- Quaderni EUROPEI N. 7 - quaderni europei sul nuovo welfare

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QUADERNI EUROPEI
SUL NUOVO WELFARE
svecchiamento e società
N. 7, Febbraio 2007
VERSO IL NUOVO WELFARE:
OBIETTIVI E STRATEGIE
Pubblicato da
L’ISTITUTO DEL RISCHIO
TRIESTE - MILANO - GINEVRA
MACROS RESEARCH
MILANO
QUADERNI EUROPEI
SUL NUOVO WELFARE
svecchiamento e società
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VERSO IL NUOVO WELFARE:
OBIETTIVI E STRATEGIE
Editoriale
4
Il pensionamento flessibile in Europa
Elsa Fornero e Chiara Monticone
7
I problemi aperti nella previdenza complementare italiana
Marcello Messori
21
Il pensionamento progressivo negli USA: chi lo sceglie e a che scopo
Yung-Ping Chen e John C. Scott
39
Una montagna troppo lontana? La saga dei conti individuali previdenziali negli Stati Uniti
Sheila Bair
54
Lavorare oltre i 60 anni: aspetti fondamentali e raccomandazioni
Geneviève Reday-Mulvey
65
L’occupazione degli anziani: cosa possiamo imparare dal Giappone
Bernard H. Casey
82
Un commento: tra pensione e vecchiaia il passo è lungo!
Raimondo Cagiano de Azevedo e Benedetta Cassani
99
L'invecchiamento demografico in Italia: verso un miglioramento della relazione tra età
e lavoro
102
Manuela Stranges
Lavoro e salute in età avanzata: l’influenza reciproca
Cristina Giudici
119
I portafogli delle famiglie 1995-2004 e la previdenzanei principali paesi OCSE: Primi
segnali di convergenza verso veicoli a più lungo termine?
126
Daniele Fano e Teresa Sbano
Il risk-adjustment nei contratti di assicurazione malattia di lungo periodo in Germania
Johann Eekhoff, Markus Jankowski e Anne Zimmermann
137
Sponsor
150
3
Editoriale
Verso il nuovo welfare: punti di arrivo
di Orio Giarini e Mara Tagliabue
Quasi vent’anni orsono, in un programma di ricerca intitolato “I Quattro Pilastri”,
l’Associazione di Ginevra, considerando l’allungamento in vari paesi del ciclo di vita,
ipotizzava che prima o poi si sarebbe cominciato a ritardare l’età della pensione. Le prime
reazioni a questa ipotesi furono decisamente negative: si mandino a casa le persone più anziane
— si diceva — e largo ai giovani.
Occorre tener presente che in Italia, come ha recentemente ribadito il governatore della
Banca d’Italia, il tasso di occupazione nella fascia di età tra 55 e 64 anni supera di poco il 31%:
oltre 10 punti in meno rispetto alla media dell’Unione Europea; quasi venti punti al di sotto
dell’obiettivo per il 2010 condiviso dall’Italia al Consiglio europeo di Lisbona nel 2000.
Quasi nessuno oggi osa riprendere quest’ultimo argomento perché significa far pagare ai
giovani il peso di una popolazione che al momento del pensionamento effettivo ha in media
circa 20 anni da vivere. L’articolo dei giovani Fernandez e Wollgam (vedi il n. 4 di questi
Quaderni) inoltre mette in evidenza la preoccupazione che esista, fra 30 anni, un sistema di
pensionamento “sostenibile”, soprattutto per i giovani di oggi.
L’età della pensione dipende dai rapporti all’interno delle generazioni e una popolazione
come la nostra, per la quale l’età media è aumentata di oltre 3 anni, è destinata a dover
affrontare una vera e propria crisi del sistema pensionistico. Quindi è necessario assicurare
l’equilibrio finanziario nel lungo periodo del sistema, dato che nel 2038 la spesa aumenterebbe
del 2% del PIL.
Vediamo quindi di elencare brevemente, per i prossimi, non lontani decenni, alcuni punti
chiave di arrivo verso il nuovo welfare, che sono spesso alquanto offuscati:
• l’allungamento della vita attiva, sotto varie forme, non è una punizione, ma una grande
opportunità: è il modo migliore per essere vivi, in migliore salute, integrati nella società. Per
la grande maggioranza di coloro che arrivano almeno agli 80 anni, si devono aprire le strade
e le mentalità, verso la valorizzazione di un nuovo continente umano e sociale. Naturalmente
con programmi e possibilità di formazione e di nuove opportunità. Vivere in un’economia
fondata ormai prevalentemente su funzioni di servizio, facilita questo sviluppo;
• molte imprese, in varie parti del mondo, hanno cominciato negli ultimi anni a riscoprire e
valorizzare il contributo fornito dai lavoratori anziani con la loro esperienza;
• elemento chiave in questo quadro è il lavoro a tempo parziale, anche se alcuni potranno
naturalmente lavorare a tempo pieno. Il cosiddetto lavoro a metà tempo (attorno alle 20 ore
settimanali) dovrebbe diventare il fondamento (lo “stumbling block”) del nuovo welfare, a
partire dai 60 anni o con vari metodi graduali. Comunque sia il pensionamento obbligatorio
a qualunque età sarà molto probabilmente, via via, abolito;
• altro elemento essenziale: combinare lavoro e pensione in proporzioni adeguate. Ci sono già
molti esempi, che cominciano a farsi luce in questa direzione, soprattutto nei paesi europei
del nord. Alcuni paesi hanno già in pratica previsto le conseguenze fiscali di questa
soluzione, che rende il costo del lavoro degli anziani (soprattutto a partire dai 65 anni) meno
oneroso e migliora nello stesso tempo il gettito fiscale;
• il sistema di pensionamento per ripartizione, dovrà via via cercare di rispondere sempre
meglio a criteri di giustizia retributiva. Il sistema svizzero attuale è probabilmente il più
adeguato in questo senso.
4
•
il sistema di pensionamento per capitalizzazione, generalizzato (che alcuni paesi hanno già
reso obbligatorio), dovrà rispondere sempre meglio a criteri di responsabilizzazione
personale delle persone e delle famiglie, legato a politiche serie di controllo dell’inflazione;
• le spese sanitarie che in Italia, nei prossimi 30 anni, potrebbero anche raddoppiare in
percentuale al PIL, dovrebbero potersi gestire ed essere meglio garantite, da un sistema di
doppio pilastro, come nel caso del pensionamento. Si creeranno anche dei ponti fra
pensionamento e spese sanitarie (sia nella logica della ripartizione che in quella della
capitalizzazione);
• si dovrebbe arrivare prima o poi a una sintesi dei vari sistemi di “negative income tax”,
redditi detti di “cittadinanza”, sovvenzioni e contributi di varie origini, che riguardano non
solo gli anziani indigenti, ma l’insieme della popolazione;
• per quel che riguarda la politica europea, questa è ancora di una estrema timidità (anche
sul piano degli studi) in questo settore chiave per il futuro sociale e umano dell’ Europa e
del mondo. Si avanza sovente l’ipotesi che i sistemi di protezione sociale resteranno diversi
perchè dipendono dalla storia, dalla cultura e dalle tradizioni di ogni paese: se si tratta di
attività benevole e comunque non monetizzate, ciò è spesso vero. In alcuni paesi africani, ad
esempio, è più efficiente curare i malati in ospedale con l’ausilio e la presenza della
famiglia. Ma sul piano delle attività monetizzate, le differenze fra paesi traducono quasi
sempre gradi diversi di efficienza sia economica che sociale. E per tutti i paesi europei (e di
gran parte del mondo, oggi o domani) i problemi di fondo sono essenzialmente gli stessi:
allungamento del ciclo di vita, raccolta, gestione e distribuzione delle risorse finanziarie e
tecnologiche. Tutto deve convergere per il miglior benessere dei cittadini.
L’Unione Europea dovrebbe poter confrontare tutti i sistemi, misure e politiche, per
facilitare la scelta delle più vantaggiose: da qui nascerà prima o poi una vera politica del
Nuovo Welfare in Europa, che contemperi sia criteri di solidarietà che di efficienza. È a questo
livello che l’Europa si guadagnerà una credibilità e un consenso più profondi, dove le promesse
di un domani migliore saranno meglio fondate. Un domani che si misurerà dal fatto di saper
conquistare e valorizzare il grande capitale umano dei “dopo 60 anni” — e non si dica ancora
che questi problemi riguardano solo i paesi più avanzati e “vecchi”. Tutti i paesi “giovani” con
folte schiere di popolazioni sotto i 30 o magari sotto i 20 anni, saranno i “vecchi “ che si
aggiungeranno fra pochi decenni alle statistiche demografiche sull’invecchiamento del pianeta.
Non si tratta però di invecchiamento, ma di allungamento del ciclo di vita, che è ben altra cosa.
Approfitti l’Europa per gestire il fenomeno dello “svecchiamento” dal punto di vista di una
prospettiva di “svecchiamento”. Significa essere avanti nelle cose e preparare il futuro. I
Quaderni Europei cercano di apportare un modestissimo contributo in questa direzione.
Il tema conduttore di questo numero è l’analisi delle dinamiche dei sistemi previdenziali, in
particolare le policy che riguardano il pensionamento flessibile e la possibilità di continuare a
lavorare una volta raggiunta l’età pensionabile.
In particolare in questo numero Elsa Fornero e Chiara Monticone analizzano il
pensionamento flessibile in Europa, quale proposta realizzabile per affrontare l’invecchiamento
della popolazione europea e la questione della sostenibilità dei sistemi pensionistici,
esaminando soprattutto il caso italiano, con gli interventi legislativi realizzati negli ultimi
decenni, ed evidenziando come alcuni elementi di flessibilità siano stati ridotti.
L’articolo di Marcello Messori offre un’analisi aggiornata della previdenza complementare
italiana alla luce delle più recenti evoluzioni legislative, mostrando accanto agli elementi
positivi i limiti delle direttive COVIP, della legge finanziaria e dei decreti legislativi. Benché il
tasso di adesione atteso sia elevato (si stima un’adesione del 70% dei lavoratori dipendenti),
permane un deficit di concorrenza fra fondi pensione collettivi (quote significative nella grande
e media impresa) e quelli aperti (quote potenzialmente importanti nella piccola impresa)
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determinano un ostacolo per il rafforzamento della previdenza complementare, mentre allo
stato attuale rimangono esclusi sia i lavoratori autonomi, che non dispongono del TFR e che
hanno i più bassi tassi di sostituzione da primo pilastro previdenziale, sia i lavoratori dipendenti
pubblici. L’invito è a colmare le carenze legislative per rafforzare l’ancora giovane previdenza
complementare alla luce dell’esperienza internazionale e delle specificità nazionali.
Per gli Stati Uniti, Yung-Ping Chen e John Scott mettono in evidenza come il tasso di
partecipazione dei lavoratori in età avanzata continui ad aumentare, vista la possibilità di
adottare il pensionamento graduale. Nell’articolo vengono analizzati i fattori che conducono
alla scelta di tale opzione da parte dei lavoratori e l’impatto economico di tale opportunità.
Sheila Bair propone invece una panoramica sulla storia dei conti individuali previdenziali
e l’attuale dibattito sulla riforma della previdenza negli Stati Uniti.
Geneviève Reday-Mulvey nel suo contributo “Lavorare dopo i 60 anni” tratto dal libro
“Work beyond 60” (pubblicato nel 2005), sostiene l’idea del prolungamento flessibile della vita
lavorativa. Sottolinea la necessità di incoraggiare politiche che permettano di continuare a
lavorare part-time dopo i 60 anni, ma anche la possibilità per alcune categorie di lavoratori che
svolgono i cosiddetti lavori usuranti di andare in pensione prima di chi svolge lavori di natura
intellettuale.
Bernard Casey da un lato sottolinea il ruolo svolto dalla struttura dell’industria
nell’affrontare la sfida dell’occupazione degli anziani mettendo nel contempo in evidenza le
incongruenze del modello giapponese. Dall’altro lato rileva la difficoltà di individuare e
sviluppare politiche e pratiche volte a migliorare l’impiegabilità degli anziani.
In un breve commento Raimondo Cagiano e Benedetta Cassani sottolineano invece come fra
pensione e vecchiaia il passo sia lungo.
Manuela Stranges analizza poi i tassi di partecipazione dei lavoratori maturi in Italia
cercando di individuare gli strumenti che possono incoraggiare l’aumento a tale
partecipazione. L’autrice individua nei programmi di apprendimento continuo uno degli
strumenti per favorire la partecipazione dei lavoratori maturi all’interno del mercato del
lavoro.
Cristina Giudici mette in evidenza il legame tra la durata e la qualità della vita. In modo
particolare l’articolo tratta di che cosa si intende per “qualità” e come interagiscono i fattori
economici e sociali sulla qualità della vita.
L’articolo sulla relazione tra il portafoglio delle famiglie e la previdenza di Daniele Fano e
Teresa Sbano, pone in primo piano la necessità di rispondere all’allungamento del ciclo di vita
con soluzioni finanziarie “articolate” e “flessibili” in grado di ottimizzare la gestione del
risparmio al medio-lungo termine.
Infine, Johann Eekhoff, Markus Jankowski, Anne Zimmermann, prendono in esame le
assicurazioni malattia sul mercato privato tedesco e le possibilità di rafforzare la concorrenza
sul mercato delle assicurazioni malattie private.
Ringraziamo ancora i lettori dei Quaderni per qualsiasi commento, proposta e
suggerimento affinché la nostra pubblicazione si arricchisca di ulteriori contributi e possa
diventare il punto di riferimento della COUNTER-AGEING SOCIETY.
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Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 7-20
Il pensionamento flessibile in Europa
di Elsa Fornero* e Chiara Monticone**
1. Introduzione
I sistemi pensionistici dell’Europa allargata stanno progressivamente adattando le proprie
caratteristiche alle necessità imposte dall’invecchiamento della popolazione in uno scenario in
cui la loro sostenibilità finanziaria è posta sempre più sotto pressione. Uno dei canali principali
attraverso cui tale obiettivo può essere raggiunto è l’innalzamento dell’età pensionabile. In
questa ottica quasi tutte le recenti riforme pensionistiche riflettono la volontà di aumentare gli
incentivi al posticipo del pensionamento e alla promozione di vite lavorative fino ad età più
avanzate.
L’introduzione di elementi di flessibilità — oltre a rispondere alla domanda di maggiore
scelta individuale — è senz’altro da collocare tra gli strumenti volti innalzare l’età media di
pensionamento.
In tutti i paesi europei, i sistemi pensionistici consentono qualche margine di manovra a
coloro che vogliono anticipare o ritardare l’uscita dal mondo del lavoro e collocare il momento
del pensionamento diversamente rispetto all’età di riferimento stabilita dall’età di
pensionamento “legale”.
A ben vedere, però, il fatto stesso che ci si riferisca spesso ad un’età legale di
pensionamento, fa intendere come la rigidità prevalga sulla flessibilità nei tempi e nelle
modalità di pensionamento, anche se molti cambiamenti sono occorsi in questo senso
nell’ultimo decennio. Esistono infatti quasi ovunque schemi di pensionamento anticipato che
premiano le carriere precoci o offrono facilitazioni nei casi di invalidità e disoccupazione, con
l’eccezione di quei paesi come Danimarca, Paesi Bassi, Irlanda e Regno Unito dove il
beneficio pensionistico è flat-rate (cioè non è proporzionale a retribuzioni o contributi, ma alla
durata del versamento dei contributi o della residenza nel paese).
Tuttavia, la flessibilità vera a propria non si limita a questo, e, anzi, comporta caratteristiche
qualitativamente diverse. Nelle prossime sezioni, si cercherà di descrivere in cosa consista il
pensionamento flessibile, quali siano le sue caratteristiche e le implicazioni micro e
macroeconomiche, nel panorama legislativo europeo. Una parte del paragrafo 3 — indirizzata
alla situazione normativa corrente in Europa — sarà dedicata al caso italiano, al fine di
mostrare l’evoluzione degli interventi succedutisi nell’ultimo decennio, nel corso dei quali
alcuni fattori si flessibilità sono stati ridotti e altri non hanno trovato applicazione concreta.
Center for Research on Pensions and Welfare Policies (CeRP) e Università degli Studi di Torino.
Center for Research on Pensions and Welfare Policies (CeRP), [email protected]. Si ringraziano Serena Trucchi e Michele Belloni per
la collaborazione nella ricerca delle fonti legislative e bibliografiche.
*
**
7
2. Framework concettuale e caratteristiche generali
Vista la notevole diversità nell’ideazione e applicazione di misure volte a introdurre
elementi di flessibilità nei sistemi pensionistici europei, si procederà inizialmente a una
disamina delle loro caratteristiche da un punto di vista generale senza soffermarsi sulle
peculiarità nazionali, per poi passare ad una breve rassegna dello stato dell’arte a livello
europeo nella prossima sezione.
Astraendo dai singoli casi nazionali, la flessibilità nel pensionamento consiste nel lasciare
al singolo lavoratore la possibilità di scegliere sia quando cominciare a ricevere la pensione sia
quanto riceverne in proporzione al beneficio pensionistico pieno che gli spetta e, infine, come
riceverlo, decidendo ad esempio tra liquidazione del montante (lump-sum) o rendita (annuity),
e in questo ultimo caso, tra una dinamica della rendita costante o crescente in termini reali. Per
evitare di replicare forme di pre-pensionamento che non possono essere se non onerose per il
sistema, tutti questi elementi di scelta devono essere accompagnati dalla responsabilizzazione
del lavoratore attraverso meccanismi di correzione attuariale dei benefici. Di conseguenza, la
“ricchezza pensionistica”1 del singolo (social security wealth, SSW) deve essere indipendente
tanto dal momento in cui avviene il pensionamento, quanto dalle modalità con cui la ricchezza
pensionistica viene man mano incassata. Ciò implica correzioni attuarialmente neutrali dei
benefici pensionistici. Tuttavia, va ricordato che la completa flessibilità non è possibile e forse
neanche desiderabile. In sistemi obbligatori — come quelli europei — tutti e tre gli aspetti
(quando, quanto e come) sono ovviamente delimitati, ad esempio rispetto alle età a cui è
possibile accedervi.
