e lavoro. Questo cambiamento di prospettiva è necessario se si vuole che nel giro di pochi anni o decenni la vita lavorativa possa allungarsi di qualche anno ancora. Oggi, di fronte sia alle sfide demografiche che alla prevista riduzione della manodopera, dobbiamo riscoprire il valore e il piacere del lavoro. Naturalmente, questo ci porta a ripensare e migliorare le condizioni lavorative. Nel giro di poco tempo saranno sempre di più le aziende che offriranno condizioni migliori per trattenere i dipendenti anziani più a lungo di oggi. Ma è necessario un processo di umanizzazione che incoraggi ritmi più flessibili, una formazione adeguata, l’ergonomia e l’igiene del posto di lavoro, oltre a rendere la vita professionale compatibile con attività assistenziali e altri impegni volontari importanti per la comunità, soprattutto se si tratta di una comunità di anziani. Le nostre società si sono evolute dalla produzione di beni industriali alla creazione di un’economia basata soprattutto su servizi e informazioni, con il conseguente e radicale mutamento dell’organizzazione del lavoro. Le nostre società, caratterizzate da una popolazione che sta invecchiando (e in futuro l’invecchiamento sarà sempre più marcato), vedranno la maturità prendere il posto dell’odierno culto della giovinezza, mentre alla solidarietà e all’utilità sociali verrà data l’importanza che meritano. 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Walker, A. and Wigfield, A. (2003): Older Workers Skills and Employability: A guide to Good Practice in Age Management, Working Paper, University of Sheffield, Sheffield. 81 Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 82-98 L’occupazione degli anziani: possiamo imparare dal Giappone? 1 di Bernard H. Casey* 1. Contenuti In Giappone il livello di occupazione degli anziani, anche di chi ha oltrepassato l’età pensionabile, risulta molto elevato. La causa è stata individuata nel vigente sistema dell’impiego a vita e nei regimi che prevedono trasferimenti e demansionamenti volti a ridurre gli stipendi dopo che i lavoratori hanno superato la mezza età. Il presente articolo sottolinea anche il ruolo svolto dalla struttura dell’industria giapponese e l’importanza delle numerose occupazioni relativamente protette ma improduttive. Inoltre, si mette in dubbio la sopravvivenza stessa del sistema dell’impiego a vita, dimostrando come vengano introdotti sistemi di prepensionamento analoghi a quelli occidentali per reagire ad un periodo prolungato di recessione. A ciò si aggiunga che esistono elementi esterni che spingono verso la deregolamentazione, minando la capacità di assorbire manodopera anziana da parte dei settori protetti. Come i loro omologhi occidentali, i datori di lavoro giapponesi tendono a liberarsi degli anziani ma, di fronte allo sviluppo demografico attuale, tutti gli imprenditori dovranno imparare a utilizzarli meglio. 2. Introduzione Spesso si cita il Giappone per l’elevato livello di partecipazione alla popolazione attiva tra gli anziani, soprattutto maschi. Nel 2000, quasi il 95% degli uomini in età compresa tra i 55 e i 59 anni, quasi tre quarti di chi aveva tra i 60 e i 64 anni e un terzo degli ultrasessantacinquenni erano ancora attivi. Tra questi, quasi tutti preferivano lavorare: i rispettivi tassi di occupazione si posizionavano al 90, 63 e 33%.2 La Figura 1 illustra la situazione in paragone ad altri Paesi. 1 Una versione preparatoria di questo intervento è stata presentata in occasione del Workshop on Ageing, Skills and Labour Markets, organizzato dal CEPII e tenutosi a Nantes, 7-8 settembre 2001. Questo articolo è pubblicato in inglese sui Geneva Papers on Risk and Insurance, volume 30, n. 4, ottobre 2005. * Attualmente l’autore è senior research fellow presso The Pensions Institute, Cass Business School, Londra. Ha lavorato come esperto di economia all’OCSE e ha firmato numerosi contributi riguardanti età e occupazione, il sistema pensionistico, l’occupazione in età avanzata e le cure a lungo termine destinate agli anziani. Gran parte del suo lavoro è di impostazione comparativa. Egli desidera ringraziare Atsuhiro Yamada, Tetsuo Ogawa e Kika Kobatake per i preziosi commenti e l’aiuto prestato a più riprese nel corso della stesura del presente articolo. Qualsivoglia errore o imprecisione vanno comunque attribuiti esclusivamente all’autore. Bernard H. Casey può essere contattato ai seguenti indirizzi: The Pensions Institute, Cass Business School, City University, 106 Bunhill Row, London EC1Y 8TZ UK; e-mail: [email protected]. 2 La quasi totalità dei dati forniti nell’articolo si riferisce agli uomini. Anche il tasso di occupazione delle donne anziane risulta elevato in Giappone, ma sia in Svezia che negli USA risulta equivalente se non addirittura maggiore. 82 USA Regno Unito Svezia Paesi Bassi Italia Germania Francia Finlandia Canada Giappone Figura 1: Tassi di occupazione tra i maschi anziani, anno 2000 (%) Fonte: OCSE. Questi tassi di occupazione elevati si verificano in concomitanza con l’adozione di un’età pensionabile obbligatoria relativamente bassa in molti settori dell’economia giapponese: si è passati da 55 a 60 anni nel giro dell’ultimo trentennio. Si tenga inoltre conto del fatto che vige un sistema retributivo che in paragone rende i lavoratori anziani più costosi. Il sistema “dell’impiego a vita” stabilisce le retribuzioni in base all’anzianità di servizio e quindi, in pratica, in base all’età. In questo articolo ci si chiede perché, date le circostanze e alla luce dei risultati relativamente deludenti dell’economia giapponese nell’ultimo decennio, si siano mantenuti tassi di occupazione così elevati. In seconda battuta, ci si domanda se sarà possibile mantenerli invariati anche in futuro. 3. Alcune spiegazioni convenzionali, altre meno Il sistema dell’impiego a vita è espressione di elementi culturali, cui si va ad aggiungere la tarda industrializzazione. Alcuni esperti ritengono che si tratti del risultato dell’assunzione di lavoratori rurali, i quali si sarebbero trovati a passare dalle dipendenze di una comunità protetta a quelle di un’altra comunità protetta. L’azienda riproduceva molti aspetti del villaggio, soprattutto per quanto riguarda l’impossibilità di concepire il lavoro individuale — per non parlare delle retribuzioni individuali — a vantaggio dell’idea della cooperazione3 — e quindi di retribuzioni stabilite in base al tipo di lavoratore. In azienda si sono conservate le differenze di salario tra uomini e donne, ma le retribuzioni erano anche il riflesso delle responsabilità assunte, le quali si riteneva aumentassero con l’età (Sano, 1997). Secondo altri, invece, il sistema dell’impiego a vita forniva una risposta razionale alla mancanza di forza lavoro in periodi di crescita sostenuta, oltre a rappresentare un sistema con cui cercare di ridurre il ricambio di manodopera specializzata in azienda. I primi segnali sono comparsi negli anni Venti, ma il sistema non ha assunto importanza prima degli anni Cinquanta (Matsuzuka, 2002). Qualsiasi ne sia stata la causa, diversi studiosi hanno sottolineato come, rispetto ad altri Paesi che dispongono di dati analoghi, l’aumento delle retribuzioni dei lavoratori giapponesi risulta più accentuato e persiste per un periodo di tempo più lungo (OECD, 1996:105). 3 Il fenomeno è legato all’alta flessibilità occupazionale che, a sua volta, è stata menzionata per spiegare gli elevati livelli di produttività. Cfr. Keike (1997). 83 È proprio a causa dell’evidente rapporto esistente tra età e livello retributivo che le aziende impongono il pensionamento obbligatorio,4 per cui ci si attende che l’uscita dal mondo del lavoro abbia luogo qualche anno dopo aver raggiunto il picco massimo delle responsabilità professionali. Il pensionamento obbligatorio è adottato da quasi tutte le grandi aziende e dalla maggior parte di tutte le altre, a eccezione di quelle più piccole. L’età pensionabile è stata definita dai datori di lavoro o tramite contrattazione collettiva, mentre il governo ne ha incoraggiato l’innalzamento per cercare di restare al passo con l’età pensionabile prevista dal sistema pubblico. Quest’ultima si attesta in concreto sui 60 anni, anche se sin dalla metà degli anni Novanta si sono avute diverse iniziative volte a portarla a 65. Tuttavia, in base alle leggi vigenti, tale aumento non si verificherà prima del 2013 per gli uomini e del 2018 per le donne.5 Ai precedenti innalzamenti dell’età pensionabile — verificatisi negli anni Ottanta e Novanta — è corrisposto l’aumento dell’età in cui si raggiungeva il salario massimo. Nel 1980 il picco salariale si verificava a 52 anni, nel 1999 a circa 57 (JIL, 2000). Uno dei fattori che conducono agli alti tassi di occupazione tra la popolazione anziana è stato individuato nelle strategie adottate dai datori di lavoro al fine di aggirare alcune delle conseguenze del pensionamento obbligatorio e del sistema retributivo legato all’anzianità. In molti casi, a chi raggiunge l’età pensionabile viene offerto un qualche tipo di riassunzione, spesso su base temporanea, magari modificando termini e condizioni contrattuali. Tra le aziende che applicano un’età pensionabile inferiore ai 65 anni, oggi la percentuale di quelle che offrono la continuazione del rapporto di lavoro ha raggiunto il 55%, anche se solamente in un quarto dei casi si soddisfano tutte le richieste di riassunzione (cfr. OECD, 2004).6 Sovente viene fatto riferimento all’abitudine per cui gli ultracinquantenni sono trasferiti dalla casa madre ad aziende subappaltatrici in base ad accordi denominati shukko e tenseki. Lo shukko prevede che il lavoratore trasferito continui a essere un dipendente della casa madre, mentre in base al tenseki egli diventa un impiegato dell’azienda cui è destinato. Accade che a un periodo di trasferimento che prevede lo shukko facciano seguito la rescissione del contratto originario e la riassunzione in base al tenseki (Sato, 1996). Qualora non vi sia possibilità né di reinserimento né di trasferimento, l’azienda farà di tutto per aiutare il dipendente a trovare un altro impiego o addirittura — dopo avergli assegnato una somma forfetaria a fini pensionistici — ad iniziare un’attività in proprio (Rebick, 1995). Il mutamento delle mansioni o delle condizioni contrattuali e/o il passaggio al lavoro autonomo in età avanzata di norma sono accompagnati da un qualche tipo di riduzione dello stipendio. Così, dopo aver toccato l’apice, la curva che esprime il rapporto tra età e retribuzione subisce un tracollo subitaneo più evidente che in molti altri Paesi.7 Per chi rimane nella vecchia azienda si calcola che il taglio salariale si aggiri intorno al 30%; per chi viene trasferito esso tocca quasi il 50%. (JIL, 2000). Tuttavia il reddito totale cala un po’ meno. In base alle disposizioni che governano il sistema delle pensioni statali, chi ha diritto alla pensione correlata al reddito può iniziare a riceverla pur tornando a lavorare. Prima di portare il limite a 65 anni, questa regola si applicava a chi aveva un’età compresa tra i 60 e i 64 anni. Era previsto un “test ” che riduceva la pensione 4 Si tratta di un classico esempio del perché esista il pensionamento obbligatorio. Per ulteriori dettagli, cfr. Lazear (1987). 5 Il regime pensionistico giapponese consta di due livelli — uno scaglione di base che prevede un identico tasso per tutti e uno scaglione correlato allo stipendio: rispettivamente, si tratta del 18 e del 30% circa sul reddito medio lordo. Dall’inizio degli anni Cinquanta si accede alle prestazioni di base solo dopo i 65 anni, mentre è possibile iniziare a percepire per intero la pensione correlata al reddito a partire dal 60° anno d’età. Chi smetteva completamente di lavorare a 60 anni aveva il diritto di ricevere un’addizionale pari alla pensione di base. Tuttavia, a partire dal 1994 tale possibilità è stata gradualmente ridotta, fino a sparire completamente dopo il 2000 (cfr. Casey, 2004). 6 I dati si riferiscono alle imprese del settore privato con almeno 30 dipendenti. 7 Gran parte delle curve che mettono in relazione età e retribuzioni attraversano i settori e non indicano lo sviluppo di coorti, per tacere dei singoli. Di conseguenza, accade raramente che illustrino l’aumento della retribuzione con l’avanzare dell’età e non riescono a rendere conto dei cambiamenti relativi al tipo di mansioni eventualmente svolte dai lavoratori considerati. 84 di almeno il 20% per arrivare gradualmente fino al 100% se lo stipendio superava quello medio dei lavoratori dell’industria. In base a questo sistema, chi accettava di lavorare con un livello retributivo pari alla metà del salario medio del settore industriale riusciva a incrementare il proprio reddito lordo del 50% circa. Come illustrato dalla Figura 2, continuava a lavorare approssimativamente il 30% degli uomini in età compresa tra i 60 e i 64 anni che beneficiavano di una pensione statale correlata alle retribuzioni. A partire dal 2002 è entrata in vigore un’ulteriore “normativa sui redditi” concernente il secondo livello pensionistico, la quale per certi aspetti risultava meno severa e si applicava ai lavoratori tra i 65 e i 69 anni d’età (cfr. OECD, 2004). Figura 2: Occupazione e pensioni tra i maschi anziani. Fonte: Social Insurance Agency, Annual Operational Report FY 2000. Nota: comprende persone la cui pensione è stata sospesa del tutto (fino a un quarto). Parallelamente alla possibilità di continuare a lavorare pur ricevendo la pensione, le pratiche quali la possibilità di reimpiego o il trasferimento a una controllata forniscono una spiegazione parziale al fenomeno della permanenza nel mondo lavorativo da parte di anziani che hanno superato l’età del pensionamento obbligatorio. Spesso si è data eccessiva importanza al ruolo svolto dal sistema dell’impiego a vita. Gli esperti ritengono che esso si applicasse a circa il 20-30% dei dipendenti — lavoratori maschi assunti a tempo pieno dalle grandi imprese (Lincoln, 2001). Inoltre, come spiegato alla Tabella 1, nel 2000, tra chi si avvicinava alla soglia dei 50 anni solamente un uomo su quattro lavorava in imprese private e non del settore agricolo con 1000 dipendenti o più, mentre meno di uno su tre era impiegato in aziende con almeno 500 dipendenti. In proporzione al totale dei lavoratori uomini nella stessa fascia d’età, le percentuali crollano a un quinto e un quarto. 85 Tabella 1: Occupazione di uomini tra i 45 e i 49 anni in base alle dimensioni dell’azienda, anno 2000 (%) Uomini 45-49 anni Totale Nell’agricoltura Lavoratori autonomi non nell’agricoltura Nell’amministrazione pubblica Dipendenti del settore privato In un’azienda con meno di 10 dipendenti In un’azienda con meno di 30 dipendenti In un’azienda con più di 499 dipendenti In un’azienda con più di 1000 dipendenti 100 3 2 11 84 13 24 24 19 100 15 28 29 23 Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau (2000a), Report on the Special Survey of the Labour Force, February 2000 (Labour Force Series No. 65); calcoli dell’autore. Rispetto a quelle più grandi, le piccole imprese tendono a ricorrere meno al pensionamento obbligatorio oltre una certa età. A metà degli anni Novanta, mentre quasi tutte le imprese con almeno 300 dipendenti applicavano un’età pensionabile obbligatoria, lo stesso accadeva solo nel 72% delle aziende con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 29, e solo nel 32% di quelle che avevano meno di 10 dipendenti (Sato, 2000). Inoltre, le piccole imprese tendono più delle grandi a permettere la prosecuzione del rapporto di lavoro dopo il raggiungimento dell’età pensionabile obbligatoria: ciò avveniva in circa il 55% dei casi, contro il 35% delle aziende con 5000 dipendenti o più. Tuttavia, rispetto alle grandi aziende, le piccole imprese non dimostrano una maggiore propensione a offrire la possibilità di continuare a lavorare a tutti coloro i quali desiderano farlo. Ciò significa che una buona fetta della popolazione anziana non riceve alcuna assistenza strutturata da parte del datore di lavoro nella ricerca di un impiego successivamente al pensionamento. È difficile riuscire a sapere che cosa capiti loro perché la maggior parte delle indagini in proposito non prende in considerazione le imprese con meno di 30 dipendenti, anche se esse danno lavoro a circa un quarto di tutta la manodopera del settore privato. È lecito ritenere che nelle imprese piccole e molto piccole le relazioni personali siano tali che molti continuino a lavorare fino a tarda età e pochi siano costretti al pensionamento. D’altro canto, come avviene nella maggiore parte degli altri paesi, le condizioni di lavoro nelle piccole imprese sono notevolmente inferiori rispetto alla grande industria. Gli stipendi sono più bassi, il ricorso a piani pensionistici integrativi minore, mentre è meno frequente l’abitudine di versare una somma forfetaria al momento del pensionamento. I lavoratori anziani che, invece di prolungare il rapporto con il vecchio datore di lavoro, vengono trasferiti a una piccola azienda si trovano di fronte a una notevole diminuzione dello stipendio, in parte compensata dalla possibilità di ricevere una pensione parziale e dalla liquidazione ricevuta. I dipendenti anziani che si trasferiscono in un’altra azienda senza assistenza da parte del precedente datore di lavoro di norma non ricevono il trattamento di fine rapporto e possono andare incontro a una notevole riduzione del reddito (Yamada, 2000). L’analisi del ruolo svolto dai trasferimenti verso una nuova azienda permette di capire meglio perché tra chi ha poco meno o poco più di sessant’anni sono così numerosi quelli che continuano a lavorare, ma non spiega perché lo faccia anche chi ha raggiunto e superato la soglia dei 65 anni. A questo proposito, è necessario considerare più attentamente l’effettiva condotta dei lavoratori più anziani in Giappone, come appunto facciamo alla Tabella 2. 86 Tabella 2: Caratteristiche dell’occupazione tra i maschi anziani, anno 2000 (%) Tutte le età 55-64 anni 65 anni e oltre 76 72 84 78 33 26 5 14 19 37 6 16 17 39 31 14 19 64 In agricoltura Autonomi Impiegati nell’azienda di famiglia Part-time 76 12 34 85 3 30 86 10 49 Nel commercio al dettaglio Autonomi o impiegati nell’azienda di famiglia 3 6 10 11 1 6 3 6 5,2 18 * 5 7 7 7,1 44 4 15 15 24 3,7 Tasso di partecipazione Tasso di occupazione Di cui, che lavorano in Agricoltura Edilizia Commercio al dettaglio Agricoltura, edilizia o commercio al dettaglio In altro settore non agricolo Autonomi Familiari collaboratori Part-time In mobilità Temporanei o giornalieri Tasso di disoccupazione Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Report on the Special Survery of the Labour Force, February 2000 (Labour Force Series No. 65), and Annual Report on the Labour Force Survey: 2000; calcoli dell’autore. *Inferiore a 0,5. Ovviamente, il lavoro autonomo rappresenta un’importante opportunità per continuare una vita attiva dopo i 65 anni. La percentuale dei lavoratori autonomi cresce costantemente in relazione all’età, passando dal 17% nella fascia compresa tra i 55 e i 59 anni, al 30% tra i 60 e i 64 anni, fino ad arrivare al 48% tra gli ultrasessantacinquenni. Se lo si aggiunge alle attività nell’azienda di famiglia (retribuite o meno), nel 2000 il lavoro autonomo rappresentava quasi due terzi (62%) del totale della forza lavoro oltre i 65 anni d’età. Anche il tempo parziale svolge un ruolo importante: dopo i 65 anni, un lavoratore su quattro ricorre al part-time. Il settore agricolo rappresenta quasi un terzo degli occupati dopo i 65 anni e, in seno a questo gruppo, si ha una preponderanza di lavoratori autonomi o impegnati nell’azienda di famiglia. I settori del commercio all’ingrosso e al dettaglio raccoglievano un quinto della forza lavoro oltre i 64 anni d’età, il settore edilizio un settimo. Questi tre rappresentano insieme due terzi del totale dei lavoratori maschi in età avanzata, con livelli due volte superiori alla norma. Si è già parlato del passaggio a un’occupazione autonoma al termine del percorso lavorativo, spesso grazie all’incoraggiamento del datore di lavoro. Anche l’ingresso nel settore del commercio al dettaglio e all’ingrosso rappresenta un’opzione comune, soprattutto nel caso di relazioni familiari pregresse. Più significativa appare la scelta del rientro nel settore agricolo, in quanto rispecchia il fatto che al di fuori delle aree metropolitane molti lavoratori in questo settore sono kengyo nouka, oppure svolgono lavori part-time parallelamente all’impiego nel settore industriale. Il fenomeno indica inoltre che altri pensionati del settore industriale ritornano alla comunità rurale, perpetuando il legame famigliare che era stato mantenuto tramite la proprietà di appezzamenti di terreno. 87 4. Tensioni all’interno del sistema Da oltre un decennio l’economia giapponese è caratterizzata da bassi tassi di crescita e dalla prospettiva dell’invecchiamento della forza lavoro. La disoccupazione rimane bassa in paragone agli standard nazionali, ma è cresciuta a livelli elevati secondo il metro giapponese. In conseguenza del persistere di risultati deludenti, le imprese si sono trovate obbligate a realizzare ristrutturazioni e tagliare i costi. Al sistema bancario, in parte a seguito di pressioni governative ed esterne, è stato chiesto di essere più severo nella politica dei prestiti, di recuperare i finanziamenti negativi e di obbligare alla chiusura le attività non redditizie. Infine, sempre con il contributo di pressioni esterne, il governo ha dato il via alla deregolamentazione di settori importanti dell’economia, forzando così le imprese ad adottare pratiche più efficienti. La conseguenza è stata che quelle politiche e pratiche in materia di manodopera improntate a una crescita elevata e a una forza lavoro in espansione non sono più risultate efficaci. Il sistema dell’impiego a vita che insieme al shukko e al tenseki garantiva a una parte degli anziani la possibilità di continuare a lavorare ha perduto l’efficienza che lo contraddistingueva. Le grandi imprese non si sono limitate a ridurre le assunzioni, ma hanno iniziato a licenziare. Già nel 1993 sono state svolte indagini che indicavano che le aziende ritenevano di trovarsi di fronte a un eccesso di manodopera anziana (dai 45 anni in su) con mansioni d’ufficio e amministrative e che, nella stragrande maggioranza dei casi, tali eccedenze erano strutturali piuttosto che congiunturali; inoltre il problema si faceva più pressante con l’aumentare delle dimensioni dell’azienda (Sato, 1994). Nei casi estremi, alcune grandi imprese hanno iniziato a inserire i licenziamenti nei loro progetti di ristrutturazione (Osawa e Kingston, 1996), talvolta anche licenziamenti “non volontari” (Araki, 1995). In altri casi venivano offerte altre vie d’uscita, come pensioni anticipate o trattamenti di fine rapporto maggiorati, occasionalmente a lavoratori di appena 50 anni (Sato, 1994). Negli ultimi tempi l’incidenza di tali pratiche “non giapponesi” non sembra aver fatto altro che crescere, come indicato alla Tabella 3. Tabella 3: Grandi aziende che hanno annunciato/adottato piani di prepensionamento a partire dal 1999 Azienda Settore Data Arabian Oil Raffinazione del petrolio Annunciato nel marzo 2000 Dainippon ink Prodotti chimici 2000-2001 Fujisawa Pharmaceutical Co. Ltd. Finestra aperta tra fine novembre 2004 e metà gennaio 2005 Japan Energy Corp. Raffinazione del petrolio e manifattura Dal 2000 al 2001 Showa Shell Raffinazione del petrolio Dal 1999 al 2001 Isuzu Automobili Nel 2000-2001 Mazda (della Ford) Automobili Marzo 2000 Nissan (della Renault) Automobili Ulteriori dettagli In tutto hanno fatto domanda 716 dipendenti di cui 218 delle filiali in parte in preparazione alla fusione con Yamanouchi Pharmaceutical Co., Ltd. per costituire la Astellas Pharma Inc. Vi furono anche trasferimenti in consociate Chiusura degli stabilimenti e perdite. 2210 prepensionamenti (8% della forza lavoro): piano offerto a tutti i lavoratori di 40+ anni con almeno 10 anni di servizio Piani per ridurre del 3-5% all’anno la forza lavoro. In Francia la Renault ha un programma di prepensionamento per tutti i lavoratori con più di 57 anni (continua alla pagina successiva) 88 Tabella 3: (continua da pagina precedente) Anritsu Elettronica Maggio 2002 Fujitsu Elettronica Estate 2001 Offerta ai lavoratori comuni in età 45-59 anni, con almeno 10 anni di servizio, con conseguente abbandono di 312 dipendenti (compresi 57 inviati in altre aziende) Prepensionamento volontario offerto a tutti i lavoratori di 45+ anni in Giappone. Parte del piano era ridurre la forza lavoro globale del 21% Hitachi Elettronica Primavera 1999 Programmi ripetuti negli anni seguenti Matsushita (Panasonic) Elettricità/elettronica Marzo 2000-2001 e gennaio 2005 Alla ricerca del prepensionamento di 5000 lavoratori come parte del piano di ridurre la forza lavoro di 13000 unità. Obiettivo di rendere le sussidiarie più efficienti. Alla ricerca di altri 3000 prepensionamenti alla data del 2005 Mitsubishi Electrical Co. Elettronica Nel 2000-2001 Parte della riduzione del 10% della forza lavoro Saga Elettronica Prima metà del 1999 Toshiba Elettronica Agosto 2001 Prepensionamento volontario dei 40+ con indennità di licenziamento di 21/2. Costo atteso di 60 mld di yen. Parte della riduzione del 10% della forza lavoro Kawasaki Industria pesante/siderurgia Da metà 2000 In trattative di fusione con la NKK (vedi sotto) Nippon Steel Siderurgia 1999-2000 NKK Siderurgia Japan Tobacco Tabacco In trattative di fusione con la Kawasaki 1999 e di nuovo nel 2003-2004 Anno finanziario 1999-2000: riduzione del 10% della forza lavoro in Giappone e percentuale simile all’estero; 2003-2004: riduzione della forza lavoro del 25% compreso il prepensionament offerto a dipendenti di 45-59 anni con almeno 15 anni di servizio; domanda di 5800 dei 12000 aventi diritto (ne erano previste solo 3500) Kirin Distillazione Dal 1999 al 2001 Anche trasferimenti in consociate Snow Brand Milk Alimentare 2000 In parte conseguenza di un caso di intossicazione alimentare JAL Trasporto aereo Primavera 2000 NTT Telecomunicazioni Da settembre 2000 In tutto 6500 volontari oltre a una riduzione di 21000 posti già prevista (riduzione del 17% della forza lavoro). Offerti a tutti i dipendenti di 47-60 anni 10 mesi di retribuzione base più indennità di pensionamento Daiei Commercio al dettaglio 1999-2000 Vendita di attività per coprire i costi del prepensionamento Kanematsu Import-export Annunciato alla metà del 1999 Grande ristrutturazione imposta dalle banche Mitsukoshi Gruppo di grande distribuzioneRiportata nell’ottobre 2004 Alla ricerca di prepensionamento volontario di lavoratori di 40+ Mycal Commercio al dettaglio Chiusura di punti vendita. Esigenza di Gennaio 2001 prestiti bancari per coprire i costi del prepensionamento Seiye Catena di supermercati Riportata nel dicembre 2003 Programma di prepensionamento volontario quale (di proprietà della Wall Mart per il 38%) parte del piano di riduzione del personale di 1613 unità (o circa 1/5) Chiyoda e Dai-Tokyo Assicurazioni Primavera 2000 Parte di una fusione Nikko Securities Servizi finanziari 1998-2000 Offerta ai dipendenti di 40+ Sanawa Servizi bancari 1999-2000 Vari collegi privati Istruzione Riferita nel marzo 2001 Diminuzione del numero di studenti Fonte: Ricerca sul Financial Times “Top World Sources” oltre alla ricerca su Google di Giappone + “prepensionamento”. 89 Nella Tabella 3, la cosa interessante è data dalla comparsa nell’elenco dei grandi produttori di automobili. Negli ultimi anni sia Nissan che Mazda sono state scalate da aziende straniere. Le nuove amministrazioni che si sono insediate non erano giapponesi, né si attenevano alle pratiche seguite in Giappone (per esempio cfr. Ibson, 2001).8 Nel mettere in pratica i piani di ristrutturazione, quello che cercavano di fare assomigliava molto a ciò che avevano fatto nel Paese d’origine, in Francia o in America. Sono ricorsi ai licenziamenti e in particolare hanno offerto programmi di prepensionamento; in questo secondo caso il livello di partecipazione è stato alto. Le aziende hanno registrato un eccesso di adesioni nel giro di giorni o addirittura di ore, sintomo del fatto che i lavoratori temevano che i tagli fossero inevitabili e che condizioni simili non sarebbero state offerte una seconda volta (Yomiuri Shimbun, 2001, ma cfr. anche il caso — spesso menzionato — di Japan Tobacco alla Tabella 3).9 I problemi che affliggevano le grandi aziende si sono ripercossi sul funzionamento dei sistemi shukko e tenseki. I settori in cui operano le società che ricevono la manodopera trasferita hanno sofferto dello stesso rallentamento della domanda e si trovano di fronte alla medesima necessità di ristrutturare del settore che comprende le aziende d’origine dei lavoratori. Di conseguenza, il sistema è andato in panne. La capacità di ricezione della forza lavoro trasferita è peggiorata a causa di altri due fenomeni. In primis, i piani di ristrutturazione di molte grandi aziende comportano la razionalizzazione dei sistemi delle forniture: la nuova gestione straniera di Nissan è stata spesso citata come uno dei precursori in questo campo. Si è cercato di ridurre il numero dei subappaltatori per costringerli a essere più efficienti, talvolta rivolgendosi addirittura all’estero.10 In secondo luogo, le piccole aziende in particolare si sono sentite minacciate dai tentativi volti a obbligare il settore bancario a ridurre i finanziamenti negativi, e la loro posizione è resa ancor più difficile dalla rescissione dei contratti di fornitura con le grandi società. Anche se a questi tagli si è proceduto lentamente, i casi di bancarotta sono aumentati: nel 2000 sono cresciuti del 12% rispetto all’anno precedente, raggiungendo il livello più alto dal 1987. Le piccole e medie aziende sono state colpite due volte: sia perché le banche analizzavano più attentamente la loto situazione finanziaria, sia perché le case madri cercavano di liberarsi dai debiti sacrificando le controllate meno efficienti (cfr. TDB, numerose edizioni). La Figura 3 illustra lo sviluppo dell’incidenza di licenziamenti, prepensionamenti e trasferimenti a partire dagli anni Novanta, rilevando la percentuale di aziende che ha adottato misure particolari per riuscire a far fronte al calo della domanda. Per avere un riferimento, si riporta anche il tasso di disoccupazione totale. Sebbene vi sia solo una piccola minoranza di datori di lavoro che afferma di avere dovuto ricorrere ai prepensionamenti, la loro incidenza ha continuato a crescere sensibilmente. Allo stesso tempo, si è avuto un calo dell’incidenza dei trasferimenti verso occupazioni esterne. Il primo e più famoso dei gaijin è stato Carlos Gohsan che per conto di Renault ha assunto la gestione di Nissan. Japan Tobacco ha reso noto che, invece dei 3.500 attesi, sono stati 5.800 i dipendenti che hanno chiesto il prepensionamento volontario offerto dal programma di taglio dei costi (cfr. per esempio la relazione dell’Associated Press in data 5-1-2005). 10 Un’indagine condotta dal Mitsubishi Research Institute prevedeva la perdita di 143.000 posti di lavoro nel comparto automobilistico, di cui quasi l’80% tra i fornitori, per lo più piccole aziende (Financial Times, 5-9-2001). 8 9 90 Figura 3: Percentuale di aziende che sono ricorse a licenziamenti, trasferimenti e prepensionamenti. Manifattura – trasferimenti (shukko) Manifattura – licenziamenti Manifattura – prepensionamenti Tasso di disoccupazione Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Survey on Labour Economy Trends, trimestrale (http://www.dbtk.mhlw.go.jp/toukei/kouhyo/data-rou15/jikei/jikeiretu-02.xls), OCSE (tassi di disoccupazione standardizzati). Sono state innanzitutto le grandi aziende a votarsi alla pratica del prepensionamento. La Tabella 4 indica che nel 2002 quasi una su cinque delle maggiori società ha offerto una tale opzione. Il settore manifatturiero ha fatto largo uso di questo strumento, ma sono state le aziende dei servizi finanziari a ricorrervi maggiormente. Tabella 4: Percentuale di aziende che sono ricorse ai prepensionamenti, divise per settore e dimensioni 2000 2001 2002 2,1 2,8 6,3 13,9 8,1 5,1 2,6 1,5 3,7 6,3 10,6 17,6 13,9 6,0 5,5 2,6 4,8 6,7 10,8 19,5 17,3 9,7 6,7 3,3 Tutti i settori Manifattura Servizi finanziari 5000+ dipendenti 1000-4999 dipendenti 300-999 dipendenti 100-299 dipendenti 30-99 dipendenti Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Survey in Employment Management. 91 Probabilmente gli sforzi compiuti dal governo per soddisfare le richieste di maggiore rigore finanziario finiranno per comportare ulteriori conseguenze negative sulle possibilità di impiego degli anziani. La Tabella 2 illustrava l’importanza del settore edilizio per l’occupazione di manodopera in età avanzata. Questo comparto è stato uno dei principali beneficiari di molti programmi di spesa aggiuntivi con cui il governo ha cercato di sostenere l’economia dopo lo “scoppio della bolla”. Diverse opere pubbliche sono state criticate in quanto spreco di risorse o, nel migliore dei casi, niente più di una forma di sussidio di disoccupazione sotto mentite spoglie; dai più critici, erano bollate come casi di clientelismo (cfr. OECD, 2000). Nell’agosto 2001, il governo ha approvato il maggiore taglio alle spese “della storia” (circa il 2%), il cui impatto maggiore avrebbe riguardato i progetti infrastrutturali.11 Infine, si dubita sempre di più che i settori che in passato assorbivano parte degli anziani che non venivano trasferiti dai loro precedenti datori di lavoro possano continuare a farlo. Le richieste interne e internazionali hanno condotto a una sensibile deregolamentazione degli altri due comparti fondamentali per l’occupazione degli anziani: il commercio al dettaglio e l’agricoltura. Si prevede che una serie di “piani per la deregolamentazione” possa incoraggiare l’apertura di grandi supermercati e centri commerciali, il cui sviluppo finora era stato osteggiato dalle amministrazioni locali nel tentativo di proteggere il benessere dei piccoli commercianti, e lo scioglimento dei monopoli nel commercio all’ingrosso, che si trovava effettivamente nelle mani dei produttori nazionali. Se verrà adottata, la giurisprudenza a riguardo porterà alla chiusura di molti piccoli punti vendita e società di distribuzione che oggi danno lavoro agli anziani, sia in qualità di autonomi che in aziende a conduzione familiare (Yahata, 1995). Al settore agricolo sono state imposte le decisioni dell’Organizzazione mondiale per il commercio, in particolare quelle successive all’Uruguay Round del 1994, che hanno richiesto l’apertura dei mercati alle importazioni di riso e manzo. Sebbene la forza lavoro in questo comparto sia crollata di un quinto durante gli anni Novanta, il numero di ultrasessantacinquenni occupati nell’agricoltura è rimasto quasi invariato, arrivando a rappresentare oltre il 40% del totale nel 1996, quando nel 1989 ammontava a un quarto.12 Nel 1995 il governo si è impegnato a realizzare un programma della durata di sei anni volto a promuovere la ristrutturazione dell’agricoltura e, come osservato dall’OCSE, data l’età relativamente avanzata della manodopera del settore, gran parte della ristrutturazione avrebbe riguardato i rapporti intergenerazionali (OECD, 1996: 81). Se la riforma viene portata alla sua logica conclusione, in un’agricoltura fortemente regolamentata lo spazio riservato ai “lavori protetti” non potrà far altro che diminuire rapidamente. 5. Risposte politiche Pur rimanendo elevato rispetto agli standard internazionali, in Giappone il tasso di occupazione degli anziani è andato diminuendo sin dalla fine degli anni Novanta. L’occupazione tra gli anziani maschi eccedeva il 50% del valore totale, mentre tra chi aveva superato i sessant’anni superava il 10% nel 1998 e ha registrato valori a una cifra solo nel 2002. Il totale degli investimenti statali rispetto al PNL è passato da un massimo dell’8,5% nel 1997 a circa il 4,5% nel 2004 (cfr. OECD, 2005: 86). Nel 2003 gli ultrasessantacinquenni rappresentavano il 47% dei lavoratori dell’agricoltura. A partire dal 1996 il totale della manodopera impiegata nel settore è crollato di quasi il 20%, mentre la quota di lavoratori di almeno 65 anni d’età si era ridotta di appena l5%. 11 12 92 Tasso di occupazione (%) uomini Tasso di disoccupazione (%) Figura 4: Trend dei tassi di occupazione e disoccupazione tasso di occupazione, 55-59 anni tasso di occupazione, 60-64 anni tasso di occupazione, 65+ anni tasso di disoccupazione (tutte le età, uomini e donne) tasso di disoccupazione (uomini, 55-64 anni) Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Annual Report on the Labour Force Survey: 2003. Ciononostante, in Giappone “l’etica del lavoro” (se è lecito applicare un concetto protestante a una società improntata al confucianesimo) continua a essere molto sentita, Gli anziani sembrano volere lavorare di più rispetto ai loro coetanei in diversi altri Paesi.13 In effetti, il graduale declino del sistema dell’impiego a vita e, in particolare, la maggiore incidenza di licenziamenti e prepensionamenti sembrano avere conseguenze profonde sulle condizioni psicologiche degli anziani. Come evidenziato dalla Figura 5, si è registrato un notevole aumento dei suicidi tra gli uomini di mezza età. 13 I “protestanti” Paesi Bassi rappresentano un’eccezione. Secondo un’indagine condotta tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta in più nazioni e riguardante gli ultrasessantenni, nei Paesi Bassi in poco più del 70% dei casi la risposta è stata che preferirebbero lavorare perché altrimenti la vita risulterebbe oltremodo noiosa, mentre solo nel 20% delle risposte il motivo era il bisogno di denaro. Si tratta delle medesime percentuali del Giappone. Altrove al fattore economico veniva assegnata un’importanza maggiore, mentre il valore intrinseco del lavoro veniva considerato molto meno. 93 Figura 5: Andamento dei suicidi tra gli anziani maschi (cifre per 100000 persone) uomini di tutte le età uomini 45-49 anni uomini 50-54 anni uomini 55-59 anni uomini 60-64 anni uomini 65-69 anni donne di tutte le età Fonte: Ministry of Health, Labour and Welfare, Suicide Statistics; Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Annual Report on the Labour Force Survey: 2003. I responsabili a livello politico hanno cercato di far fronte alla situazione in diversi modi. Anche se il governo avesse incoraggiato l’innalzamento dell’età pensionabile da 55 a 60 anni, la normativa che proibisce ai datori di lavoro di imporre il pensionamento obbligatorio a 60 anni è entrata in vigore solo nel 1998. Durante le contrattazioni del 2000 e del 2001, i sindacati hanno posto l’incremento dell’età della pensione al centro delle proprie rivendicazioni salariali, ma il governo si è limitato ad appoggiarli tramite la tradizionale strategia esortativa. Si è avuta la riforma della Legge per la stabilizzazione del lavoro degli anziani, ma questa si limita a fare delle raccomandazioni. I datori di lavoro dovrebbero impegnarsi per offrire opportunità di lavoro ai dipendenti anziani adottando misure volte allo sviluppo e al miglioramento della spendibilità sul mercato, dell’ambiente lavorativo e di altre condizioni, oltre a impegnarsi per fornire un’assistenza adeguata ai dipendenti affinché essi possano “progettare la propria vita lavorativa” quando invecchiano. Qualora venga applicata un’età pensionabile obbligatoria, dovrebbero impegnarsi per adottare le misure necessarie a fornire un’occupazione stabile fino all’età di 65 anni introducendo o migliorando sistemi di situazione permanente, oltre ad adottare misure volte ad assistere chi se ne va nel trovare un’occupazione alternativa. Non si è registrato tentativo alcuno di introdurre norme discriminatorie in base all’età. Tuttavia, in base a una nuova disposizione della Legge sulle misure occupazionali entrata in vigore alla fine del 2001, ai datori di lavoro si richiede di compiere sforzi per garantire pari opportunità nelle assunzioni a prescindere dall’età; inoltre, in proposito è stato varato un certo numero di linee guida. Anche se sembra che inizialmente si sia verificata una certa diminuzione del ricorso agli annunci di lavoro che specificavano i limiti d’età, le direttive prevedevano diverse eccezioni. Di conseguenza, le aziende che applicavano il sistema del pensionamento obbligatorio erano autorizzate a stabilire limiti d’età nelle assunzioni giustificandoli con la necessità di fornire un alto grado di formazione sul lavoro, quando le aziende che adottano sistemi salariali basati sull’anzianità ne erano spesso esentate, se non potevano assumere anziani con retribuzioni più basse a causa del loro regolamento interno.14 14 Risulta chiaro il parallelismo con la direttiva dell’Unione Europea sull’uguaglianza sul lavoro, almeno in relazione alla questione dell’età. L’articolo 6 elenca una serie di motivi che giustificano eventuali differenze di trattamento in base all’età (cfr. CEC, 2000). È possibile anche notare che, pur avendo il Giappone una legge che proibisce ogni discriminazione basata sul sesso (ma non sulla razza), essa è stata descritta come “un’anatra zoppa” (Hanami, 2000). Fino al 1997 le disposizioni in materia richiedevano semplicemente che i datori di lavoro si sforzassero di offrire pari opportunità alle donne in caso di assunzione e licenziamento. Benché fossero proibite eventuali discriminazioni quanto a formazione e tagli al personale, però, le autorità di controllo non disponevano di potere alcuno per far rispettare le proprie decisioni (cfr. Imada, 1996; Araki, 1998). 94 I dati relativi al 2002 rivelano che il 44% dei disoccupati in età compresa tra i 45 e i 54 anni e quasi il 55% degli ultracinquantacinquenni sostenevano che il motivo principale per cui non riuscivano a trovare lavoro era che non rientravano nella fascia d’età che poteva presentare domanda (MHLW, 2003: 38). Spesso i documenti ufficiali menzionano quanto siano state rafforzate a favore degli anziani le politiche riguardanti il mercato del lavoro (per ulteriori informazioni, cfr., MHLW, diversi anni, e OECD, 2004). Per molti anni il governo ha messo in atto sistemi di incentivazione salariale per promuovere l’assunzione di “persone difficili da inserire nel mondo del lavoro”, come gli anziani e i disabili, cui si sono aggiunte le sovvenzioni ai datori di lavoro che assumevano dipendenti di mezza età o anziani in regioni ad alta disoccupazione. Inoltre, chi trova un nuovo lavoro dopo aver lasciato l’occupazione precedente a 60 anni riceve un sussidio che compensa in parte il calo della retribuzione che subisce — una disposizione che nel 2001 riguardava quasi un dipendente su venti. Tuttavia, non sembra esistere alcuna valutazione dell’impatto di tutte queste misure. Gli esperti sottolineano il fatto che i datori di lavoro sembrano introdurre cambiamenti graduali alle pratiche seguite per le assunzioni. In particolare, si ricorda come essi sostengano di mirare a ridimensionare l’importanza assegnata all’età nel determinare le retribuzioni. Il Grafico 6 riporta i risultati di un’indagine realizzata alla fine degli anni ’90, una delle più citate. Occorre tuttavia notare che le aziende si aspettano che vi siano cambiamenti maggiori nella struttura salariale dei dirigenti piuttosto che a livello dei normali dipendenti (tecnici amministrativi e operai), i quali rappresentano circa i cinque sesti della forza lavoro maschile nella fascia d’età critica compresa tra i 45 e i 54 anni. Figura 6: Intenzioni dei datori di lavoro in relazione ai cambiamenti delle tabelle salariali mantenimento del sistema di anzianità equilibrio tra abilità, performance e anzianità maggiore rilievo ad abilità e performance concentrazione su abilità e performance rilievo solo alle abilità e performance posizioni manageriali altri dipendenti Fonte: JIL, 2000. 95 Per quanto concerne gli operai, potrebbe risultare vantaggioso modificare le retribuzioni ricorrendo a programmi volti a prolungare il periodo lavorativo. Le riduzioni che accompagnano il lavoro part-time e temporaneo sono notevoli. Gli atipici evidenziano livelli retributivi notevolmente inferiori ai dipendenti a tempo indeterminato e di norma hanno diritto a indennità accessorie, compreso l’accesso al secondo livello delle pensioni (cfr. Casey, 2004 e OECD, 2005: cap. 6). Oltre a un certo interesse nella modifica del sistema delle retribuzioni, sembra emergere anche una certa considerazione per eventuali cambiamenti al sistema delle carriere. Alcuni datori di lavoro danno meno importanza all’anzianità e più al merito quando si tratta di decidere un avanzamento di carriera, conducendo a quelle che vengono definite “promozioni che non rispettano i turni”. Si tratterebbe di casi “quotidiani” o “frequenti” in circa un terzo delle aziende (JIL, 2000). Naturalmente, in questa eventualità i datori di lavoro possono rilevare un calo della motivazione tra i dipendenti anziani che sono stati sopravanzati, così spesso affermano anche di aver introdotto una qualche forma di compensazione per rassicurarli. Si può trattare di iniziative più o meno di facciata, così come l’accettazione della nuova situazione da parte dei dipendenti può essere più o meno veritiera. Cionondimeno, i datori di lavoro non possono limitarsi a concentrare l’attenzione sui propri regimi salariali e sui sistemi di promozione. Come nella maggior parte degli altri Paesi, in Giappone le aziende destinano ai giovani una fetta sproporzionata delle risorse destinate alla formazione. Già di per sé questa abitudine può scoraggiare i lavoratori anziani dalla riqualificazione, oltre a renderli improduttivi (Seike, 1994). Analogamente ai loro omologhi stranieri, i datori di lavoro giapponesi sembrano avere una visione tradizionale degli anziani e ritengono di non poterli assumere perché perderebbero competenze professionali e flessibilità mentre invecchiano (Wanatabe, 1992). La necessità di far fronte all’invecchiamento della forza lavoro e di prolungare la vita lavorativa implica che non sarà più sufficiente ricorrere ai mezzi tradizionali per tenere conto dei lavoratori anziani (incarichi temporanei, demansionamenti e trasferimenti): diventerà assolutamente necessario riqualificare la manodopera di mezza età e anziana. Tuttavia, ad oggi non sembra che sia stata adottata alcuna misura in questo senso, se si eccettuano i contributi concessi per coprire le spese per i corsi per corrispondenza. Aumentando il numero dei lavoratori anziani che cercano di migliorare le proprie competenze tecniche e professionali, alcune aziende hanno iniziato a incoraggiare i dipendenti di mezza età o in età avanzata affinché acquisiscano titoli riconosciuti, anche se nella maggior parte dei casi la decisione in merito viene lasciata ai lavoratori stessi (Kawakita, 1996). 6. Conclusioni Spesso il Giappone è stato indicato come un caso a sé stante. Secondo alcuni, il Paese è caratterizzato da una sua diversità — forse unicità — culturale, il che significa che le pratiche e le esperienze giapponesi sono difficilmente trasferibili altrove. Secondo altri, soprattutto chi è interessato ai “lavori-ponte”,15 dal Giappone è possibile imparare. Il presente articolo sostiene che il Giappone rappresenti effettivamente un caso particolare, anche se non così speciale come può sembrare a prima vista. Sostiene altresì che è improbabile che il Giappone continui a rimanere speciale a lungo. Poco di ciò che avviene in questo Paese può essere imitato, e le condizioni che ne avevano permesso le peculiarità stanno venendo meno. Nel contempo, il Giappone si trova di fronte a problemi comuni a molte altre nazioni Si tratta di lavori a tempo parziale o che richiedono un minore impegno e sono spesso peggio retribuiti, intrapresi dagli anziani dopo aver interrotto la propria carriera e prima di andare completamente in pensione. Cfr. Ruhm (1991). 15 96 industrializzate. Così, se esiste una lezione da trarre, questa non è che si può imparare dal Giappone: al contrario, è possibile che sia il Giappone a dover imparare qualcosa dagli altri paesi. D’altro canto, pochi hanno già capito come sviluppare politiche e pratiche volte a migliorare l’impiegabilità degli anziani. Tutti i paesi, Giappone compreso, dovrebbero continuare in questa loro ricerca con rinnovata energia. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Araki, T. (1995): “Modification of Working Conditions Through Dismissals? 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Yomiuri Shimbun (2001): “More Employees at Major Firms Applying for Early Retirement”, Yomiuri Shimbun/Daily Yomiuri, 14-8-01. 98 Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 99-101 Un commento: tra pensione e vecchiaia il passo è lungo! di Raimondo Cagiano de Azevedo* e Benedetta Cassani** La moderna transizione demografica ha trovato nelle società sviluppate le due più accentuate caratterizzazioni: da una parte la forte diminuzione della fecondità e dall’altro l’allungamento della vita fino ai limiti estremi oggi conosciuti. Il marcato invecchiamento della popolazione ne è il risultato, configurandosi come uno dei maggiori progressi e al tempo stesso come problema per eccellenza delle società moderne. Si tratta di un fenomeno che sembra ignorare le frontiere nazionali, visto che i paesi europei diventano altrettanti laboratori che procedono simultaneamente e con gli stessi risultati agli stessi esperimenti socio-demografici: l’elemento critico, comune ai paesi sviluppati, è costituito dagli obiettivi di politica economico-sociale ed in particolare dai diversi aspetti delle ormai inevitabili riforme pensionistiche. Tali aspetti possono essere coniugati in una premessa comune, cui fanno fronte due posizioni contrapposte, con proprie implicazioni e interdipendenze. La premessa si riflette nelle attuali trasformazioni delle strutture per età in atto nelle popolazioni europee: il continuo aumento della popolazione dipendente, percettrice di trasferimenti sociali, rispetto al calo della popolazione attiva, mette in discussione il rapporto prestazioni-contributi che ha caratterizzato il sistema attuale di solidarietà tra le generazioni. Secondo le previsioni dell’United Nation Population Division (UNDP), la classe degli anziani in Europa costituirà il 36% della popolazione totale nel 2050, crescendo di ben dieci punti percentuali rispetto ai valori attuali (26,6%), mentre l’età mediana è destinata ad aumentare di 8 anni, raggiungendo i 47 anni nel 2050. Questa crescita incessante del numero degli anziani sarà la dinamica caratterizzante fino a quando le generazioni nate nel periodo del baby boom raggiungeranno età prossime alla vita media alla nascita. Italia e Spagna sono i paesi in cui tale dinamica risulterà più intensa con una crescita del numero di anziani per ogni 10 individui in età attiva rispettivamente da 2,5 a 6,6 per l’Italia e da 2,9 a 6,8 per la Spagna (Eurostat, 2005). In tale contesto si contrappongono due implicazioni delle riforme in atto: da un lato i demografi richiamano l’attenzione sui termini e le misure del modello pensionistico, inadeguate alle necessità conoscitive e interpretative di oggi; mentre l’esigenza politica di contenere la conflittualità tra welfare state e crescita economica mantiene il dibattito attuale ancora in termini di misure di vecchiaia e di invecchiamento “istituzionale” che in tutte le fonti ufficiali sono rimaste invariabilmente ancorate alla soglia dei 65 anni; le provocatorie indicazioni, di fonte Nazioni Unite, per una soglia a 77 anni in Italia sono oggi “politically uncorrect”; ma demograficamente parlando, meno paradossali di quanto possa apparire. È qui che si pone la diatriba di antica data e comunque il ricorrente dibattito intorno alle misure statistiche della vecchiaia e dell’invecchiamento; ed è qui che viene rimesso in questione il tradizionale ciclo di vita con i relativi indici di dipendenza; della vita attiva; dell’invecchiamento e della vecchiaia; con i relativi rapporti statistici solidamente insediati e * Facoltà di Economia, Università La Sapienza, Roma. 99 immutabili in tutta la manualistica demografica del secolo trascorso. Molto interessante, a questo riguardo, è stata una riclassificazione delle diverse tipologie di invecchiamento proposta da Natale e de Sarno Prignano (1999). Gli autori hanno proposto una ripartizione dell’invecchiamento in demografico, biologico e sociale. L’invecchiamento biologico è definito come il deterioramento delle capacità funzionali, e gli indicatori che lo misurano sono rappresentati, oltre che dall’età biologica, anche da misure antropometriche, test fisiologici, psicometrici e sociali. L’invecchiamento sociale, invece, è rappresentato dall’ “anticipo del termine delle età socialmente rilevanti: allevamento dei figli e attività lavorativa” (Natale e de Sarno Prignano, 1999), e l’indicatore che fornisce informazioni utili sul diverso livello di invecchiamento è rappresentato dall’età sociale. Tra gli altri, Massimo Livi Bacci, fin dal 1987, riconosce che, nel corso dei decenni, si è venuto a verificare un crescente gap tra la vecchiaia