Nell’uso comune, si usa distinguere la flessibilità nel momento del pensionamento e quella
riguardante l’importo di pensione ricevuto come due2 misure ben distinte — cioè la “flessibilità
dell’età pensionabile” e il “pensionamento parziale” — rendendo meno evidente il legame tra
loro.3 In realtà si tratta di due componenti che potrebbero essere ulteriormente integrate.
Per quanto le modalità di pensionamento siano flessibili, il momento in cui si comincia a
percepire un reddito pensionistico deve necessariamente essere limitato all’interno di una
fascia di età, anche per una questione di adeguatezza, come si vedrà oltre. In alcuni casi,
tuttavia, si sceglie di fissare solo un’età minima lasciando piena libertà ai lavoratori di
posticipare il pensionamento — come accade in Polonia e Lettonia — oppure introducendo
disincentivi che di fatto penalizzano la continuazione dell’attività lavorativa oltre una certa età,
come avviene in Italia o come avveniva in Finlandia prima della riforma del 2005.
Come già evidenziato, parte della flessibilità consiste anche nella possibilità di cominciare
a ricevere una parte della pensione contestualmente a un reddito da lavoro ridotto proveniente
da un’attività part-time. L’ammontare di pensione è in genere inversamente proporzionale al
numero di ore lavorate o direttamente legato al reddito da lavoro perso a causa della riduzione
di orario. Anche dove tale rapporto non sia proporzionale — ad esempio in Francia — il
1 La ricchezza pensionistica (social security wealth) per un lavoratore in età a che rivendicherà il suo primo beneficio pensionistico
all’età A è definita come il valore attuale dei benefici pensionistici futuri meno il valore attuale dei contributi da versare nello schema
pensionistico prima del pensionamento:
dove a è l’età del lavoratore nel momento in cui è calcolata la ricchezza pensionistica, PiA è la pensione che sarà pagata, alla fine di ogni
anno, al lavoratore pensionato dall’età A per tutta la durata della sua vita, T è l’età massima, cj rappresenta i contributi versati in età j,
η, è la probabilità di essere in vita in età i, condizionato a essere vivi in età A (assumendo certa la vita in l’età lavorativa) (Ferraresi e
Fornero, 2000).
2 Anche la possibilità di cumulo tra pensione e retribuzione da lavoro senza limiti reddito costituisce un elemento di flessibilità sempre
più diffuso, che tuttavia non sarà trattato in questa sede.
3 Un esempio della distinzione tra le varie misure riguardanti la flessibilità si può trovare nelle tavole MISSOC (European Commission,
2006a).
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lavoratore può comunque scegliere, all’interno di diverse fasce orarie, per quanto tempo
dedicarsi all’attività lavorativa e quanto ad attività ricreative. Come nel caso della flessibilità
relativa all’età, è possibile un pensionamento graduale, ma generalmente è limitato a una
determinata fascia di età.
L’ampliamento delle possibilità di scelta legate all’età di pensionamento si accompagna
abbastanza naturalmente a sistemi “a contributo definito figurativo” (notional defined
contribution, NDC), come avviene in Svezia, Lettonia e Polonia e come stabilito dalla legge
Dini in Italia. Tuttavia, una certa libertà di scelta è data in molti casi anche in sistemi a
“beneficio definito”, con correzioni dei benefici orientate alla neutralità attuariale del tutto
simili a quelle applicate ai sistemi DC.
La flessibilità vera e propria implica un avvicinamento alla neutralità attuariale, cioè ad un
calcolo della pensione che non penalizzi né conceda benefici immeritati al cambiare dell’età
del pensionamento, ceteris paribus. Ad esempio, a parità di ricchezza pensionistica, in caso di
pensionamento successivo all’età di riferimento, il beneficio pensionistico risulterà
relativamente più alto per effetto sia degli ulteriori contributi versati sia del ridotto orizzonte
temporale durante il quale sarà corrisposta la pensione. In questo senso, al fine di salvaguardare
la ricchezza pensionistica accumulata dal lavoratore, l’ammontare della pensione dipende —
oltre che dai parametri stabiliti dal sistema per il computo di benefici pensionistici, quali
contributi, salari degli ultimi anni, anzianità contributiva, ecc. — anche da fattori attuariali che
possono premiare in misura maggiore o minore la scelta di ritardare il pensionamento e,
viceversa, a penalizzare più o meno la decisione di affrettarlo.
3. L’introduzione della flessibilità in Europa e in Italia
Lo stimolo all’introduzione di elementi di flessibilità nei sistemi pensionistici europei è
duplice. Esso viene sia — in un’ottica di modernizzazione del sistema — dalla volontà di
consentire margini di scelta individuale, sia dalla necessità di far fronte a problemi di
sostenibilità finanziaria. La flessibilità nei tempi e modi del pensionamento è infatti uno
strumento che può risultare efficace per l’innalzamento dell’età pensionabile, da affiancare ad
innalzamenti uniformi e generalizzati del requisito di età.
Queste diverse finalità sono visibili anche nel metodo di coordinamento (open method of
coordination, OMC) adottato dall’Unione Europea in materia pensionistica. Dei tre obiettivi
generali per la struttura dei sistemi pensionistici futuri — adeguatezza, sostenibilità e
modernizzazione — gli ultimi due hanno a che fare anche con la flessibilità. In particolare,
nell’ambito della sostenibilità, i sistemi pensionistici degli Stati Membri dovrebbero creare gli
strumenti per l’estensione della vita lavorativa (obiettivo 5) attraverso l’aumento
dell’occupazione nella fascia di età 55-64 e un mutamento radicale nella concezione del
pensionamento anticipato, in modo che non sia più utilizzato principalmente come mezzo per
creare occupazione a beneficio delle coorti più giovani o per ridurre la disoccupazione. Inoltre,
quanto alla modernizzazione dei sistemi pensionistici, essi devono tener conto dei cambiamenti
del mercato del lavoro europeo (obiettivo 9), adattandosi a modelli di occupazione e di carriera
flessibili (European Commission, 2006b). Infine, fatta salva la necessità di incoraggiare o
almeno non scoraggiare una permanenza più lunga nel mondo del lavoro, la flessibilità ha
anche il pregio di mitigare il contrasto tra la generalità delle regole e la varietà delle esperienze
e delle preferenze individuali (Diamond, 2005).
In questa sezione si cercherà di delineare i principali elementi distintivi dei processi di
riforma degli ultimi anni e la situazione attuale in materia di flessibilità pensionistica,
dedicando una sotto-sezione all’Europa in generale (Italia esclusa) e poi all’Italia.
9
3.1 Lo stato dell’arte in Europa
Le disposizioni europee in materia di flessibilità, così come il grado di libertà di scelta che
esse consentono, sono abbastanza diversi fra gli stati. Alcuni garantiscono sia la facoltà di
scegliere il momento del pensionamento sia la possibilità di ricevere una frazione
dell’ammontare della pensione piena per un certo periodo, mentre in altri paesi non è data
nessuna delle due. Le diversità nazionali sono abbastanza evidenti anche per quanto riguarda
la partecipazione da parte di individui e imprese. Nel caso del pensionamento parziale, infatti,
in alcuni dei paesi la partecipazione allo schema è minima o nulla.
In questa sezione saranno passati in rivista solo quei paesi che garantiscono un certo livello
di flessibilità — e comunque senza pretese di esaustività — tralasciando invece quelli dove gli
elementi di flessibilità sono praticamente inesistenti. Dal momento che nei sistemi
pensionistici europei la flessibilità dell’età pensionistica e il pensionamento parziale sono
trattate come misure distinte, anche in questa panoramica saranno trattate distintamente per
comodità. Per informazioni più dettagliate sulle normative nazionali si rimanda alla Tabella 1
(flessibilità dell’età pensionabile) e alla Tabella 2 (pensionamento parziale).
Tabella 1: Flessibilità nell’età pensionistica in Europa
Fonte: Danimarca: Bingley et al. (2005); Bingley et al. (2002); Herbertsson et al. (2000); OECD (2005c); - Estonia: European
Commission (2006a), - Finlandia: Lassila e Valkonen (2006); OECD (2004b); - Francia: COR (2004); French Service Public, (2004);
- Germania: Berkel e Börsch- Supan (2003); Börsch- Supan e Wilke (2004); Hinrichs (2003); - Lettonia: Bite e Zagorskis (2003); Casey
(2004); Fox e Palmer (1999); Vanovska (2006). - Polonia: Chlon- Dominczak e Góra (2006); Góra e Rutkowski (2000); Perek Bialas
et al. (2001); - Regno Unito: OECD (2004a); PPI (2006); - Spagna: OECD (2003a); Spanish Ministry of Labor and Social Security
(2006); - Slovacchia: European Commission (2006a); - Svezia: Swedish National Social Insurance Board (2003); OECD (2003b).
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Tabella 2: Pensione parziale
Fonte: Svezia: Anderson (2005); Wadensjö (2006); - Danimarca: Danish Ministry of Foreign Affair of Denmark (2003); - Finlandia:
Lassila e Valkonen (2006); OECD (2004b); - Spagna: Spanish Ministry of Labor and Social Security (2006); OECD (2003a); Francia: Buffeteau e Godefroy (2005); CNAV (2006); OECD (2005b); - Germania: Antolin e Scarpetta (1998); Börsch- Supan (2000);
Mandin (2003); OECD (2005a).
3.1.1 Età flessibile
I paesi europei che — oltre l’Italia — hanno adottato un sistema a “contributo definito
figurativo” (NDC), cioè Svezia, Lettonia e Polonia, consentono tutti ampia flessibilità quanto
all’età in cui cominciare a ricevere la pensione. Nel primo caso, vi è una vera e propria finestra
delimitata da due età precise (61 e 67 anni), mentre per i restanti due paesi è stata fissata solo
l’età minima con possibilità illimitata di posticipo.
Anche tra paesi che non utilizzano una formula NDC vi sono margini di scelta dell’età di
pensionamento con corrispondenti correzioni dell’importo della pensione. In Danimarca, i
pensionamenti dopo l’età di riferimento di 65 anni sono premiati fino ai 70 anni. Nel Regno
Unito l’età di pensionamento può essere spostata in avanti indefinitamente, e avere inoltre la
possibilità di ricevere l’incremento attuariale sotto forma di liquidazione forfettaria, anziché
come incremento mensile, per posticipi superiori ai dodici mesi. In Francia il pensionamento
può avvenire tra i 60 e i 65 anni, con riduzioni o aumenti legati all’anzianità contributiva
attraverso i meccanismi di surcote e décote. In Finlandia l’età di pensionamento è limitata da
una finestra (63-68 anni), all’interno della quale non sono applicati fattori attuariali. Tuttavia
tali correzioni sono adottate per pensionamenti anticipati o posticipati al di fuori della finestra.
Ad ogni modo, una forma di adeguamento all’età anche tra i 63 e 68 anni è costruita dal
coefficiente di rivalutazione delle retribuzioni che è legato all’età ed è tale da premiare in
misura consistente il proseguimento della carriera oltre i 63 anni. Meccanismi analoghi a quelli
descritti sopra sono applicati anche in Estonia, Germania, Slovacchia e Spagna (Tabella 1).
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3.1.2 Pensione parziale
Il primo tra i paesi europei a introdurre una forma di pensione parziale consentendo un ritiro
più graduale dalla vita attiva fu la Svezia nel 1976 (Tabella 2). In Danimarca, Finlandia e
Francia è invece stato introdotto per la prima volta verso la fine degli anni Ottanta e in
Germania nel 1992. Al pensionamento parziale si può accedere all’interno di una fascia di età,
in maniera non dissimile dal pensionamento pieno. In alcuni paesi — come Danimarca,
Finlandia e Germania — questa fascia di età si colloca precedentemente all’età, o finestra di
età, da cui è possibile il ritiro completo dall’attività lavorativa. In questo caso è difficile
considerare il pensionamento graduale come un modo per estendere la vita lavorativa e
sembrerebbe piuttosto rivolto a ridurre il ricorso al pensionamento anticipato, ove possibile. In
Svezia, Francia e Spagna, invece, l’intervallo di età in cui accedere al pensionamento pieno e
parziale si sovrappongono, configurando un ventaglio piuttosto ampio di combinazioni di
tempi e modi del pensionamento a coloro che raggiungono tale soglia di età. In Francia e in
Danimarca ai requisiti di età se ne sommano altri sull’anzianità contributiva — nel primo caso
— e sul fatto di aver svolto la propria attività nel paese per almeno un certo periodo di tempo
nel secondo. Tutti i paesi impongono restrizioni sull’orario di lavoro settimanale durante il
quale il lavoratore può continuare a svolgere un’attività remunerata mentre riceve una pensione
ridotta. Tuttavia, questi limiti non sono rigidi e prevedono delle fasce all’interno delle quali
scegliere l’orario settimanale desiderato. In genere l’ammontare erogato è una frazione della
pensione piena proporzionale alla riduzione dell’orario lavorativo — come in Germania,
Danimarca, Spagna e Svezia — oppure al reddito da lavoro perso a causa della ridotta attività
— come in Finlandia. In Francia, l’importo può essere il 30, 50 o 70% della pensione intera
secondo lo scaglione di orario di lavoro scelto. In Danimarca l’importo della pensione parziale
è calcolato applicando una quota basata sulla riduzione dell’orario di lavoro non alla pensione,
bensì al sussidio di disoccupazione, quale ulteriore legame di questo tipo di schema con le
misure di politica del lavoro più che con quelle pensionistiche.
3.2 Il caso italiano
3.2.1 Età (sempre meno) flessibile
Così come il sistema svedese è stato pioniere nel pensionamento parziale, l’Italia è stato
uno dei primi paesi europei a introdurre un sistema NDC e con esso la possibilità di scegliere
l’età di pensionamento all’interno di un dato intervallo. Tuttavia, interventi legislativi
successivi hanno ridotto drasticamente la possibilità di scelta. Fino al 1995 il sistema italiano
era caratterizzato da un metodo retributivo per il computo della pensione, nonostante le
innovazioni introdotte dalla riforma Amato del 1992, che mirava ad aumentare la sostenibilità
del sistema attraverso requisiti più stringenti, l’indicizzazione delle pensioni all’andamento dei
soli prezzi e al calcolo della pensione basato sulle retribuzioni dell’intera vita lavorativa. Con
la riforma Dini (Legge 8 agosto 1995, n. 335) entrata in vigore nel 1996, il sistema
pensionistico italiano adottò il metodo contributivo — rimanendo tuttavia un sistema a
ripartizione — con una corrispondenza attuarialmente neutrale tra contributi e benefici.
Nonostante l’adozione precoce rispetto agli altri paesi europei, il lungo periodo di transizione
fa sì che a dieci anni di distanza ancora nessuna pensione sia liquidata col metodo contributivo.
Infatti la legge stabilisce che solo per i nuovi assunti dopo il 1996 l’ammontare della pensione
sarebbe stato calcolato interamente col metodo contributivo, mentre i lavoratori che avevano
accumulato più di diciotto anni di contributi alla fine del 1995 avrebbero ricevuto una pensione
calcolata interamente secondo il metodo retributivo. Infine, l’importo della pensione di coloro
che cadevano nel caso intermedio di meno di 18 anni di contributi a fine 1995 sarebbe stato
calcolato coi due metodi secondo un meccanismo pro rata temporis (art. 1 commi 12 e 13).
12
Il nuovo sistema è accompagnato da condizioni di pensionamento flessibili. Per i lavoratori
la cui pensione è liquidata esclusivamente secondo il sistema contributivo, la pensione di
anzianità è abolita e il lavoratore ha la possibilità di scegliere l’età del pensionamento tra i 57
e i 65 anni di età, avendo almeno cinque anni di contribuzione effettiva.4 Si prescinde dal
predetto requisito anagrafico al raggiungimento dei 40 anni di anzianità contributiva. Oltre i 65
anni, rimane la possibilità di continuare a lavorare, ma senza ulteriori aumenti attuariali della
pensione. Una forma di rigidità è comunque insita nel meccanismo di aggiornamento delle
tavole di mortalità — riviste soltanto ogni dieci anni — usate nei coefficienti di trasformazione
per la conversione del monte contributivo in rendita.
Per il lavoratori del regime retributivo e di quello misto, rimane la possibilità di riceve una
pensione di anzianità secondo requisiti di anzianità contributiva ed età anagrafica,5 che
comunque non scende al di sotto dei 57 anni.
La riforma del 2004 ha avuto tra gli obiettivi quello di innalzare l’età pensionistica al di
sopra della soglia minima di 57 anni fissata precedentemente. Tuttavia, oltre ad innalzare tale
soglia in maniera brusca, determinando trattamenti molto differenti per coorti contigue,
l’ultima riforma ha eliminato la finestra di flessibilità ed ha nuovamente introdotto una
differenza di età tra uomini e donne nella pensione di vecchiaia, contrastando la tendenza
all’uniformità perseguita da tutti gli altri paesi europei.
A partire dal 1° gennaio 2008, nell’ambito del sistema retributivo e misto i requisiti per
l’accesso alla pensione di anzianità per i dipendenti diventano 35 anni di anzianità contributiva
e 60 di età (61 dal 2010 e 62 dal 2014) oppure 40 anni di contributi a prescindere dall’età
anagrafica. Alla pensione nel sistema contributivo si potrà invece accedere con 65 anni di età
per gli uomini e 60 per le donne che abbiano 5 anni di contributi oppure con la combinazione
di età e anzianità contributiva 60 anni di età e 35 di contributi o con 40 anni di contributi.
Un’eccezione a tale norma è offerta — in via sperimentale fino al 2015 — alle lavoratrici
dipendenti che scelgano di ottenere già da subito la liquidazione della pensione col metodo
contributivo. In questo caso potranno andare in pensione con 35 anni di contributi e 57 di età.
Rimane la possibilità di continuare l’attività lavorativa anche dopo aver raggiunto i requisiti,
senza però benefici aggiuntivi sull’importo della pensione.
Inoltre l’ultima riforma ha introdotto, ma solo fino a dicembre 2007, un meccanismo per
incentivare la permanenza sul posto di lavoro anche dopo aver raggiunto i requisiti per ricevere
la pensione. I dipendenti del settore privato che abbiano i requisiti per il pensionamento,
possono decidere di ritardarlo ricevendo in busta paga l’ammontare dei contributi sociali a
carico del datore di lavoro (cioè il 32.7% della retribuzione lorda), senza alcun aumento sui
contributi versati.