biologica e quella sociale, quasi coincidenti in passato. Se da un lato, infatti, si è avuto un rinvio della vecchiaia biologica, con un aumento degli anni vissuti, e vissuti mediamente in migliori condizioni di salute e di efficienza fisica e psichica, dall’altra si è anticipato notevolmente, nel corso del ciclo di vita, il termine di attività socialmente rilevanti: l’allevamento dei figli e l’attività lavorativa. Il primo fenomeno ha allungato il tempo rinviando la vecchiaia biologica; il secondo ha accorciato l’arco di vita socialmente rilevante, “anticipando” l’inizio della vecchiaia sociale. Nel lungo periodo questo ha significato l’arretramento dell’invecchiamento biologico e l’allungamento della vecchiaia sociale, con tutte le conseguenze socio-economiche che tale processo ha generato. Questa distanza, che sempre più si frappone tra i concetti di invecchiamento biologico, demografico e sociale, si traduce nell’impossibilità di misurare l’invecchiamento della popolazione mediante una soglia d’anzianità (60, 65 anni), generalmente legata al momento dell’uscita dal mercato del lavoro. L’invecchiamento non ha una connotazione temporale univoca, bensì è un processo continuo che varia non solo da individuo a individuo, ma anche da una generazione all’altra: un sessantacinquenne di oggi è difficilmente confrontabile con un sessantacinquenne di 10, 50 o 100 anni fa (Crisci, et al. 2004). Senza essere demografo, ma con lucida osservazione, Bobbio (1996) sintetizzava la questione così: “La soglia della vecchiaia in questi ultimi anni si è spostata di circa un ventennio. Oggi il sessantenne è vecchio solo in senso burocratico, perché è giunto all'età in cui generalmente ha diritto a una pensione. L'ottantenne, salvo eccezioni, era considerato un vecchio decrepito, di cui non valeva la pena di occuparsi. Oggi, invece, la vecchiaia, non burocratica ma psicologica, comincia quando ci si approssima agli ottanta, che è poi l'età media della vita, un po' meno per i maschi, un po’ più per le donne”. L’adozione di un limite fisso come soglia di accesso alla vita anziana risulta, quindi, quanto mai anacronistica, ponendo “la necessità di una revisione, non solo demografica, ma anche sociale, politica ed economica, della soglia di accesso alla classe degli anziani” (Cagiano de Azevedo, 2004); e anche, eventualmente, di ripensare definizioni di vecchiaia più come distanza dalla fine della vita che non dalla sua origine. Di fronte a questo scenario, l’Europa è chiamata ad affrontare al più presto la questione dell’invecchiamento demografico, per individuare un sentiero comune di politiche che, pur con tempi diversi, conduca a un ripensamento della gestione delle età, e in particolare dei flussi di ingresso e di uscita dal mercato del lavoro, con la consapevolezza che “l’evoluzione non è né un fatto né una realtà, ma solo un modo di organizzare la conoscenza del mondo” (Lewontin e Levins, 1978). RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: Bobbio N. (1996): De Senectute, Einaudi, Torino. Cagiano de Azevedo, R., e Capacci, G. (2003): Invecchiamento e svecchiamento della popolazione europea, Aracne Editore, Roma. 100 Cagiano de Azevedo, R. (a cura di), (2004): The European Welfare in a Counterageing Society, Ed. Kappa, Roma. Crisci, M., Gesano, G. e Heins, F. (2004): Population Ageing in the Regions of the European Union, IRES, Piemonte. Lewontin, R.C. e Levins, R. (1978): “Evoluzione”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino. United Nations (2006): Population Ageing 2006, Population Division, United Nations, New York. United Nations Economic and Social Affairs (2001): Replacement Migration — Is It a Solution to Declining and Ageing Populations?, New York. 101 Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 102-118 L’invecchiamento demografico in Italia: verso un miglioramento della relazione tra età e lavoro di Manuela Stranges* 1. Introduzione Uno dei processi di maggiore rilievo in corso nei paesi industrializzati è certamente quello dell’invecchiamento demografico, non solo per le conseguenze che esso avrà sulla struttura e sulla composizione delle popolazioni interessate, ma anche e soprattutto per le implicazioni di natura sociale ed economica. Il grado di problematicità conseguente al processo di invecchiamento dipenderà in maniera forte dal modo in cui i governi e i soggetti economici saranno in grado di guardare agli effetti del processo stesso, mitigando quelli indesiderati attraverso l’attuazione di strumenti ad hoc e cogliendo le opportunità, laddove presenti. Appare dunque necessario individuare un punto di equilibrio tra l’inevitabilità di alcune dinamiche demografiche e le necessità imprescindibili dei sistemi economici (Stranges, 2006, p. 123). Scopo del presente contributo è mostrare, attraverso alcuni indici e indicatori demografici, l’evoluzione del processo di invecchiamento con particolare riferimento alle ricadute sul mercato del lavoro. Saranno perciò analizzati i tassi di partecipazione dei lavoratori maturi e anziani, cercando di individuare gli strumenti che possono favorire l’aumento di tale partecipazione. Tra questi, particolare importanza rivestono i programmi di apprendimento continuo che, attraverso un adeguamento costante delle competenze e conoscenze del lavoratore, sono in grado di favorirne la ritenzione all’interno del sistema produttivo. L’analisi, concentrata sull’Italia e volta a fare emergere le differenze esistenti tra le regioni, presenta anche confronti con gli altri stati europei, allo scopo di mostrare la posizione del nostro paese rispetto ai livelli medi dell’Unione Europea e ai trend in atto negli altri paesi. 2. L’invecchiamento demografico in Italia 2.1. Un’analisi dei dati ai censimenti del secondo dopoguerra Con il termine invecchiamento demografico indichiamo l’aumento, in termini assoluti e percentuali, della fascia anziana rispetto agli altri gruppi che compongono la popolazione e al suo totale. Le cause di questo processo sono sostanzialmente due: l’allungamento della vita (longevità) e la riduzione delle nascite (denatalità). Se la longevità è di per sé una conquista, l’invecchiamento demografico è una sua conseguenza ineluttabile che pone, però, diversi problemi di ordine sociale, culturale ed economico. Il numero sempre crescente di anziani si tradurrà in richieste sempre maggiori di servizi socio-sanitari e di cura. Oltre a ciò, lo squilibrio che s’ingenererà tra le classi economicamente produttive e le classi anziane (che non solo sono economicamente passive, ma rappresentano anche un costo in termini pensionistici e assistenziali) mette a dura prova la sostenibilità dei sistemi di welfare contemporanei. * Dottore di ricerca in Demografia, Dipartimento di Economia e Statistica, Università degli Studi della Calabria, [email protected]. 102 Il processo di invecchiamento che interessa la popolazione italiana ha avuto origine già nel corso del XX secolo, a seguito della conclusione del processo di Transizione Demografica che ha interessato tutte le popolazioni a sviluppo avanzato, e si è progressivamente acuito a mano a mano che il miglioramento delle condizioni sociali e igienico-sanitarie hanno determinato un allungamento della vita media. A tale invecchiamento dall’alto si è aggiunto anche un invecchiamento dal basso, determinato dalla forte denatalità, che ha contribuito a squilibrare i rapporti tra i diversi gruppi di popolazione. Per comprendere l’origine del processo di invecchiamento, si può far riferimento alla Tabella 1, che raccoglie alcuni dati relativi ai censimenti del secondo dopoguerra: valori percentuali della popolazione italiana per macroclassi d’età,1 valori della vita media a 60 anni e degli indici di struttura.2 La componente anziana, che in percentuale rappresenta un indice di invecchiamento della popolazione, è passata da 8,2% nel 1951 a 18,7% nel 2001, valore che, come vedremo in seguito, si è ulteriormente accresciuto negli anni successivi. Parallelamente è diminuito il peso della componente adulta della popolazione e, ancor più marcatamente, quello della componente giovanile, pari al 26,1% del totale della popolazione italiana al censimento del 1951 e solo al 14,2% a quello del 2001. L’analisi degli indici di struttura ci permette di cogliere con maggiore chiarezza il progressivo invecchiamento, messo in evidenza dalla crescita dell’indice di vecchiaia (che misura quanti anziani ci sono ogni 100 giovanissimi) e dell’indice di dipendenza anziani (che misura quanti anziani ci sono ogni 100 persone comprese nella fascia produttiva). Il valore della vita media maschile e femminile si è notevolmente accresciuto, come indicato dall’età media in corrispondenza dell’età 60 (e60), con un guadagno di 4,4 anni dal 1951 al 2001 per gli uomini e di 7,4 anni nel medesimo periodo per le donne. Tabella 1: Principali indicatori del processo di invecchiamento in Italia ai Censimenti della Popolazione (1951-2001) Anni 1951 1961 1971 1981 1991 2001 Struttura per età della popolazione (valori percentuali) Indici di struttura Età media a 60 anni (valori percentuali) (valori in anni) 0-14 15-64 65 + strutturale Vecchiaia totale 26,1 24,5 24,4 21,5 15,9 14,2 65,7 66,0 64,3 65,3 68,8 67,1 8,2 9,5 11,3 13,2 15,3 18,7 31,4 38,8 46,3 61,4 96,2 131,4 Dipendenza Dipendenza 12,5 14,4 17,6 20,2 22,2 27,9 52,2 51,5 55,5 53,1 45,3 49,1 Maschi Femmine 16,0 16,7 16,7 17,0 18,7 20,4 17,5 19,3 20,2 21,4 23,2 24,9 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, Censimenti della Popolazione. 1 Le tre macroclassi d’età considerate corrispondono alle tre fasi della vita degli individui. Pertanto il gruppo 0-14 anni indica la popolazione giovane, quello 15-64 la popolazione adulta, quello 65+ la popolazione anziana. 2 Gli indici di struttura elementari qui calcolati sono: a. l’indice di vecchiaia, attraverso la formula: P65+ P0-14 b. l’indice di dipendenza strutturale (o di carico sociale), attraverso la formula: P0-19+ + P65+ c. l’indice di dipendenza anziani, attraverso la formula: P20-64 P65+ P20-64 103 2.2. Tendenze recenti e previsioni per il futuro Dopo aver analizzato i dati fino al 2001, passiamo all’osservazione delle tendenze più recenti del fenomeno dell’invecchiamento, cercando anche di mostrare quali potranno essere le tendenze future. A tale scopo utilizziamo le ultime previsioni demografiche rilasciate dall’Istat. Nella tab. 2 sono raccolti i principali indicatori demografici relativi alla popolazione italiana tra il 2002 e il 2005, con una previsione al 2030 e al 2050. Appare evidente come il processo di invecchiamento proseguirà in maniera progressiva, giungendo nel 2050 a deformare3 la struttura per età della popolazione, con una quota di anziani (33,6% del totale della popolazione) oltre due volte e mezzo la quota di giovani (solo il 12,7%). La riduzione sarà ovviamente evidente anche nella fascia di età adulta, come conseguenza delle passate tendenze della fecondità. Le conseguenze di tale processo di squilibrio generazionale sono efficacemente sintetizzate attraverso gli indici di struttura della popolazione, che raggiungeranno valori più che doppi rispetto a quelli attuali. Tabella 2: Tendenze recenti del processo di invecchiamento in Italia (2002-2050) Anni 2002 2003 2004 2005 2030 2050 Numero medio di figli per donna 1,27 1,29 1,33 1,32 1,48 1,60 Speranza di vita alla nascita (in anni) Struttura per età della popolazione (valori percentuali) Maschi Femmine 0-14 15-64 77,1 77,2 77,7 77,6 81,0 86,6 83,0 82,8 83,7 83,2 83,6 88,8 14,2 14,2 14,1 14,1 12,2 12,7 66,8 66,6 66,4 66,1 60,8 53,7 65+ 19,0 19,2 19,5 19,8 27,0 33,6 Indici di struttura (valori percentuali) Età media (valori in anni) Vecchiaia Dipendenza Dipendenza strutturale 133,8 135,9 137,8 140,4 222,1 264,1 49,8 50,1 50,6 51,2 64,0 86,0 28,5 28,9 29,3 29,9 44,0 63,0 anziani 42,2 42,3 42,5 42,7 47,0 49,1 Fonte: anni fino al 2005, nostre elaborazioni su dati Istat, 2006a; dati 2030 e 2050, nostre elaborazioni su previsioni Istat (base 2005), 2006b. 3 Conseguentemente alle passate tendenze della fecondità e della mortalità le strutture per età delle popolazioni europee risultano piuttosto “deformate rispetto alle millenarie strutture per età conseguenti ai tradizionali livelli di fecondità e mortalità” (Golini e Mussino, 1995, p. 193). Dato che al diminuire della fecondità e all’aumentare dell’invecchiamento diminuisce la dimensione della generazione media delle donne in età feconda, a partire da un certo livello di mortalità, per cercare di controbilanciare il numero dei morti, il tasso di fecondità totale del momento, capace di assicurare all’anno una crescita zero (o, perlomeno, un lieve decremento dell’ammontare della popolazione), cresce in maniera proporzionale all’aumento della percentuale di ultrasessantenni. Ad esempio, nelle popolazioni dove la percentuale di ultrasessantenni è pari al 25%, basta il puro tasso di sostituzione del 2,1 per assicurare la crescita zero, cioè il livello al quale una popolazione riesce a rinnovare la sua struttura, pur mantenendosi inalterata in termini di ammontare. Qualora però la percentuale degli anziani (60+) salga a un livello del 30%, la fecondità del momento dovrebbe raggiungere quota 2,8 per garantire la crescita zero, o almeno un livello di 2,5 per avere un decremento moderato della popolazione. Tali livelli di fecondità oramai non si riscontrano più in nessuna popolazione occidentale, Europa compresa, e non è immaginabile che vi possa essere un’inversione di tendenza tale da raggiungere questi livelli. Basandosi sui dati delle popolazioni stabili associate agli attuali livelli di mortalità delle popolazioni occidentali, si può supporre una popolazione con una percentuale di ultrasessantenni del 30% corra il rischio che la struttura per età della popolazione, raggiunta una certa conformazione, costituisca essa stessa un fattore non trascurabile dell’intenso declino demografico e di un invecchiamento ancora più accentuato. Se poi gli anziani superano il 30% (a livelli, ad esempio, del 35% o del 40%), allora si potrebbe giungere a una sorta di punto di non ritorno demografico: l’intenso declino demografico e l’accelerazione nel processo di invecchiamento conseguenti a tale aumento eccessivo della popolazione anziana sarebbero tali da far si che la popolazione non abbia più “la capacità endogena di ‘riassorbire’ le deformazioni della struttura per età e fermare o invertire le tendenze demografiche in atto” (Golino e Mussino, 1995, p. 196). 104 Osservando i dati sulla speranza di vita alla nascita maschile e femminile (che nel 2050 raggiungerà, rispettivamente, 86,6 e 88,8 anni) occorre anche evidenziare che la crescita di popolazione anziana riguarderà soprattutto le fasce d’età estreme (i cosiddetti grandi vecchi) che rappresentano il gruppo più fragile tra gli anziani. In un recente articolo apparso su Gerontology, due ricercatori del Max Planck Institute for Human Development di Berlino hanno esaminato i guadagni e le perdite della senescenza (Baltes e Smith, 2003). Le buone notizie riguardo alla longevità si concentrano, secondo gli autori, quasi esclusivamente nella terza età: aumento della speranza di vita, migliori capacità fisiche e mentali, maggiori riserve cognitivo-emozionali nella mente dell’anziano, benessere emozionale e personale, ecc. Riguardo alla quarta età, invece, gli autori individuano le cattive notizie, ossia: perdita delle capacità cognitive e di apprendimento, aumento della sindrome da stress cronico, aumento della demenza senile, livelli elevati di fragilità, disfunzionalità e pluripatologie, ecc. Non ultima va considerata la questione morale di guadagnare anni di esistenza, ma in condizioni di salute che non consentono di vivere dignitosamente. Proprio riguardo a tali considerazioni l’attenzione degli studiosi si va gradualmente concentrando non solo sull’aumento dell’aspettativa di vita, ma soprattutto sui guadagni di anni in buona salute e liberi da disabilità. La crescita del gruppo degli ultraottantenni porrà problemi ancora più gravi, mettendo a dura prova il funzionamento del sistema di sicurezza sociale, soprattutto in relazione all’asimmetria tra popolazione economicamente produttiva e popolazione improduttiva e bisognosa di cure. Se l’invecchiamento dall’alto è reso evidente dai guadagni di vita, l’invecchiamento dal basso si esprime attraverso i valori del tasso totale di fecondità (numero medio di figli per donna) che, nonostante una lieve ripresa, resta ampiamente sotto il valore di ricambio di 2,1 figli.4 In considerazione dei recenti sviluppi socio-economici e culturali e dei cambiamenti nelle modalità di formazione delle famiglie e pianificazione delle scelte riproduttive5 non vi sono indicazioni che facciano ipotizzare un’inversione di tendenza in tal senso. 2.3. I differenziali regionali Pur se con una comune e netta tendenza al progressivo invecchiamento demografico, le regioni italiane non presentano il medesimo livello di manifestazione del fenomeno: in particolare le regioni meridionali, nelle quali la discesa della fecondità è stata più lenta, presentano un minor grado d’invecchiamento (a causa di un ridotto apporto dal basso). Verosimilmente, però, i guadagni di fecondità che si realizzeranno saranno attribuibili, soprattutto nel futuro più immediato, alle regioni del Centro e del Nord (tendenza già visibile), nelle quali la maggiore stabilità lavorativa delle donne (testimoniata dai tassi di occupazione femminile più elevati) permetterà un recupero in età più avanzate (oltre i 30 e fino ai 40 anni) della fecondità persa in età giovane. Le regioni nelle quali si ha la maggiore quota di popolazione anziana sul totale regionale sono tutte centro-settentrionali: Liguria (26,6%), Toscana e Umbria (23,3%), Emilia Romagna (22,8%). Le regioni più giovani sono, invece, tutte meridionali: Campania (15,3% di anziani), Puglia (17,3%), Sardegna (17,6%), Sicilia (18,0%). Analoghi equilibri si registrano osservando i valori degli indici di struttura. Pare opportuno rilevare che la Campania è l’unica regione italiana ad avere un valore di indice di vecchiaia inferiore a 100 (in corrispondenza del quale c’è esattamente 1 anziano per ogni giovanissimo), mentre la Liguria è l’unica regione ad avere valore superiore a 200 (in corrispondenza del quale il numero di anziani è esattamente doppio rispetto a quello dei giovani). Poiché il rapporto tra i sessi alla nascita è abbastanza stabile (105 maschi ogni 100 femmine), la quota di nascite femminili è pari al 48,8%. Quindi il livello di fecondità di 2,1 corrisponde ad un numero di figlie pari a 1 (2,1*0,488), ed è quindi quel valore che assicura il ricambio generazionale (garantendo la sostituzione d’ogni madre con una figlia). 5 Lo spostamento in avanti dell’età media al matrimonio e dell’età media alla maternità determinano una riduzione del numero medio di figli, in quanto fare figli tardi significa anche farne meno. Va, inoltre, considerato il cambiamento nella valutazione economica dei figli, oltre alla ridefinizione dei ruoli sociali e familiari della donna, che hanno contribuito a determinare una considerazione più consapevole del trade-off figli/carriera. 4 105 Tabella 3: Indicatori demografici dell’invecchiamento per regioni e ripartizioni (2005) Regioni Numero Speranza di vita medio alla nascita di figli (in anni) per donna Maschi Femmine Struttura per età della popolazione (valori percentuali) 0-14 15-64 65+ Indici di struttura (valori percentuali) Età media (valori in anni) Vecchiaia Dipendenza Dipendenza strutturale anziani Piemonte 1,27 77,3 82,9 12,4 65,0 22,6 181,3 53,8 34,7 44,9 Valle d'Aosta 1,34 77,3 82,9 13,3 66,5 20,2 151,8 50,4 30,4 43,6 Lombardia 1,35 77,6 83,5 13,6 66,9 19,5 143,2 49,5 29,2 43,0 Trentino Alto Adige 1,54 78,2 84,1 16,2 66,2 17,7 109,3 51,2 26,7 41,2 Veneto 1,35 77,9 84,0 13,9 66,9 19,2 138,5 49,4 28,7 42,8 Friuli 1,23 Venezia Giulia 77,8 83,1 12,0 65,4 22,6 188,0 52,9 34,5 45,3 Liguria 1,18 77,3 82,9 11,1 62,3 26,6 240,3 60,6 42,8 47,3 Emilia Romagna 1,34 78,1 83,6 12,5 64,7 22,8 182,9 54,5 35,2 44,9 Nord 1,33 77,7 83,5 13,2 65,9 21,0 159,4 51,8 31,8 43,9 Toscana 1,27 78,4 84,0 12,1 64,6 23,3 192,0 54,8 36,1 45,3 Umbria 1,31 78,0 83,8 12,5 64,2 23,3 186,4 55,9 36,4 44,9 Marche 1,28 78,8 84,7 13,1 64,4 22,6 172,9 55,4 35,1 44,2 Lazio 1,27 77,6 82,7 13,9 67,0 19,1 137,6 49,3 28,5 42,5 Centro 1,27 78,1 83,5 13,1 65,7 21,2 162,0 52,3 32,4 43,8 Abruzzo 1,21 77,2 83,8 13,4 65,3 21,3 158,6 53,1 32,6 43,3 Molise 1,14 77,2 83,8 13,4 64,7 22,0 164,7 54,7 34,0 43,5 Campania 1,43 76,1 81,8 17,5 67,2 15,3 87,8 48,8 22,8 38,9 Puglia 1,27 78,5 83,5 15,7 67,0 17,3 110,2 49,2 25,8 40,5 Basilicata 1,15 77,6 83,4 14,5 65,6 19,9 137,8 52,4 30,4 41,9 Calabria 1,24 77,6 82,9 15,2 66,5 18,3 120,2 50,3 27,5 40,9 Sicilia 1,41 77,4 82,3 16,1 65,9 18,0 111,3 51,8 27,3 40,6 Sardegna 1,05 77,2 83,6 12,9 69,5 17,6 136,8 43,9 25,3 42,1 Mezzogiorno 1,32 77,2 82,7 15,8 66,8 17,4 110,3 49,8 26,1 40,5 ITALIA 1,32 77,6 83,2 14,1 66,1 19,8 140,4 51,2 29,9 42,7 Fonte: dati Istat, 2006. Le differenze territoriali possono essere efficacemente presentate attraverso le seguenti cartografie, costruite allo scopo di mostrare come il processo di invecchiamento sia più acuto nelle regioni del nord e del centro e meno intenso nelle regioni meridionali, con Liguria e Campania come regioni estreme. 106 Figura 1: Valore dell’indice di vecchiaia nelle regioni italiane Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006 Figura 2: Valore dell’indice di dipendenza anziani nelle regioni italiane Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006 Figura 3: Valore dell’indice di dipendenza strutturale nelle regioni italiane Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006 Figura 4: Età media della popolazione nelle regioni italiane Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006 107 3. Invecchiamento e lavoro 3.1. Lavoratori maturi e partecipazione al mercato del lavoro Appare chiaro dalle analisi sin qui compiute come il processo di invecchiamento demografico pone molte questioni importanti in relazione ai necessari riassetti del mercato del lavoro, dei sistemi pensionistici e fiscali a seguito delle mutate condizioni di contesto. Nella direzione di mantenere la sostenibilità dei sistemi economici e sociali europei, nel marzo 2000 il Consiglio Europeo di Lisbona stabilì l’obiettivo generale di raggiungere un tasso di occupazione pari al 70%. Poiché la quota di popolazione che costituisce la forza lavoro tende progressivamente ad assottigliarsi, la partita decisiva si giocherà sulla capacità di incrementare la partecipazione dei lavoratori (in particolare quelli maturi e anziani) al mercato, aumentando i tassi di occupazione femminile, allungando il periodo lavorativo e disincentivando l’uscita prematura dal sistema produttivo. Nella direzione del raggiungimento di quanto stabilito a Lisbona, i due Consigli successivi di Stoccolma (2001) e di Barcellona (2002) hanno definito due obiettivi: 1. elevare il tasso di occupazione dei lavoratori di età compresa tra 55 e 64 anni al 50% entro il 2010 (obiettivo di Stoccolma); 2. aumentare progressivamente di circa 5 anni (fino a 65,4) l’età media effettiva alla quale i lavoratori cessano di lavorare (obiettivo di Barcellona). L’analisi dei tassi di partecipazione dei lavoratori maturi in Italia e in Europa sarà condotta proprio in riferimento a questi obiettivi, allo scopo di comprendere quali progressi sono stati compiuti e quali regioni presentano, invece, un ritardo in tal senso. La Tabella 4 mostra i tassi di occupazione delle persone di età compresa tra 55 e 64 anni per regione. Il dato interessante che emerge è che i tassi di partecipazione dei lavoratori maturi sono maggiori nelle regioni meridionali che non in quelle settentrionali e centrali: i valori più elevati si registrano, infatti, in Calabria (37,7%), in Molise (37,4%), in Basilicata (36,5%) e in Abruzzo (35,8%). I valori più bassi, invece, sono quelli di Friuli Venezia Giulia (26,4%), Veneto (27,4%), Puglia (unica eccezione tra le regione meridionali, col 27,7%) e Piemonte (28,1%). La distanza del valore italiano dall’obiettivo di Stoccolma si è progressivamente ridotta, passando da 22,4 punti percentuali del 1999 a 18,6 nel 2005. Tra le regioni italiane solo la Puglia ha manifestato un decremento della partecipazione dei lavoratori maturi, mentre in tutte le altre la tendenza alla crescita è evidente. Le regioni che hanno manifestato i tassi di variazione più elevati sono Valle d’Aosta (132), Toscana (129) e Umbria (126). I valori italiani sono, però, ancora eccessivamente bassi e, come apparirà evidente dal confronto con gli altri paesi europei nel paragrafo successivo, molto distanti dai valori medi dell’Unione Europea a 15 e a 25. 