3.2.2 Pensione parziale: le leggi non bastano
Nella sezione 3.1 si è scelto di non includere l’Italia tra il novero dei paesi in cui è possibile
il pensionamento parziale, nonostante la normativa attuale lo consenta, perché di fatto la
partecipazione a questa forma di pensionamento è numericamente irrilevante. Inoltre, nel
dibattito corrente tale possibilità è quasi del tutto ignorata, sintomo (o causa) della completa
inefficacia della norma.
Inoltre l'importo della pensione non deve essere inferiore a 1,2 volte l’importo dell'assegno sociale (art. 1 comma 20).
5 Al raggiungimento di un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età anagrafica, oppure
al raggiungimento di un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni, oppure al raggiungimento di un’anzianità contributiva non
inferiore a 37 anni, […] nei casi in cui rapporto di lavoro sia stato trasformato in rapporto di lavoro a tempo parziale (art. 1 comma 25).
Di quest’ultimo caso si tratterà più avanti.
4
13
Il primo atto a introdurre il pensionamento parziale in Italia è la legge n. 223 del 23 Luglio
1991 (art. 19), che dà diritto alla pensione di vecchiaia cinque anni prima dal limite legale ai
dipendenti6 di aziende che soddisfino determinati criteri. L’impresa deve beneficiare da 2 anni
dell’intervento straordinario di integrazione salariale (Cassa Integrazione Guadagni) e il
contratto collettivo aziendale deve prevedere il ricorso al tempo parziale per consentire
l’assunzione di nuovo personale o per evitarne la riduzione. L’orario di lavoro del lavoratore
che benefici della pensione non deve superare le 18 ore settimanali e l’ammontare della
pensione non deve essere superiore alla mancata retribuzione. Al fine di non penalizzare il
lavoratore, questi può scegliere che sia usata, come base di calcolo per la determinazione della
pensione, la retribuzione antecedente alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno
a tempo parziale. La mancanza di incentivi per il lavoratore e la difficoltà che si realizzino le
condizioni per cui un’azienda in crisi desideri trattenere i lavoratori anziani — seppure a tempo
parziale — anziché ricorrere ad un pensionamento anticipato e pieno, sono tra le cause della
mancata applicazione della norma.
Successivamente, anche la riforma Dini tratta del pensionamento parziale (legge 335/95,
art. 1, comma 25), stabilendo che possano ottenere il diritto alla pensione di anzianità anche7 i
lavoratori dipendenti al raggiungimento di un’anzianità contributiva di almeno 37 anni,8 senza
alcun requisito di età, nel caso di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale.
In questo caso l’orario di lavoro deve essere ridotto non oltre il 50% e la pensione è ridotta
in ragione inversamente proporzionale alla riduzione dell’orario di lavoro. In ogni caso, la
somma di retribuzione e pensione non può superare l’importo della retribuzione spettante al
lavoratore in caso di lavoro a tempo pieno e a parità di altre condizioni. Anche questa norma è
rimasta praticamente inapplicata — dagli archivi dell’INPS risulta infatti che solo 13 persone
ne abbiano usufruito — probabilmente anche a causa del requisito abbastanza stringente in
termini di anzianità.
La legge 662 del 23 Dicembre 1996 9 abroga esplicitamente la norma della legge Dini,
riproponendo con alcune variazioni le disposizioni del decreto legge 508/96, mai convertito in
legge, che trattava dell’ammissione alla pensione di anzianità dei lavoratori dipendenti che
trasformano il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, previa assunzione di nuovo
personale da parte del datore di lavoro. La legge dispone riguardo ai lavoratori dipendenti del
settore privato e di quello pubblico, nonché dei lavoratori autonomi. Ai lavoratori dipendenti
del settore privato in possesso dei requisiti per l’accesso al pensionamento di anzianità (di cui
alla tabella B, nota 8), può essere riconosciuto il trattamento di pensione di anzianità e il
passaggio al rapporto di lavoro a tempo parziale in misura non inferiore alle 18 ore settimanali.
L’importo della pensione è ridotto in misura inversamente proporzionale alla riduzione
dell’orario di lavoro. La somma della pensione e della retribuzione non può superare — come
indicato già nella legge Dini — l’ammontare della retribuzione spettante al lavoratore nel caso
di lavoro a tempo pieno. Tuttavia, il passaggio al tempo parziale con l’erogazione di una
pensione di anzianità ridotta può avvenire solo a condizione che il datore di lavoro assuma
nuovo personale per una durata ed un monte ore lavorativo non inferiore a quello ridotto ai
lavoratori che si avvalgono della facoltà del pensionamento parziale.
Inoltre, questa legge estende tutte le suddette norme anche al personale delle
amministrazioni pubbliche, prescindendo tuttavia dall’obbligo di nuove assunzioni. Infine, ai
lavoratori autonomi in possesso dei requisiti per l’accesso al pensionamento di anzianità spetta
Inoltre il dipendente deve avere un’anzianità contributiva di almeno 15 anni.
Oltre ai lavoratori che raggiungano a) un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni, in concorrenza con almeno 57 anni di età
anagrafica; b) un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni;
8 O, se superiore, l’anzianità stabilita dalla tabella B allegata alla legge, colonna 2, che elenca i requisiti di età anagrafica e di anzianità
contributiva necessari per conseguire la pensione di anzianità tra il 1996 e il 2008.
9 Art. 1, commi 185, 192, 209 e 216.
6
7
14
una riduzione sui contributi dovuti pari al 10%, nel caso in cui rinuncino al pensionamento, fino
al compimento dell’anzianità contributiva di 40 anni e comunque fino al compimento dell’età
necessaria per il pensionamento di vecchiaia. Anche in questo caso la legge impone una
condizione e cioè che il lavoratore autonomo assuma una o più persone anche a tempo parziale
o che regolarizzi posizioni lavorative non conformi ai contratti di categoria, oppure che affianchi
un socio nell’esercizio dell’attività. Dal un lato, questa legge, così come la Dini, introduce
incentivi a una permanenza più lunga nel mondo del lavoro (grazie al fatto di allineare i requisiti
di età e contributi per il pensionamento parziale a quello ‘pieno’), dall’altro il vincolo
dell’assunzione continua a renderne poco attraente l’applicazione da parte delle imprese.10
Infine, la legge Treu (legge 196/97 art. 13, commi 2 e 4) si occupa di pensionamento
parziale a margine di norme per incentivare l’uso dell’orario di lavoro ridotto. In particolare,
la legge stabilisce la riduzione delle aliquote contributive in funzione dell’entità della riduzione
dell’orario di lavoro in una serie di casi, tra cui la trasformazione del rapporto di lavoro in
contratto a tempo parziale per i lavoratori che conseguano i requisiti di accesso alla pensione
nei tre anni successivi. Rimane la clausola che vincola il datore di lavoro ad assumere giovani
inoccupati o disoccupati di età inferiore ai trentadue anni per un tempo lavorativo pari almeno
a quello ridotto dai lavoratori che si avvalgono del pensionamento parziale.
Tuttavia il decreto che avrebbe dovuto stabilire l’entità degli sgravi retributivi non è ancora
stato emanato e non è chiaro dal testo della legge a favore di chi siano rivolte le riduzioni
contributive né se vi sia una compensazione per i contributi non versati al fine del computo
della pensione (per esempio sotto forma di contributi figurativi).
Nel complesso, dall’osservazione della normativa sul pensionamento parziale in Italia
emerge che a fronte di una cospicua attività legislativa i risultati sono stati scarsi. La volontà
di usare il pensionamento graduale come strumento di stimolo all’occupazione — soprattutto
quella in età avanzata — ha però introdotto ulteriori elementi di rigidità che hanno sicuramente
contribuito a determinarne la mancata attuazione. Inoltre, gli incentivi ai lavoratori e alle
imprese non sono stati tali da compensare i fattori di ostacolo alla sua realizzazione.
4. Implicazioni economiche e valutazione delle riforme europee
L’introduzione di elementi di flessibilità in un sistema pensionistico ha delle implicazioni
sia micro- sia macro-economiche. Per semplicità, qui si tratteranno solo le principali, come
l’adeguatezza nel caso microeconomico e l’impatto sull’offerta di lavoro nel panorama
macroeconomico, tralasciando ad esempio considerazioni sui vantaggi in termini di
sostenibilità finanziaria dei sistemi a contributo definito rispetto a quelli a beneficio definito.
La prima considerazione in termini di adeguatezza11 di un sistema che consenta flessibilità
nell’età di pensionamento riguarda l’età minima o il margine inferiore di un’eventuale
“finestra”. Infatti, nel caso in cui tale limite sia eccessivamente basso, un individuo che decida
di ritirarsi appena ne ha i requisiti corre il rischio di ricevere un ammontare decisamente
insufficiente a far fronte alle sue necessità in età anziana.
10 Secondo i dati degli archivi INPS, dal gennaio 1997 al luglio 1999, 186 persone si sono avvalse del pensionamento graduale in base
alla legge 662/96.
11 Tre obiettivi comuni in termini di adeguatezza dei sistemi pensionistici sono stati individuati nel corso del Consiglio Europeo tenutosi
a Laeken nel 2001. In particolare gli Stati Membri che intendano migliorare l’adeguatezza del proprio sistema pensionistico devono:
1. assicurare che gli anziani non siano a rischio di povertà e possano godere un tenore di vita decoroso; che partecipino del benessere
economico del loro paese e possano di conseguenza partecipare attivamente alla vita pubblica, sociale e culturale;
2. provvedere all’accesso di tutti gli individui ad accordi pensionistici pubblici e/o privati appropriati, che consentano loro di ottenere
diritti pensionistici che li mettano in grado di mantenere, in misura ragionevole, il loro tenore di vita dopo il pensionamento; e
3. promuovere la solidarietà tra le generazioni e all’interno delle generazioni (European Commission, 2004, traduzione nostra).
15
Variazioni nella generosità di un sistema al variare dell’età di pensionamento si possono
osservare in studi su Italia e Lettonia. Ad esempio, nel caso dell’Italia, la generosità del sistema
pensionistico misurata in termini di net present value ratio12 (NPRV) può essere osservata sia nel
passaggio dal vecchio sistema retributivo a quello contributivo (attraverso una fase intermedia
di transizione), sia per pensionamenti a età diverse (Ferraresi e Fornero, 2000; Fornero e
Castellino, 2001). Da un lato, infatti, la generosità diminuisce progressivamente passando dalle
coorti più anziane che beneficiano del metodo retributivo alle coorti più giovani che vanno in
pensione col metodo contributivo — data la stessa età di pensionamento. Dall’altro, la
generosità del sistema a contribuzione definita è sostanzialmente indipendente dell’età di
pensionamento, mentre il sistema a beneficio definito è meno generoso nel caso di posticipo del
pensionamento. Un discorso analogo vale per la Lettonia, che nel 1996 ha riformato il proprio
sistema pensionistico, rendendo il pilastro pubblico a contribuzione definita. I tassi di
sostituzione del vecchio e del nuovo sistema sono quasi identici nel caso di pensionamenti a 60
anni, età di riferimento. Tuttavia, i tassi di sostituzione del sistema precedente al 1996
presentano una dinamica più moderata rispetto all’età pensionistica in confronto ai tassi del
nuovo. Quindi pensionamenti successivi ai 60 anni danno luogo a tassi di sostituzione
decisamente più elevati rispetto al sistema precedente, a differenza di quanto accade per i
pensionamenti anticipati che sono più penalizzati rispetto a prima (Fox e Palmer, 1999).
Come nel caso dell’adeguatezza dei benefici pensionistici, l’impatto sul mercato del lavoro
dell’introduzione di misure di flessibilità è difficilmente individuabile a priori. Da un lato
questo dipende dalle proprietà attuariali del sistema, cioè da quale sia il suo grado di neutralità
attuariale e se esso offra gli incentivi/disincentivi appropriati per pensionamenti
posticipati/anticipati. Dall’altro, anche il comportamento individuale è determinante, a
prescindere dagli incentivi offerti dal sistema. In generale interventi che siano efficaci nello
spostare in avanti l’età media di pensionamento dovrebbero avere un effetto positivo anche
sull’offerta di lavoro, dal momento che allungano la permanenza sul posto di lavoro dei
lavoratori anziani prossimi alla pensione (anche se lo spostamento in avanti con cui si verifica
l’ingresso nel mercato del lavoro adesso rispetto al passato fa sì che ad età di pensionamento
più elevate non corrisponda necessariamente una carriera più lunga). Adottando una visione expost, l’effetto di misure direttamente mirate alla flessibilità dell’età pensionistica sul momento
effettivo di pensionamento sembra essere nella maggior parte dei casi positivo. Con riferimento
alle riforme francesi del 1993 e del 2003, lo studio di Aubert et al. (2005) sottolinea come i
fattori di cambiamento che agiscono sull’età di pensionamento effettiva siano in realtà non solo
quelli legati alla nuova normativa, ma anche dovuti all’aumento dell’età di ingresso nella forza
lavoro. Tuttavia, una scomposizione dei due effetti mostra comunque come entrambi gli effetti
siano positivi, anche se in misura differente per uomini e donne e per dipendenti pubblici o
privati. Ad analoghe conclusioni conducono gli studi sulle due riforme occorse in Germania nel
1992 e 1999 (Berkel e Börsch-Supan, 2003). Dalle simulazioni condotte in questo articolo,
l’età media di pensionamento aumenta in seguito a ciascuna delle riforme, così come la
probabilità di pensionamento prima di determinate soglie di età diminuisce. Tuttavia,
sottolineano gli autori, tale aumento sarebbe stato ancora maggiore se le riforme avessero
introdotto un sistema NDC. Nel caso della Finlandia il lavoro di Lassila e Valkonen (2006)
separa gli effetti sul tasso di occupazione delle varie componenti della riforma del 2005, in
particolare degli incentivi al posticipo del pensionamento e del cambiamento dei coefficienti di
rivalutazione dei salari usati nel calcolo delle pensioni (Tabella 1). Delle due, la prima misura
Il net present value ratio è dato dal rapporto tra il valore attuale dei benefici pensionistici e il valore attuale dei contributi, entrambi
valutati all’inizio della carriera lavorativa:
12
16
è decisamente più efficace nell’aumentare il tasso di occupazione negli anni futuri.
Per quanto attiene al pensionamento graduale, in molti casi esso ha finalità legate a rendere
meno brusca la cessazione della vita lavorativa piuttosto che a ritardarne il momento. Anche se
in molti casi l’intento è quello di favorire la permanenza sul lavoro di lavoratori anziani e di
arginare fenomeni di pensionamento anticipato, dato il minor sforzo che un orario di lavoro
parziale consente, non è detto che tale scopo sia soddisfatto. Infatti, in molti casi tale fascia di
età si colloca prima dell’età minima a cui cominciare a ricevere la pensione “piena”,
configurando una sorta di pre-pensionamento graduale. Nei casi in cui, invece, la fascia di età
in cui è possibile accedere al pensionamento parziale si sovrappone a quella relativa al
pensionamento pieno, allora tale misura tende a spostare in avanti l’età media effettiva di
pensionamento, con potenziali effetti benefici sull’occupazione.
Come descritto con maggiore dettaglio nella sezione 3.1, in alcuni dei paesi europei dove è
ammesso, il pensionamento parziale è possibile solo prima dell’età minima per il
pensionamento vero e proprio, riducendo di fatto la probabilità che l’età effettiva di
pensionamento aumenti, dato che il pensionamento parziale si trova a essere in diretta
concorrenza con gli schemi di pensionamento anticipato. Proprio su questo punto si concentra
l’analisi di Wadensjö (2006), che considera lo status lavorativo alternativo nel caso in cui il
pensionamento parziale non fosse stato possibile. L’effetto sull’offerta di lavoro individuale è
un incremento di quattro ore alla settimana, quale impatto netto risultante da una parte
dall’effetto positivo dell’attività part-time rispetto al pensionamento completo e dall’altra
dall’effetto negativo della riduzione dell’orario di lavoro rispetto a un lavoro a tempo pieno.
Inoltre, l’effetto positivo sull’offerta di lavoro del pensionamento parziale è maggiore per le
donne rispetto agli uomini.
Infine, un altro aspetto di cui tener conto riguardo all’innalzamento dell’età effettiva di
pensionamento riguarda la domanda di lavoro e quindi la capacità del mercato di creare
opportunità di lavoro, a tempo parziale e pieno, per lavoratori in età avanzata. Come si è visto
nel caso italiano, non tutti i paesi sono caratterizzati da una tale flessibilità.
Nel complesso, il ricorso al pensionamento graduale è ancora troppo limitato perché gli
effetti possano farsi sentire significativamente a livello delle economie nazionali. Infatti, il
paese con la partecipazione maggiore è la Finlandia, dove negli anni 2002 — 2003 le pensioni
parziali corrispondevano al 3% circa del totale delle pensioni erogate (Finnish Centre for
Pensions, 2005).
5. Conclusioni
La flessibilità al pensionamento presenta diversi vantaggi. Permette, infatti, di adattare
regole universali di un sistema pensionistico alla vasta casistica di esperienze e preferenze
individuali riguardo ai percorsi lavorativi e famigliari. Inoltre, dal punto di vista dello Stato,
può essere uno strumento per migliorare la sostenibilità finanziaria del sistema attraverso
l’innalzamento dell’età effettiva di pensionamento. Tuttavia è necessario che il sistema
contenga gli incentivi appropriati, incoraggiando carriere lavorative più lunghe e
disincentivando uscite precoci dal mercato lavoro. Tali incentivi non devono essere troppo
elevati — pena un eccessivo peso sul bilancio del sistema — né troppo lievi, col rischio di
risultare inefficaci, ma devono piuttosto ispirarsi a principi di neutralità attuariale. Inoltre, per
quanto la flessibilità sia un valore in se stessa, essa deve essere opportunamente limitata, per
non mettere a rischio l’adeguatezza dei benefici pensionistici individuali. La flessibilità al
pensionamento può essere messa in pratica in vari modi strettamente legati tra loro, cioè sia
attraverso la possibilità di scegliere l’età di collocamento a riposo — con le relative correzioni
attuariali dei benefici — sia grazie alla facoltà di raggiungere gradualmente la cessazione
17
completa dell’attività lavorativa attraverso schemi di pensionamento parziale. In alcuni casi ci
sono ancora ostacoli alla piena realizzazione dell’ideale di flessibilità, soprattutto nel caso del
pensionamento parziale. Affinché la flessibilità sul piano pensionistico sia non solo attraente
per tutte le parti coinvolte (Stato, imprese e lavoratori) ma anche efficace, è necessario che
l’organizzazione del lavoro sia sufficientemente flessibile, soprattutto nel consentire rapporti
di lavoro a tempo parziale ai lavoratori anziani. Infine, anche i vincoli imposti, per esempio
legati all’assunzione di nuovo personale, ne rendono meno appetibile l’adozione da parte delle
imprese.
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20
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 21-38
I problemi aperti
nella previdenza complementare italiana
1
di Marcello Messori*
1. Premessa
Alla fine del 2006 l’assetto della previdenza complementare italiana era caratterizzato da
almeno quattro debolezze:
1. un basso rapporto fra l’effettivo numero di iscritti alle diverse forme pensionistiche
complementari e la platea dei loro potenziali aderenti (tasso di adesione), apparente frutto
di una distorta “maturità precoce” del settore;2
2. un insufficiente flusso unitario di finanziamenti imputabile sia alla limitata entità dei
versamenti previsti contrattualmente, nel caso di adesione dei lavoratori dipendenti, sia ai
modesti incentivi fiscali concessi a tutti gli aderenti nella fase di contribuzione;
3. una struttura inefficiente del mercato, che si traduce in una carenza di concorrenza fra i due
tipi di fondi pensione con adesione collettiva (i FPc e alcuni FPa) e in una crescente
concorrenza fra tali fondi pensione e le altre forme pensionistiche complementari con
adesione individuale (i FPa e i Pip);3
4. una governance delle singole forme previdenziali tanto inadeguata da non garantire né
sufficiente trasparenza né uniformità di tutela rispetto agli aderenti.
Come è noto, dal 1° gennaio 2007 sono entrate in vigore le nuove norme previste dalla
Legge delega n. 243/04 e dal connesso D.Lgs. n. 252/05 e modificate dalla recente Legge
finanziaria per il 2007. Pertanto, l’obiettivo di questo lavoro è di rispondere al seguente
interrogativo: le novità normative promettono efficaci soluzioni alle quattro debolezze oggi
presenti nella previdenza complementare italiana?
Nel paragrafo 2 si sostiene che la Legge delega n. 243/04, proposta fin dal dicembre 2001 e
approvata dal Parlamento solo nel luglio 2004, mira effettivamente a disegnare incentivi per una più
diffusa partecipazione al secondo pilastro previdenziale e per il rafforzamento delle fonti di
finanziamento dei FP e dei Pip mediante la previsione di modalità attive o “tacite” di conferimento
alle forme previdenziali dei flussi di Tfr da parte dei lavoratori dipendenti privati; e nel paragrafo 3
si mostra che, accrescendo la concorrenza fra le varie forme previdenziali e cercando di migliorare
la governance del settore, tale legge persegue anche l’implicito obiettivo di eliminare dal mercato
previdenziale i FP e i Pip più inefficienti sotto il profilo organizzativo o gestionale. Eppure gli stessi
I paragrafi 2 e 3 del presente scritto riproducono, pur se con varie modifiche, i paragrafi 6 e 7 del saggio “La previdenza complementare
in Italia: un quadro introduttivo” che funge da introduzione al volume. La previdenza complementare in Italia (a cura di M. Messori, il
Mulino, 2006). Si ringrazia la casa editrice il Mulino per avermi permesso di utilizzare tali paragrafi.
* Professore Dipartimento di Economia e Istituzioni, Facoltà di Economia, Università di Roma “Tor Vergata”.
2 Il riscontro empirico di questa affermazione e delle considerazioni sub (2) è offerto in: Messori (2006a), par. 4 e 5. Aggiornamenti, al
riguardo, sono disponibili in: http://www.covip.it; http://www.mefop.it. Anche i due temi sub (3) e (4) sono affrontati in Messori (2006a).
D’ora in poi si useranno i termini “previdenza complementare”, “forme pensionistiche complementari” o “forme previdenziali” per
indicare l’insieme dei vari tipi di fondi pensione (FP) — fondi pensione contrattuali (FPc), fondi pensione aperti (FPa), fondi pensione
preesistenti (FPp) — e i piani individuali pensionistici (Pip).
3 Ne discende che, a differenza di quanto avviene in molti Paesi con una sviluppata previdenza complementare, il sistema previdenziale
italiano ha pressoché eliminato la distinzione fra secondo e terzo pilastro (cfr. anche par. 3).
1
21
paragrafi 2 e 3 fanno emergere che le soluzioni specifiche, offerte dalla Legge delega n. 243/04 e
— soprattutto — dal connesso D.Lgs n. 252/05, palesano limiti così rilevanti da generare nuovi
problemi o da aggravare problemi da tempo presenti nella previdenza complementare italiana.4
Nel paragrafo 4 si mostra poi che le modifiche, introdotte dalla recente Legge finanziaria e
dai connessi decreti del gennaio 2007, non risolvono la maggior parte dei problemi aperti e ne
aggiungono di ulteriori. Questa Legge ha il merito di anticipare al 1° gennaio 2007 l’entrata in
vigore di quasi tutte le nuove norme, che il D.Lgs. n. 252/05 aveva inopinatamente posposto al
1° gennaio 2008, e di eliminare il distorsivo fondo di garanzia, che sempre il D.Lgs. n. 252/05
aveva previsto per i crediti bancari alle imprese sostitutivi del finanziamento prima assicurato
dai flussi di Tfr. Essa altera però la configurazione del sistema previdenziale disegnata dalla
“Legge Dini” del 1995, sovrapponendo al secondo pilastro previdenziale un fondo pubblico a
ripartizione denominato “Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei
trattamenti di fine rapporto” e gestito dall’Inps (d’ora in poi: FondInpsR); inoltre, dilata i
compiti della “forma pensionistica complementare residuale presso l’Inps” (d’ora in poi:
FondInpsC) prevista dal D.Lgs. n. 252/05. Nelle Conclusioni, si riassumono i limiti del nuovo
quadro normativo e si specificano alcune delle condizioni richieste per consentire un
accettabile funzionamento della previdenza complementare italiana.
2. Le novità normative del 2004-2005
Dopo aver accarezzato a lungo l’incongrua ipotesi di vincolare i lavoratori dipendenti privati
all’adesione alla previdenza complementare mediante l’obbligo di conferimento a una forma
previdenziale dei loro flussi di Tfr,5 il governo Berlusconi ha accettato la soluzione dell’adesione tacita
proposta da molti esperti della materia. Nel D.Lgs. n. 252/05 esso ha così previsto che, dall’inizio del
2008, i lavoratori dipendenti privati siano tenuti a conferire i flussi maturandi di Tfr a una forma
previdenziale salvo che esprimano, entro sei mesi dalla data della loro prima assunzione oppure — se già
occupati - dalla data del 1° gennaio 2008 o — se successiva — dalla data della nuova assunzione, la
“diversa esplicita volontà” di mantenere (in tutto o in parte) tali flussi presso l’impresa di appartenenza;5
inoltre, come specifica il D.Lgs. n. 252/05 (art. 8, comma 7; art. 14, comma 1), il conferimento del Tfr
maturando a una data forma pensionistica complementare comporta l’adesione a quella stessa forma e
rende, così, irreversibile la scelta salvo nei casi previsti di riscatto parziale (procedure di mobilità e cassa
integrazione o stato di disoccupazione per non meno di un anno e per non più di quattro anni) o totale
(invalidità permanente per più di due terzi o stato di disoccupazione per più di quattro anni).
Il ricorso a una qualche forma di adesione tacita e al trasferimento del Tfr maturando si
pone come il più ovvio strumento per incrementare sia il tasso di adesione che il patrimonio
In schemi a contribuzione definita, qual è quello italiano, l’obbligo di conferimento del Tfr, maturando alla previdenza complementare,
sarebbe equivalso a vincolare l’allocazione di una componente del reddito (differito) dei lavoratori dipendenti a uno specifico investimento
rischioso. Ciò avrebbe contraddetto un principio elementare che sta a fondamento di qualsiasi economia di mercato: ogni agente economico
deve mantenere libertà di scelta circa l’utilizzo del proprio reddito al netto delle tasse (cfr., però, la diversa posizione espressa in Pessi 2004).
5 Come si è già accennato e come si specificherà nel par. 4, la Legge finanziaria per il 2007 ha anticipato al 1° gennaio 2007 l’entrata in
vigore della nuova normativa e ha previsto il trasferimento a FondInpsR del Tfr maturando, destinato all’impresa, di quella parte dei
dipendenti privati occupati in aziende con almeno 50 addetti. Si noti inoltre che la Legge delega n. 243/04 prevedeva una clausola del
“tutto o niente” per il trasferimento dei flussi di Tfr alla previdenza complementare. Viceversa il D.Lgs. n. 252/05 (cfr. art. 8, comma 7,
lettera a e lettera c, punti 1 e 2), dopo aver ricordato che i dipendenti privati possono revocare in ogni momento la loro precedente opzione
conservativa spostando i flussi di Tfr dall’impresa di appartenenza alla forma previdenziale prescelta, specifica che i lavoratori, assunti
fino alla data del 28 aprile 1993, hanno la facoltà di decidere di ripartire i loro flussi di Tfr fra la previdenza complementare e l’impresa
di appartenenza. In particolare, se già iscritti a una forma previdenziale, questi lavoratori possono anche scegliere di continuare a detenere
presso l’impresa la quota del flusso di Tfr prima non versata; e, se non ancora iscritti, essi possono anche scegliere di aderire versando
soltanto la quota di Tfr prevista contrattualmente o — in mancanza di una tale previsione — una parte non inferiore al 50%.
6 L’affermazione fatta non è condivisa da Castellino e Fornero (2000; cfr. anche Fornero, 2005). I due studiosi sostengono infatti che il Tfr
svolge, per i lavoratori dipendenti, funzioni precauzionali che ne richiedono un elevato grado di liquidità; e che la liquidità verrebbe meno con
il conferimento del Tfr a forme di previdenza complementare. Al riguardo, va notato che: (i) l’uso precauzionale del Tfr è spesso la
conseguenza di carenze nella legislazione sociale italiana (per es., in termini di ammortizzatori sociali) e rappresenta, quindi, una risposta
distorta a un problema effettivo; (ii) fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 252/05, la destinazione del Tfr ai FP non ha impedito quegli usi
alternativi previsti dalle norme nel caso di utilizzo tradizionale del Tfr presso le imprese; (iii) le maggiori restrizioni in termini di riscatti e di
alcune forme di anticipazione, previste dal D.Lgs. n. 252/05 (cfr. anche infra), sono — almeno in parte — compensate da una fiscalità di favore.
Va peraltro riconosciuto che l’investimento nella previdenza complementare sottopone a un rischio finanziario ogni riallocazione del Tfr.
4
22
totale della previdenza complementare.6 Per di più l’esperienza internazionale mostra che le
modalità di adesione tacita al secondo pilastro previdenziale tendono a indurre elevati tassi di
partecipazione (anche oltre il 70% della platea potenziale). Tenendo conto che l’attuale
copertura dei lavoratori dipendenti privati italiani si attesta intorno al 13%, negli anni
successivi all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 252/05 si potrebbe perciò registrare l’adesione alla
previdenza complementare italiana di un ulteriore 55%-60% di questa tipologia di lavoratori;
il che, dato il peso dei dipendenti privati sull’insieme dei lavoratori occupati e dati i possibili
effetti — più contenuti ma comunque positivi — della nuova normativa su altre tipologie di
lavoratori, potrebbe portare a un tasso complessivo di adesione alle forme previdenziali poco
al di sopra del 50%. Va poi aggiunto che le modalità dell’adesione esplicita o tacita dovrebbero
rafforzare i finanziamenti unitari delle forme previdenziali, in quanto estendono ai lavoratori
assunti fino al 28 aprile 1993 il versamento dell’intero ammontare dei flussi di Tfr o comunque
di quote più elevate di quelle passate. Dato il valore complessivo dei flussi di Tfr e degli
accordi contrattuali vigenti, tutto ciò potrebbe comportare un afflusso aggiuntivo annuale alla
previdenza complementare pari a circa 9 miliardi di euro.7
Le stime del Ministero del lavoro sono meno ottimistiche. Esse prevedono, per il 2007, il
raggiungimento di un tasso di adesione dei dipendenti privati pari al 40% — ossia, un
incremento del 27% invece che del 55%-60%. In realtà le soluzioni, proposte dalla Legge
delega n. 243/04 e dal D.Lgs. n. 252/05, sono così parziali e distorsive da rendere di difficile
realizzazione anche un incremento del genere.8
La parzialità è già evidente in quanto fin qui detto: lo schema di conferimento tacito non
riguarda — come invece dovrebbe — l’adesione alla previdenza complementare di tutti i
lavoratori, ma esclude sia i lavoratori autonomi, che non dispongono del Tfr e hanno i più bassi
tassi di sostituzione da primo pilastro previdenziale, sia i lavoratori dipendenti pubblici.9
L’esclusione è di particolare gravità per quelle fasce deboli e precarie di lavoratori autonomi, in
cui si addensano i lavoratori inseriti nel regime previdenziale pubblico a “ripartizione
contributiva” (ossia i lavoratori “giovani”).10 La lacuna non viene compensata dal nuovo
trattamento fiscale per le contribuzioni volontarie individuali. Al riguardo, la Legge delega
mirava ad ampliare la “deducibilità” delle contribuzioni complessive (del lavoratore e del datore
di lavoro) tramite la fissazione di nuovi “limiti in valore assoluto e in valore percentuale del
reddito imponibile” e tramite l’applicazione del limite “più favorevole all’interessato” (cfr. art.
1, comma 2 lettera i). Viceversa il D.Lgs.: conferma il solo limite preesistente in valore assoluto,
Di per sé, la decisione relativa al versamento di tutti i flussi maturandi di Tfr, è meno radicale di quanto non appaia a prima vista.
Anche in base alla precedente normativa, si sarebbe infatti raggiunto un risultato simile all’uscita dal mercato del lavoro dei dipendenti
assunti per la prima volta in data antecedente il 29 aprile 1993 (cfr. al riguardo: Mefop 2000). Resta il fatto che, combinandosi con il
meccanismo dell’adesione tacita, il potenziale incremento dei versamenti annuali alle forme previdenziali aumenterebbe di circa lo 85%
lo stock patrimoniale, detenuto dai nuovi FP alla fine del 2005.
8 Riportando i risultati di due indagini Isae (2004) e (2005) riguardo alla propensione dei lavoratori italiani ad aderire a una forma
pensionistica complementare mediante il meccanismo del conferimento tacito del Tfr maturando, Cozzolino-Di Nicola-Raitano (2006)
sottolineano come, negli ultimi mesi del 2004 e del 2005, in media più del 40% degli intervistati fosse ancora incerto circa la
destinazione del proprio Tfr e — fra i non incerti — più del 77% optasse per mantenere il proprio Tfr in azienda. La comparazione fra
tali cifre e l’attuale dinamica dei tassi di adesione non implica, di per sé, che il meccanismo del conferimento tacito sarà privo di effetti
significativi. Si è già accennato e si specificherà fra breve che, mentre la scelta di trasferimento del Tfr maturando a una forma
previdenziale ha elementi di irreversibilità, secondo il D.Lgs n. 252/05 la decisione del suo mantenimento in azienda è rovesciabile in
ogni momento; pertanto, le indagini Isae potrebbero anche indicare un atteggiamento di attesa. Tuttavia la diffidenza verso le nuove
regole e la forte preferenza per allocazioni liquide e poco rischiose del Tfr, espresse dalla maggior parte degli intervistati, e
l’addensamento dei favorevoli all’utilizzo pensionistico del Tfr fra chi ha già aderito a una forma pensionistica complementare
suggeriscono cautela.
9 Per tasso di sostituzione si intende il rapporto fra l’ammontare della prima pensione percepita e quello dell’ultimo reddito ottenuto
dall’occupazione, cui si riferisce la pensione stessa. Si noti poi che i lavoratori dipendenti non sono vincolati a versare una contribuzione
al FP o al Pip, cui hanno aderito mediante il trasferimento (totale o parziale) dei flussi di Tfr. La Legge delega (art. 1, comma 2, lettera
e, punto 3) prevedeva “la possibilità” che il lavoratore dipendente e il suo datore di lavoro avessero l’obbligo di versare i loro rispettivi
contributi “alla forma pensionistica prescelta dal lavoratore stesso” o a quella di destinazione tacita del Tfr. Viceversa, il D.Lgs. (art. 8,
comma 10) afferma che “l’adesione a una forma pensionistica realizzata tramite il solo conferimento esplicito o tacito del Tfr non
comporta l’obbligo della contribuzione a carico del lavoratore e del datore di lavoro” a meno dell’intervento di diversi contratti o
accordi collettivi anche aziendali.
10 In una versione provvisoria dei decreti attuativi, si faceva riferimento ai lavoratori autonomi con rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa e a progetto. Rispondendo ai rilievi espressi dalle Commissioni di Camera e Senato, il D.Lgs. n. 252/05 ha però espunto
questo riferimento (cfr. la relativa Relazione). Di recente, il Ministero del lavoro si è impegnato a estendere una parte almeno delle
nuove norme alle fasce deboli e giovani di lavoratori autonomi.