108 Tabella 4: Tasso di occupazione della popolazione tra 55-64 anni. Valori percentuali Anno 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Variazioni 1999-2005 Piemonte Valle d'Aosta Liguria Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna ITALIA 22,4 23,5 25,3 23,3 29,0 24,2 22,4 30,1 27,5 26,2 28,7 34,4 32,5 32,0 32,2 29,7 31,6 32,3 27,4 28,6 27,6 22,9 27,8 24,6 22,3 29,4 25,7 23,3 29,0 27,6 25,4 27,6 34,2 34,7 34,0 32,9 30,4 32,3 31,3 28,6 27,2 27,7 23,0 29,1 26,8 22,6 29,9 24,9 23,4 28,1 28,9 26,3 29,4 33,4 33,7 32,7 33,6 30,8 30,7 34,0 29,9 26,4 28,0 23,2 28,1 26,5 24,2 30,0 26,1 23,5 29,4 30,3 27,8 29,4 34,2 33,8 35,4 33,9 31,4 31,3 34,3 31,5 28,6 28,9 26,2 29,2 27,0 25,7 30,7 27,8 24,2 31,6 31,6 29,5 30,1 36,3 35,8 37,2 34,4 31,8 31,5 36,1 31,7 27,3 30,3 26,9 32,0 28,3 28,3 32,4 28,1 26,5 32,1 32,2 31,0 32,7 35,1 34,4 34,1 32,3 28,5 34,8 38,2 30,1 29,3 30,5 28,1 31,1 29,9 28,8 32,0 27,4 26,4 33,4 35,5 33,0 32,7 35,8 35,8 37,4 32,4 27,7 36,5 37,7 33,0 31,3 31,4 125 132 118 124 110 113 118 111 129 126 114 104 110 117 101 93 115 117 121 109 114 Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a. Tabella 5: Tasso di occupazione della popolazione 55-64 anni per sesso. Valori percentuali Anno Piemonte Valle d'Aosta Liguria Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna ITALIA 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 U D U D U D U D U D U D 32,1 30,9 35,2 34,7 40,4 13,1 16,2 16,4 12,7 18,4 31,8 32,8 34,3 32,6 39,9 14,3 22,8 15,8 12,5 19,6 30,8 34,7 35,0 32,4 38,4 15,4 23,5 19,3 13,2 21,7 31,5 32,7 34,9 33,9 40,1 15,3 23,5 18,8 15,0 20,3 34,6 33,6 37,0 36,5 39,6 18,1 24,8 17,9 15,4 22,1 34,6 37,3 36,6 39,7 41,6 19,6 26,6 20,9 17,4 23,5 Variazioni 1999-2005 U D U D 37,4 37,5 36,9 38,9 41,6 19,2 24,5 23,6 19,2 22,7 117 121 105 112 103 146 151 144 151 123 37,1 11,9 31,4 13,7 39,3 12,6 32,1 14,8 36,6 13,6 32,1 14,9 36,7 15,9 30,9 16,3 38,9 17,1 32,8 15,9 39,5 17,0 36,9 16,4 38,1 17,1 33,9 19,2 103 144 108 140 40,8 20,1 39,0 19,7 38,0 18,8 39,6 19,8 40,4 23,3 41,0 23,7 42,7 24,5 105 122 36,9 36,2 39,0 51,8 47,1 47,3 52,0 47,6 44,5 51,6 45,6 44,6 41,2 37,2 35,2 38,5 50,1 52,6 49,0 51,9 49,1 47,7 49,3 46,4 42,2 40,9 38,8 35,4 39,8 50,0 50,9 47,9 51,2 48,0 44,9 50,1 46,9 39,9 40,4 40,9 34,5 37,8 50,4 46,5 51,3 52,8 47,6 44,4 51,5 48,3 42,7 41,3 42,3 37,7 37,6 52,3 46,7 53,6 53,2 49,2 44,3 53,2 48,7 40,7 42,8 41,6 40,3 45,1 47,5 47,0 46,2 47,3 41,4 48,8 53,8 45,3 43,0 42,2 44,4 40,8 43,6 46,7 47,7 48,5 47,1 42,0 49,0 53,5 48,5 46,1 42,7 120 113 112 90 101 103 91 88 110 104 106 103 104 18,8 16,7 19,0 18,6 18,6 17,7 14,2 13,3 19,6 14,0 11,0 13,8 15,0 18,6 16,1 17,4 19,7 17,5 19,9 15,3 13,2 18,0 14,1 12,5 13,2 15,3 19,7 17,8 19,7 18,3 17,2 18,3 17,2 14,9 17,5 18,4 14,3 13,8 16,2 Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a. 109 20,3 21,4 21,4 19,3 21,6 20,3 16,2 16,5 19,1 17,7 16,2 15,4 17,3 21,5 21,8 23,1 21,8 25,2 21,6 16,8 15,7 19,6 19,6 16,1 14,8 18,5 23,6 22,1 21,0 24,0 22,3 22,3 18,0 16,5 21,6 23,0 16,1 16,3 19,6 27,2 25,5 22,5 26,1 24,2 26,4 18,4 14,4 24,4 22,2 18,9 17,1 20,8 145 153 118 140 130 149 129 108 125 159 172 124 139 L’innalzamento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro dovrà, ovviamente, riguardare entrambi i sessi. Se i tassi di occupazione femminili italiani sono tuttora molto bassi, ancora più negativa, anche se in miglioramento, è la situazione per quanto concerne le lavoratrici più anziane. La Tabella 5 mostra, appunto, le differenze tra i due sessi: tra il 1999 e il 2005 la distanza tra i tassi di partecipazione maschili e femminili si è progressivamente ridotta, attestandosi su un valore di 21,9 punti percentuali nel 2005. Il tasso di partecipazione delle donne nella fascia d’età 55-64 anni è cresciuto dal 15% del 1999 al 20,8% del 2005, con una variazione complessiva nel periodo del 139%, contro una sostanziale immobilità dei tassi di partecipazione maschili (crescita 1999-2005 pari al 104%). La crescita a ritmi più elevati dei tassi di partecipazione delle donne mature al mercato del lavoro può essere mostrata attraverso la Figura 5, che presenta i risultati del calcolo dell’accrescimento attraverso i numeri indice a base 1999. L’analisi dei dati disaggregati per sesso ci permette di notare come in due regioni, Lazio e Campania, vi è stata, in realtà, una diminuzione dei tassi di partecipazione dei lavoratori anziani maschi compensata, però, dall’aumento della partecipazione femminile. Ciò ha fatto sì che si determinasse, in ogni caso, una crescita (la variazione totale delle due regioni è stata pari, rispettivamente, a 104 e a 101). In Puglia, invece, la diminuzione nella partecipazione ha interessato entrambi i sessi, determinando un decremento generale dei tassi di partecipazione (variazione 1999-2005 pari a 93). Tali osservazioni ci permettono di confermare l’importanza della partecipazione femminile nella direzione di un riequilibrio del mercato del lavoro.6 Figura 5: Crescita dei tassi di partecipazione dei lavoratori 55-64 anni al mercato del lavoro. Numeri indice per sesso a base 1999 = 100 Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006 Ulteriori considerazioni in relazione al differenziale di genere possono essere fatte stimando il rapporto di mascolinità tra i tassi e l’indice di eccedenza maschile,7 i cui risultati per l’Italia sono raccolti nella Tabella 6: se al 1999 i lavoratori anziani di sesso maschile eccedevano del 46,62% quelli di sesso femminile, tale eccedenza si è ridotta al 34,49% nel 2005. Ciò equivale ad affermare che, se nel 1999 vi erano oltre 274 uomini ogni 100 donne tra i lavoratori di età compresa tra i 55 e i 64 anni, tale proporzione si è ridotta a un valore di 205 a 100 nel 2005. L’entrata massiccia delle L’importanza dell’affermazione della partecipazione femminile è rimarcata anche dal fatto che tra gli obiettivi fissati a livello europeo per far fronte agli squilibri indotti dai processi demografici vi è anche l’innalzamento dei tassi di occupazione femminili ad un livello del 60% entro il 2010 (Consiglio Europeo di Lisbona, marzo 2000). 7 Il rapporto di mascolinità viene calcolato come Nm / Nf per lo specifico sottogruppo. Nm -Nf L’indice di eccedenza maschile viene calcolato utilizzando la formula (Leti, 1983, p. 515): Nm +Nf *100 Entrambi sono solitamente calcolati sui valori assoluti dei due gruppi (maschile e femminile), ma in questo caso sono stati utilizzati i valori percentuali. Il risultato comparativo a cui si perviene in ogni caso non cambia. 6 110 donne nel mercato del lavoro ha, dunque, contribuito in una prima fase (e contribuisce tuttora) a mitigare gli effetti negativi dell’invecchiamento. È chiaro, comunque, che le ricadute positive dell’affermazione della partecipazione femminile al mercato del lavoro sono destinate a ridursi, a mano a mano che il processo d’invecchiamento proseguirà e il ricambio all’interno della fascia produttiva non sarà più garantito né dagli uomini e né tanto meno dalle donne. Tabella 6: Progressiva riduzione degli squilibri di genere tra i lavoratori italiani 55-64 anni Rapporto di mascolinità Indice di eccedenza maschile 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 274,67 46,62 267,32 45,55 249,38 42,76 238,73 40,96 231,35 39,64 215,31 36,57 205,29 34,49 Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a. 3.2. Un confronto con gli altri paesi europei: progressi verso il raggiungimento degli obiettivi programmati Per comprendere qual’è la posizione italiana rispetto agli altri paesi europei, confrontiamo i tassi di occupazione dei lavoratori 55-64 anni nei diversi paesi. Il valore medio dell’Europa a 15 è cresciuto dal 35,7% del 1994 al 44,1% del 2005, anche se con valori molto difformi tra i diversi Stati. Agli estremi più bassi troviamo Austria, Belgio, Lussemburgo e Italia (tutti sotto il 32%), mentre agli estremi più elevati troviamo Svezia, Danimarca, Regno Unito e Finlandia (tutti sopra il 50%). Il valore medio dell’Europa a 25 presenta valori più bassi a causa del ridotto apporto dei nuovi dieci paesi, attestandosi al 42,5% nel 2005. Tra i nuovi paesi europei, i valori estremi sono rappresentati dal 27,2% della Polonia e dal 56,1% dell’Estonia. Tabella 7: Tassi di occupazione dei lavoratori 55-64 anni nei paesi UE15 e UE25. Valori percentuali Austria Belgio Danimarca Germania Grecia Finlandia Francia Irlanda Italia Lussemburgo Paesi Bassi Portogallo Regno Unito Spagna Svezia EU 15 Cipro Lettonia Lituania Ungheria Malta Polonia Estonia Repubblica Ceca Slovenia Slovacchia EU 25 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 27,2 22,5 50,9 36,6 40,1 33,2 29,6 38,8 29,3 23,5 29,1 46,8 47,4 21,6 62,0 35,7 - 29,7 22,9 49,8 37,7 41,0 34,4 29,6 39,2 28,4 23,7 28,9 46,0 47,5 32,3 62,0 36,0 - 29,1 21,9 49,1 37,9 41,2 35,4 29,4 29,7 28,6 22,9 30,5 47,3 47,7 33,2 63,4 36,3 17,7 19,1 - 28,3 22,1 51,7 38,1 41,0 35,6 29,0 40,4 27,9 23,9 32,0 48,5 48,3 34,1 62,6 36,4 17,7 33,9 21,8 35,7 28,4 22,9 52,0 37,7 39,0 36,2 28,3 41,7 27,7 25,1 33,9 49,6 49,0 35,1 63,0 36,6 36,3 39,5 17,3 32,1 50,2 37,1 23,9 22,8 35,8 29,7 24,6 54,5 37,8 39,3 39,0 28,8 43,7 27,6 26,4 36,4 50,1 49,6 35,0 63,9 37,1 36,6 40,9 29,4 31,9 47,5 37,5 22,0 22,3 36,2 28,8 26,3 55,7 37,6 39,0 41,6 29,9 45,3 27,7 26,7 38,2 50,7 50,7 37,0 64,9 37,8 49,4 36,0 40,4 22,2 28,5 28,4 46,3 36,3 22,7 21,3 36,6 28,9 25,1 58,0 37,9 38,2 45,7 31,9 46,8 28,0 25,6 39,6 50,2 52,2 39,2 66,7 38,8 49,1 36,9 38,9 23,5 29,4 27,4 48,5 37,1 27,5 22,4 37,5 29,1 26,6 57,9 38,9 39,2 47,8 34,7 48,0 28,9 28,1 42,3 51,4 53,4 39,6 68,0 40,2 49,4 41,7 41,6 25,6 30,1 26,1 51,6 40,8 24,5 22,8 38,7 30,3 28,1 60,2 39,9 41,3 29,6 36,8 49,0 30,3 30,3 44,3 51,6 55,4 40,7 68,6 41,7 50,4 44,1 44,7 28,9 32,5 26,9 52,3 42,3 23,5 24,6 40,2 28,8 30,0 60,3 41,8 39,4 50,9 37,3 49,5 30,5 30,4 45,2 50,3 56,2 41,3 69,1 42,5 49,9 47,9 47,1 31,3 31,5 26,2 52,4 42,7 29,0 26,8 41,0 31,8 31,8 59,5 45,4 41,6 52,7 37,9 52,6 31,4 31,7 46,1 50,5 56,9 43,1 69,4 44,1 50,6 49,5 49,2 33,0 30,8 27,2 56,1 44,5 30,7 30,3 42,5 Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a. 111 Osservando la Figura 6 è possibile individuare chiaramente i paesi che hanno raggiunto l’obiettivo del 50% del tasso di partecipazione dei lavoratori anziani e quelli che, invece, sono ancora lontani. Al 2005 solo otto dei 25 paesi hanno superato l’obiettivo stabilito dal Consiglio di Stoccolma: Irlanda, Cipro, Portogallo, Finlandia, Estonia, Regno Unito, Danimarca e Svezia. Tra i paesi che sono al di sotto dell’obiettivo ve ne è un gruppo, costituito da sette paesi (Grecia, Spagna, Germania, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Lituania e Lettonia), che presentano valori inferiori, ma di non oltre 10 punti percentuali, all’obiettivo del 50%. Infine, è possibile individuare un ultimo gruppo di dieci paesi (Francia, Malta, Ungheria, Lussemburgo, Italia, Belgio, Slovenia, Slovacchia, Austria e Polonia) che presentano valori inferiori all’obiettivo di Stoccolma di oltre 10 punti percentuali. Figura 6: Tassi di partecipazione dei lavoratori 55-64 anni al mercato del lavoro nei paesi europei. Distanza dall’obiettivo di Stoccolma (2004 e 2005) Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006b. Oltre all’aumento dei tassi di partecipazione dei lavoratori più anziani, un altro elemento fondamentale per la lotta agli squilibri indotti dai processi demografici è l’allungamento del periodo lavorativo (e, quindi, del periodo contributivo). L’indicatore Eurostat riportato in Tabella 8 fornisce un’età media in corrispondenza della quale le persone attive si ritirano definitivamente dal mercato del lavoro. La stima è basata su un modello probabilistico che considera i cambiamenti relativi dei tassi di attività da un anno all’altro a una specifica età. Il tasso di attività rappresenta la forza lavoro (occupata e inoccupata) come percentuale rispetto al totale della popolazione per una data età. I dati sono tratti dallo European Labour Force Survey condotto dall’Eurostat. La distanza media dei paesi EU15 dall’Obiettivo di Barcellona (65,4 anni) è di 4,4 anni, mentre la distanza media dei paesi EU25 è di 4,6 anni. L’età media di uscita femminile è inferiore a quella maschile in tutti i paesi, tranne Francia, Irlanda e Portogallo, dove la distanza è, rispettivamente, di 0,6, 1,0 e 1,4 punti percentuali a favore del sesso femminile. Negli altri paesi la distanza a favore degli uomini varia da un massimo di 4,6 punti percentuali della Polonia a un minimo di 0,2 dei Paesi Bassi. Nessun paese europeo ha ancora raggiunto l’obiettivo fissato dal Consiglio Europeo di Barcellona, anzi vi sono addirittura stati nei quali si è manifestata una diminuzione dell’età media all’uscita dal mercato del lavoro: tra questi la Danimarca (il cui valore totale era di 61,6 nel 2001, sceso a 60,9 nel 2005), la Lettonia (62,4 nel 2001 e 62,1 nel 2005) e, seppur in misura lieve, l’Italia (59,8 anni nel 2001 e 59,7 nel 2005). Gli altri paesi hanno manifestato una crescita dell’età media, anche se in alcuni casi molto lieve (Finlandia e Austria). I maggiori passi in avanti nella direzione di una posticipazione del pensionamento sono stati fatti dal Belgio (+3,8 anni sul valore totale tra il 2001 e il 2005), dalla Polonia (+2,9 anni), dal Lussemburgo (+2,6) e dalla Spagna (+2,1). 112 Tabella 8: Età media di cessazione del lavoro (ponderata con la probabilità di ritiro dal mercato del lavoro) nei paesi UE15 e UE25 Austria Belgio Danimarca Finlandia Francia Germania Grecia Irlanda Italia Lussemburgo Paesi Bassi Portogallo Spagna Svezia Regno Unito EU 15 Cipro Estonia Lettonia Lituania Malta Polonia Slovenia Slovacchia Rep. Ceca Ungheria EU 25 2001 2002 2003 2004 2005 Uomini Donne Totale Uomini Donne Totale Uomini Donne Totale Uomini Donne Totale Uomini Donne Totale 59,9 57,8 62,1 61,5 58,2 60,9 63,4 59,9 61,1 62,3 60,6 61,9 63,0 60,7 57,8 59,3 60,7 58,4 60,4 58,5 55,9 61,0 61,3 58,0 60,4 63,0 59,8 60,8 61,6 60,0 61,6 61,0 59,9 55,5 56,0 57,3 57,0 59,3 59,2 56,8 61,6 61,4 58,1 60,6 63,2 59,8 56,8 60,9 61,9 60,3 61,8 62,0 60,3 62,3 61,1 62,4 58,9 57,6 56,6 57,5 58,9 57,6 59,9 59,4 58,6 61,9 60,6 58,9 61,1 61,1 62,8 60,2 62,9 62,9 61,4 63,4 62,7 61,0 58,1 59,6 62,2 59,6 60,8 59,2 58,4 59,8 60,4 58,7 60,3 61,5 63,5 59,7 61,6 63,1 61,6 63,1 61,8 60,5 55,8 55,7 58,4 58,8 60,0 59,3 60,2 60,9 60,5 58,8 60,7 61,3 59,9 61,4 59,3 62,2 63,0 61,5 63,3 62,3 60,8 61,4 61,6 58,2 56,9 56,6 57,5 60,2 59,1 60,4 59,4 58,6 62,3 60,7 59,7 61,9 63,4 62,7 60,9 61,0 63,7 61,7 63,5 64,2 61,7 59,8 60,0 61,2 60,9 61,5 58,2 58,7 62,0 60,0 59,6 61,4 62,2 63,0 61,0 60,1 60,6 61,3 62,8 61,9 61,0 56,4 55,9 59,0 62,1 60,5 58,8 58,7 62,2 60,4 59,6 61,6 62,7 62,9 61,0 57,4 60,5 62,1 61,5 63,1 63,0 61,3 62,7 60,8 58,0 57,9 56,2 57,8 60,1 61,6 61,0 59,1 62,6 60,2 58,4 61,4 63,4 61,1 61,2 61,5 63,1 62,9 61,0 60,0 60,3 61,3 60,3 60,9 59,6 61,6 60,8 59,4 61,1 62,3 61,1 63,1 62,9 62,4 61,4 60,7 55,8 57,0 58,9 60,7 60,2 59,4 62,1 60,5 58,9 61,3 62,8 58,3 61,1 62,2 62,2 62,8 62,1 60,8 62,7 62,3 62,9 60,8 58,0 57,7 58,5 60,0 60,5 60,5 60,3 61,6 61,2 61,8 58,5 62,5 63,6 60,7 61,6 62,4 62,0 64,3 63,4 61,4 62,0 61,1 62,3 61,2 61,4 59,4 59,6 60,7 61,7 59,1 61,0 64,6 58,8 61,4 63,8 59,1 63,0 61,9 60,8 57,4 57,6 59,1 58,7 60,4 59,8 60,6 60,9 61,7 58,8 61,7 64,1 59,7 59,4 61,5 63,1 62,4 63,7 62,6 61,1 61,7 62,1 60,0 58,8 59,5 58,5 59,2 60,6 59,8 60,9 Fonte: dati Eurostat, 2006b. Figura 7: Età media di cessazione del lavoro nei paesi europei. Distanza dall’obiettivo di Barcellona (20058) Fonte: dati Eurostat, 2006b. 8 I dati per la Germania e per Cipro sono relativi all’anno 2004, non essendo disponibili dati per l’ultimo anno di osservazione (2005). 113 Come per l’esame dei progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo di Stoccolma, anche in questo caso l’analisi grafica (Figura 7) ci consente di individuare tre gruppi di paesi.9 Il primo gruppo, composto da sette stati (Lettonia, Spagna, Regno Unito, Cipro, Portogallo, Svezia e Irlanda), prossimi all’obiettivo di Barcellona, che hanno età media di uscita dal mondo del lavoro maggiore di 62 anni; un secondo gruppo, composto da nove paesi (Lituania, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Finlandia, Grecia, Estonia), in posizione intermedia, con un’età di uscita compresa tra 60 e 62 anni; infine, il terzo gruppo, composto da nove paesi (Ungheria, Austria, Italia, Polonia, Lussemburgo, Slovacchia, Malta, Francia, Slovenia), a elevata distanza dall’obiettivo, la cui età di uscita è inferiore a 60 anni. Come si può notare, anche in questo caso l’Italia non presenta una situazione favorevole rispetto agli altri paesi europei e alla media UE15 e UE25. 4. Strategie per il prolungamento del periodo lavorativo 4.1. Un modello interpretativo per la bassa partecipazione dei lavoratori maturi e anziani al mercato del lavoro Sono stati numerosi gli studi che hanno cercato di individuare le cause della bassa partecipazione dei lavoratori maturi e anziani al mercato del lavoro. La maggior parte delle ricerche si è soffermata sulle modalità operative dei fattori di spinta e di attrazione (EspingAndersen, 1996 e 2000; Guillemard e de Vroom, 2001; Jansen, 2001), teorizzando l’esistenza di un modello esplicativo di tipo push- pull, che analizza l’azione concomitante dei fattori di spinta (push factors) all’uscita dal mercato del lavoro e di fattori attrattivi (pull factors) verso il pensionamento. L’analisi delle ragioni della bassa partecipazione andrebbe condotta anche con riferimento al lato della domanda e al lato dell’offerta di questo specifico sottogruppo di lavoratori (Stranges, 2006, pp. 127-132). Dal lato della domanda vanno analizzati i fattori che influenzano la scelta del datore di lavoro di assumere o mantenere persone mature o anziane all’interno della propria azienda, spesso basati più su stereotipi e pregiudizi che su fatti concreti. Tra questi: l’idea della rapida obsolescenza delle competenze e delle capacità dei lavoratori anziani, le presunte ridotte performance lavorative, l’avversione ai cambiamenti e agli spostamenti. A questi fattori, la cui reale esistenza non è supportata da studi scientifici, si unisce il maggior costo legato ai criteri di avanzamento in carriera per anzianità che spesso si traducono in salari più elevati per i dipendenti più maturi, facendo così lievitare i costi relativi alla loro assunzione o al loro mantenimento. Tutto ciò invoglierebbe i datori di lavoro ad assumere personale più giovane, che può rappresentare un costo minore rispetto a quello di età più elevata. La correlazione positiva tra età e stipendio è, infatti, confermata anche da numerosi studi internazionali.10 Dal lato dell’offerta, invece, vanno considerati tutti i fattori che spingono le persone ad abbandonare la propria attività lavorativa. Tali ragioni sono sia di tipo espulsivo dal mercato del lavoro e sia di tipo attrattivo dai sistemi pensionistici. Si pensi, ad esempio, all’eccessivo uso di strumenti assistenziali che determina negli individui una diminuzione dell’attaccamento al lavoro e l’idea di poter uscire prima dal mercato avvalendosi di tali strumenti, o ancora ai vari tipi di disincentivi fiscali che potrebbero scoraggiare chi decide di continuare a lavorare anche una volta raggiunta l’età pensionabile. Tra i fattori da tenere in considerazione non vanno 9 Si tratta, ovviamente, solo di una schematizzazione che consente di capire quali paesi sono più vicini e quali più lontani dallo specifico obiettivo. Nella formulazione della tripartizione l’ipotesi implicita è che proseguano le tendenze già in atto di aumento dell’età media di uscita del mercato. 10 Studi comparati dell’OCSE hanno mostrato che negli Stati Uniti, in Giappone, e in misura minore nel Regno Unito, gli stipendi crescono fino ai 50-55 anni, e iniziano però a diminuire velocemente immediatamente dopo. In Francia, invece, i guadagni crescono ininterrottamente con l’età. (OECD, 1996). 114 dimenticati quelli psico-sociali, ad esempio l’idea che potrebbe maturare nei lavoratori più anziani di inadeguatezza ai sistemi economici in continua trasformazione, che richiedono adattamenti, spesso repentini, delle proprie competenze e abilità. Proprio riguardo a quest’ultimo punto, si delinea con forza l’importanza di un processo formativo distribuito su tutto l’arco della vita lavorativa degli individui, che favorisca la loro idoneità continua al mercato del lavoro, favorendo anche l’attaccamento lavorativo e disincentivando l’uscita prematura. 4.2. L’importanza strategica della formazione permanente La società attuale, knowledge based, è una società dai ritmi molto veloci, caratterizzata dalla rapida obsolescenza di competenze, abilità e conoscenze. Nelle società più tradizionali l’acquisizione della conoscenza attraverso le diverse attività educative e formative avveniva in un periodo di tempo limitato, solitamente prima del proprio ingresso nel mercato del lavoro, e le competenze acquisite erano sufficienti allo svolgimento della propria mansione, compito o professione per un periodo di tempo molto lungo, che nella maggior parte dei casi coincideva con tutto il periodo lavorativo. Oggi, proprio in ragione della rapidità delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, il modello educativo-formativo deve mutare radicalmente, muovendosi in una direzione di distribuzione della formazione in periodo di tempo molto più lungo. Emerge con chiarezza l’importanza dei processi di lifelong learning,11 testimoniata anche dall’interesse a livello istituzionale. L’Unione Europea, con la Comunicazione della Commissione del novembre 2001, intitolata “Realizzare uno spazio europeo dell'apprendimento permanente”, (basata sul memorandum sull’istruzione e la formazione permanente del novembre 2000) e la Risoluzione del 27 giugno 2002 sull’apprendimento permanente, ha, di fatto, sancito la volontà di permettere a tutti i cittadini l’accesso alla formazione lungo l’intero arco della vita, sottolineando l’importanza dell’impegno a livello dei singoli stati membri. In particolare, nella risoluzione si dà rilievo alla promozione dell’apprendimento sul luogo di lavoro, allo sviluppo di strategie per individuare e incrementare la partecipazione di gruppi esclusi dalla società della conoscenza a causa dei loro scarsi livelli di competenze di base e alla partecipazione attiva nell’apprendimento permanente. Poiché l’obiettivo principale da raggiungere per mitigare gli effetti dell’invecchiamento demografico sul mercato del lavoro è l’incremento dei tassi di partecipazione (totale, femminile e degli anziani), i processi di lifelong learning possono divenire strumenti convenzionali per favorire e migliorare tale partecipazione. Osserviamo l’evoluzione dei processi di lifelong learning nelle regioni italiane (Tabella 9): i dati si riferiscono alla percentuale di popolazione adulta (di età compresa tra i 25 e i 64 anni) che partecipa ad attività di istruzione e formazione sulla popolazione della medesima età (in base alle dichiarazioni rese rispetto alle 4 settimane precedenti l’intervista). Un interessante approccio all’importanza dei processi di lifelong learning è contenuto in Giarini e Malitza (2003), poi ripreso da Malitza e Gheorghiu (2006). 11 115 Tabella 9: Processi di lifelong learning nelle regioni italiane. Valori percentuali ANNO Piemonte Valle d'Aosta Liguria Lombardia Trentino Alto Adige Veneto Friuli Venezia Giulia Emilia Romagna Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna ITALIA 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 Variazioni 1998-2005 5,3 4,0 4,9 6,0 6,2 4,7 6,3 7,5 5,8 4,4 5,5 8,3 5,8 4,4 5,5 8,3 3,9 3,3 4,1 5,0 3,8 4,1 3,9 4,2 5,1 5,2 4,5 6,3 6,0 8,0 4,8 4,1 5,8 5,5 7,6 91 145 112 127 6,0 6,8 6,8 8,0 7,4 6,5 7,4 6,5 5,0 5,6 5,1 5,5 6,1 8,0 6,0 6,6 100 97 5,9 7,7 7,1 7,1 5,5 5,7 6,6 5,7 97 5,8 4,5 4,3 5,6 4,2 5,2 3,9 4,8 4,5 5,5 3,3 6,6 4,8 6,0 4,9 5,4 5,6 3,8 4,6 4,2 5,0 5,7 5,6 3,5 7,1 5,5 6,5 6,3 5,4 5,5 4,3 5,1 4,7 6,2 5,7 5,5 4,4 6,6 5,5 6,5 6,3 5,4 5,5 4,3 5,1 4,7 6,2 5,7 5,5 4,4 6,6 5,1 4,9 5,6 4,2 4,8 4,7 4,9 3,6 4,2 4,7 4,5 3,4 5,8 4,6 5,4 5,2 4,6 5,0 4,7 5,1 3,4 4,1 5,5 4,5 3,4 6,0 4,7 6,2 7,5 6,0 7,9 7,4 6,6 5,8 5,2 5,8 6,7 5,1 6,6 6,8 6,8 7,0 5,3 7,7 7,1 6,3 5,0 4,8 5,7 5,9 4,9 6,0 6,2 117 156 123 138 169 121 128 100 127 107 148 91 129 Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a. Al 2005, le regioni dove i processi di lifelong learning appaiono maggiormente diffusi sono il Lazio (7,7%), il Trentino Alto Adige (7,6%) e l’Abruzzo (7,1%), mentre le regioni in cui il ricorso alla formazione permanente è meno esteso sono la Valle d’Aosta (4,1%), il Piemonte e la Puglia (4,8%) e la Sicilia (4,9%). Il dato più preoccupante è che in alcune regioni gli interventi di lifelong learning sono progressivamente diminuiti nel periodo di tempo considerato: la flessione più evidente in Emilia Romagna, Piemonte e Friuli Venezia Giulia. Progressi, invece, si sono registrati in Abruzzo e, in misura più ridotta, in Liguria, Umbria, Sicilia, Lazio e Campania. Il valore medio italiano al 2005 è pari al 6,2%. Confrontando i dati dell’Italia con quelli degli altri paesi europei (Figura 8), ci si rende conto di come il nostro paese si collochi tra quelli in cui i processi di lifelong learning sono meno diffusi: con il 6,2% è ampiamente sotto la media europea a 25 e a 15 (rispettivamente 11,0 e 12,1%). Paragonando il valore italiano con quello della Svezia (34,7%) o del Regno Unito (29,1%), appare chiaro come saranno necessari maggiori sforzi per far sì che la formazione permanente diventi un tratto caratteristico e usuale del nostro sistema educativo. 116 Figura 8: Popolazione 24-65 anni dei paesi UE25 coinvolta in processi di lifelong learning. Valori percentuali (2005) Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006b. 5. Riflessioni conclusive L’invecchiamento della popolazione ridisegnerà la struttura e il profilo demografico del nostro paese, ridefinendo la forma e i significati del nostro sistema generazionale, con conseguenze abbastanza forti su tutto il sistema economico nel suo complesso. Rappresenta, pertanto, una delle più grandi sfide delle società contemporanee, il cui grado di complessità e problematicità dipenderà in maniera cruciale dalla capacità di reagire del sistema economico stesso (reattività), o addirittura di agire preventivamente (proattività). Il raggiungimento degli obiettivi europei è imprescindibile per il mantenimento del benessere sociale e per garantire la sostenibilità dei sistemi di welfare. L’Italia, in realtà, è ancora abbastanza indietro rispetto agli altri paesi europei, sia in relazione ai tassi di partecipazione dei lavoratori anziani al mercato del lavoro, sia per quanto riguarda l’età media di cessazione dell’attività lavorativa e sia, infine, per quanto concerne l’implementazione di strategie di lifelong learning. La creazione e il mantenimento di una forza lavoro che comprenda tutte le età, cioè un mercato in cui le competenze e le capacità contino più dell’età cronologica, implica l’introduzione e il miglioramento di sistemi di istruzione e riqualificazione a carriera avanzata. Si palesa, dunque, il ruolo fondamentale dei processi di lifelong learning, vale a dire l’aggiustamento progressivo delle abilità e delle competenze, in modo tale permettere l’incontro tra i bisogni e le esigenze di una popolazione che invecchia con quelli di un mercato e di un’economia mondiale in continuo divenire. Ci sono due ordini di ragioni che avvalorano l’importanza di questo processo di formazione continua: innanzitutto, le competenze e le capacità dei lavoratori risulterebbero più rispondenti ai bisogni contingenti del mercato; in secondo luogo ne risulterebbe migliorato anche l’attaccamento al mercato del lavoro. La formazione continua è un elemento fondamentale nella direzione del prolungamento della vita attiva degli individui. È necessario, di conseguenza, che vi siano maggiori investimenti da parte dei governi, ma anche dei singoli datori di lavoro, per l’attuazione di piani formativi mirati, che tengano anche conto delle specifiche esigenze, attitudini, capacità dei lavoratori delle fasce d’età più elevate. Percorrere questa strada appare compito tutt’altro che facile, poiché presuppone un cambiamento dell’impostazione culturale dell’intero sistema formativo, che oggi investe quasi interamente sui giovani, mettendo, invece, a punto specifici 117 interventi mirati alle esigenze di un mercato che invecchia. Lo sforzo dei governi sarà quello di promuovere l’invecchiamento attivo, così come definito dalla Commissione Europea (1999), ossia “[…] una strategia articolata che, da un lato incentivi gli anziani a continuare ad impegnarsi nell’attività di lavoro e nella vita sociale, dall’altro dia loro la possibilità di farlo […]”. Naturalmente, gli interventi formativi devono essere pianificati in modo tale da seguire l’individuo in tutta la sua vita lavorativa, affinché la formazione si configuri come un elemento ordinario, e non straordinario ed occasionale, del sistema produttivo. Agendo in questa direzione sarà possibile raggiungere l’obiettivo supremo dell’attuazione dei processi di lifelong learning: mantenere nel tempo una base di popolazione attiva più ampia e maggiormente qualificata, che possa contrastare in maniera adeguata gli squilibri economici che ineluttabilmente s’ingenerano in una popolazione che invecchia (Stranges, 2006). L’adattamento sociale ed economico presuppone un preventivo cambiamento culturale: la sfida posta dal mercato del lavoro diviene, dunque, una sfida anche per i sistemi educativi dei diversi paesi. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Baltes, P. B. and Smith J. (2003): “New Frontiers in the Future of Aging: From Successful Aging of the Young Old to the Dilemmas of the Fourth Age”, Gerontology, No. 49, pp. 123-135. Commissione Europea (1999): L’Invecchiamento attivo. Verso un’Europa di tutte le età, Bruxelles. Eurostat (2006a): dati European Labour Survey. Eurostat (2006b): dati on line, dalla sezione “Sustainable Development Indicators”, sottosezione “Ageing Society”, http://www.ec.europa.eu/Eurostat. Giarini, O. and Malitza, M. (2003): The Double Helix of Learning and Work, Editura Enciclopedica Publishing House, Bucharest. Golini, A. e Mussino, A. (1995): “Vitalità e malessere demografico: prospettive e strategie, in continuità e discontinuità nei processi demografici”, L’Italia nella transizione demografica, Rubbettino, Soveria Mannelli. Istat (2006a): Annuario Statistico Italiano 2005. Istat (2006b): previsioni della popolazione, aggiornamento 2005, disponibili on line sul sito http://www.demo.istat.it alla sezione previsioni. Istat (anni vari): dati sui Censimenti della Popolazione. Leti, G. (1983): Statistica descrittiva, Il Mulino, Bologna. Malitza, M. and Gheorghiu E. (2006): “The Double Helix of Learning and Work. 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La qualità della vita può essere definita un fenomeno a più dimensioni che investe diversi aspetti dell’esistenza; si tratta di un processo complesso in cui interagiscono numerosi elementi appartenenti al passato e al presente della storia di ciascun individuo, ivi compresi fattori economici e sociali, come lo status professionale, i rapporti familiari, ecc. (Wiggins et al., 2004; Walker, 2005). Ne consegue che la letteratura relativa alle scienze mediche e sociali in genere definisce la qualità della vita in base alla capacità e invalidità individuali e alle condizioni di salute percepite (Fernandez-Ballesteros, 1998; Walker, 2005; Verbrugge, 1995; Beaumont et Kenealy, 2004; Robine, 2005). Il presente articolo considera le condizioni di salute come il risultato dell’opposizione tra abilità e disabilità. Dal punto di vista politico i governi hanno un forte interesse a prevedere quali bisogni emergeranno nel campo dell’assistenza agli anziani, con un’attenzione crescente alla prevenzione di problemi funzionali e della dipendenza. Da questo punto di vista, gran parte dei Paesi europei adotta politiche per l’invecchiamento attivo volte a realizzare una “società per tutte le età”. In questo contesto, il piano internazionale d’azione sull’invecchiamento (Madrid 2002) rappresenta un punto di riferimento. Il presente studio mira principalmente a sottolineare il rapporto tra attività, nel senso di partecipazione sociale, e salute degli anziani. Si tratta di un rapporto reciproco e biunivoco: le cattive condizioni di salute impediscono la partecipazione sociale, ma l’isolamento può ripercuotersi negativamente sulla salute, soprattutto quella mentale. 2. Il quadro concettuale Questa ricerca è stata condotta in seno al quadro concettuale fornito dall’Organizzazione mondiale della sanità denominato International Classification of Functioning (ICF — Classificazione Internazionale su funzionamento, disabilità e salute). L’ICF classifica le condizioni di salute e gli aspetti correlati in maniera tale da descrivere la situazione di individui integrati nella società. In base a questo quadro, un’eventuale invalidità relativa alla struttura o alle funzioni fisiche potrebbe ostacolare le attività condotte dal singolo, risultando quindi in una limitazione alla partecipazione sociale. Tutti questi elementi influenzano le condizioni di salute percepite e reali e sono soggetti all’influsso di numerosi fattori ambientali e individuali. * Università La Sapienza, Roma. 119 Figura 1: Interazione tra concetti — ICF 2001 Da questo punto di vista, la salute viene inquadrata in un contesto sociale e culturale, dal quale si può evincere l’influenza reciproca esistente tra condizioni di salute, attività individuali e partecipazione sociale. Nello specifico, l’ICF propone un elenco dettagliato di attività sociali “normali” suddiviso in nove gruppi: Apprendimento e applicazione di conoscenze; Compiti e bisogni generali; Comunicazione; Movimento; Cura di sé; Settori della vita domestica; Interazioni interpersonali; Settori principali dell’esistenza; Vita sociale e nella comunità. Tutti questi fattori sono collegati alla partecipazione sociale e vengono influenzati notevolmente dal contesto ambientale (tecnologie, servizi, politiche, assistenza e amicizie, ecc.), che può facilitare od ostacolare la partecipazione sociale stessa (per esempio chi soffre di una invalidità fisica ma vive in una zona con strutture adeguate potrebbe mantenere un livello normale di partecipazione e attività sociali). Esiste una notevole massa di studi sul come utilizzare questo quadro di riferimento, soprattutto in relazione a quegli aspetti che collegano l’invalidità alle restrizioni alla partecipazione (Désesquelles 2002), anche se alcuni esperti sostengono che la direzione del processo sia quella inversa (Laditka 2003). 3. Dati e metodologia Lo studio è stato condotto su dati estratti da un’indagine francese su handicap, incapacità e dipendenza fisica e psicologica (HID). Si tratta di un’indagine longitudinale comprendente due ondate: una prima fase, iniziata nel 1998, è consistita nel sottoporre un questionario a persone ricoverate in istituti sociali e di cura (1500 intervistati). Il questionario si strutturava in dieci moduli, dalle invalidità alla partecipazione sociale, compresi i limiti alle attività. La medesima batteria di domande è stata sottoposta nel 1999 a persone residenti a casa loro (16500 intervistati). Due anni dopo entrambi i gruppi delle stesse persone sono stati intervistati una seconda volta. La prima ondata dell’indagine HID è rappresentativa dell’intera popolazione francese, mentre la seconda illustra l’evoluzione delle situazioni individuali. Le variabili considerate nell’analisi riguardano le limitazioni funzionali fisiche, sensoriali e cognitive (invalidità) fino alle limitazioni delle attività e alle restrizioni della partecipazione: 120 dal punto di vista fisico, si considera la capacità individuale di utilizzare mani e dita senza problemi; per quanto concerne la salute mentale, le variabili tengono conto delle capacità di orientamento spazio-temporale: se il soggetto riesce a ricordare che ora è e se riesce a ritrovare la strada di casa; le limitazioni funzionali sensoriali fanno riferimento alla capacità individuale di vedere da vicino, sentire o parlare. Per quanto concerne le limitazioni alle attività, il riferimento è dato dalle cosiddette attività della vita quotidiana (Activities of Daily Living — ADL), per esempio lavarsi, vestirsi, mangiare cibi precotti, andare al bagno, alzarsi da letto o da una sedia. Per ciascuna domanda le risposte possibili sono raggruppate in quattro categorie: nessun problema; qualche difficoltà; grandi difficoltà; necessità di assistenza. Anche se la situazione più frequente è la prima, il presente studio adotta una definizione restrittiva di invalidità, secondo la quale i disabili sono persone che incontrano grandi difficoltà o che necessitano di assistenza in tutti i campi. Di conseguenza si è giunti a una sintesi delle limitazioni alle attività e delle invalidità di tipo fisico, sensoriale e mentale; ciò significa che i soggetti risultano “limitati” nella vita quotidiana se hanno bisogno di assistenza o incontrano grandi difficoltà in almeno uno dei campi ADL. Per quanto riguarda la salute mentale, si considera un individuo “invalido” se non controlla il proprio orientamento spaziale o temporale (cioè se perdono spesso o costantemente l’orientamento in almeno uno o due dei campi considerati), ecc. Per quanto concerne la partecipazione sociale, le variabili che entrano in gioco comprendono la vita coniugale (non necessariamente il matrimonio: è sufficiente la convivenza); l’esistenza e disponibilità di contatti familiari e sociali; lo status sociale (dipendenti, manager, dirigenti); sono state anche prese in considerazione eventuali informazioni riguardanti esperienze drammatiche avvenute negli ultimi due anni (di norma si tratta della morte di un congiunto); la vita associativa (se il soggetto sia o no membro di almeno un’associazione); le vacanze (se il soggetto vada o no in vacanza per almeno una settimana all’anno). 4. Principali risultati La Tabella 1 indica la percentuale di persone che dichiarano di intrattenere rapporti sociali e familiari con/senza disabilità sulla totalità della popolazione maschile e femminile (con più di 15 anni d’età). La partecipazione sociale con/senza disabilità in età avanzata va interpretata con riferimento alla situazione della popolazione in generale: nel corso della normale durata dell’esistenza gli individui stringono rapporti sociali (con amici, familiari, colleghi, ecc.) soprattutto nel corso della vita attiva. Invecchiando, diminuiscono le occasioni di interazione sociale a causa della morte dei coetanei e della diminuzione delle possibilità di movimento. Nel contempo, ci si rivolge sempre di più alla famiglia: il numero e la disponibilità dei parenti diventano fattori cruciali nella vita sociale dell’individuo. Con l’età i rapporti familiari diminuiscono a causa della morte dei parenti, soprattutto nel caso di chi è rimasto single, anche se le condizioni di salute non sembrano essere determinanti. Al contrario, la dipendenza influisce sulla vita associativa: gli invalidi risultano partecipare poco alla vita associativa e la differenza cresce con l’avanzare dell’età. 121 Tabella 1: Condizioni di salute e coinvolgimento sociale (dati percentuali) Rapporti familiari Relazioni sociali Vita associativa Vacanze 55+ 15+ 55+ 15+ 55+ 15+ 55+ 15+ Almeno una restrizione ADL 79,8 82,6 79,1 78,9 20,9 21,0 29,8 47,5 Nessuna restrizione ADL 79,7 83,3 81,7 81,5 34,5 30,5 51,0 70,8 Almeno una limitazione cognitiva 78,7 82,3 77,0 76,7 21,4 20,8 32,1 52,2 Nessuna limitazione cognitiva 80,7 84,0 83,5 83,6 36,1 32,6 53,0 72,7 Fonte: Indagine HID-Ménage 1999. Tuttavia, il prevalere di rapporti familiari e sociali con/senza disabilità potrebbe risentire di caratteristiche individuali quali età, sesso, posizione sociale, ecc. È possibile ricorrere a un modello di regressione logistica per illustrare il diverso impatto avuto dalle caratteristiche individuali sulla partecipazione sociale e sulle condizioni di salute. Com’era prevedibile, con l’età le condizioni di salute impediscono la partecipazione sociale e fanno aumentare l’isolamento. In parte ciò potrebbe essere la conseguenza di un effetto generazionale (i giovani si contraddistinguono per una maggiore partecipazione sociale), ma non si può escludere che anche l’età abbia un ruolo. Il sesso sembra svolgere un ruolo ambiguo in relazione alle diverse attività. Al contrario, la vita coniugale e lo status professionale paiono avere un effetto determinante sulla partecipazione sociale (cfr. Tabelle 2 e 3). Da una prospettiva opposta, la probabilità di passare da una condizione scevra di invalidità a una situazione caratterizzata dall’inabilità risulta maggiore per gli uomini e aumenta con l’età. Le condizioni fisiche influenzano la salute mentale, ma l’analisi evidenzia anche l’effetto di altre covariate (Tabelle 4 e 5): in genere l’esistenza di un ambiente familiare e sociale con cui l’individuo può interagire pare essere un fattore importante per la salvaguardia della salute, soprattutto mentale. Anche l’interesse per attività e hobby o per l’apprendimento permanente influenzano positivamente le condizioni mentali. 5. Conclusioni… o un nuovo punto di partenza? Con l’età, agli impegni professionali e familiari si sostituiscono altre attività (associazioni, hobby, impegno sociale, ecc.), le quali rappresentano la principale valvola di sfogo per partecipare alla vita sociale. L’analisi ha evidenziato il legame che intercorre tra attività (nel senso della partecipazione all’esistenza) e benessere fisico e psicologico in età avanzata. Secondo questo approccio, il dibattito sulla vita attiva e sulla partecipazione in età avanzata dovrebbe andare avanti, tenendo conto del fatto che l’obiettivo finale deve essere politico: la concezione che se ne ricava riguarda innanzitutto le politiche per la vita attiva, con un ruolo essenziale svolto da partecipazione sociale e integrazione intergenerazionale. 122 Tabelle 2 e 3: Regressione logistica relativa alle variabili: Andare in vacanza Costante Essere membro di un’associazione coef wald 1,02 177,1 -0,14 rif 6,5 rif Costante Sesso M F M F rif -0,24 -0,66 -1,20 rif 14,7 90,4 157,2 -1,20 // 1,47 0,48 rif -0,34 -0,33 183,6 // 151,0 31,6 rif 26,2 7,7 -0,74 rif -0,96 -0,46 -0,45 52,4 rif 15,8 19,0 53,9 55-65 65-75 75-85 85 + agricoltore commerciante dirigente/statale quadro intermedio impiegato operaio nessuna attività professionale Non coniugato Coniugato Separato Divorziato Vedovo -0,35 rif Sì No -0,66 rif 132,3 rif Sì No rif 3,8 6,5 13,5 0,25 // 0,69 0,43 rif -0,23 -0,31 8,5 // 59,2 28,4 rif 10,4 5,1 -0,22 rif -0,94 -0,34 // 4,4 rif 9,3 8,7 // -0,37 rif 45,1 rif -0,3 rif 26,6 rif Limitazione funzionale sensoriale -0,14 rif 7,1 rif -0,29 rif 26,1 rif Sì No Restrizione alle attività Sì No rif 0,11 0,17 -0,39 Limitazione funzionale fisica Limitazione funzionale sensoriale Sì No 23,9 rif Limitazione funzionale cognitiva 43,6 rif Limitazione funzionale fisica Sì No 0,27 rif Stato civile Limitazione funzionale cognitiva Sì No 93,6 Ultima professione esercitata Stato civile Non coniugato Coniugato Separato Divorziato Vedovo -0,72 Età Ultima professione esercitata agricoltore commerciante dirigente/statale quadro intermedio impiegato operaio nessuna attività professionale wald Sesso Età 55-65 65-75 75-85 85 + coef // rif // rif -0,28 rif 21,0 rif Restrizione alle attività Sì No 123 Tabella 4 e 5: Regressione logistica relativa a: Almeno una disabilità mentale Costante coef wald 1,05 88,6 // rif // rif Almeno una restrizione ADL Costante Sesso M F M F -0,45 -0,85 -0,78 rif 20,8 84,8 74,0 rif // // -0,58 -0,36 rif 0,28 0,39 // // 30,5 16,6 rif 16,1 9,4 // rif // // 0,13 // rif // // 4,4 rif 0,28 rif 19,9 55-65 65-75 75-85 85 + agricoltore commerciante dirigente/statale quadro intermedio impiegato operaio nessuna attività professionale Non coniugato Coniugato Separato Divorziato Vedovo Rif // // 29,4 0,25 // -0,5 // rif // // 8,2 // 22,2 // Rif // // // rif // // 0,11 // Rif // // 2,7 rif // Rif // 1,68 rif 693,7 rif Limitazione funzionale fisica 1,14 rif 406,4 rif Sì No Limitazione funzionale sensoriale 0,82 rif 264,0 rif 0,72 rif 163,9 rif Sì No Restrizione alle attività Sì No rif // // 0,53 Sì No Limitazione funzionale sensoriale Sì No 4,7 Rif Rapporti sociali Limitazione funzionale fisica Sì No -0,13 rif Stato civile Rapporti sociali Sì No 415,0 Ultima professione esercitata Stato civile Non coniugato Coniugato Separato Divorziato Vedovo -1,61 Età Ultima professione esercitata agricoltore commerciante dirigente/statale quadro intermedio impiegato operaio nessuna attività professionale wald Sesso Età 55-65 65-75 75-85 85 + coef 0,35 rif 44,8 rif Limitazione funzionale cognitiva Sì No 124 1,04 rif 396,5 rif RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Cagiano de Azevedo, R (2005): “Vieillissement et dé-vieillissement de la population en Europe”, contribution au colloque Vieillissement et territoire à l’horizon 2030, Université Paris La Sorbonne, 13-15 septembre, Paris. Désesquelles, A. (2002): “La santé comme facteur d’exclusion: un essai de mesure”, Gérontologie et Société, n. 102, septembre. Lièvre, A. and Brouard, N. (2003): “The Estimation of Health Expectancies from CrossLongitudinal Surveys”, Mathematical Population Studies, n. 10, p. 211-248. Robine, J.M. et Jagger, C. (2004): “Allongement de la vie et état de santé de la population”, Population et Société, Volume VI, Editions de l’INED, p. 51-84. World Health Organisation (2001): Classification internationale du fonctionnement, du handicap et de la santé, World Health Organisation, Geneva. 125 Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 126-136 I portafogli delle famiglie 1995-2004 e la previdenza nei principali paesi OCSE : Primi segnali di convergenza verso veicoli a più lungo termine? 1 di Daniele Fano e Teresa Sbano* 1. Introduzione Come ben mostrato in numerosi contributi a questa rivista, nella maggior parte dei Paesi europei le famiglie non appaiono preparate ad affrontare la responsabilità della salvaguardia dei livelli di vita nella vecchiaia che le sfide demografiche e il minor impegno dello Stato e delle grandi imprese hanno trasferito sulle loro spalle. Certamente, le sfide poste dall’allungamento del ciclo vitale sono così ampie da richiedere soluzioni articolate e flessibili sia in direzione del prolungamento della vita lavorativa, sia nel senso della ottimizzazione del risparmio al medio-lungo termine. Confermiamo, in questo lavoro, che le attività finanziarie destinate ai fondi pensione e alle assicurazioni vita sono, in molti paesi, trascurabili o insufficienti. Esploriamo anche alcune tendenze in atto dalle quali emergono timidi segnali positivi. Ci avvaliamo di una classificazione delle attività delle famiglie più dettagliata di quella tradizionale, definita in un nostro lavoro in comune con l’OCSE,2 e su una ricostruzione dei dati per il periodo 1995-2004. Oltre al limitato sviluppo del risparmio a lungo termine, un fattore peculiare è dato dalla grande diversità di strumenti con cui lo stesso problema viene affrontato nei diversi Paesi, con fondi pensione a prestazione definita o a contribuzione definita, con polizze assicurative del tipo “unit-linked” o tradizionali. In generale, vi sono notevoli differenze nell’allocazione della ricchezza finanziaria delle famiglie tra diversi Paesi ed è naturalmente interessante, proprio alla luce dell’urgenza della questione previdenziale, capire se vi sono tendenze a divergere ulteriormente o invece a convergere. Mentre nel periodo 1995-2000 sembra che continuino a prevalere fattori di diversità, dal 2000 in poi riscontriamo segnali più evidenti di convergenza. Il decollo di strumenti previdenziali di secondo e terzo pilastro a contribuzione definita dovrebbe, in futuro, rafforzare tale tendenza. Anche le oscillazioni nell’ allocazione dei portafogli rispetto al rischio fornisce indicazioni interessanti. Nelle conclusioni cercheremo di delineare alcune implicazioni riguardo alla regolamentazione e all’offerta di prodotti previdenziali e assicurativi. PGAM Economic Research, 2006. * Gli autori ringraziano Laura Marzorati e Giuseppe Costanzo di PGAM Research per I loro commenti. La responsabilità di quanto scritto è esclusivamente degli autori medesimi. 2 Babeau, A. e Sbano T. )2002), “Household Wealth in the Financial Accounts of Europe, the United States and Japan”, Trends in Savings and Wealth, WP N1/03, http://www.savingsandwealth.com. 1 126 2. Sussistono importanti differenze nella composizione delle attività finanziarie delle famiglie tra i principali Paesi OCSE Tabella 1: Composizione delle attività finanziarie delle famiglie al 31-12-2004 Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. La composizione delle attività finanziarie delle famiglie mostra notevoli differenziazioni tra i principali Paesi. In Giappone, per esempio, il peso dei depositi supera ancora il 50%, e a ciò hanno probabilmente contribuito i 15 anni di deflazione che hanno reso meno interessanti i mercati azionari e obbligazionari. Ma un altro fattore stupisce nel caso del Giappone che ha, com’è noto, i più alti tassi di invecchiamento della popolazione: il peso relativamente basso dei fondi pensione e delle polizze vita, rispetto a Olanda, Stati Uniti e Gran Bretagna. Viene confermato lo scarso sviluppo degli strumenti previdenziali per Italia e Spagna. La Francia e, in una certa misura, la Germania, hanno supplito con un settore relativamente forte delle assicurazioni vita. Quest’ultimo vede le polizze unit-linked ormai affermate in molti paesi a eccezione di Germania e Giappone. Non si riesce naturalmente a desumere da questi dati quanto della componente assicurativa rappresenti effettivamente risparmio previdenziale a lungo termine e quanto invece risparmio cautelativo a medio termine (“buffer stock”) o arbitraggio fiscale. Per quanto attiene le forme pensionistiche vere e proprie, i Paesi Bassi rappresentano una eccezione per l’assoluta prevalenza delle prestazioni definite, mentre in altri Paesi, come vedremo meglio nel seguito dell’articolo, la componente a contribuzione definita è la più dinamica. 3. Le differenziazioni esistenti: riflettono esigenze prospettiche o piuttosto retaggi storici o differenze culturali? Un’interpretazione naturale riguardo alla debolezza delle componenti assicurative e previdenziali in Paesi dell’Europa Continentale a eccezione dell’Olanda, potrebbe far riferimento alla contrapposizione tra modelli di welfare “alla Beveridge” dove il primo pilastro pubblico ha un ruolo di “rete di sicurezza”, e modelli bismarckiani, dove il primo pilastro è tradizionalmente teso a salvaguardare il potere di acquisto nella terza età. In realtà sappiamo che i tassi di sostituzione attesi dei sistemi bismarckiani tenderanno ad avvicinarsi a quelli dei Paesi anglo-sassoni.3 Essi saranno inoltre caratterizzati da una notevole varianza a parità di coorte. Pertanto le famiglie dovrebbero in qualche misura provvedere sin d’ora a compensare i minori livelli attesi delle prestazioni pubbliche. 3 Si veda per esempio Liedke P.M. (2006): “From Bismarck’s Pension Trap to the New Silver Workers of Tomorrow”, European Papers on the New Welfare, No. 4 February, pp. 71-76. 127 • • Occorre quindi chiedersi se in realtà nei Paesi a tradizione bismarckiana: le famiglie abbiano in qualche modo razionalmente “anticipato” la futura caduta delle prestazioni previdenziali aumentando altre forme di ricchezza, finanziaria e reale, (indipendentemente quindi dalle componenti di natura esplicitamente assicurativa e previdenziale); oppure se siamo di fronte a fenomeni di miopia che comportano un’insufficienza nell’accumulazione di attività reali e finanziarie. Anche se non è questa la sede per approfondire tali tematiche, possiamo limitarci a notare che: • i livelli relativamente importanti di ricchezza finanziaria e reale (tabelle sotto) accumulati dalle famiglie, nel caso per esempio di Giappone e Italia, possono essere coerenti con una ipotesi di “anticipazione razionale” delle esigenze previdenziali in senso almeno parziale. Ciò dimostra che è comunque importante non limitare la valutazione dell’adeguatezza del risparmio delle famiglie rispetto alle esigenze di medio-lungo termine ai veicoli esplicitamente pensionistici e assicurativi. In altri termini, è importante abbracciare il risparmio nel suo insieme e in tutte le componenti. • • D’altra parte, è anche vero che, se si vuole avere un quadro della sostenibilità dei redditi lungo l’arco vitale, i dati aggregati di contabilità finanziaria sono del tutto insufficienti a valutare le problematiche di cui soffre, in quanto la concentrazione della ricchezza e dei flussi di risparmio richiede di spostare l’attenzione a livello micro. Altri indicatori, precisamente a livello micro, come ad esempio i bassissimi tassi di risparmio dei giovani rilevati nelle indagini sui bilanci delle famiglie di Paesi come l’Italia, puntano invece nella direzione opposta. Le ricerche di behavioural finance hanno mostrato che anche in presenza di consapevolezza della questione previdenziale — consapevolezza tutt’altro che scontata — gli individui tendono a rinviare le decisioni di risparmio a lungo termine più difficili e dolorose. Nell’insieme c’è un certo consenso riguardo al fatto che le coorti in età lavorativa siano portate a non risparmiare sufficientemente per il lungo termine.4 È interessante analizzare da questo punto di vista le tendenze in atto nella composizione delle attività finanziarie delle famiglie. A tal fine ci chiederemo in primo luogo se esistono o meno segnali di convergenza o di divergenza nella struttura delle attività finanziarie delle famiglie nei paesi esaminti e, in secondo luogo, come si caratterizzano le tendenze in atto. Tabella 2: Indicatori del livello della ricchezza finanziaria e reale delle famiglie Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. 4 Thaler, R.H. e Benartzi, S. (2001): “Using Behavioural Economics to Increase Employee Savings”, August; Thaler, R.H. (1994) “Psychology and Savings Policies”, The American Economic Review, Vol. 84, No. 2, May. 128 4. Primi segnali di convergenza? Al fine di analizzare la convergenza (o la divergenza) negli strumenti finanziari detenuti dalle famiglie abbiamo, in primo luogo, analizzato: • le correlazioni tra i mix di tali strumenti nel tempo per l’insieme dei Paesi presi in esame, • l’ambito più strettamente europeo, in termini di scostamenti rispetto ad un “benchmark”. • • Tale analisi ci ha portato a distinguere tra due sottoperiodi: il periodo 1995-2000, in cui l’Europa si avvicina agli USA, ma la struttura dell’asset mix nei paesi europei presi in esame non presenta elementi di convergenza, il secondo, a partire dal 2001, che mostra invece chiari segni di convergenza anche in ambito europeo. In particolare, tra il 1995 e il 2000 la riduzione dei depositi e di altre componenti liquide in Europa ha portato a un riavvicinamento tra la struttura del vecchio continente e di quello nuovo. Tabella 3: Correlazione della composizione delle attività finanziarie delle famiglie tra i Paesi, 1995-2000 Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. In ambito intra-europeo non vi sono invece segni di convergenza nel periodo 1995-2000. Invece a partire dal 2001 l’incremento delle componenti assicurative e dei fondi pensione a contribuzione definita porta ad una riduzione della distanza tra i Paesi dell’Europa continentale (esclusi i Paesi Bassi), da una parte, e il Regno Unito e i Paesi Bassi stessi dall’altra. 