7
23
per gli attuali lavoratori (5.165 euro annui: cfr. art. 8, comma 4); concede agli assunti dopo
l’entrata in vigore della nuova normativa di eccedere tale limite, nei vent’anni successivi al quinto
anno di adesione a una forma pensionistica complementare, per un importo pari al minimo fra
2.582 euro annui e la differenza positiva fra il massimale ordinariamente deducibile (25.823 euro)
e quanto effettivamente versato durante i primi cinque anni di adesione (cfr. art. 8, 6).11
Gli elementi distorsivi riguardano, invece, sia aspetti generali che aspetti più specifici. Fra
gli aspetti generali, vanno almeno ricordati il posponimento dell’entrata in vigore della
normativa al 2008 e il possibile eccesso di delega. Fra gli aspetti specifici vanno invece
sottolineati: (1) gli altri incentivi fiscali previsti, (2) il raccordo fra la fase di capitalizzazione
e quella di erogazione dei benefici; (3) le concrete modalità di conferimento esplicito e tacito
del Tfr maturando e (4) le conseguenti modalità di concorrenza e di governance delle varie
forme previdenziali. In quanto segue, si esaminano i due aspetti generali e i punti (1) e (2). Agli
altri due punti specifici, che richiedono una trattazione particolarmente accurata, è invece
dedicato il paragrafo 3.
La decisione, assunta dal governo Berlusconi alla fine del novembre 2005 di posporre i
nuovi assetti previdenziali al 2008 ma di dare immediata attuazione ai nuovi compiti
dell’autorità di vigilanza (Covip) fissando — così — ai primi di giugno 2006 la scadenza per
l’emanazione delle direttive alle forme previdenziali richieste dall’applicazione del D.Lgs. n.
252/05, apparve subito come una soluzione di compromesso rispetto al contrasto fra la
posizione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e quella del Presidente del Consiglio
che si era tradotta — circa due mesi prima — nella bocciatura, da parte del Consiglio dei
ministri, del decreto attuativo nella versione approvata dalle Commissioni parlamentari.12 La
materia del contendere riguardava l’insufficiente grado di concorrenza caratterizzante, secondo
una parte del governo Berlusconi, il rapporto fra Fondi pensione e Pip (cfr. il successivo par.
3). Il largo anticipo nella predisposizione delle nuove direttive, che non poteva giustificarsi con
l’esigenza di concedere ben diciannove mesi alle diverse forme previdenziali per gli
adeguamenti richiesti, sembrava finalizzato a dare spazio di mercato ai Pip. La sospensione per
un biennio del resto del D.Lgs. n. 252/05 creava infatti un’area di indeterminatezza rispetto alle
norme vigenti e aumentava l’incertezza; ciò frenava le iniziative spontanee dei potenziali
aderenti e offriva un terreno di caccia ideale per le reti di vendita più spregiudicate, come hanno
mostrato di essere alcune di quelle assicurative.
Questa prima distorsione, destinata soprattutto a pesare sulle fasce di lavoratori
dipendenti con minore tasso di copertura dal pilastro pubblico, è aggravata dal fatto che il
decreto legislativo in esame ha un oggetto così ampio da configurarsi come una vera e
propria riscrittura della Legge n. 24/93 istitutiva dei nuovi FP. Prova ne sia, del resto, che il
governo Berlusconi sollecitò il Parlamento a estendere alla previdenza complementare la
delega per la predisposizione di un Testo unico, già prevista con riferimento alla previdenza
pubblica. L’approvazione di tale estensione della delega non è stata, però, perfezionata
secondo le procedure richieste (cfr. al riguardo: Sandulli 2006). Si pone dunque
l’interrogativo se, mantenendo — nonostante l’infortunio procedurale — un impianto tanto
generale del D.Lgs. n. 252/05, il governo Berlusconi non sia caduto in un eccesso di delega.
A ciò si aggiunga che il decreto legislativo forza la delega anche riguardo a due dei quattro
aspetti specifici sopra richiamati: i regimi fiscali della fase di capitalizzazione e di
La rimozione del vincolo in percentuale elimina un disincentivo all’evasione e all’elusione fiscale. Inoltre il nuovo trattamento fiscale
accentua la disparità relativa fra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi in quanto rimuove quello che è stato il vincolo più
stringente per la contribuzione dei primi: il doppio dei flussi di Tfr versati.
12 La giustificazione governativa, secondo cui il posponimento avrebbe assicurato la coincidenza temporale fra la revisione dei requisiti
per l’accesso alla pensione pubblica (l’introduzione del cosiddetto ‘scalone’) e il riassetto della previdenza complementare, è poco
convincente. Infatti, al di là di ogni giudizio di merito, nel primo caso la dilazione al 2008 trovava giustificazione nell’impossibilità di
creare senza preavviso una discontinuità di trattamento così rilevante; nel secondo caso, essa non avrebbe fatto che aggravare la precaria
posizione previdenziale dei lavoratori “giovani”. Inoltre le scadenze ravvicinate, imposte alla Covip, avrebbero almeno dovuto
accompagnarsi a un’immediata emanazione della direttiva ministeriale per la definizione delle disposizioni attuative del D.Lgs. n.
252/05; viceversa, la passata legislatura si è consumata senza che i Ministri competenti abbiano promulgato quella direttiva.
11
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erogazione, il raccordo fra le due fasi.
Sul primo aspetto la Legge delega prevedeva una revisione verso il basso nella “tassazione
dei rendimenti delle attività delle forme pensionistiche”, oggi fissata all’11%, e non introduceva
alcuna novità rispetto al livello di tassazione dei benefici erogati (cfr. art. 1, comma 2, lettera i).
In questo modo, essa apriva la porta a un’auspicabile convergenza della previdenza
complementare italiana verso il più internazionalmente diffuso e lineare regime fiscale EET (cfr.
Giannini e Guerra 2006). Viceversa, il D.Lgs n. 252/05 non modifica l’aliquota fiscale sui
rendimenti e introduce arbitrariamente aliquote di favore rispetto all’imposizione sulle
prestazioni erogate in forma di rendita o liquidate in forma di capitale (al netto delle parti già
assoggettate a imposta): da un massimo del 15% a un minimo del 9% (con riduzione dello 0,3%
per ogni anno di adesione alla previdenza complementare eccedente il quindicesimo). È facile
intuire la ratio politica di un simile intervento: risulta più semplice largheggiare con impegni
lontani nel tempo e — in quanto tali — reversibili che con impegni a impatto immediato sul
deficit pubblico.13 Nondimeno, ciò porta ad almeno due effetti paradossali: il trattamento fiscale
delle rendite o della liquidazione in capitale nella previdenza complementare diventa più
favorevole di quello sull’erogazione della pensione pubblica obbligatoria e sul Tfr; la connessa
incentivazione fiscale agisce in senso regressivo, ossia a favore dei redditi più elevati.
Riguardo poi al raccordo fra fase di capitalizzazione e fase di erogazione, ricalcando un
principio della Legge delega n. 243/04 e della Delega fiscale (n. 80 del 2003), il D.Lgs. n.
252/05 (cfr. art. 11, comma 3) elimina i preesistenti disincentivi alla liquidazione della quota
del montante capitalizzato compresa fra il 34% e il 50%, che erano stati introdotti (nella forma
di doppia tassazione) dal D.Lgs. n. 47/00. Questo lassismo, che è rafforzato dalla facoltà di
accedere (dopo almeno otto anni di iscrizione presso una forma pensionistica complementare)
a una anticipazione per il 30% della posizione individuale maturata nel caso di non meglio
specificate “ulteriori esigenze degli aderenti” con un’imposta fiscale di favore (aliquota del
23%; cfr. art. 11, comma 7, lettera c), allenta il rispetto di un cruciale vincolo dal lato della
domanda di servizi previdenziali: la conversione in rendita della parte più elevata possibile del
montante capitalizzato. Per giunta, esso depotenzia le auspicabili innovazioni da introdurre
nelle modalità di erogazione delle rendite (cfr. al riguardo: Cardinale, Pickering e Wadsworth
2006). Il fatto più singolare è, però, un altro: la materia delle anticipazioni e dei riscatti subisce
una modifica di segno opposto, e in misura talvolta persino eccessiva, in altre parti dello stesso
articolo 11 e del successivo articolo 14, affrontando problemi non inclusi nella Legge delega.14
In proposito, basti ricordare: il trasferimento del montante individuale maturato ad altra
forma pensionistica di riferimento in caso di cambio di lavoro; l’obbligo di permanenza nella
forma previdenziale prescelta anche durante i periodi di disoccupazione inferiori ai dodici
mesi; la parzialità del riscatto della posizione individuale maturata (il solo 50%) nel caso di un
periodo di disoccupazione compreso fra l’anno e i quattro anni o nel caso di procedure di
mobilità e cassa integrazione; l’accesso alle prestazioni con un anticipo massimo
quinquennale, nel caso di un periodo di disoccupazione superiore ai quattro anni;15 la possibilità
di anticipazione del solo 75% del montante individuale maturato (seppure con trattamento
fiscale di favore) nei casi di emergenze sanitarie per l’aderente o i suoi famigliari (in ogni
13 Come ricordano Cozzolino, Di Nicola e Raitano (2006), le risposte degli intervistati all’inchiesta Isae (2005) mostrano piena
consapevolezza del problema. La freddezza, mostrata rispetto alle agevolazioni fiscali sulle erogazioni, si fonda — in quasi la metà dei
casi — sull’incertezza circa l’effettiva attuazione futura dei benefici promessi.
14 Le direttive generali alle forme pensionistiche complementari, emanate dalla Covip e pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’11-7-2006
(n. 159), attenuano però fortemente la portata della nuova normativa sulla materia in esame. Sostenendo un’interpretazione discutibile
dell’art. 14 comma 5 del D.Lgs. n. 252/05, esse prevedono infatti la possibilità di mantenere le tipologie di riscatto ammesse dagli statuti
e regolamenti delle forme pensionistiche complementari sulla base della precedente normativa o della contrattazione collettiva. Il
risultato è che le vecchie possibilità di liquidazione della posizione pensionistica complementare si sommano alle nuove,
contraddicendo così la volontà espressa dal legislatore.
15 Si ricordi che, negli altri casi di disoccupazione per un periodo superiore ai quattro anni e nei casi di invalidità permanente per più di
due terzi, è consentito il riscatto totale con ritenuta fiscale del 15% (riducibile fino al 9%).
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momento) oppure per l’acquisto o ristrutturazione della prima casa per sé e i figli (dopo otto
anni di iscrizione al una forma previdenziale); la possibilità di reintegrazioni delle anticipazioni
con crediti di imposta per gli importi eccedenti il limite massimo di esenzione annua (5.165
euro); la possibilità (per chi ha almeno un anno di iscrizione) di proseguire la contribuzione alla
forma previdenziale prescelta oltre il raggiungimento dell’età pensionabile e fino alla
determinazione volontaria del momento di fruizione delle prestazioni (cfr. art. 8, comma 11).
Le novità e le distorsioni esaminate sono aggravate dalla mancata armonizzazione fra taluni
principi del D.Lgs. n. 252/05 e le norme contenute in leggi ancora più recenti;16 per giunta, esse
si sommano all’insufficiente attenzione dedicata ad altri rilevanti aspetti del secondo pilastro
previdenziale italiano.17 I maggiori problemi specifici del decreto legislativo in questione
riguardano, però, gli altri due temi sopra segnalati: la concorrenza fra le diverse forme
previdenziali e la loro connessa governance.
3. Concorrenza e governance
Come si è già accennato, la Legge delega n. 243/04 e i conseguenti decreti legislativi
mirano ad accrescere la concorrenza nel mercato previdenziale, eliminando ogni barriera fra le
diverse forme pensionistiche complementari — in caso di conferimento esplicito del Tfr — e
prevedendo adesioni collettive ai FPc o ai FPa — in caso di conferimento tacito del Tfr. In
particolare, il D.Lgs. n. 252/05 (art. 8, comma 7, lett. a) e b), e comma 10) specifica che: (i)
ogni lavoratore dipendente privato può scegliere di trasferire il Tfr maturando, i suoi contributi
volontari e — quando previsto contrattualmente (cfr. sopra, n. 9) — il contributo proprio e
quello datoriale al FPc di riferimento, a un FPa o a un Pip; (ii) se tale lavoratore non esercita
la scelta nei sei mesi previsti, il datore di lavoro ne trasferisce i flussi futuri di Tfr al FPc
definito dai contratti collettivi (anche territoriali), a meno che uno specifico accordo aziendale
non preveda la destinazione del Tfr ad altro FP (aperto) con adesione collettiva;18 (iii) in
presenza di una molteplicità di FP che soddisfino i criteri sub (ii), la scelta deve cadere — salvo
diverso accordo aziendale — sul FP collettivo con il maggior numero di aderenti dell’impresa,
in cui il lavoratore in esame è occupato; (iv) in assenza di FP che soddisfino i criteri sub (ii), il
Tfr maturando va trasferito a FondInpsC.19
Nel decreto in esame si aggiunge poi che: (v) il “conferimento tacito del Tfr” comporta il
suo investimento nel comparto finanziario “a contenuto più prudenziale” fra quelli del FP
selezionato così da “garantire la restituzione del capitale e rendimenti comparabili” al
rendimento del Tfr (art. 8, comma 8); (vi) dopo due anni di iscrizione a una data forma
previdenziale l’aderente può trasferire la propria posizione individuale maturata, i futuri flussi
di Tfr e — se previsto contrattualmente — il contributo proprio e quello datoriale a una forma
concorrente (art. 14, comma 6); (vii) questo trasferimento può avvenire anche prima dei due
anni previsti, se il lavoratore si trova inserito in FondInpsC (art. 9, comma 3).
16 Per esempio: è difficile tenere insieme la destinazione del Tfr maturando alle forme pensionistiche complementari e la previsione di
cedibilità integrale del Tfr contenuta nella L. n. 80/05, art. 13 bis (cfr. al riguardo Sandulli, 2006). Inoltre, come si specificherà nel
successivo paragrafo, vi sono contraddizioni fra il D.Lgs. n. 252/05 e la cosiddetta legge sul risparmio (cfr. L. 262/05) riguardo ai
compiti di regolamentazione della previdenza complementare.
17 Basti qui menzionare due punti importanti: le troppo generiche linee di adeguamento previste per i FPp, che si sono poi tradotte in
una bozza di regolamento poco stringente e approvabile in ritardo rispetto a quanto richiesto dall’art. 20 del D.Lgs. n. 252/05; la già
richiamata esclusione dei dipendenti pubblici, che l’attuale Ministro del lavoro si è peraltro impegnato a correggere nei prossimi mesi.
18 La normativa successiva ha chiarito che, nel caso di lavoratori già aderenti a una forma pensionistica complementare alla fine del
2006 con trasferimento integrale dei loro flussi di Tfr, non è necessario esprimere alcuna scelta per mantenere il proprio status nel
secondo pilastro.
19 Si tratta di un fondo residuale gestito a capitalizzazione che è, quindi, altra cosa rispetto a FondInpsR. Nel prosieguo del lavoro
FondInpsC sarà assimilato a un FP con adesione collettiva. Si noti peraltro che l’impianto normativo sarebbe stato carente se non avesse
previsto FondInpsC e non lo avesse regolato in via residuale. La Legge delega fa però riferimento a forme pensionistiche residuali
istituite presso gli enti di previdenza obbligatoria; pertanto, la scelta dei decreti attuativi di selezionarne uno solo (ossia l’Inps) appare
arbitraria. Inoltre, nella Legge finanziaria per il 2007 FondInpsC assume funzioni incompatibili con un ruolo residuale; e lo stesso vale
per la sua complessa organizzazione disegnata dai decreti del Ministro del lavoro (cfr. par. 4).
26
I punti (ii)-(iv) non garantiscono un’adeguata apertura concorrenziale in presenza di
conferimento tacito del Tfr.20 Le esperienze internazionali mostrano che le opzioni di default,
cui può essere assimilata tale modalità di conferimento, attraggono un’ampia quota della platea
degli aderenti (non inferiore al 70%); pertanto la tipologia di FP con adesione collettiva,
privilegiata nel caso dalla normativa, ha buona probabilità di fungere da attore dominante nel
mercato della previdenza complementare italiana. Come mostra il punto (ii), si tratta dei FPc.
Questa scelta è coerente con l’architettura della previdenza complementare disegnata
dall’originario D.Lgs. n. 124/93 ed è, quindi, il frutto della path dependence. Resta il fatto che,
fino a oggi, i FPc aziendali e settoriali hanno attratto quote significative dei potenziali aderenti
nelle realtà di medio-grande e grande impresa ma si sono dimostrati incapaci di realizzare
soddisfacenti tassi di adesione nelle realtà di piccola e piccolissima dimensione con limitata
presenza sindacale. Data la morfologia del nostro apparato industriale e dei servizi, in Italia il
peso degli occupati nelle piccole e piccolissime imprese è peraltro elevato; e, spesso, sono lì
sovrarappresentate le tipologie di lavoratori dipendenti con i più bassi tassi di sostituzione da
previdenza pubblica. È ragionevole ritenere che la forma più flessibile di adesione collettiva,
offerta dai FPa, potrebbe indurre aumenti significativi dell’iscrizione collettiva a forme
previdenziali nelle realtà di piccola e piccolissima impresa. Se si condivide tale tesi, ne deriva
che il deficit di concorrenza fra FPc e FPa con adesione collettiva funge anche da ostacolo per
il rafforzamento della previdenza complementare.
Per compensare questo deficit di concorrenza, il D.Lgs. n. 252/05 propone soluzioni
peggiori del male. Esso include infatti fra le possibili forme di adesione collettiva ai FP anche
gli accordi intercorsi fra i soli lavoratori “firmatari degli stessi” (cfr. art. 3, comma 1, lett. a))
e introduce una contrapposizione fra contratti collettivi e accordi aziendali (cfr. per es., il già
citato art. 8, comma 7, lett. b, punto 1) che è assente nel D.Lgs. n. 124/93. Il risultato non è
certo quello di accrescere la concorrenza fra FPc e FPa con adesione collettiva; si aumenta
invece la probabilità del verificarsi della fattispecie sub (iii) che, obbligando a effettuare
l’adesione tacita al FP in base all’instabile criterio della preventiva adesione del “maggior
numero di lavoratori” di una stessa impresa, porta comunque alla creazione di posizioni di
monopolio. Un’alternativa più efficiente ed efficace sarebbe stata quella di definire, per via
normativa, un’esplicita gerarchia fra le diverse tipologie di FPc (settoriali, regionali, aziendali)
e di adesioni collettive ai FPa che permettesse — nel rispetto della contrattazione collettiva —
l’affermarsi di tali adesioni ai FPa nei segmenti di piccola e piccolissima impresa. È vero che
anche una simile soluzione non sarebbe sfociata in un mercato concorrenziale, in quanto
avrebbe causato segmentazioni. Tuttavia, in mercati non contendibili (qual’è il mercato
previdenziale), la concorrenza monopolistica tende a determinare equilibri ‘migliori’ rispetto a
quelli di monopolio (cfr. anche: Fornero e Fugazza 2002).
L’insufficiente concorrenza in caso di conferimento tacito alle piccole e piccolissime
imprese era poi aggravata dal modo con cui il D.Lgs. n. 252/05 dava soluzione a un punto
problematico ma ineludibile della delega: “la subordinazione del conferimento del Tfr [...]
all’assenza di oneri per le imprese” anche mediante “compensazioni in termini di facilità di
accesso al credito” (cfr. la Legge delega n. 243/04, art. 1, comma 2, lettera e), punto 9). Al
riguardo, l’articolo 10 del D.Lgs. n. 252/05 e l’articolo 8 della connessa Legge n. 248/05
prevedevano dal 2008:
1. un aumento delle deduzioni fiscali sui flussi di Tfr trasferiti a una forma previdenziale
(dall’attuale 3% al 4% o — nel caso di imprese con meno di 50 addetti — al 6%);
2. una riduzione degli oneri impropri, fissati dai contributi sociali versati alla gestione delle
prestazioni temporanee per i lavoratori dipendenti dell’Inps, pari a una quota annualmente
Si ritiene invece compatibile con l’efficiente funzionamento del mercato il vincolo temporale posto alla portabilità: un passaggio da
una forma previdenziale a un’altra (switch) ogni due anni. Come mostrano alcune esperienze di paesi sudamericani, la piena libertà di
switch o vincoli temporali troppo laschi rischiano di assimilare l’allocazione del risparmio previdenziale a investimenti finanziari
speculativi e di rendere troppo elevati i costi di transazione sopportati dai partecipanti.
20
27
crescente e compresa fra lo 0,12% (nel primo anno) e lo 0,28% (nel 2016) della retribuzione
lorda dei lavoratori in proporzione al Tfr destinato a una forma previdenziale;
3. l’abolizione del finanziamento al fondo di garanzia sul Tfr detenuto dalle imprese, pari allo
0,15% della retribuzione lorda di ogni lavoratore, in proporzione al Tfr destinato a una
forma previdenziale;
4. la costituzione di un fondo di garanzia statale rispetto ai prestiti bancari concessi, in
sostituzione della perdita del finanziamento dovuta alla diversa destinazione del Tfr, alle
imprese in grado di soddisfare determinati requisiti patrimoniali e finanziari (cfr. anche Abi
2005; Pammolli e Salerno 2006).
L’operare del fondo di garanzia avrebbe introdotto gravi distorsioni nel funzionamento del
mercato e frapposto ulteriori ostacoli per l’accesso alla previdenza complementare dei
lavoratori delle piccole e piccolissime imprese, spesso incapaci di soddisfare i requisiti
patrimoniali e finanziari richiesti per l’accesso al fondo. Di conseguenza, la nuova normativa
avrebbe finito per penalizzare non solo le fasce deboli dei lavoratori autonomi ma anche le
fasce deboli dei lavoratori dipendenti privati rispetto ai lavoratori più protetti che, già oggi,
hanno elevati tassi di adesione ai loro FPc di riferimento.
È quindi positivo che la Legge finanziaria per il 2007 abbia abrogato il fondo di garanzia,
modificando marginalmente le altre compensazioni alle imprese (cfr. par. 4). È invece negativo
che questa stessa Legge non sia intervenuta sull’inefficiente eccesso di apertura del mercato nel
caso di conferimento esplicito del Tfr. Come si è già ricordato, in tale caso i FPc, le adesioni
collettive ai FPa, le adesioni individuali ai FPa e i Pip sono equiparati nel senso che l’aderente
è libero di decidere il versamento del Tfr maturando e — se previsto contrattualmente — del
proprio contributo e di quello datoriale a una qualsiasi di queste forme pensionistiche. I servizi
previdenziali costituiscono, però, una sorta di “bene pubblico”. Di conseguenza, per realizzare
una piena concorrenza, non basta eliminare le classiche barriere di mercato; è anche necessario
superare le ‘barriere’ di governance, definendo un “contesto di regole” in grado di assicurare
la “sostanziale equiparazione” fra le diverse forme in termini di tutela degli aderenti e, dunque,
in termini di trasparenza (disclosure e informazione) e — soprattutto — di semplificazione
(facilità di scelta e portabilità) e di comparabilità (standardizzazione dei costi e dei benefici
attesi) dei rispettivi prodotti previdenziali.21
In linea di principio, la Legge delega n. 243/04 affrontava il problema. Essa subordinava la
libertà di scelta degli aderenti alla definizione di “regole comuni” fra le diverse forme
previdenziali riguardo alla “comparabilità dei costi, alla trasparenza e portabilità” e a una
“adeguata informazione” sui “rendimenti stimati” così da indurre una scelta “consapevole dei
soggetti destinatari” e una sostanziale omogeneizzazione dei livelli di “trasparenza e tutela”
(cfr. art. 1, comma 2, lettera e, punti 4 e 1). Per dare più concretezza a questi principi, tale legge
proponeva poi interventi sulla governance dei FP, prevedendo standard di particolare
qualificazione e di indipendenza per il relativo responsabile e caldeggiando l’istituzione o il
rafforzamento di “organismi di sorveglianza” per i Fpa con adesioni collettive (cfr. lettera e,
punto 6); inoltre, essa mirava a rafforzare le competenze dell’autorità di settore fino a unificare
presso la Covip la regolamentazione sulla “trasparenza delle condizioni contrattuali” per “tutte
le forme pensionistiche collettive e individuali” e la disciplina e la vigilanza “sulle modalità di
offerta al pubblico” per tutti gli strumenti di previdenza complementare (cfr. lettera h, punto 2).
Viceversa, la Legge in oggetto non prevedeva alcun intervento specifico riguardo alla
governance dei Pip e alla semplificazione e standardizzazione (in termini di calcolo dei costi e
dei benefici attesi) dei diversi prodotti previdenziali.
21 Cfr. Autorità garante della concorrenza e del mercato (2005), pp. 2-3. Cfr. anche: Boeri e Brugiavini (2006) e Fano e Onado (2006).
Tali aspetti assumono un’importanza ancora maggiore, se si considera che gran parte degli aderenti alla previdenza privata non fonda
le proprie scelte su calcoli razionali neppure in paesi con consolidata tradizione di investimento finanziario. Cfr. al riguardo: Madrian
e Shea (2001); Benartzi e Thaler (2001); Choi, Laibson e Madrian (2005).
28
Il D.Lgs. n. 252/05 sviluppa alcuni corretti punti della delega. Riguardo ai Pip, il D.Lgs.
afferma l’obbligo di “patrimoni autonomi e separati” e demanda a un regolamento, da sottoporre
all’approvazione della Covip, il soddisfacimento dei criteri di “comparabilità dei costi e dei
risultati di gestione” nonché di trasparenza delle “condizioni contrattuali” e della connessa
portabilità (cfr. art. 1, comma 4; art. 13, comma 3); inoltre, esso dichiara la nullità di tutte le
“clausole che, all’atto dell’adesione o del trasferimento, consentano l’applicazione di voci di costo
[...] significativamente più elevate di quelle applicate nel corso del rapporto”;22 infine, esso estende
ai Pip la figura del responsabile della forma pensionistica complementare. Più in generale poi, il
D.Lgs. rafforza la terzietà del responsabile dei FP o dei Pip (cfr. art. 5, comma 2); e attribuisce alla
Covip il compito di “perseguire la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e
prudente gestione delle forme pensionistiche complementari”, pur se nel rispetto della “vigilanza
di stabilità” esercitata dalle relative autorità di controllo sugli intermediari finanziari preposti alla
promozione o gestione di forme previdenziali (cfr. art. 18, comma 2; art. 19, comma 2).
Tali elementi sono positivi; essi non bastano, però, a colmare le lacune e le ambiguità della
Legge delega. Per fare solo alcuni esempi. Il D.Lgs. n. 252/05 non chiarisce affatto come sia
possibile rendere confrontabili i costi e i rendimenti dei FP, che effettuano i loro calcoli ai prezzi
di mercato, e quelli di molti Pip, che si fondano viceversa sui costi storici. Il D.Lgs. insiste poi sulla
terzietà del responsabile delle forme pensionistiche complementari (inclusi i FPc) e, per soddisfare
un’indicazione delle Commissioni parlamentari (cfr. la relativa Relazione), ammette che il ruolo
di responsabile dei FPc possa essere svolto dal direttore del Fondo. Tuttavia, nel caso dei FPc, la
presenza di un responsabile crea — a seconda delle sue effettive funzioni — una negativa
sovrapposizione di competenze con l’Assemblea o con il Consiglio di amministrazione; per di più,
l’identificazione fra responsabile e direttore aggiunge un grave conflitto di interesse in quanto il
controllato può così controllare il controllore o — alternativamente - essere delegato a controllare
se stesso. Infine il D.Lgs. obbliga i FPa a istituire un organismo di sorveglianza, composto da
almeno due membri “designati dai soggetti istitutori dei fondi stessi”, in presenza di adesioni sia
individuali che collettive.23 Un simile organismo, che potrebbe svolgere la funzione essenziale di
dare voce agli aderenti in forma collettiva, è invece ridondante perché privo di qualsiasi
rappresentatività rispetto agli aderenti e con compiti analoghi a quelli del responsabile del Fondo.24
Il D.Lgs. n. 252/05 non realizza pienamente neppure l’obiettivo di unificare i compiti di
vigilanza presso la Covip. Le relative prescrizioni si scontrano infatti con le recenti iniziative,
intraprese da Isvap e Consob (cfr. il regolamento relativo ai prospetti e alla sollecitazione degli
investimenti) in campo previdenziale, e — soprattutto — con le divergenti indicazioni
contenute nella cosiddetta legge sul risparmio (cfr. Legge n. 262/05), che non sono state
superate dal recente decreto legislativo di attuazione (il cosiddetto Decreto Pinza).25
21 Cfr. art. 14, comma 6. L’articolo non si riferisce specificamente ai Pip ma a tutte le forme previdenziali. L’evidenza empirica, offerta da
Fornero, Fugazza e Ponzetto (2004), Covip (2004a, 2004 e 2005) e Fano e Onado (2006), mette però in luce che — in media — sono i costi
dei Pip a essere fuori linea rispetto a quelli dei FPa e — soprattutto - dei FPc. Inoltre la pratica dei caricamenti precontati, che — fino a poco
tempo fa — ha riguardato una quota amplissima dei Pip, e l’opacità del calcolo a costi storici, che caratterizza anche oggi molti prodotti
previdenziali di tipo assicurativo (cfr. infra), hanno gravemente penalizzato ogni ‘uscita’ anticipata da tali prodotti (cfr. Covip 2005, pp. 21120). Le iniziative dell’Isvap (cfr. la circolare 551/D, 2005), volte a rendere più trasparente la struttura dei costi e a ridurre il peso dei
caricamenti iniziali sulla portabilità dei Pip, stanno attenuando il problema per i flussi di prodotti assicurativi previdenziali (vecchi e nuovi);
tuttavia, non applicandosi allo stock in essere, esse hanno anche l’effetto di introdurre una segmentazione del mercato. Sarà interessante
verificare se, nel 2007, il D.Lgs n. 252/05 e le modifiche della Legge finanziaria saranno sufficienti per superare questa segmentazione.
23 Il D.Lgs. n. 252/05 (art. 5, comma 4) prevede l’organismo di sorveglianza per le forme pensionistiche complementari, che sono
definite nel seguente art. 12, che esamina sia i FPa con adesione individuale sia quelli con adesione (anche) collettiva. Nelle sue direttive
generali la Covip interpreta la previsione normativa come se l’organismo di vigilanza fosse richiesto solo per quei FPa con ambedue le
forme di adesione. Tale interpretazione, che sembra ‘forzata’ sul piano letterale, evita di introdurre una ingiustificabile asimmetria fra
i FPa con adesione solo individuale e i Pip.
24 Cfr. al riguardo: Francario (2006); Messori (2006b). Si noti che il deficit di rappresentatività dell’organismo di sorveglianza dei FPa
si estende anche al caso delle adesioni collettive con più di 500 iscritti provenienti da una stessa azienda. In quel caso, il D.Lgs. n.
252/05 (cfr. comma 5) prevede la nomina di due rappresentanti aggiuntivi designati, rispettivamente, dalla stessa azienda (o dal gruppo)
e dai lavoratori; ciò porta a una rappresentanza comunque insufficiente che, per giunta, rischia di inflazionare il numero dei membri
dell’organismo di sorveglianza nel caso di successo delle adesioni collettive ai FPa.
25 La confusione è aumentata dall’art. 1, comma 751 della Legge finanziaria per il 2007 che, correggendo la nuova denominazione
dell’autorità prevista dal D.Lgs. n. 252/05 come “Commissione di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari”, ripristina la
vecchia e parziale denominazione “Commissione di vigilanza sui fondi pensione”. Inoltre, di recente il governo ha avanzato l’ipotesi
di una riforma delle autorità di vigilanza che porterebbe alla soppressione della Covip.
29
Questi (e altri possibili) esempi negativi mettono in luce un comune vizio di origine: un
inadeguato disegno di governance per i FPc e per i FPa con adesione collettiva che deriva, a
sua volta, dal velleitario tentativo di livellare tale governance a quella — diversa — delle forme
pensionistiche ad adesione individuale. Il principale problema di governance, che i FPc devono
affrontare, riguarda l’incorporazione di maggiori competenze tecniche senza sacrificare la
rappresentanza degli aderenti; e il principale problema di governance, che i FPa con adesione
collettiva devono affrontare, consiste nell’acquisizione di forme di rappresentanza senza
mortificare le esistenti competenze interne. Ciò spinge verso una parziale omogeneizzazione
che precipita nella comune esigenza di offrire un’appropriata informazione agli aderenti, di
contare su una regolamentazione unitaria e di disporre di adeguati spazi di
autoregolamentazione (cfr. Cafaggi 2006). L’adesione individuale alle forme previdenziali
configura invece un mero rapporto di compravendita di un servizio sul mercato, che può
aspirare alla trasparenza e all’efficienza ma che lascia poco spazio a problemi di
rappresentanza; e la stessa informazione agli aderenti sfuma in un rapporto tradizionale di
consulenza.
Se le specifiche caratteristiche del servizio previdenziale offerto e i connessi problemi di
governance impediscono la convergenza fra FP con adesione collettiva e forme ad adesione
individuale anche sul terreno informativo, cade però il presupposto stesso che sta alla base
della confluenza di tutte le diverse forme previdenziali in un unico mercato concorrenziale. La
concorrenza, che assicura adeguati livelli di efficacia e di efficienza nel mercato previdenziale,
è quella fra i diversi tipi di FP con adesione collettiva e non quella fra questi tipi e le forme
previdenziali ad adesione individuale. La cosa trova, del resto, riscontro nell’architettura
istituzionale: il tentativo di cancellare le differenze fra FP e Pip porta alla costruzione di un
sistema previdenziale a due pilastri, che contrasta con il più affermato modello internazionale
a tre pilastri.26
4. Le novità normative del 2006-2007
I vari problemi, sollevati dal D.Lgs. n. 252/05 ed esaminati nei due precedenti paragrafi,
non sono stati attenuati dalla regolamentazione prodotta nei mesi del 2006 precedenti la
discussione della Legge finanziaria per il 2007. Anzi si è già avuto modo di notare come le
direttive generali alle forme pensionistiche complementari, emanate dalla Covip alla fine di
giugno 2006, abbiano acuito le contraddizioni normative rispetto alle possibilità di riscatto
delle posizioni previdenziali (cfr. sopra, n. 14); e lo stesso vale anche riguardo all’impropria
sovrapposizione fra la figura del responsabile e quella del direttore generale nei FPc.27
L’aspetto più controverso di quelle direttive riguarda, però, un punto all’apparenza tecnico ma
— in realtà — di cruciale importanza per la parte (nelle attese, consistente) dei lavoratori
dipendenti privati che rimarrà silente nel primo semestre del 2007 (o nel primo semestre della
sua nuova occupazione) e che si troverà, così, tacitamente iscritta a un dato FP con adesione
collettiva: la specifica allocazione finanziaria dei suoi flussi di Tfr presso quel fondo.
Come si è ricordato nel paragrafo 3, il D.Lgs. n. 252/05 (cfr. art. 8, comma 9) prevede che
i flussi di Tfr dei lavoratori silenti siano investiti nel comparto finanziario del FP a “contenuto
L’esperienza internazionale mostra anzi che l’inserimento delle forme previdenziali individuali nel secondo pilastro può portare a
gravi problemi di misselling che pesano sulle spalle degli aderenti. Basti riferirsi, al riguardo, allo scandalo dei prodotti individuali
britannici fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Per intuire la portata del fenomeno, si consideri che le autorità
di regolamentazione britanniche hanno riconosciuto il diritto al risarcimento a più di un milione e mezzo di investitori previdenziali; e
che l’ammontare del risarcimento ha superato gli 11 miliardi di sterline. Cfr. Mangiatordi e Pace (2003).
27 Infatti, mentre il D.Lgs. n. 252/05 si limita a prevedere che l’incarico di responsabile del FPc possa essere “conferito anche al direttore
generale” (cfr. par. 3), le direttive generali della Covip privilegiano il caso di una mera integrazione delle “competenze del direttore
generale” per poi aggiungere che, “eventualmente, potrà essere valutata l’opportunità di conferire il predetto incarico di responsabile
del fondo anche a soggetto distinto dal direttore generale”.