129 Tabella 4: Correlazione della composizione delle attività finanziarie delle famiglie tra i Paesi 2000-2004 Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. Al fine di approfondire quest’ultimo aspetto abbiamo misurato le distanze tra i vari Paesi europei e un “benchmark”, definito come la composizione media europea nel 2004. Questo esercizio mostra che, pur in presenza di primi segni di convergenza, rimangono importanti differenze nella composizione delle attività finanziarie delle famiglie tra i diversi Paesi. Così, le famiglie italiane continuano a essere caratterizzate dall’importanza dei titoli obbligazionari nei loro portafogli e quelle inglesi e olandesi dalla presenza di attività a lungo termine, in particolare attraverso i fondi pensione a prestazione definita. Tabella 5: Composizione delle attività finanziarie delle famiglie nei maggiori Paesi europei: quanto i singoli Paesi sono distanti dalla media europea? Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. Nota: in grassetto il gap negativo più alto, in grigio il gap positivo più alto. Il coefficiente di variazione conferma che, sebbene la dispersione tra Paesi rimanga in generale elevata, vi è un sottoinsieme di strumenti che appare “trascinare” la convergenza, i fondi pensione a contribuzione definita e le polizze di tipo “unit-linked”. 130 Tabella 6: Coefficienti di variazione del peso degli strumenti in ogni Paese EU tra il 1995 al 2000 e tra 2000 a 2004 Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. Figura 1: Composizione — Attività finanziarie delle famiglie (2004) Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. Per testare ulteriormente se le economie considerate tendono a convergere a un comune livello del loro risparmio gestito (fondi comuni, fondi pensione e assicurazioni vita) abbiamo condotto alcuni esercizi per testare la Beta-convergenza e la Sigma-convergenza.5 Date le poche osservazioni usate, gli esercizi devono essere interpretati con cautela. Nei prossimi lavori cercheremo di allargare il campione e il periodo di osservazione per ottenere stime più significative. La Beta-convergenza mostra se il livello del gestito nei vari Paesi tende ad allinearsi ad un benchmark comune nel tempo considerato. La convergenza è presente quando c’è una relazione inversa tra il tasso di crescita e il livello iniziale dell’indicatore considerato. L’esistenza di un processo di convergenza nel quale le regioni con un livello più basso del rapporto del gestito rispetto al PIL crescono più velocemente di quelle con un livello più alto è rappresentato nel grafico sottostante (pendenza negativa della retta). La beta convergenza è confermata dal fatto che, se consideriamo come indicatore il rapporto tra gestito e attività finanziarie delle famiglie, abbiamo nuovamente una pendenza negativa e quindi il processo non è dovuto solo a una convergenza delle attività finanziarie in percentuale al PIL ma anche a uno spostamento di flussi da prodotti non gestiti verso gestiti. Per un’applicazione più ampia si veda Bartiloro, L. e De Bonis, R. (2005): The Financial System of European Countries: Theoretical Issues and Empirical Evidence, Banca d’Italia, Roma. 5 131 Tassi di crescita del rapporto gestito/ PIL 1995-2004 Figura 2: Beta-convergenza La Sigma-convergenza misura se i Paesi tendono a diventare simili in termini di deviazione dal benchmark. Abbiamo analizzato la Sigma-convergenza misurando la deviazione standard del logaritmo del rapporto del gestito rispetto al PIL all’inizio e alla fine del periodo analizzato. Nel 1995 la deviazione standard dell’indicatore era uguale a 35%, mentre nel 2004 è diminuita raggiungendo il livello del 22,7%. Nel periodo considerato risulta evidente la presenza di Sigma-convergenza tra i Paesi considerati (vedi anche la Figura sottostante). Deviazione standard log (gestito/PIL) Figura 2: Sigma-convergenza 132 5. I tassi di crescita della ricchezza e il ruolo crescente dell’ “Instividuo” Vale la pena soffermarsi in particolare sullo sviluppo dei fondi a contribuzione definita e delle polizze assicurative unit-linked non solo perché emergono come fattori trainanti della convergenza, ma anche perché sottendono un trend destinato probabilmente a rafforzarsi ancora nei prossimi anni. Il mondo delle “prestazioni definite”, ancora intatto per i pensionati recenti, sta rapidamente declinando: • il primo pilastro previdenziale pubblico sta trasformandosi in molti Paesi in “contributivo figurativo” e anche, nel caso di prestazioni definite tuttora in essere, prevede spesso meccanismi di indicizzazione solo parziale nel tempo; • i fondi aziendali a prestazione definita vengono ormai sostituiti da veicoli a contribuzione definita; • alle polizze tradizionali si affiancano, con ruolo crescente, quelle “unit-linked” prive o con limitate garanzie. Le istituzioni pubbliche e private stanno pertanto trasferendo sui singoli la responsabilità di valutare l’adeguatezza delle risorse previdenziali e di operare di conseguenza. L’individuo deve quindi farsi carico di quello che prima le istituzioni facevano per lui, assicurarsi un adeguato tasso di sostituzione rispetto ai redditi del periodo lavorativo in modo da sostenere i livelli di vita nella vecchiaia. L’individuo diventa “instividuo”. Il dibattito sull’argomento è ampiamente sviluppato su questa rivista. La consapevolezza dell’insufficienza della diffusione delle forme individuali di risparmio e l’esigenza di agevolarne la diffusione ha portato, laddove la previdenza integrativa non è obbligatoria, alla diffusione per legge di forme di tacito assenso, come nel caso della recente riforma previdenziale negli USA e in Italia. Riteniamo che il trend di crescita degli strumenti di risparmio “instividuale” caratterizzerà fortemente i prossimi anni. Figura 3: Tavola previsionale — crescita del segmento “Instividuale” CAGR 2005-2013E Attività finanziarie Retail Instividuale Altro istituzionale 6% 8% 17% 4% IL MERCATO DELL’INSTIVIDUALE: Fondi pensione a contribuzione definita e veicoli assicurativi non tradizionali N.B. L’Europa continentale include la Spagna, la Germania, la Francia e l’Italia. Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali 133 In sintesi, per la maggior parte dei Paesi l’accumulazione della ricchezza a fini previdenziali continuerà. La stessa esigenza di rinviare, per legge o di fatto, l’età pensionabile dovrebbe allentare le pressioni sul decumulo di risorse. • • • Alcuni Paesi come il Regno Unito e l’Olanda hanno negli ultimi vent’anni costruito e/o consolidato sistemi fondati sui fondi pensione e sulle assicurazioni vita. In Francia e in Germania la componente assicurativa e quella di investimenti con garanzia stanno crescendo. Italia e Spagna stanno iniziando a veicolare il risparmio verso impieghi a più lungo termine. 6. Il mix di rischio di portafoglio: le famiglie sanno sfruttare le opportunità offerte dai mercati azionari? Un altro aspetto rilevante riguarda il mix di rischio dei portafogli. Rileviamo che i paesi più istituzionalizzati (cioè dove è minore il peso dei depositi e del risparmio amministrato) sono anche quelli dove da una parte l’esposizione ai mercati azionari (rappresentativi delle attività rischiose) è più alta e dove, d’altra parte, le oscillazioni del portafoglio delle famiglie sono più contenute. Non sorprende che i veicoli a medio-lungo termine agiscano da contrappeso rispetto alla naturale tendenza degli investitori a “rincorrere” i mercati con il rischio di acquistare azioni quando i mercati sono più cari, salvo poi spaventarsi e “vendere” quando i mercati sono bassi. L’Italia e la Spagna sembrano aver approfittato meno della crescita dei mercati azionari nel ventennio che ha preceduto il 2000 e anzi, da buone ritardatarie, di aver anche subito (in senso relativo) maggiormente i danni della correzione. Figura 4: Tavola previsionale — crescita del segmento “Instividuale” Italia Spagna Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali. 134 Germania Francia USA Regno Unito I mercati azionari comportano certamente rischi, ma forniscono anche opportunità. Il “premio per il rischio” delle azioni rispetto alle obbligazioni va utilizzato con opportuni criteri di diversificazione e di bilanciamento con altre componenti, come quella obbligazionaria e quella immobiliare, ma costituisce un fattore chiave di successo per portafogli orientati al lungo termine. La tendenza alla istituzionalizzazione del risparmio che abbiamo rilevato dovrebbe precisare una occasione del genere. Preoccupa tuttavia che, nel caso italiano, la recente riforma (Decreto n. 252 del 5/12/2005) preveda come per il trasferimento del TFR tramite silenzio assenso un investimento in un portafoglio virtualmente privo di rischio. Diverso il caso svedese, che prevede come “comparto default” della previdenza a capitalizzazione l’investimento in un fondo azionario global.6 Tra i due estremi una soluzione equilibrata dovrebbe comunque prevedere una diversificazione in azioni. 7. Conclusioni Quale che sia il ventaglio di soluzioni per affrontare la sfida demografica, la struttura e la qualità del risparmio a medio e lungo termine sono destinati a svolgere un ruolo fondamentale. Attualmente la maggior parte dei Paesi esaminati e, soprattutto, i Paesi dell’Europa continentale a esclusione dell’Olanda, presentano forti limitazioni in termini di sviluppo dei veicoli a lungo termine e di qualità della diversificazione dei portafogli. Vi sono tuttavia recenti sviluppi interessanti che indicano una forte crescita degli strumenti destinati all’“instividuo”. Molto rimane tuttavia da fare, sia perché tali strumenti raggiungano un peso davvero rilevante nei portafogli delle famiglie, sia perché vengano offerti in maniera realmente corrispondente alle esigenze delle famiglie stesse. Abbiamo affrontato solo alcuni aspetti della problematica. Altri aspetti potranno essere affrontati con particolare riferimento al disegno del profilo ottimale dei nuovi strumenti previdenziali. In particolare ci si dovrà chiedere come rendere tali strumenti sufficientemente flessibili per rispondere alla necessità di posticipare il periodo di pensionamento, di effettuare attività di lavoro part-time durante la pensione, di affrontare le spese di “long-term care”, il rischio sopravvivenza, nonché il desiderio “altruistico” di avere una riserva finanziaria per aiutare i propri cari e/o lasciare un’eredità. A monte di tutto ciò vi sono problematiche di educazione finanziaria degli investitori e di qualità dell’offerta da parte di gestori finanziari e assicurativi e distributori. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Babeau, A. and Sbano, T. (2002): “Household Wealth in the Financial Accounts of Europe, the United States and Japan”, Trends in Savings and Wealth, WP N1/03, http://www.savingsandwealth.com. Bartiloro, L. and De Bonis, R. (2005): The Financial Systems of European Countries: Theoretical Issues and Empirical Evidence, Banca d’Italia, Roma. Fano, D. e Onado, M. (2006): “I veicoli multicomparto nella previdenza complementare. La sfida della semplicità”. In Messori, M. (a cura di), La previdenza complementare in Italia, Il Mulino, Bologna. Fano, D. e Onado, M. (2006): “I veicoli multicomparto nella previdenza complementare. La sfida della semplicità”. In Messori, M. (a cura di), La previdenza complementare in Italia, Il Mulino, Bologna. 6 135 Liedke, P.M. (2006): “From Bismarck’s Pension Trap to the New Silver Workers of Tomorrow”, European Papers on the New Welfare, No. 4, February, pp. 71-76. Thaler, R.H. and Benartzi, S. (2001): “Using Behavioural Economics to Increase Employee Savings”, Journal of Political Economy. Thaler, R.H. (1994): “Psychology and Savings policies”, The American Economic Review, Vol. 84, No. 2, May. Tridico, P.: “Crescita e convergenza economica nei modelli neoclassici”, Università di Roma “Tre”, http://host.uniroma3.it/facolta/economia/materiali/insegnamenti/346_1369.pdf. 136 Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 137-149 Il risk-adjustment nei contratti di assicurazione malattia di lungo periodo in Germania di Johann Eekhoff, Markus Jankowski e Anne Zimmermann* Riassunto Sul mercato tedesco delle assicurazioni malattia private (AMP), nel caso dei contratti di lungo periodo si ricorre ad accantonamenti per la vecchiaia per ridurre l’incremento del premio correlato all’età. Attualmente, gli accantonamenti non vengono trasferiti nel caso in cui l’assicurato passi a una compagnia assicurativa diversa. In questo modo l’assicurato non è incentivato a rescindere la vecchia polizza perché con un nuovo contratto si troverebbe a pagare un premio più alto per i medesimi servizi a causa dell’età più avanzata e della perdita degli accantonamenti per la vecchiaia. Da tempo in Germania si discute della possibilità di rafforzare la concorrenza sul mercato delle AMP. La questione principale è se il trasferimento degli accantonamenti per la vecchiaia comporti la selezione dei rischi oppure no. Abbiamo rivisto il modello basato sulla trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia correlati ai rischi,1 dimostrando che è effettivamente possibile prevenire la selezione dei rischi in un mercato delle AMP concorrenziale. Produrremo una serie di argomentazioni contro le critiche rivolte più di frequente al modello di Meyer.2 Parole chiave: assicurazioni malattia private; selezione dei rischi; risk adjustment; contratti di lungo periodo. 1. Introduzione Un aspetto importante in relazione ai mercati delle assicurazioni malattia private riguarda come ovviare all’impasse data dalla possibilità di ricorrere a contratti di assicurazione di lungo periodo da una parte e dal pericolo di selezione dei rischi dall’altra. Per avere contratti malattia di lungo periodo sembra esservi la necessità di regolamentare i premi, anche se ciò va a scapito della concorrenza.3 Anche se le compagnie di assicurazione possono identificare i rischi dell’assicurato nel corso del tempo, nei contratti di lungo periodo non è permesso modificare i premi in base al rischio individuale. Università di Colonia, Dipartimento di Politica Economica, Albertus-Magnus-Platz, D-50923 Colonia, Germania. E-mail: [email protected], [email protected] e [email protected]. Johann Eekhoff è Professore di politica economica presso l’Università di Colonia ed ex segretario di stato del ministero federale dell’economia. Markus Jankowski ha studiato economia all’Università di Costanza ed è stato ricercatore presso il dipartimento di politica economica dell’Università di Colonia fino al marzo 2005. Anne Zimmermann ha studiato economia all’Università di Bonn e attualmente lavora come ricercatrice presso il dipartimento di politica economica dell’Università di Colonia. L’articolo è stato reso possibile dal contributo finanziario dell’Istituto per gli studi economici Otto Wolff di Colonia. Ringraziamo Nicole Blout, Sven Ramsey e due revisori anonimi per le loro utili annotazioni. Articolo pubblicato in inglese nei Geneva Papers on Risk and Insurance — Issues and Practice, Vol. 31(4), ottobre 2006. 1 Meyer (1992). 2 Ibid. 3 Pauly (1984). * 137 Se il mercato fosse aperto alla concorrenza, le compagnie assicurative che volessero massimizzare gli utili farebbero bene a interessarsi esclusivamente agli individui a basso rischio, cioè agli assicurati che presentano una previsione di spesa annua (al valore corrente) inferiore ai premi assicurativi (sempre al valore corrente). Si dedicano risorse allo sviluppo di meccanismi di selezione volti a identificare i clienti a basso rischio invece di migliorare efficienza e qualità delle prestazioni sanitarie fornite. Tale selezione dei rischi comporta lo spreco di risorse che nel settore sanitario non sono abbondanti. Sui mercati delle assicurazioni malattia private si discutono approcci diversi per arrivare alla concorrenza in un settore legato al livello dei rischi e caratterizzato da contratti di lungo periodo.4 I contratti garantiti e rinnovabili assicurano la concorrenza solo nel caso di rischi contenuti, mentre chi presenta rischi maggiori va incontro a perdite finanziarie nel caso in cui rescinda la polizza dopo qualche anno.5 Al contrario, le assicurazioni a premi ricorrenti possono risultare svantaggiose sia per l’assicurato che per l’assicuratore, per tacere della compagnia. Inoltre, potrebbe essere difficile imporre gli indennizzi necessari da parte degli assicurati che presentano rischi contenuti a favore della compagnia assicurativa in caso di rescissione.6 Le assicurazioni malattia sul mercato privato tedesco (AMP) possono essere viste come il risultato della combinazione di contratti garantiti e rinnovabili e dell’accantonamento per la vecchiaia, un fattore di risparmio cautelativo. Se un assicurato cambia compagnia, né l’anticipo sul contratto garantito e rinnovabile né l’accantonamento per la vecchiaia saranno trasferiti al nuovo assicuratore, applicando così il regime di concorrenza solo ai nuovi arrivi sul mercato assicurativo. Il presente articolo fornisce una panoramica dell’attuale dibattito sulla possibilità di rafforzare la concorrenza sul mercato delle AMP in Germania e dimostra che, nel caso dei contratti di lungo periodo, si può raggiungere la piena concorrenza affidandosi alla correlazione ai rischi sia per i premi assicurativi che per gli accantonamenti per la vecchiaia, secondo la proposta avanzata per primo da Meyer.7 L’articolo è strutturato come segue: nel prossimo paragrafo viene offerta una panoramica del mercato delle AMP in Germania. Successivamente viene presentato e poi discusso il modello della trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia correlati al rischio. Il penultimo paragrafo affronta brevemente i problemi cui questo modello andrebbe incontro se fosse applicato al sistema delle assicurazioni malattia in Germania. Infine si presentano le conclusioni. 2. Il mercato delle AMP in Germania In Germania il mercato delle assicurazioni malattia si divide in due rami diversi. La maggior parte dei dipendenti e delle loro famiglie è assicurata presso una delle circa 300 casse mutua malattia che fanno parte del sistema dell’assicurazione sociale obbligatoria. I dipendenti che percepiscono un reddito superiore a un dato importo, i lavoratori autonomi e gli statali possono scegliere il secondo ramo, cioè il mercato privato. Sul mercato privato tedesco i contratti di lungo periodo prevedono premi correlati al rischio. Attualmente non è permesso aumentare il premio a causa del peggioramento delle condizioni di salute dell’assicurato. I premi, che nel caso dei contratti a breve termine crescerebbero in virtù dell’aumento delle spese previste con l’avanzare dell’età dell’assicurato, sono controbilanciati da un fattore di risparmio cautelativo: gli accantonamenti per la 4 Il problema dell’organizzazione del mercato delle assicurazioni di lungo periodo contro le malattie è stato affrontato per primo da Arrow (1963, p. 964) e Pauly (1970, p. 411). 5 Pauly et al. (1995). 6 Per ulteriori dettagli cfr. Cochrane (1995). 7 Meyer (1992). 138 vecchiaia. Il premio versato dall’assicurato in giovane età subisce un leggero incremento, rendendo possibile la creazione di un fondo per la vecchiaia. Più tardi, quando il premio non riesce più a coprire le spese annue previste, si riducono gli accantonamenti per compensare i costi aggiuntivi.8 In questo tipo di mercato non c’è quasi spazio per la selezione dei rischi dato che, ogniqualvolta si sottoscrive una polizza, l’assicuratore calcola un premio correlato al rischio in grado di coprire le spese previste in futuro. I premi si calcolano come segue: chi non è stato affetto da malattie degne di nota versa una somma standard; chi è ad alto rischio è soggetto al cosiddetto risk loading, pari a una percentuale della tariffa base; in certi casi è persino possibile negare la copertura assicurativa. Dopo avere sottoscritto una polizza malattia privata, l’assicuratore non può rescinderla a condizione che l’assicurato abbia fornito informazioni veritiere sul suo stato di salute al momento della sottoscrizione. La rescissione è invece possibile per l’assicurato. Tuttavia, in Germania il mercato delle AMP manca di concorrenza. Gli assicurati si trovano raramente nella condizione di cambiare compagnia di assicurazioni dopo aver sottoscritto la polizza, anche se non sono soddisfatti della scelta compiuta. Il motivo è dato dal fatto che chiunque abbandoni l’assicuratore originario perde il fondo accumulato per la vecchiaia. Se si cambia, i soldi accantonati restano in mano alla compagnia assicurativa originaria. Di conseguenza l’assicurato dovrà versare al nuovo assicuratore un premio più alto, poiché questo sarà calcolato sulla base dell’età e delle condizioni di salute al momento in cui si richiede una nuova polizza. Solo per chi è stato assicurato per breve tempo, e quindi non ha ancora accantonato somme notevoli, sarà possibile cambiare compagnia di assicurazioni. Questo vincolo limita la concorrenza ai soggetti giovani e in salute, oltre a rendere difficoltoso l’accesso al mercato di nuovi operatori.9 Ma allora perché non si trasferiscono gli accantonamenti per la vecchiaia? Si sostiene che la trasferibilità potrebbe incoraggiare la selezione dei rischi. Se gli accantonamenti fossero uguali per tutti gli assicurati, le compagnie sarebbero incentivate a scegliere i “clienti vantaggiosi”. Chi riuscisse a selezionarli, incasserebbe accantonamenti per la vecchiaia elevati in relazione alle spese attese, arrivando così a un’inefficiente perequazione dei rischi, cioè alla selezione dei rischi.10 Secondo un’altra argomentazione spesso addotta, di taglio maggiormente ridistributivo, finirebbero per aumentare i premi previsti per tutti gli assicurati “fedeli”, dato che questi non potrebbero più beneficiare degli accantonamenti per la vecchiaia trasferiti da chi rescinde la polizza.11 3. La trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia correlati al rischio Quello sulla possibilità di trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia non è un dibattito recente. Meyer12 è stato il primo a dimostrare che sarebbe stata possibile una maggiore efficienza se gli accantonamenti, come li conosce il mercato delle assicurazioni private in Germania, fossero proporzionali al rischio individuale e fossero resi trasferibili in caso di cambio di compagnia assicurativa.13 Si consideri l’esempio che segue, fermo restando il regime di assicurazioni malattia private vigente in Germania come descritto al paragrafo precedente. Se un assicurato viene classificato come soggetto ad alto rischio, per esempio a causa di un incidente o di una malattia cronica, la quota media degli accantonamenti non sarà più Il sistema potrebbe essere considerato una variante del rinnovo garantito. Cfr. Kifmann (2000, p. 579) e Baumann et al. (2004). È più difficile attirare un numero di clienti sufficiente a mutualizzare i rischi in maniera efficiente. Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 43). 11 Alcune polizze vengono rescisse dopo due anni dalla sottoscrizione perché l’assicurato riceve un’offerta migliore da parte della concorrenza. Se gli accantonamenti per la vecchiaia fossero trasferibili, si dovrebbe avere un calo dei premi versati ai nuovi assicuratori. Sarebbe anche possibile rescindere una polizza a seguito del rientro nel sistema di assicurazione sociale obbligatoria, per esempio se si cambia lavoro. 12 Meyer (1992). 13 Cfr. anche Monopolkommission (1998), Sachverständigenrat (2002), Donges et al. (2002), Meier (2003), Eekhoff (2005). 8 9 10 139 sufficiente a coprire le maggiori spese previste in futuro per le cure mediche. Fintanto che questa persona manterrà la polizza originale con l’assicuratore A, in seno alla totalità degli assicurati, saranno i soggetti caratterizzati da un livello di rischio inferiore a coprirne le spese future. Effettivamente, è questa la funzione contratti di assicurazione di lungo periodo. Tuttavia, oggi, chi rescinde la polizza con l’assicuratore A per sottoscriverne un’altra con il concorrente B, pur trattandosi di un’assicurazione di lungo periodo, è costretto a versare un premio notevolmente maggiore a B perché gli accantonamenti per la vecchiaia non possono essere trasferiti. Così, nel sistema tedesco delle assicurazioni malattia private i contratti di lungo periodo non vengono applicati per intero. Un assicurato con alti livelli di rischio che decide di cambiare compagnia di assicurazione invece di conservare la polizza originaria si troverà a incorrere in una perdita finanziaria. Per quanto concerne l’adozione di contratti di lungo periodo, ipotizziamo che l’assicuratore A debba trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia all’assicuratore B. In questo modello, per evitare la selezione dei rischi è necessario modificare gli accantonamenti in base alle condizioni di salute. I fondi trasferiti a B per la copertura di un livello di rischio basso sono inferiori alla media, mentre quelli relativi ai rischi elevati sono superiori. Più nello specifico, dati il premio dell’assicuratore A e le condizioni di salute dell’assicurato X, l’accantonamento per la vecchiaia rispecchierà la differenza tra i costi attesi e le previsioni di spesa futura di X. La differenza tra l’accantonamento medio e l’importo inferiore nel caso di un basso livello di rischio può essere considerato un indennizzo per le maggiori spese attese in virtù dell’alto livello di rischio assicurato. È solo tramite questa compensazione interna al vecchio gruppo degli assicurati che gli individui a basso rischio in procinto di cambiare assicuratore riescono a coprire le previsioni di spesa degli assicurati (ad alto rischio) che invece rimangono nel programma originario.14 Se la polizza di A viene rescissa da un assicurato ad alto rischio, si trasferisce a B un accantonamento per la vecchiaia correlato al rischio e rispecchiante le maggiori previsioni di spesa. Il premio di B viene calcolato sulla base delle nuove informazioni relative alle condizioni di salute dell’assicurato e del (maggiore) accantonamento per la vecchiaia che ne discende. A parità di competenze tecnologiche e completezza delle informazioni, in un mercato equilibrato i premi dei diversi assicuratori non differiscono. Se variano le competenze tecnologiche, le differenze tra i premi saranno dovute solamente ai diversi gradi di efficienza produttiva e alla qualità dei servizi sanitari forniti dall’assicuratore. In ogni caso, esse non dipendono dalle condizioni di salute dell’assicurato, rendendo così possibili i contratti di lungo periodo.15 Le domande cruciali da porsi in caso di informazioni incomplete sono le seguenti: le compagnie assicurative hanno la possibilità di calcolare male gli accantonamenti per l’età e hanno interesse a farlo? Dispongono delle informazioni necessarie per tenere conto dei rischi? I paragrafi che seguono illustrano come la correlazione al rischio degli accantonamenti per la vecchiaia rimane non solo possibile in caso di incompletezza dell’informazione, ma si dimostra anche una maniera efficace per evitare la selezione dei rischi.16 3.1 Correlazione ottimale al livello di rischio: il punto di vista dell’assicuratore Anche se tutti gli assicuratori dispongono di informazioni sufficienti per correlare gli accantonamenti per la vecchiaia al rischio individuale, potrebbero comunque essere incoraggiati ad affermare che l’assicurato gode di ottima (o pessima) salute per calcolare un accantonamento errato sulla base della documentazione medica disponibile. Ciò è vero nel caso in cui non sia possibile contestare le condizioni di salute e il relativo accantonamento per la 14 15 16 Meyer (1992, p. 192 e segg.). Cfr. per esempio Meier (2003, p. 9). Ibid. 140 vecchiaia.17 Ciononostante dimostreremo che gli assicuratori hanno tutto l’interesse di calcolare correttamente un accantonamento per la vecchiaia correlato al livello di rischio individuale. 