26
30
più prudenziale” e con garanzia sia di “restituzione del capitale” che di rendimenti nominali
“comparabili” a quelli finora assicurati dal Tfr investito nell’impresa di appartenenza (1,5% più
75% del tasso di inflazione). Tale prescrizione normativa è, tuttavia, ambigua. Basta sfogliare
un qualsiasi manuale di finanza (cfr. per es.: Brealey e Myers 1991, seconda parte) per rendersi
conto che è problematico individuare, in astratto, la linea di investimento più prudenziale per
lavoratori con differenti propensioni soggettive e oggettive al rischio. Per esempio: per un
aderente giovane che ha davanti a sé un lungo orizzonte temporale di lavoro e che può contare
su un solido patrimonio famigliare, è davvero più prudenziale allocare il proprio risparmio
previdenziale in un comparto monetario (esposto al rischio di inflazione e a “costi
opportunità”) o in un comparto obbligazionario (esposto al rischio di aumenti nei tassi di
interesse di lungo termine) invece che in un comparto diversificato ma con una forte
componente azionaria (esposta al rischio di volatilità dei mercati)? Per giunta, non è affatto
chiaro cosa debba intendersi per garanzia. Si tratta forse di una garanzia “assicurativa”, in
grado di dare con certezza determinati rendimenti cumulati al momento del pensionamento o
del riscatto; oppure di una garanzia finanziaria in grado di minimizzare, in ogni punto del
tempo, la probabilità di rendimenti reali al di sotto di una data soglia?
È evidente che, a seconda delle risposte fornite a questi interrogativi, la norma sopra
richiamata sfocia in divergenti strategie prudenziali di investimento per il Tfr dei lavoratori
silenti. Resta tuttavia fermo un punto (cfr. De Felice e Moriconi 2006; Messori 2006c): una
garanzia di tipo assicurativo, che si applichi a ogni aderente di un comparto finanziario
prudenziale (valorizzato a prezzi di mercato) e che sia valida per uno spettro piuttosto ampio
di fattispecie incerte, ha un costo così elevato da non poter dare con certezza un rendimento
allineato a quello tradizionale del Tfr.
Nel redigere le direttive generali, la Covip avrebbe potuto superare il problema,
interpretando la garanzia come la fissazione di una soglia probabilistica minima (per eempio il
97%) di ottenere — in ogni punto del tempo o in orizzonti più lunghi - rendimenti superiori a
quelli del Tfr (garanzia finanziaria).28 Viceversa, la scelta della Covip è stata di segno opposto:
essa impone una garanzia assicurativa riguardo al mantenimento del capitale nominale di ogni
aderente al comparto “più prudenziale” dei FP e si accontenta di una “raccomandazione” non
quantificata riguardo alla ‘comparabilità’ fra rendimenti di tale comparto e rendimenti del Tfr.
L’autorità di vigilanza stabilisce infatti che la linea più prudenziale di investimento debba:
“assicurare con certezza il risultato della restituzione integrale del capitale [nominale], al netto
di qualsiasi onere...”, al momento del pensionamento o nei casi previsti di riscatto per decesso,
per disoccupazione superiore a 48 mesi o per invalidità permanente pari a più di due terzi
rispetto alla capacità di lavoro;29 erogare “con elevata probabilità rendimenti che siano pari o
superiori a quelli del Tfr, quantomeno in un orizzonte temporale pluriennale”.
È ragionevole attendersi che gli sforzi per la realizzazione della garanzia assicurativa sul
capitale nominale domineranno quelli per il soddisfacimento della “raccomandazione” non
quantificata. L’effetto sarà di schiacciare le linee più prudenziali di investimento dei FP con
adesione collettiva, dove saranno obbligatoriamente allocati i flussi di Tfr degli aderenti silenti,
su portafogli molto liquidi o sulla costosa acquisizione di opzioni put protettive per i patrimoni
Una scelta del genere avrebbe aperto la strada a gestioni finanziarie ‘dinamiche’, ossia a gestioni in grado appunto di minimizzare —
in n periodi di tempo piccoli a piacere — la probabilità che i rendimenti si attestino al di sotto di una soglia predefinita. In tale contesto
il benchmark, cui fanno riferimento gli investimenti finanziari di tipo previdenziale, avrebbe cessato di essere identificabile in un
paniere di indici per assumere la forma di una strategia di minimizzazione di eventi sfavorevoli; per esempio, nel caso di modelli di
asset-liabilities management (Alm), esso si sarebbe tradotto nella minimizzazione della probabilità di non ‘battere’ le passività. Le
implicazioni di questo cambiamento sarebbero state molteplici. Sotto il profilo strettamente finanziario, le gestioni ‘dinamiche’ dei FP
avrebbero approssimato strategie di hedging; sotto il profilo della vigilanza e del controllo del rischio, la Covip e i singoli FP avrebbero
dovuto dotarsi di competenze tecniche e di strumenti di ‘monitoraggio’ sufficientemente sofisticati da fronteggiare la maggiore
complessità propria alle gestioni ‘dinamiche’.
29 Gli eventi, cui la garanzia in esame si applica, sono specificati nella delibera della Covip del 31-10-2006 relativa agli “Schemi di
regolamento” dei FPa.
28
31
dei singoli aderenti.30 In ambedue i casi l’“elevata probabilità”, che il comparto finanziario “più
prudenziale” dei FP realizzi — almeno nel lungo periodo — rendimenti uguali o superiori a quelli
del vecchio regime del Tfr, rischia di essere — in realtà — così bassa da indurre rendimenti attesi
di lungo termine inferiori a tale obiettivo.31 Se così fosse, i lavoratori dipendenti privati con un
orizzonte di lavoro sufficientemente lungo non avrebbero convenienza ad aderire tacitamente alla
previdenza complementare. Fermo restando che il comportamento ottimale consiste nell’aderire
esplicitamente — in modo informato e collettivo — al fondo pensione scelto in base ai parametri
di efficienza e di governance e nell’allocare i flussi di Tfr nel comparto finanziario meglio adatto
al proprio profilo di rischio, sarebbe preferibile rifiutare in modo esplicito l’iscrizione a una forma
pensionistica complementare piuttosto che aderire a un FP in forma tacita.
Come si è più volte ricordato, a livello internazionale, opzioni di default assimilabili
all’adesione tacita hanno attratto una quota largamente maggioritaria di lavoratori. È quindi
preoccupante che, nel caso italiano, questa opzione dia luogo a prospettive finanziarie così
scoraggianti. La preoccupazione è poi accresciuta da altri due elementi: (1) la Legge finanziaria
per il 2007, approvata pochi giorni prima di Natale 2006, non si è limitata ad anticipare al
1° gennaio 2007 il varo della nuova normativa ma ha anche apportato modifiche di rilievo —
e non sempre positive — al D.Lgs. n. 252/05; (ii) nonostante le previsioni legislative e gli
impegni assunti dai vari ministri coinvolti (cfr. D.Lgs. n. 252/05, art. 22, comma 1; Legge
finanziaria, comma 765), all’inizio del semestre di scelta i potenziali aderenti non hanno ancora
fruito di una sistematica informazione istituzionale in merito ai contenuti del D.Lgs. n. 252/05
e — a maggior ragione — in merito alle novità introdotte dalla Legge finanziaria.32 Oltre a
sottolineare l’urgenza della stabilizzazione del quadro normativo e di una sistematica e
accurata campagna informativa, è qui opportuno soffermarsi su due aspetti positivi e su due
aspetti negativi delle più recenti modifiche normative.
Oltre il condivisibile anticipo al 1° gennaio 2007 dell’entrata in vigore della nuova
normativa, un aspetto positivo della Legge finanziaria risiede nell’eliminazione del distorsivo
fondo di garanzia statale rispetto ai prestiti bancari concessi alle imprese in sostituzione della
perdita del finanziamento indotta dalla diversa destinazione di parte del Tfr maturando (cfr.
sopra par. 3; e D.Lgs. n. 252/05, art. 10, comma 3). In proposito, tale Legge mira a soddisfare
la previsione della Legge delega n. 243/04, relativa alla “assenza di oneri per le imprese”,
mantenendo l’insieme delle altre misure compensative prima concesse alle stesse imprese con
poche modifiche derivanti dalla costituzione di FondInpsR, dall’eliminazione di ogni residuo
Nel caso di lavoratori con un orizzonte di lavoro sufficientemente lungo, si tratta delle scelte peggiori di portafoglio finanziario. In
questo caso, meglio sarebbe ricorrere a una strategia meccanica e subottimale di investimento quale è quella “life cycle”, che prevede
una progressiva riduzione delle componenti più volatili del portafoglio all’aumentare dell’età del lavoratore e al conseguente ridursi del
suo orizzonte temporale di lavoro. Blake, Lehmann e Timmermann (1999) hanno peraltro provato che, in termini di rendimenti storici,
la strategia “life cycle” è stata dominata non solo dalle gestioni ‘dinamiche’ ma anche da differenti gestioni finanziarie statiche con
significativa componente azionaria.
31 Questo rischio è accresciuto dalla complessità di costruzione della garanzia che ne fa lievitare il costo. Infatti, un FP può assumersi
direttamente l’impegno corrispondente alla garanzia solo se dispone — in quanto tale (nel caso di FPc) o come società istitutiva (nel caso
di FPa) — di adeguati requisiti patrimoniali e di idonei sistemi di quantificazione e di controllo dei relativi rischi; in alternativa, esso può
stipulare una convenzione di gestione assicurativa di ramo VI mediante il trasferimento a una compagnia assicurativa dell’attivo del
comparto interessato che deve essere gestito secondo le modalità definite nella nota informativa del FP e nella convenzione, essere
valorizzato a prezzi di mercato ed essere separato sia dal restante patrimonio del FP sia da quello della compagnia assicurativa.
32 Per quanto mi consta le sole iniziative, volte a informare i lavoratori dipendenti privati sulle possibili destinazioni del Tfr, sono quelle
assunte dai sindacati alla fine del dicembre 2006 e da vari mezzi di comunicazione fra la fine dell’anno 2006 e il mese di gennaio 2007.
Dal 1° gennaio 2007 questi stessi lavoratori dovrebbero peraltro aver ricevuto la prevista informativa da parte dei loro datori di lavoro;
e solo da aprile 2007 dovrebbero fruire di una vera campagna “pubblicità-progresso”, che esamini i problemi e non si limiti a enunciarli.
Si tratta di un ritardo preoccupante specie perché varie analisi fanno emergere che le diverse tipologie di lavoratori sottovalutano
l’impatto negativo delle riforme degli anni Novanta sul tasso di sostituzione da pensione pubblica (cfr. al riguardo: Jappelli, Padula e
Bottazzi 2003). Si noti poi che il nuovo quadro normativo, pur entrando in vigore dal 1° gennaio 2007, al 31 dicembre 2006 non era
ancora completo. Come si è già accennato e come si specificherà fra breve, la Legge finanziaria (cfr. commi 757 e 765) prevede due
decreti che sono stati emanati dal Ministro del lavoro (di concerto con il Ministro dell’economia) il 30 gennaio 2007 — ossia poco
prima della data limite prevista dalla legge. Per di più, solo intorno al 20 gennaio il Ministero del lavoro ha annunciato che le opzioni
dei lavoratori devono essere effettuate mediante specifici moduli standardizzati poi allegati a uno dei due decreti. Pertanto i lavoratori,
che avevano già effettuato l’opzione fra il 1° gennaio e la data di disponibilità dei moduli ufficiali, potranno mantenere i tempi della
loro scelta originaria solo reiterando la loro opzione — entro 30 giorni dalla pubblicazione dei decreti — mediante i moduli
standardizzati. Come si è già ricordato (cfr. n. 18), ciò non riguarda i lavoratori che già versavano l’intero flusso di Tfr a una forma
pensionistica complementare alla fine del 2006.
30
32
onere legato al tradizionale fondo di garanzia del Tfr e dall’allentamento dei tetti per i mancati
introiti dovuti alla riduzione (dal 1° gennaio 2008) degli oneri impropri (cfr. D.Lgs. 252/05, art.
10, commi 1-2 e 4; e Legge finanziaria commi 764 e 766).33 Gli aspetti negativi risiedono invece
nella costituzione di FondInpsR, destinato a raccogliere i flussi di Tfr dei lavoratori dipendenti
che decideranno — in modo esplicito — di non aderire ad alcuna forma pensionistica
complementare e che sono occupati in aziende con almeno 50 dipendenti,34 e nelle nuove
funzioni attribuite a FondInpsC, che potrebbe trasformarsi da fondo residuale (cfr. D.Lgs. n.
252, art. 9) a forma pensionistica complementare permanente (cfr. Legge finanziaria per il 2007,
art. 1 comma 760).
FondInpsR, che è gestito dall’Inps per conto dello Stato mediante uno specifico conto
corrente di Tesoreria (cfr. Legge finanziaria per il 2007, commi 755 e 756), assicura le
medesime condizioni di rendimento e di liquidazione proprie al Tfr allocato presso le imprese.
Esso non sembra, quindi, modificare la posizione del singolo lavoratore dipendente privato. In
realtà FondInpsR introduce una modifica strutturale nell’assetto previdenziale italiano,
disegnato dalla riforma Dini, in quanto crea un pilastro pubblico aggiuntivo a ripartizione
contributiva che è caratterizzato da tre distorsive peculiarità: riguarda solo una parte dei
lavoratori dipendenti; ha un patrimonio instabile data l’elevata liquidità del Tfr lì accumulato
e la variabilità dei partecipanti;35 prevede la liquidazione dell’intero montante capitalizzato
all’uscita dall’età lavorativa. Con la costituzione di FondInpsR il sistema previdenziale
italiano, che era stato costruito dalle riforme degli anni Novanta sui classici tre pilastri e che
era stato ridotto a due pilastri a seguito della progressiva assimilazione fra previdenza
complementare con adesione collettiva e previdenza integrativa ad adesione individuale, torna
così a essere strutturato su tre pilastri. A differenza di quanto accade in quasi tutti i paesi
economicamente avanzati, due di tali pilastri sono però pubblici e a ripartizione e assorbono,
per una parte dei lavoratori, contributi pari al 40% della retribuzione lorda.36
Una simile modifica strutturale incide sulla scelta di allocazione del Tfr da parte del singolo
lavoratore perché aumenta il rischio ‘politico’ e rende ancora più complesse le procedure di
allocazione del Tfr previste dal D.Lgs. n. 252/05 (cfr. art. 8, comma 7; art. 9). A quest’ultimo
riguardo, si faccia riferimento ai soli lavoratori dipendenti occupati in aziende che, secondo i
criteri di calcolo specificati in uno dei due decreti del Ministro del lavoro (cfr. n. 35), hanno
almeno 50 addetti.37
33 Riferendosi ai calcoli effettuati in Abi (2005) in merito alle vecchie compensazioni previste dal D.Lgs. n. 252/05, Chiorazzo e Milani
(2006) mostrano che le nuove compensazioni eccedono — fin dal 2007 e in misura crescente negli anni successivi - la differenza fra
oneri dei finanziamenti bancari sostitutivi del Tfr e oneri dello stesso Tfr. Come si è ricordato nel par. 3, la Legge delega specificava
però che le compensazioni dovevano anche riguardare la “facilità di accesso al credito” così da evitare che un’impresa non fosse in
grado di sostituire il precedente finanziamento da Tfr a causa di un razionamento di quantità nel mercato finanziario. Al di là delle sue
gravi distorsioni, il fondo di garanzia statale rispondeva innanzitutto a tale esigenza che, oggi, è relegata sullo sfondo data la fase
congiunturale di abbondante liquidità. La sua soppressione lascia, comunque, aperto il problema. Prova ne sia che il punto 4) del
“Memorandum di intesa sul Trattamento di fine rapporto”, che è stato siglato fra il governo e le principali parti sociali il 23 ottobre 2006
e che è stato alla base delle modifiche introdotte nella Legge finanziaria in materia di previdenza complementare, afferma: “il Governo
si impegna a riprendere e concludere la discussione aperta con il sistema bancario, al fine di trovare forme per venire incontro alle
imprese che trovassero difficoltà nell’accesso al credito. In questo ambito si studierà la costituzione di un fondo di garanzia”. Non è
chiaro il significato del punto citato alla luce della successiva evoluzione normativa.
34 Il decreto, emanato il 30 gennaio 2007 dal Ministro del lavoro in esecuzione dell’art. 1 comma 757 della Legge finanziaria (cfr. anche
n. 32), specifica che la norma non riguarda i lavoratori con un contratto inferiore ai 3 mesi, i lavoratori a domicilio, varie tipologie di
occupati nel settore agricolo e i lavoratori con Tfr periodicamente liquidato o attribuito ad altri destinatari.
35 Le imprese cambiano continuamente di dimensione, cosicché è impossibile definire due sottoinsiemi stabili in base al numero di
addetti. Prova ne sia che il decreto del Ministro del lavoro, derivante dal comma 757 della Legge finanziaria, dedica due commi dell’art.
1 (6 e 7) alla definizione di due discutibili criteri di calcolo. Il limite dei 50 addetti è determinato (almeno fino al 2008: cfr. il
“Memorandum di intesa sul Trattamento di fine rapporto”) dalla media annuale dei lavoratori occupati nell’anno solare 2006, per le
imprese già esistenti al 31 dicembre 2006, e in quello di inizio attività, per le imprese nate in tempi successivi; e i lavoratori occupati
comprendono tutti i lavoratori con contratto di lavoro subordinato, a prescindere dalla loro tipologia, inclusi (quota parte) quelli a tempo
parziale ed esclusi gli assenti se sostituiti.
36 La liceità dell’assimilazione di FondInpsR a un pilastro pubblico è confermata dalla tolleranza mostrata dalle autorità statistiche
comunitarie rispetto alla costituzione di un simile fondo (cfr. anche: Legge finanziaria, comma 762). Negare il nulla osta a FondInpsR
imporrebbe infatti di far emergere, nei bilanci pubblici di tutti i paesi dell’Unione europea, il debito pensionistico nascosto negli schemi
a ripartizione.
37 Infatti, nel caso di lavoratori occupati in aziende con meno di 50 addetti, l’art. 8, comma 7 del D.Lgs. n. 252/05 non richiede particolari
specificazioni; e gli aspetti, che vanno comunque dettagliati (per esempio, le regole di versamento ritardato del Tfr alle forme
pensionistiche complementari), sono chiariti per analogia con l’altro caso.