3.1.1. Correlazione degli accantonamenti per la vecchiaia al livello di rischio e qualità delle cure Innanzitutto ipotizziamo che tutti gli operatori forniscano servizi assicurativi e sanitari del medesimo livello qualitativo. Se un assicurato X ad alto livello di rischio rescinde il contratto con l’assicuratore A, per quest’ultimo la scelta tra conservare la polizza e trasferire l’accantonamento per la vecchiaia sarà completamente indifferente, ovviamente purché la somma trasferita sia pari alla differenza tra il valore corrente delle spese mediche previste e i premi attesi. Se l’assicuratore A invogliasse l’assicurato18 ad alto rischio19 a rescindere la polizza concedendo un accantonamento più elevato, finirebbe per perdere soldi. L’assicuratore potrebbe anche calcolare un accantonamento inferiore per guadagnare di più se l’assicurato passa a un’altra compagnia, ma X dovrebbe versare un premio più alto per la nuova polizza con l’assicuratore B a causa dell’accantonamento ridotto e dell’elevato livello di rischio. Naturalmente X rescinderà la vecchia polizza esclusivamente nel caso in cui abbia l’opportunità di migliorare la propria situazione, il che sarebbe possibile solo se il premio destinato a B risultasse almeno marginalmente inferiore alla somma precedentemente richiesta da A. Consapevole di questo fatto, A aumenterà l’accantonamento per la vecchiaia finché continuerà ad essere possibile ottenere un introito marginale dagli assicurati ad alto rischio che decidono di non rescindere le proprie polizze. Di conseguenza, l’accantonamento per la vecchiaia correlato al rischio può essere visto come il prezzo da pagare per “sbarazzarsi” degli assicurati ad alto rischio. A parità di competenze tecnologiche, la somma che A è disposto a trasferire a B deve essere solo marginalmente inferiore alla differenza tra le spese previste in futuro e i premi attesi in relazione all’assicurato X. Questo stato di cose rimarrà invariato fintantoché gli assicuratori non avranno la possibilità di fornire servizi assicurativi o sanitari di qualità diversa, cioè fino a quando le assicurazioni rimarranno un prodotto omogeneo. Partendo dall’assunto che la qualità è importante, la selezione dei rischi diventa probabile nel momento della rescissione di un contratto qualora le compagnie assicurative godano della libertà di stabilire in quel preciso momento gli accantonamenti per la vecchiaia. Gli assicurati che ricevono un accantonamento eccessivamente basso rescinderanno la polizza con A solo se effettivamente insoddisfatti. Nel loro caso, l’obbligo di versare un premio più alto a B sembrerà accettabile. A potrebbe favorire un simile sviluppo offrendo ulteriori “incentivi” volti a influenzare determinati gruppi e indurli a effettuare il trasferimento. Per esempio, si può ridurre la qualità delle cure mediche o di altri servizi per spingere l’assicurato a trasferire la polizza anche se paga di più.20 L’assicuratore può riuscire a individuare gli assicurati particolarmente insoddisfatti dei servizi sanitari. In un contesto di gestione delle cure, per esempio, chi fornisce la copertura assicurativa potrebbe influenzare il processo della selezione dei rischi offrendo servizi di qualità superiore in settori di particolare rilevanza per alcuni gruppi di assicurati. Ad esempio, per le giovani coppie intenzionate ad avere figli il problema è evidente: si presume che queste persone siano interessate a ricevere determinati servizi, come assistenza ostetrica e pediatrica di alta qualità, e si aspettano che il loro assicuratore A agisca di conseguenza. Da parte sua, A Ibid. Lo stesso meccanismo si applica agli assicurati a basso rischio. 19 Cfr. Meyer (1992, p. 197) e, per un’analisi più in dettaglio, Eekhoff (2005). 20 Per una panoramica delle diverse strategie di selezione dei rischi, cfr. van de Ven and van Vliet (1992) e van de Ven (2001). 17 18 141 può presumere che, se sufficientemente insoddisfatta dei servizi resi, la coppia sia disposta ad accettare l’aumento del premio assicurativo proposto da un possibile nuovo assicuratore B. Il trasferimento di un accantonamento per la vecchiaia eccessivamente basso rispetto alle condizioni di salute della coppia determinerebbe per A una posizione di vantaggio: gli assicurati possono essere spinti ad uscire dal portafoglio clienti, il che alla compagnia di A ovviamente non dispiacerebbe. La rimanenza degli accantonamenti per la vecchiaia risulterà probabilmente più alta di quanto necessario per coprire le spese future dell’utenza rimanente: l’assicuratore A può dunque utilizzare questa eccedenza per ridurre i premi degli assicurati che rimangono. 3.1.2 La “regola della somma” L’atteggiamento dell’assicuratore, e dunque le pratiche descritte sopra, potrebbero cambiare nel caso in cui la dirigenza si trovasse esposta al rischio immediato di mettere a repentaglio il buon nome della società.21 Una soluzione più sicura, anche se allo stesso tempo più costosa,22 del problema della selezione dei rischi è data dalla “regola della somma”. L’accantonamento per la vecchiaia correlato all’età deve essere calcolato annualmente per ciascun assicurato, mentre la somma di tutti gli accantonamenti individuali deve essere sempre pari al totale riportato a bilancio. Se l’assicuratore A ha stabilito un accantonamento individuale eccessivamente basso, l’assicuratore B dovrebbe essere estremamente efficiente per compensare il nuovo assicurato dell’ammanco in termini di accantonamenti per la vecchiaia. Se ciò non avvenisse, con tutta probabilità l’assicurato eviterebbe di effettuare il trasferimento, pur essendo insoddisfatto dei servizi prestati da A. In fin dei conti, la nuova polizza risulterebbe chiaramente più costosa. Tuttavia, allo stesso tempo, gli accantonamenti relativi agli altri clienti tenderebbero a essere eccessivi, dato che la somma degli stessi dovrebbe corrispondere alla voce registrata a bilancio. A sua volta, ciò potrebbe indurre questi altri clienti a rescindere le polizze sottoscritte con A, dato che sarebbe possibile acquistare la copertura assicurativa per un premio minore senza che B debba agire in maniera più efficiente. Inoltre, i restanti clienti di A dovrebbero accettare un aumento dei premi, poiché A stesso non sarebbe più in grado di coprire tutte le spese future a causa del livello insufficiente degli accantonamenti per la vecchiaia. L’incremento dei premi spingerebbe così altri assicurati ad abbandonare A, dal momento che la differenza tra i premi richiesti dai due concorrenti tenderebbe a ridursi o addirittura ad annullarsi. Si vede quindi che, in un contesto competitivo, un calcolo errato degli accantonamenti per la vecchiaia può effettivamente portare un assicuratore al fallimento.23 Se questa “regola della somma” è sottoposta al controllo di un’autorità che non è parte in causa o di revisori esterni, non vi è più alcun vantaggio nel procedere a un calcolo errato degli accantonamenti per la vecchiaia. La qualità dei servizi forniti potrebbe risultare ancora disomogenea, ma le differenze sarebbero rispecchiate dal variare dei premi e non permetterebbero alcuna selezione dei rischi. Diventa così impossibile sfruttare la maggiore propensione a pagare certi servizi calcolando gli accantonamenti in maniera errata. 3.1.3 L’importo totale degli accantonamenti per la vecchiaia Al fine di aggirare la regola della somma illustrata sopra, l’assicuratore A può anche cercare di ridurre gli accantonamenti per la vecchiaia portati a bilancio fino a ottenere un totale 21 22 23 Cfr. van de Ven (2001, p. 93) o Kifmann (200, p. 578), i quali adottano la stessa argomentazione in contesti analoghi. Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 46). Cfr. Donges et al. (2002, p. 53). 142 insufficiente. Per coprire l’incremento delle spese mediche cui va incontro con l’invecchiamento, è necessario che l’intero portafoglio clienti disponga di accantonamenti adeguatamente elevati. Se A stabilisce un accantonamento inferiore a quanto necessario per evitare il futuro incremento dei premi, probabilmente si avranno due conseguenze. In primis, se A sceglie questa strategia per attirare più clienti grazie a premi più bassi, verosimilmente il vantaggio competitivo iniziale scomparirà dopo poco, visto che gli accantonamenti risulteranno presto insufficienti e non copriranno le spese cui andranno incontro gli anziani. Inevitabilmente, i premi saranno destinati a crescere. In seconda battuta, A potrebbe portare a bilancio accantonamenti inferiori al necessario al fine di realizzare un surplus nel breve periodo o evitare che i clienti rescindano le loro polizze. Se A richiede gli stessi premi del concorrente B (il che è necessario per poter affrontare le spese future in altra maniera, per esempio assegnando risorse finanziarie alla riserva in eccedenza), B cercherà di attirare nuovi assicurati offrendo servizi di qualità migliore, oltre a premi più bassi o accantonamenti per la vecchiaia più elevati. Secondo questo modello, l’unica conclusione possibile è che stabilire accantonamenti insufficienti a coprire le spese future non è una strategia che paga quando si cerca di imporsi su un mercato competitivo. Tutto ciò è vero almeno finché gli assicurati sono interessati a una polizza malattia di lungo periodo. Ma che accade se un cliente ritiene che rimarrà in condizioni di salute migliori della media degli assicurati e dunque non è disposto a pagare i premi più alti richiesti da un contratto di lungo periodo? E se il consumatore opta per prodotti diversi rispetto alla copertura assicurativa, per esempio automobili o vacanze? In effetti, data una situazione di questo genere, sia l’assicurato che l’assicuratore preferiscono stabilire contributi molto bassi all’accantonamento per la vecchiaia. Quest’ultimo sarà troppo ridotto per coprire gli aumenti cui sarà soggetto il premio in relazione all’avanzare dell’età. Ma anche se si ipotizza che gli assicuratori non prevedano alcun accantonamento, nel caso dei contratti di lungo periodo continuerebbe a vigere il meccanismo del risk-adjustment. Un cliente “a basso rischio” che rescinde la polizza dovrà continuare a versare un indennizzo per coprire il valore corrente dei premi attesi in eccesso rispetto al valore corrente delle spese sanitarie individuali previste. Al contrario, un assicurato “ad alto rischio” incasserà una sorta di indennizzo per spese sanitarie superiori alla media.24 Tuttavia, gli accantonamenti per la vecchiaia potrebbero continuare a essere necessari per due ulteriori ragioni. In primo luogo, come già affermato da Cochrane,25 se si obbligano gli assicurati a basso rischio che richiedono la rescissione del contratto a versare un indennizzo all’assicuratore, si può incorrere in problemi di ordine legale, problemi che potrebbero essere evitati imponendo gli accantonamenti per la vecchiaia. Questi ultimi, anche nei casi di individui a basso rischio, risulterebbero vantaggiosi dopo un breve periodo di tempo. Occorre tuttavia sottolineare che si tratta di una questione meramente legale. Dal punto di vista economico, una compagnia assicurativa competitiva sarebbe in grado di offrire un premio più basso oppure — a parità di costi — potrebbe corrispondere l’indennizzo richiesto all’assicuratore precedente. Il secondo motivo per cui gli accantonamenti per la vecchiaia potrebbero continuare a essere necessari è l’eventualità della richiesta di trovare un modo per evitare lo sfruttamento del sistema previdenziale pubblico. Se gli organismi previdenziali coprissero i costi dell’assicurazione malattia o le spese sanitarie, gli assicurati potrebbero sfruttare la situazione per consumare altri tipi di beni piuttosto che contribuire agli accantonamenti per la vecchiaia.26 Dando per scontato che i costi derivanti dalle prestazioni gratuite offerte dalla previdenza 24 25 26 Cfr. Cochrane (1995). Ibid. Cfr. Hayek (1960, p. 286). 143 sociale siano superiori a quelli dovuti a una limitazione della libertà di scelta del consumatore, risulta necessario definire un contributo minimo all’accantonamento per la vecchiaia.27 3.1.4 Risk-adjustment e informazioni necessarie È molto improbabile che un assicuratore sia in grado di ottenere informazioni complete sulle condizioni di salute di un cliente e sulle spese mendiche future. Tuttavia, per calcolare gli accantonamenti per la vecchiaia tenendo conto dei rischi occorre conoscere la spesa media prevista per le diverse categorie di rischio. Alcuni autori dubitano che ciò sia possibile,28 ma questo problema può essere risolto. Innanzitutto, in Germania le compagnie assicurative private sono riuscite ad accumulare una grande esperienza nel calcolo dei premi correlati al rischio. In un simile scenario, si sono già trovate ad applicare gli accantonamenti per la vecchiaia nel caso di diverse categorie di rischio. Inoltre, se la selezione dei rischi derivante dalla trasferibilità di una percentuale media degli accantonamenti per la vecchiaia è considerata un problema grave da parte delle compagnie assicurative, esse devono ovviamente essere già in grado di calcolare la differenza tra il valore corrente delle spese future e il valore corrente dei premi futuri. In caso contrario, non sarebbero in grado di classificare i clienti ad alto o basso rischio, dato l’ammontare dell’accantonamento medio per la vecchiaia. Non è nemmeno assolutamente necessario differenziare per quanto possibile il risk adjustment degli accantonamenti. Si immagini una situazione in cui l’assicuratore A sia consapevole del fatto che il trasferimento di una percentuale media dell’accantonamento per la vecchiaia conduca alla selezione dei rischi, oltre a sapere che può facilmente distinguere tra tre diverse categorie di rischio: basso, medio e alto. Inoltre, egli dispone di una serie di criteri di selezione in base ai quali assegnare i clienti a una delle tre categorie. In termini di ottimizzazione, il problema di A consiste nello stabilire se sia più economico sviluppare un sistema di classificazione più sottile o sopportare i costi dovuti dalla possibilità di “scrematura” da parte dell’assicuratore B. Esisterà sempre un punto di equilibrio tra i costi di una differenziazione più precisa volta a ridurre al minimo il pericolo della selezione dei rischi e le maggiori spese imposte da una maggiore differenziazione. Il livello ottimale viene raggiunto nel momento in cui i costi marginali di questi due fattori vengono a coincidere. In tal modo, dato il costo del risk adjustment, le compagnie assicurative modificheranno gli accantonamenti per la vecchiaia in base ai rischi individuali per quanto necessario al fine di evitare in maniera efficiente la selezione dei rischi. È vero che sul mercato AMP tedesco i dati sui costi futuri delle diverse malattie potrebbero essere relativamente scarsi. Ma se fosse introdotto il modello proposto, le compagnie assicurative sarebbero obbligate ad effettuare calcoli più precisi, il che implicherebbe la raccolta di maggiori informazioni e l’organizzazione di ulteriori indagini sulla correlazione tra malattie attuali e spese mediche future in seno allo stesso bacino di clienti.29 Nel 2000 il paragrafo 12 comma 4a della legge per la supervisione delle assicurazioni (VAG) ha adottato un ricarico del 10% sui premi al fine di ottenere un controllo più efficiente della maggiorazione dei premi a carico degli assicurati, dato che il mercato assicurativo privato tedesco non permetteva più a molti pensionati di farvi fronte. Cfr. anche Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 12). 28 Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 46), Meier (2003, p. 15). 29 Cfr. anche Monopolkommission (1998, p. 343). 27 144 4. Applicazione al sistema di assicurazioni malattia in Germania 4.1 La riforma del mercato delle APM in Germania L’adozione del modello visto sopra al mercato delle APM in Germania dovrebbe essere abbastanza semplice. La riforma dell’attuale legge sul controllo delle assicurazioni potrebbe obbligare le compagnie interessate a trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia correlati al rischio. Poiché in realtà questi esistono già, si tratterebbe semplicemente di adattare il metodo di calcolo alle nuove regole. Per esempio, non sarebbero più valide le procedure attualmente seguite30 per trattenere gli accantonamenti come se fossero una sorta di spese di chiusura. Finora la nuova distribuzione di questi importi tra le altre attività ha implicato il trasferimento dai clienti insoddisfatti a quelli che conservano i contratti. Quindi, nel breve periodo la scelta di trasferire effettivamente gli accantonamenti per la vecchiaia condurrebbe giocoforza all’incremento dei premi per quegli assicurati che rimangono fedeli alla compagnia originaria.31 D’altro canto, è lecito supporre che nel lungo periodo il miglioramento dell’efficienza compenserà almeno in parte questi aumenti. Potrebbe anche essere necessario riconsiderare il modo in cui nel calcolo si tiene conto del risk loading. La simulazione dei premi in un modello provvisto di accantonamenti per la vecchiaia correlati ai rischi ha dimostrato che — partendo da premesse ben precise — chi è a rischio maggiore si sarebbe trovato a fronteggiare un incremento dei premi più marcato, per esempio a causa dei progressi tecnologici, se avesse cambiato compagnia assicurativa prima. In previsione di tale incremento, evitare di rescindere il proprio contratto avrebbe significato trarre un vantaggio economico.32 Simili conclusioni dipendono dall’ipotesi iniziale secondo cui le tariffe standard e i valori di risk loading relativi ai clienti ad alto rischio continuano a essere calcolati secondo le procedure vigenti. Se il metodo di calcolo venisse adattato alle nuove necessità, il problema non sussisterebbe. Da tale prospettiva teorica, sembra possibile trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia correlati ai rischi. Sarebbe interessante scoprire perché finora le riforme necessarie al mercato tedesco delle APM non hanno avuto luogo, anche se si limitano a piccole modifiche alle normative e ai metodi di calcolo. Si tratta di un aspetto potenzialmente molto interessante dal punto di vista dell’opinione pubblica e delle future ricerche nel settore.33 4.2 La riforma delle assicurazioni malattie pubbliche in Germania In seno al sistema di assicurazione sociale obbligatorio (casse mutua malattia) tedesco, i contributi sono versati dalla comunità intera e correlati al reddito. Gli anziani e coloro i quali hanno un reddito basso versano contributi inferiori a chi appartiene a fasce di reddito più alte. Mogli e figli a carico sono coperti dalla medesima cassa del famigliare che percepisce un reddito senza che sia necessario versare altri contributi. La correlazione alla comunità, oltre che al reddito, dei contributi, fa sì che sia necessario adottare un sistema di risk-adjustment, altrimenti si potrebbe avere una selezione dei rischi volta ad attirare chi è relativamente giovane, sano e abbiente. Il sistema è volto a compensare le casse mutua malattia degli svantaggi insiti nella struttura del rischio e nella fascia di reddito degli assicurati, tenendo conto Cfr. i paragrafi 2 e 5 della Kalkulationsverordnung (normativa per il calcolo). Meyer (1992, p. 193). Milbrodt (2004). 33 Non è questo il luogo per addentrarsi nei dettagli di quest’analisi. Per una discussione più approfondita cfr. Jankowski (2006). Sembra che la ragione principale per cui non si è proceduto al trasferimento degli accantonamenti per la vecchiaia sia stata la volontà di evitare “un’eccessiva” corsa ai clienti già assicurati presso una compagnia privata. Per ulteriori informazioni e per avere una panoramica storica sull’evoluzione del mercato delle APM in Germania, cfr. Terhorst (2000). 30 31 32 145 delle differenze esistenti in termini di reddito medio, età, sesso o invalidità. Tuttavia, questo approccio si è rivelato insufficiente perché dà la possibilità di selezionare un gruppo di assicurati relativamente sani.34 Si è dunque deciso di migliorarlo aggiungendo fattori di compensazione di tipo medico, quali i risultati delle diagnosi e la prescrizione di medicinali. Il nuovo sistema dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2007.35 Il nuovo modello è stato criticato perché poco efficiente e scarsamente ridistributivo.36 Il sistema di risk-structure adjustment non riuscirebbe a evitare del tutto gli sprechi a causa delle difficoltà incontrate del legislatore nell’ovviare al compromesso tra la selezione dei rischi e i costi eccessivamente alti del risk adjustment.37 Inoltre, le casse mutua malattia non sono sistemi a capitalizzazione. Un giovane assicurato verserà un contributo superiore alla media delle spese mediche all’interno della sua fascia d’età, mentre un anziano pagherà di meno rispetto alla media della sua coorte. Si ha così un trasferimento diretto dai giovani agli anziani e, quando interviene un declino delle nascite, i contributi sono destinati ad aumentare. Ne consegue che il sistema non è sostenibile, nel senso che non garantisce che ogni generazione versi lo stesso importo per ottenere i medesimi servizi.38 Alla luce di questi problemi, alcuni autori guardano al modello della trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia correlati ai rischi come a un possibile elemento di riforma del settore delle assicurazioni malattia pubbliche in Germania.39 Ma la trasformazione del sistema delle casse mutua malattia in un mercato di assicurazioni private in concorrenza reciproca rappresenterebbe comunque, almeno dal punto di vista politico, un risultato notevolmente più difficile da ottenere. Due aspetti secondari riguardano la distinzione tra assicurazione e ridistribuzione40 e i problemi che verosimilmente emergeranno quando si cercherà di privatizzare gli enti pubblici interessati. Il sistema degli accantonamenti per la vecchiaia correlati al rischio dovrebbe quindi sostituire il regime del risk-structure-adjustment. Durante tali riforme occorrerà tenere conto delle differenze esistenti tra le strutture dei rischi risultanti dall’evoluzione storica delle casse mutua malattia. Le difficoltà principali insite in una trasformazione di questa portata riguardano l’indebitamento implicito del sistema previdenziale tedesco, finanziato tramite ritenute alla fonte. Mentre in questo regime sono i contributi delle generazioni future a ridurre i premi, in un sistema a capitalizzazione ciascun assicurato accantona quote di risparmio cautelativo. Di conseguenza, nel passaggio da un sistema all’altro è necessario disporre di un fondo capitale sufficiente a soddisfare le richieste dei contribuenti attuali. Dunque occorrerebbe convertire l’indebitamento implicito delle casse mutua malattia in debito pubblico. Il fondo capitale stesso dovrebbe essere disponibile a un dato momento, cioè quando le casse mutua malattia vengono privatizzate. Ad ogni modo, il finanziamento del fondo rappresenterebbe una sfida importante dal punto di vista ridistributivo e dell’efficienza del sistema: occorre stabilire quale sarà la generazione chiamata ad ammortizzare il debito pubblico, probabilmente una decisione difficile per ragioni politiche ed economiche. Che impatto avrà la conversione dell’indebitamento implicito in debito pubblico sull’efficienza dei mercati finanziari? Ultimo ma non meno importante, bisogna considerare che sono già anni che la Germania non rispetta i limiti del debito pubblico previsti dal trattato di Maastricht. Casse et al. (2001). Busse and Riesberg (2004, p. 196). 36 Il dibattito sulla riforma delle assicurazioni malattia pubbliche in Germania è descritto, per esempio, da Breyer (2005). 37 Cfr. Selden (1998, p. 175). 38 Per un’analisi dell’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulla sostenibilità dei mercati delle assicurazioni malattia pubbliche e sulle politiche fiscali di quattro Paesi, cfr. Hagis et al. (2005). 39 Per esempio, cfr. Monopolkommission (1998), Donges et al. (2002) e Jankowski (2006). 40 Breyer (2005). 34 35 146 Finora a questi problemi non è stata trovata soluzione ma, nonostante le difficoltà, si dovrebbe ricordare che esistono diritti acquisiti che vanno rispettati: in caso di riforma vi sarà un aumento del debito pubblico. Ciò detto, a differenza di quanto avviene oggi, il nuovo sistema non sarebbe così legato agli sviluppi demografici, mentre il meccanismo del risk adjustment previene le inefficienze residue dovute all’applicazione di modelli basati sul risk-structure-adjustment. Se non si abbandonano le ritenute alla fonte, o aumentano i tassi di contribuzione o si riduce il ventaglio dei servizi resi. Da questo punto di vista, il modello qui illustrato potrebbe rappresentare (almeno in teoria) una possibilità da tenere in considerazione nella riforma delle assicurazioni malattia pubbliche in Germania. 5. Conclusioni Il presente articolo ha illustrato il dibattito che si sta tenendo in Germania circa la trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia in relazione alle assicurazioni malattia pubbliche, rivedendo la possibilità del risk adjustment. Un simile approccio stimola la concorrenza tra gli operatori del ramo e li obbliga a calcolare gli accantonamenti per la vecchiaia tenendo conto dei rischi e della possibilità di trasferirli. Sono state anche esaminate le principali obiezioni al modello proposto. Sebbene da più parti si sottolinei che in teoria esso potrebbe incrementare l’efficienza dei mercati del settore delle assicurazioni malattia, se ne mette in dubbio la fattibilità. Spesso si sostiene che non è possibile contestare la correttezza dell’importo degli accantonamenti per la vecchiaia correlati ai rischi, poiché è fin troppo facile compiere eventuali errori a livello individuale. Abbiamo però dimostrato che, dato un contesto normativo appropriato, gli assicuratori non hanno più alcun motivo di stabilire accantonamenti errati al fine di far fronte alla concorrenza. Si è inoltre visto che per riuscire a prevenire la selezione dei rischi, non è necessario ottenere informazioni complete su tutte le possibili spese mediche future. Si può dunque concludere che l’adozione del regime di trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia rappresenta un problema più politico che pratico. L’adozione del modello sarebbe effettivamente possibile tanto nel settore assicurativo pubblico che in quello privato. Tuttavia, la riforma del settore pubblico in Germania risulterebbe oltremodo difficile per ragioni legate all’efficienza del sistema e alla ridistribuzione delle risorse. La situazione è ulteriormente complicata a causa di fattori economico-politici, rendendo ancor più improbabile la riforma del settore delle assicurazioni malattia pubbliche. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Arrow, K. J. (1963): “Uncertainty and the Welfare Economics of Medical Care”, American Economic Review, 53 (5), pp. 941-973. Baumann, F., Meier, V. and Werding, M. (2004): “Transferable Ageing Provisions in Individual Health Insurance Contracts”, CESIfo Working Paper, No. 1116, München. Breyer, F. (2005): “How to finance Social Health Insurance: Issues in the German Reform Debate”, The Geneva Papers on Risk and Insurance, 29(4), pp. 679-688. Busse, R. and Riesberg, A. (2004): Health Care Systems in Transition: Germany, European Observatory on Health Care Systems, Copenhagen. Cassel, D., Jacobs, K., Reschke, P. und Wasem, J. (2001): “Zur Wirkung des Risikostrukturausgleich in der gesetzlichen Krankenversicherung — Eine Untersuchung im Auftrag des Bundesministeriums für Gesundheit” (On the impacts of the risk structure adjustment in the German social health insurance market), 147 Berlin u.a. Cochrane, J.H. (1995): ‘Time-Consistent Health Insurance’, Journal of Political Economy, 103(3), pp. 445-473. Donges, J. B., Eekhoff, J., Franz, W., Möschel, W., Neumann, M.J.M. und Sievert, O. (2002): “(Kronberger Kreis) Mehr Eigenverantwortung und Wettbewerb im Gesundheitswesen” (Towards more personal responsibility and competition in health care), Schriftenreihe der Stiftung Marktwirtschaft, Bd. 39. Frankfurter Institut, Berlin. Eekhoff, J. (2005); “Übertragbare Altersrückstellungen in der privaten Krankenversicherung’’, (Transferable ageing provisions in the phi-market), Zeitschrift für Wirtschaftspolitik, 54, pp. 52-68. Hagist, C., Klusen, N., Plate, A. and Raffelhüschen, B. (2005): “Social Health Insurance — The Major Driver of Unsustainable Fiscal Policy?”, Discussion Paper, No. 1, Research Center for Generational Contracts, Freiburg University, Freiburg. Hayek, F.A.V. (1960): The Constitution of Liberty, Routledge, London. Jankowski, M. (2006): Wettbewerb, Versicherungspflicht und Risikoanpassung — Zur Begründung und Gestaltung einer obligatorischen Krankenversicherung in der Wettbewerbsordnung (Competition, Compulsory Insurance and Risk Adjustment), Institut für Wirtschaftspolitik, Köln. Kifmann, M. (2000): “The Premium Risk Problem in Health Insurance”, Schmollers Jahrbuch, 120, pp. 567-586. Meier, V. (2003): “Efficient Transfer of Ageing Provisions in Private Health Insurance”, CESifo Working Paper No. 862, Munich. Meyer, U. 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(2001): “Risk Selection on the Sickness Fund Market”, The European Journal of Health Economics (HEPAC), 2, pp. 91-95. 149 SPONSOR THE RISK INSTITUTE — ISTITUTO DEL RISCHIO L’INSTITUT DU RISQUE Basato su una rete di volontariato in parte appoggiata dall’Associazione di Ginevra, l’Istituto del Rischio è stato creato per estendere gli studi relativi al rischio, alla vulnerabilità e all’incertezza fino a coprire i più ampi aspetti culturali, economici, sociali e politici delle società moderne. Il punto di partenza per la definizione del programma d’azione è stato un incontro informale tenutosi a Parigi nel 1986. Tra i partecipanti ricordiamo Raymond Barre, Fabio Padoa, Richard Pian, Edward Ploman, Alvin e Heidi Toffler e Orio Giarini. Un primo rapporto, realizzato da Orio Giarini e Walter Stahel, è stato pubblicato nel 1989, ristampato nel 1991, rivisto nel 1993 con il titolo The Limits to Certainty — Managing Risks in the Modern Service Economy e introduzione del premio Nobel Ilya Prigogine (Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, the Nehterlands). È stato pubblicato anche in francese, italiano (I limiti della certezza — affrontare i rischi nella nuova economia di servizio), rumeno e giapponese. Nel 2000, in Germania, si è pubblicata una versione completamente rinnovata dal titolo Die Performance Gesellschaft (Metropolis-Verlag, Marburg). Il libro sottolinea il fatto che l’incertezza non è semplicemente il risultato della mancanza o insufficienza di informazioni. Tutte le azioni che si protraggono nel futuro presentano per definizione un certo grado di incertezza. Ogni “sistema perfetto” (o ideologia) rappresenta un’utopia, spesso pericolosa: la completa rimozione delle incertezze dalle società umane implica l’eliminazione della libertà. L’apprendimento e la vita sono una questione di abilità e capacità di affrontare, gestire, limitare, contenere e sfruttare il rischio e l’incertezza. Nel 2002 l’Istituto del Rischio ha pubblicato per i tipi di Economica (Parigi) un libro in francese sull’itinerario verso la pensione a 80 anni (Itinéraire vers la retraite à 80 ans). Da allora l’Istituto si occupa prevalentemente di un programma di ricerca sulle implicazioni sociali ed economiche del prolungamento della speranza di vita (in genere non correttamente definita “invecchiamento” della società), che viene considerato il fenomeno sociale più importante della nostra era. Per i Quaderni Europei sul Nuovo Welfare vedere: www.newwelfare.org Direttore: Orio Giarini Via della Torretta, 10 I - 34121 Trieste Tel./Fax +39 040 3222056 [email protected] Route de Malagnou, 53 CH - 1208 Geneva Tel. +41-227076600 - Fax +41-227367536 [email protected] 150 MACROS RESEARCH Creata nel 1987 a Milano, Macros Research è una società che realizza studi e ricerche per il settore finanziario, compagnie di assicurazioni e istituti bancari. È parte integrante di Macros Group, composto da altre due società: Macros Consulting, che opera nel campo della consulenza strategica per l’alta direzione e Macros Risk Management, società che offre consulenza sulla gestione intergrata del Rischio. Macros Research realizza ricerche e studi attraverso un approccio interdisciplinare, per analizzare e approfondire la gestione dei rischi economici e sociali nell’ambito pubblico e privato. Obiettivo di Macros Research è di promuovere e realizzare ricerche teoriche ed empiriche nell’area dell’economia assicurativa riferite all’allungamento del ciclo di vita e il suo impatto sul sistema di welfare, alla previdenza e alla sanità. Tra le varie ricerche di Macros Research, di notevole importanza sono: le politiche di welfare in Italia e in Europa, i sistemi previdenziali in EU e nei paesi dell’OCSE, il risparmio privato e i sistemi pensionistici pubblici, Ageing society e mercato del lavoro e Long Term Care. Macros Research ha pubblicato diverse monografie, paper e cura con l’Istituto del Rischio i Quaderni Europei sul nuovo Welfare — svecchiamento e società. Macros Research fin dalla sua nascita si è particolarmente contraddistinta per la sua visione internazionale, testimoniata dalla sua collaborazione da oltre 20 anni con l’Associazione di Ginevra (The Geneva Association), con l’Istituto del Rischio di Ginevra-Milano-Trieste, Università e Istituti di ricerca nazionali ed internazionali. La vocazione internazionale di Macros Research è inoltre confermata dai convegni organizzati con la partecipazione di esperti internazionali. Presidente Angelo Scarioni Research Manager Mara Tagliabue Research Co-ordinator Angelo Paulli Macros Research Largo Donegani,3 I – 20121 Milano Tel. + 39 02 290 041 93 Fax + 39 02 655 41 28 [email protected] www.macrosgroup.it 151 International Association for the Study of Insurance Economics “The Geneva Association” The Geneva Association is a unique non-profit worldwide organisation formed by some 80 Chief Executive Officers of the most important insurance companies in Europe, North America, South America, Asia, Africa and Australia. Its main goal is to research the growing economic importance of insurance activities in the major sectors of the economy. The Geneva Association acts as a forum for its members, providing a worldwide unique platform for the top insurance CEOs. It organises the framework for its members and their companies to exchange ideas and discuss key strategic issues. To this end, it has established large international networks of experts and high-level industry platforms. The Geneva Association serves as a catalyst for progress in this unprecedented period of fundamental change in the insurance industry. It seeks to clarify the key role that insurance plays in the further development of the modern economy. Its activities are focused around 6 research programmes which constitute the core of its research activities: 1) Risk Management: The aim of this programme is to research and illustrate the new risks in the emerging service economy. 2) Insurance and Finance: This research programme comprises academic and professional research activities in the fields of finance where they are relevant to the insurance and risk management sector. 3) The Four Pillars — Research Programme on Social Security, Insurance, Savings and Employment: To identify possible solutions to the problem of the future financing of pensions and, more generally, of social security in our post-industrial societies. 4) Health and Ageing: This programme seeks to bring together facts, figures and analyses linked to issues in health. The key is to test new and promising ideas, linking them to related studies and initiatives in the health sector and trying to find solutions for the future financing of healthcare. 5) Insurance Economics: It is dedicated to making an original contribution to the progress of insurance through promoting studies of the interdependence between economics and insurance, to highlighting the importance of risk and insurance economics as part of the modern general economic theory. 6) PROGRES (regulation and legal issues): This research programme focuses on questions related to regulation, supervision and international co-operation of insurance and financial services as well as other legal issues of importance. Today, after more than 30 years of existence, The Geneva Association has become a fixture for the insurance world through the quality of its research and the expertise of its global networks. President: Henri de Castries (CEO, AXA, Paris) Secretary General and Managing Director: Patrick Liedtke (Geneva) 152 MONTEPASCHI VITA Montepaschi Vita, Compagnia di Assicurazione sulla Vita del Gruppo MPS, è nata nel 1991 e in breve tempo si è affermata come la prima bancassicurazione d’Italia, conquistando la fiducia della clientela e imponendosi ai primi posti nel mercato assicurativo nazionale. Montepaschi Vita, da alcuni anni, sta dimostrando un costante e profondo impegno nell’ambito della ricerca, promuovendo, fra le altre iniziative, un Forum annuale, momento di confronto tra i vertici degli operatori finanziari ed assicurativi italiani ed europei su temi chiave legati al filo conduttore dei nuovi paradigmi del valore. Fra i temi approfonditi nelle differenti edizioni del Forum, ampio spazio è stato dato al tema di cui trattano i Quaderni, con particolare attenzione alle implicazioni intrinseche alla riforma del welfare mix, inerenti il ruolo che si troveranno a ricoprire gli operatori bancari e assicurativi. Il tema, di particolare attualità, è basilare per lo sviluppo di adeguate strategie da parte dei gestori finanziari, categoria a cui apparteniamo, in quanto il concetto stesso di risparmio si trova a sperimentare un interessante percorso evolutivo che porta ora a dare enfasi non solo agli aspetti di sicurezza e redditività, ma anche alla “finalizzazione”. Il concetto di “finalizzazione del risparmio rappresenta una delle risposte ai nuovi trend demografici e sociali. Il campo di gioco è ampio, ricco di opportunità ma anche di rischi. Gli assicuratori sono tra gli operatori che meglio possono cogliere le nuove sfide attingendo alla loro più autentica vocazione di “gestori di rischi”. A fronte di un nuovo ruolo degli operatori privati emerge l’importanza del “Patto Sociale” e del rapporto fiduciario che deve legare gli operatori stessi ai cittadini/clienti nel mettere a disposizione leve e professionalità finanziarie per gestire al meglio la copertura dei rischi “sociali”. Montepaschi Vita Presidente Direttore Generale Direzione Generale Silvano Andriani Emanuele Marsiglia Via Aldo Fabrizi, 9 - 00128 Roma - Tel. 06.508701 153 GRUPPO IL GRUPPO FONDIARIA SAI FONDIARIA Nato il 31 dicembre 2002 dall’incorporazione di “La Fondiaria Assicurazioni” in “SaiSocietà Assicuratrice Industriale”, Fondiaria-Sai è un primario gruppo assicurativo italiano, leader nei rami danni, con circa nove milioni di clienti e una raccolta premi per quasi 10 miliardi di euro. Per offrire prodotti e servizi assicurativi, previdenziali, finanziari e bancari dei suoi prestigiosi marchi (Sai, Fondiaria, Milano, NuovaMaa, Previdente, Italia, Siat, Sasa...), il Gruppo può contare sulla competenza di circa 6.000 dipendenti e sulle qualificate capacità della rete di consulenza e vendita assicurativo-finanziaria più capillare del mercato italiano: 3.500 agenzie, 1.500 promotori finanziari e 2.000 sportelli con accordi di bancassurance. Capofila di un gruppo composto da circa 100 società, controllate e collegate, attive anche nei settori immobiliare, agricolo, dell’assistenza e dei servizi, Fondiaria-Sai è quotata alla Borsa di Milano. Il Gruppo Fondiaria Sai avverte da sempre la responsabilità di creare non solo valore economico per i suoi azionisti, ma anche valore etico per i suoi stakeholder: clienti, dipendenti, pubbliche amministrazioni, comunità locali ed enti attivi sul territorio e nella società civile. Per promuovere la “cultura della solidarietà” nel nostro Paese, il Gruppo ha costituito la Fondazione Fondiaria-Sai — che eroga contributi nel settore socio-assistenziale e culturale — e pubblica annualmente il Rendiconto Sociale, lo strumento che profila in modo tangibile e trasparente l’esercizio della responsabilità sociale di impresa, adottando un approccio originale, che coinvolge nella redazione gli studenti universitari e genera di per sé una ricaduta di benefici economico-sociali. Presidente Amministratore Delegato e Direttore Generale Direzione Generale 154 Jonella Ligresti Fausto Marchionni Corso Galileo Galilei, 12 10126 Torino - Tel. 011 6657111 ALREADY PUBLISHED EUROPEAN PAPERS ON THE NEW WELFARE the counter-ageing society AGEING AND COUNTER-AGEING Editorial Orio Giarini Financial Sustainability of Social Protection Systems Maite Barea Phased Retirement: Who Opts for It and Toward What End? Yung-Ping Chen and John C. Scott Part-Time Pensions and Part-Time Work in Sweden Eskil Wadensjö Is the Fertility Decline a Consequence of the Growth of the Welfare State? Evidence from Historical Data Mikko Puhakka and Matti Viren The Biology of Ageing S. Gustincich, M. Biagioli, R. Calligaris, Z. Scotto Lavina and S. Zucchelli Health Care System in the Industrialised Countries and the Role of Private Insurance Alfeo Zanette and Monica Ricatti Longevity, Systemic Models and Business Risk Andrea Battista Abstracts from The Employment Dilemma and the Future of Work Orio Giarini and Patrick M. Liedtke Sponsors No. 6, October 2006 155 L’IMPRESA ASSICURATIVA. FABBRICA, FINANZA E RUOLO SOCIALE. Risarcimento diretto, polizze vita, riforma delle pensioni: mai come in questo momento alcuni tra i temi nodali delle assicurazioni sono al centro del dibattito pubblico. In un contesto sociale in cui cambiano rapidamente assetti demografici e dinamiche interne, le imprese assicurative sono chiamate a rispondere a nuove domande, assumendo funzioni e responsabilità di public utility. Sebbene le assicurazioni rappresentino un’importante risorsa del sistema-Paese, nel panorama editoriale italiano è mancata fino a ieri una trattazione ampia e organica sulla struttura e sul ruolo di queste imprese. L’impresa assicurativa. Fabbrica, finanza e ruolo sociale di Fausto Marchionni, pubblicato da Il Sole 24 Ore, non colma soltanto questa lacuna, ma affronta argomenti cruciali come il ruolo delle assicurazioni nel sistema finanziario, le teorie del rischio, l’assicurazione come risposta al bisogno (individuale e collettivo) di sicurezza e l’integrazione tra pubblico e privato nella gestione del welfare. Scritto con l’intento di parlare a un pubblico ampio, il libro utilizza un linguaggio chiaro e semplice, che coniuga la tecnicità dell’assicuratore con il rigore accademico, ed è destinato ad assolvere un’importante funzione formativa per gli studenti universitari. Il libro ha il sottotitolo Fabbrica, finanza e ruolo sociale perché sono tre i punti essenziali dell’impresa assicurativa moderna. Anzitutto è giusto ribadire che l’assicurazione è una fabbrica a pieno titolo, che produce la “polizza assicurativa”, prodotto singolare perché rimane intangibile sino al momento dell’eventuale sinistro. La parte finanziaria dell’impresa assicurativa, in secondo luogo, nasce dalla “fabbrica”, ma è direttamente legata al suo ruolo sociale (certificato attraverso la stesura del Rendiconto Sociale): gli investimenti delle assicurazioni, infatti, contribuiscono in modo decisivo alla crescita e alla stabilità del Paese e costituiscono una riserva indispensabile per gli ammortizzatori sociali. Il libro focalizza l’attenzione anche sui mutamenti in atto nel mercato, dove nei due grandi comparti dell’industria assicurativa — il ramo danni e il ramo vita — il secondo è in forte aumento, in linea con una tendenza europea. Il risparmiatore italiano, infatti, si sta orientando verso piani di risparmio di mediolungo termine che diano diritto a una disponibilità di mezzi per l’istruzione superiore dei figli, per la tutela dalle fluttuazioni di reddito, per una pensione sicura. Viene in tal modo aperta una finestra sul futuro che lascia presagire come negli anni a venire l’impresa assicurativa sarà sempre più un attore sociale di primo piano e un protagonista dello sviluppo economico e culturale. FAUSTO MARCHIONNI, L’impresa assicurativa. Fabbrica, finanza e ruolo sociale, Il Sole 24 Ore, Milano 2006, pag. 357, euro 35. 156 L’INDUSTRIA ASSICURATIVA. Gli Standard IAS/IFRS Il libro L’INDUSTRIA ASSICURATIVA Gli Standard IAS/IFRS prende spunto dagli atti del convegno “Insurance and International Financial Reporting Standards” organizzato a Milano nel dicembre 2004 dall’ANIA, (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici), Macros Risk Management e l’Associazione di Ginevra. Il volume riguarda le questioni inerenti all’applicazione dei nuovi principi contabili per le imprese assicurative e bancassicurative. I temi centrali e le riflessioni proposte rispondono alle seguenti domande: qual è l’impatto dei nuovi principi contabili sull’attività assicurativa? Quali saranno le conseguenze sul processo di gestione della compagnia? Quali le conseguenze sulle strategie di investimento? Quale impatto sul modello di distribuzione e sui prodotti? Quali saranno gli indici e i parametri per valutare la performance della società? Come cambia la modalità di reporting con gli stakeholder? Le risposte a questi interrogativi serviranno a comprendere meglio l’evoluzione che le imprese assicurative e bancassicurative potranno produrre in tema di Governance e di trasparenza verso il mercato. Questo libro si propone, attraverso le testimonianze di autorevoli esponenti del settore assicurativo internazionale e nazionale, di valutare quali sono i cambiamenti da introdurre nella gestione aziendale e quelli da realizzare a lungo termine. La prefazione di questo libro è a cura del Presidente dell’ANIA, Fabio Cerchiai e del Presidente dell’Associazione di Ginevra Henri de Castries, Presidente del Management Board e CEO del Gruppo AXA. ANIA, The Geneva Association, Macros Risk Management, L’INDUSTRIA ASSICURATIVA Gli Standard IAS/IFRS, a cura di Giampaolo Galli, Patrick M. Liedtke, Angelo Scarioni, Franco Angeli, Milano 2006, pag 129, euro 29. 157 LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE IN ITALIA La previdenza complementare in Italia a cura di MESSORI M. (a cura di) Collana “Percorsi” pp. 648, 7 40,00 88-15-10900-5 anno di pubblicazione 2006 Il volume esamina il secondo pilastro pensionistico italiano così da trarre un primo e generale bilancio della materia, sottolineando i principali problemi aperti dal nuovo assetto normativo e suggerendo alcune innovazioni di policy che potrebbero dar luogo a un più rapido ed equilibrato sviluppo dei fondi pensione. Marcello Messori Prima che entrino in vigore nel 2008 i recenti decreti attuativi della Legge delega approvata nell'estate del 2004, sarebbe infatti possibile intervenire per ridurre le distanze fra un'ideale configurazione ottimale e la concreta realtà del secondo pilastro pensionistico italiano. Rispetto ai paesi europei con più antica tradizione di previdenza complementare, la situazione dell'Italia è il Mulino arretrata. Al fine di stimolare la crescita dei nostri fondi pensione e di ridurre le distanze da vari partner europei, il volume prende in esame i limiti del quadro normativo, le carenze nell'informazione e nella tutela degli aderenti, il grado di concorrenza e di governance delle diverse forme pensionistiche complementari, le modalità della loro gestione finanziaria, la diversificazione dei conseguenti portafogli, il loro trattamento fiscale, il raccordo con il primo pilastro pubblico e il passaggio dalla fase di capitalizzazione a quella di erogazione dei benefici. Marcello Messori insegna Economia dell'informazione ed Economia dei mercati monetari e finanziari nella Facoltà di Economia dell'Università di Roma “Tor Vergata”. Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale (curato assieme a R. Costi, Il Mulino, 2005). MESSORI M. (a cura di) - La previdenza complementare in Italia - Collana “Percorsi” pp. 648, 7 40,00 - 88-15-10900-5 - anno di pubblicazione 2006. 158 HARDBACK LIST 50 1-4039-4796-1 ORDER THE BOOK BY: tel. +44 (0)1256 302866 fax +44 (0)1256 330688 [email protected] ` 159 The Employment Dilemma and the Future of Work Report to the Club of Rome By Orio Giarini & Patrick M. Liedtke Second edition 2006 • 151 pages • CHF 60 Modern societies are trying to develop concepts that allow them to protect their citizens and at the same time stay competitive in the globalised markets. The approach of the new welfare state is no longer to arrange for full coverage of (ideally) all risks but to replace the existing extraordinarily expensive systems with more targeted and efficient approaches. This is achieved through requiring people to assume more risks individually and to organise their adequate protection themselves. This so-called “risk shift from public to private”, unfortunately, has had as a consequence many half-hearted or partial reforms leading to ineffective working structures, inadequate employment arrangements, and ultimately an erosion of the protective systems rather than their real modernization. In this report, the authors analyse work in all its forms in the modern service economy and propose several innovative solutions. Two of the most ambitious are: (1) Organising a basic layer of remunerated work for those who otherwise cannot find employment, keeping them active and engaged; and (2) the encouragement and empowerment of the elderly to stay in employment for many years beyond age 60 or 65 — not just as a simple prolongation of existing careers but at flexible terms (part-time work is the key component) that are more suitable to them. About the Authors Orio Giarini is Director of the Risk Institute in Trieste, a European research institution for the new welfare society, and Editor-in-Chief of The European Papers on the New Welfare. He was formerly Secretary General of “The Geneva Association”, Member of the Executive Board of the Club of Rome and professor at the University of Geneva, lecturing on the new service economy. Patrick M. Liedtke is Secretary General and Managing Director of “The Geneva Association”, leading risk and insurance research organisation supported by the CEOs of the largest insurance companies in the world. He is Member of the Executive Board of the Club of Rome, Director of ASEC (Applied Services Economic Centre), Board Member of the European Group of Risk and Insurance Economists (EGRIE), and Editor-in-Chief of The Geneva Papers on Risk and Insurance — Issues and Practice. To order copies of the book, please contact: The Geneva Association - General Secretariat 53, route de Malagnou - CH-1208 Geneva - Tel.: +41-22-7076600 - Fax: +41-22-7367536 [email protected] - www.genevaassociation.org 160