33
Tale decreto e l’altro derivante dal comma 765 della Legge finanziaria specificano che, se
i lavoratori scelgono esplicitamente di non trasferire i loro flussi di Tfr ad alcuna delle possibili
forme pensionistiche complementari, l’impresa è tenuta a versare questi flussi a FondInpsR a
partire dal mese successivo alla scelta.38 Peraltro, se si tratta di lavoratori già occupati al 31
dicembre 2006, il primo versamento a FondInpsR deve essere pari al Tfr maturato dal 1°
gennaio 2007 accresciuto del tasso di rivalutazione dello stesso Tfr vigente al 31 dicembre
2006; analogamente, se si tratta di lavoratori occupati dopo quella data che non abbiano già
deciso una diversa destinazione del Tfr a seguito di precedenti rapporti di lavoro, tale primo
versamento deve essere pari al Tfr maturato dalla data della (nuova) assunzione accresciuto del
tasso di rivalutazione dello stesso Tfr vigente al termine dell’anno precedente.
Se invece i lavoratori destinano - in forma esplicita o tacita — flussi di Tfr alla previdenza
complementare, il rapporto con FondInpsR cambia a seconda che: (1) si tratti di lavoratori già
occupati al 31 dicembre 2006 oppure di lavoratori occupati dopo quella data che non abbiano
già deciso una diversa destinazione del Tfr a seguito di precedenti rapporti di lavoro; (2) il
sottoinsieme della prima tipologia di lavoratori, assunto in data antecedente il 29 aprile 1993,
scelga di versare in tutto o solo in parte i suoi flussi di Tfr (cfr. sopra, n. 5).
Nel caso in cui i lavoratori già occupati al 31 dicembre 2006 destinino tutto il Tfr
maturando al secondo pilastro previdenziale, nulla va attribuito a FondInpsR: dal 1° luglio del
2007, l’impresa verserà il Tfr (e gli eventuali contributi contrattuali o volontari) alla forma
pensionistica prescelta dal lavoratore — se l’adesione è avvenuta in forma esplicita — o al
fondo pensione designato con adesione collettiva — se l’adesione è avvenuta in forma tacita;39
inoltre, il primo versamento dovrà comprendere il Tfr maturato fra la data dell’adesione di
ciascun lavoratore e il 30 giugno 2007 e dovrà essere accresciuto del già specificato tasso di
rivalutazione del Tfr. Invece, nel caso in cui — avendone i requisiti — questi stessi lavoratori
destinino solo una parte del Tfr maturando al secondo pilastro complementare, l’impresa
verserà la quota del Tfr destinata a una forma pensionistica complementare secondo le modalità
specificate per il caso precedente; la quota rimanente sarà invece versata a FondInpsR secondo
le modalità sopra specificate per i lavoratori già occupati al 31 dicembre 2006 che decidono
esplicitamente di non versare il loro Tfr ad alcuna forma pensionistica complementare (ossia
con retroattività dal 1° gennaio 2007).
Si passi infine al caso di lavoratori occupati dopo il 31 dicembre 2006, che non abbiano già
deciso una diversa destinazione del Tfr a seguito di precedenti rapporti di lavoro e che
destinino i flussi del loro Tfr alla previdenza complementare. In tale caso, restano valide le
modalità di versamento del Tfr (e degli eventuali contributi) alla forma pensionistica prescelta
o al fondo pensione con adesione collettiva dal mese successivo alla data di consegna del
modulo predefinito (se questa data è successiva a maggio 2007) o dal 1° luglio 2007 (se è
anteriore a maggio 2007); tuttavia i flussi di Tfr, relativi al periodo occupazionale precedente
la scelta codificata di adesione e accresciuti del tasso di rivalutazione vigente al termine
dell’anno precedente, andranno versati a FondInpsR.
La paradossale complessità delle procedure, a cui dovranno sottoporsi i dipendenti privati
e i datori di lavoro per l’allocazione del Tfr maturando a seguito della Legge finanziaria per il
2007 e dei due decreti del Ministro del lavoro, dovrebbe emergere con nettezza da quanto si è
Il decreto del Ministro del lavoro, basato sul comma 757 della Legge finanziaria, specifica (art. 3, comma 1) che la scelta va qui intesa
come il momento della consegna da parte del lavoratore del modulo standardizzato sopra specificato (cfr. nota 32). Ciò appare
inevitabile ma contraddittorio con la possibilità di mantenere i tempi della scelta originaria (cfr. sempre 32). Fortunatamente la
contraddizione non dovrebbe avere effetti pratici data la retroattività del trasferimento e l’invarianza del rendimento.
39 Il posponimento al 1° luglio 2007 dell’effettivo versamento alle forme pensionistiche complementari dei flussi di Tfr, maturati nel
primo semestre 2007, è imposto dai tempi di autorizzazione di queste stesse forme alla raccolta del Tfr. Si noti che, se una delle forme
previdenziali prescelte dai lavoratori non ottenesse l’autorizzazione, gli iscritti a tale forma dovrebbero trasferire immediatamente la
loro adesione ad altra forma autorizzata. Si ricordi inoltre che tutto ciò non si applica ai lavoratori che, alla fine del 2006, già aderivano
a una forma pensionistica complementare e versavano l’intero flusso di Tfr (cfr. n. 18).
38
34
appena illustrato. Per di più tali procedure discriminano, in modo arbitrario, fra tipologie
analoghe di lavoratori dipendenti privati al solo fine di accrescere la probabilità che FondInpsR
incassi nel 2007 e negli anni successivi l’ammontare previsto nella “Relazione tecnica” di una
prima versione della Legge finanziaria.40
I problemi, posti dalla Legge finanziaria per il 2007, non finiscono però qui. Ancora più
preoccupanti sono le nuovi funzioni di FondInpsC, che vengono adombrate nel comma 760 e
che trovano sostanziosa conferma nelle modalità organizzative previste nel decreto del
Ministro del lavoro (derivante dal comma 765). Si è detto che il D.Lgs. n. 252/05 riserva a
FondInpsC la sola funzione residuale di offrire una temporanea forma pensionistica di secondo
pilastro a quei dipendenti privati ad adesione tacita e sprovvisti di un FP di riferimento con
adesione collettiva, tanto da prevedere la possibilità di una loro uscita prima del termine dei
due anni (cfr. nota 20) anche in mancanza della istituzione di un simile FP. Sarebbe stato perciò
lecito aspettarsi una struttura agile di FondInpsC, orientata a spingere i lavoratori a un’uscita
immediata e — proprio per questo — vincolata a investimenti di breve termine. Viceversa, il
decreto del Ministro del lavoro: trasforma il comitato di amministrazione (previsto dall’art. 9,
comma 2 del D.Lgs. n. 252/05) in un sovrabbondante organo di nove membri,41 cui si aggiunge
il responsabile del fondo; istituisce la possibilità di una gestione multicomparto di modo che
gli aderenti, inseriti — in quanto silenti — in un comparto prudenziale con la garanzia prima
specificata, possano poi scegliere — dopo un anno — il passaggio a un altro portafoglio;
prevede che un regolamento di FondInpsC specifichi le modalità (variabili) di contribuzione
volontaria degli aderenti; vincola l’uscita di ciascun aderente al mantenimento della “posizione
individuale” presso FondInpsC per “almeno un anno dall’adesione” anche nel caso di
creazione di un FP di riferimento con adesione collettiva.
Tale assimilazione di FondInpsC a una ‘normale’ forma pensionistica complementare,
anziché a un fondo residuale, pone gravi problemi di gestione; in particolare essa rende ancora
più distorsiva l’offerta di una garanzia, secondo le modalità previste dalla Covip (cfr. sopra), a
fronte della possibile uscita continua (dopo un anno) di ciascun aderente.42 Inoltre, essa tende
a trasformare l’aderente da soggetto passivo a un iscritto attivo che va trattenuto anziché spinto
a trasferirsi a una ‘normale’ forma pensionistica complementare. Questa trasformazione di
FondInpsC appare così radicale da richiedere una spiegazione che può essere, forse, trovata nel
comma 760 della Legge finanziaria per il 2007. In quel comma si prefigura infatti la possibilità,
da specificare nella prima relazione annuale del Ministro del lavoro al Parlamento sullo stato
della previdenza complementare (prevista entro il 30 settembre 2007), di versare il Tfr a
FondInpsC anche per scelta volontaria del lavoratore che otterrebbe così dallo Stato una
pensione aggiuntiva a quella di primo pilastro. Se un’ipotesi del genere trovasse conferma, in
Italia il secondo pilastro previdenziale cambierebbe di natura perché incorporerebbe una
componente pubblica destinata a imporsi nel tempo grazie all’implicita assicurazione statale
sui rendimenti minimi. La conseguente inutilità delle forme pensionistiche private si
accompagnerebbe, così, a un aggravio aleatorio della futura spesa pensionistica pubblica.
40 Secondo i dati della Ragioneria generale, il flusso annuale di Tfr dell’insieme dei lavoratori dipendenti è pari a poco più di 18,9
miliardi di euro. Di questi 18,9 miliardi, alla fine del 2006 circa 1 miliardo era già allocato nella previdenza complementare. Peraltro,
secondo i calcoli di Bardazzi-Pazienza (2005), circa il 65% dello stock di Tfr è detenuto da lavoratori privati occupati in imprese con
almeno 50 addetti. È quindi ragionevole valutare in circa 11,6 miliardi di euro i flussi annuali di Tfr di tali lavoratori che possono essere
destinati annualmente a una forma pensionistica complementare o a FonInps oppure essere in parte mantenuti — nel primo semestre
del 2007 — presso l’impresa di appartenenza.
41 È singolare la scelta di un numero dispari, dato il vincolo della rappresentanza paritetica dei lavoratori e dei datori di lavoro e senza
aver previsto la presenza di una figura indipendente.
42 La sola soluzione credibile, che avrebbe però l’effetto di minare le fondamenta del secondo pilastro previdenziale, sarebbe quella di
un’assicurazione di ultima istanza da parte dello Stato (cfr. infra).
35
5. Conclusioni
L’analisi dell’evoluzione normativa più recente ha mostrato i molti limiti delle direttive
Covip, della Legge finanziaria e dei conseguenti decreti del Ministro del lavoro. Si è vanificata
un’opportunità di correggere i molti punti deboli del D.Lgs. n. 252/05, sopra denunciati, e si è
reso ancora più problematico l’assetto della previdenza complementare italiana.
In particolare, la Legge finanziaria per il 2007 non ha neppure tentato di estendere il
meccanismo dell’adesione tacita ai lavoratori autonomi o a una parte di essi; accrescere
l’insufficiente concorrenza fra le diverse tipologie di FP con adesione collettiva e attenuare
l’eccessiva concorrenza fra tali FP e le forme previdenziali ad adesione individuale; modificare
le palesi incongruenze introdotte nella governance delle diverse forme pensionistiche
complementari; correggere l’eccesso di delega e i distorsivi interventi in campo fiscale
riguardo alla fase di contribuzione e di capitalizzazione e — soprattutto — riguardo alla fase
di erogazione dei benefici;43 sanare le contraddizioni nel regime delle anticipazioni e dei
riscatti. Inoltre, la Legge finanziaria non si è preoccupata di chiarire l’ambiguo passaggio del
D.Lgs. n. 252/05 relativo alla necessità di allocare i flussi di Tfr dei lavoratori con adesione
tacita nel comparto più prudenziale e garantito del FP (FPc o FPa con adesione collettiva) di
destinazione. Come si è prima mostrato (cfr. par. 4), la regolamentazione ha posto le premesse
perché il rendimento atteso di questo comparto risulti inferiore al rendimento tradizionale del
Tfr. Oltre a ciò la Legge finanziaria (con la creazione di FondiInpsR) e i conseguenti decreti
del Ministro del lavoro hanno reso così farraginose le modalità di adesione alla previdenza
complementare da scoraggiare i lavoratori dipendenti privati a una scelta consapevole e
ponderata. Per di più, rafforzando in modo distorto il ruolo di FondInpsC, essi hanno
adombrato uno stabile ingresso della mano pubblica nel secondo pilastro previdenziale con
l’effetto di introdurre un’implicita garanzia statale sui rendimenti minimi.
In una situazione normale, una normativa così carente solleciterebbe ulteriori interventi
correttivi. La travagliata storia legislativa della giovane previdenza complementare italiana
(almeno cinque rilevanti modifiche e una pletora di interventi minori in tredici anni) e
l’esperienza recente mostrano, però, che non si tratta della via più efficiente. Per giunta, i nostri
lavoratori più “giovani” non hanno tempo per aspettare. La prossima entrata a regime delle
riforme del pilastro pubblico attuate negli anni Novanta, la dinamica demografica
(allungamento della speranza di vita e connesso invecchiamento della popolazione) e la
precarietà occupazionale implicano infatti che ogni ritardo nell’affermarsi della previdenza
complementare implicherà, in un futuro più o meno lontano, la presenza di una coorte di
pensionati incapaci di difendere il proprio tenore di vita e a rischio di povertà. L’auspicio è,
quindi, che la previdenza complementare italiana possa fornire un massiccio sostegno
pensionistico ai lavoratori più “giovani” nonostante i numerosi limiti dell’attuale normativa. A
tale fine, è essenziale che questi lavoratori partecipino alla previdenza complementare in modo
massiccio e attraverso un’adesione informata, esplicita e consapevole. Per ognuno di essi
risulta, innanzitutto, essenziale sfuggire all’alternativa peggiore: essere inseriti, mediante
adesione tacita, nei comparti prudenziali e garantiti o nella forma pensionistica residuale ad
alto rischio politico. Si tratta, poi, di selezionare la forma previdenziale e il comparto più
appropriati alle proprie esigenze e al proprio profilo soggettivo e oggettivo di rischio.
43 Va peraltro notato che, pur rimanendo invariata all’aliquota dello 11%, la tassazione nella fase di capitalizzazione delle forme
pensionistiche complementari subirà una sensibile riduzione in termini relativi a seguito dell’unificazione delle aliquote sui redditi
finanziari e del connesso passaggio dal 12,5% al 20% per le attività finanziarie di medio-lungo termine. Non a caso, vi sono state
proposte di aumentare pro quota anche l’aliquota sulla capitalizzazione delle forme pensionistiche.
36
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38
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 39-53
Il pensionamento progressivo negli USA:
chi lo sceglie e a che scopo?
1
di Yung-Ping Chen* e John C. Scott**
1. Introduzione
La manodopera degli Stati Uniti sta invecchiando e continuerà a farlo anche se si tratta di
uno sviluppo contrario rispetto alla tendenza storica. In America, il tasso di partecipazione alla
popolazione attiva degli ultrasessantacinquenni ha continuato a diminuire nel periodo
compreso tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, toccando il 10,8% nel 1985, per poi risalire
al 12,8% nel 2000. Si prevede che entro il 2015 oltre il 16% della popolazione con oltre 65 anni
d’età farà ancora parte della popolazione attiva (Toossi, 2001; 2004). L’età media dei lavoratori
è aumentata da 34,6 anni nel 1982 a 40 anni nel 2002.
Un simile incremento del tasso di partecipazione alla popolazione attiva da parte degli
americani in età avanzata può anche non essere il semplice riflesso dell’invecchiamento della
popolazione in generale. I motivi suscettibili di spingere gli anziani a continuare a lavorare
possono comprendere il bisogno di denaro, un livello di istruzione più elevato, il
miglioramento delle condizioni di salute, la diminuzione delle invalidità, il cambiamento dei
fondi pensione, un ambiente giuridico ed economico più favorevole ai lavoratori anziani e il
passaggio dall’economia industriale a quella informatizzata.
Inoltre, da parte dei lavoratori anziani vi può anche essere il desiderio di rimanere attivi a
prescindere dalle condizioni economiche. Il lavoro potrebbe garantire vantaggi di ordine
sociale e psicologico che la pensione non permette, e qualcuno potrebbe non assegnare al
tempo libero la stessa importanza che dà all’attività lavorativa.
Tuttavia, la volontà di continuare a lavorare potrebbe non tradursi nel desiderio di
un’occupazione a tempo pieno. Alcuni dipendenti riescono a modificare i propri orari in modo
tale da “disimpegnarsi” gradualmente dall’attività professionale mentre si avvicinano al
pensionamento completo.2 Chi non può usufruire del pensionamento progressivo presso
l’azienda per cui lavora spesso “va in pensione” per poi trovare un altro impiego part-time. In
genere nessuna di queste due opzioni risulta formalizzata, né rientra in programmi di ampio
respiro, anche se esistono ricerche che hanno evidenziato l’interesse dei datori di lavoro nei
1 Il presente articolo è tratto dalla pubblicazione dell’istituto AARP Public Policy Institute, organizzazione fondata nel 1985 in seno al
Policy and Strategy Group di AARP. Uno degli obiettivi dell’istituto è promuovere studi e ricerche su alcuni aspetti delle politiche
pubbliche che hanno un notevole impatto sugli americani di mezza età e anziani, e la pubblicazione di cui sopra rientra in questo intento.
Le opinioni qui presentate sono intese a informare i lettori e stimolare il dibattito, ma non necessariamente rappresentano le politiche
ufficiali di AARP; http://www.aarp.org/ppi.
* Yung-Ping Chen, Ph.D, University of Massachussets, Boston.
** John C. Scott, J.D., M.A., Cornell University.
Questa possibilità è stata variamente descritta come pensionamento progressivo, parziale e graduale. In alcuni studi il “pensionamento
progressivo” indica schemi in base ai quali il dipendente riduce gradualmente la propria attività lavorativa pur mantenendo il proprio
inquadramento, mentre per “pensione parziale” si intende la riduzione del lavoro al di fuori della carriera professionale perseguita nel
corso dell’esistenza; nel presente articolo le due espressioni saranno utilizzate con questi significati.
39
confronti della futura adozione di una qualche forma di pensionamento progressivo (Watson
Wyatt Worldwide, 1999; Ehrenberg, 2001; Hutchens, 2003).
Il presente lavoro esamina diversi aspetti del pensionamento progressivo e contribuisce per
diversi aspetti alle attuali ricerche sul regime di pensione/lavoro adottato dai dipendenti
anziani. Vengono prese in considerazione numerose questioni, ivi compresi i fattori che in casi
particolari conducono al pensionamento progressivo, l’impatto che esso ha sulle probabilità di
pensionamento completo e le ricadute economiche su chi opta per questa soluzione.
Tali aspetti vengono affrontati per mezzo di una vasta indagine longitudinale condotta
mediante interviste tra i lavoratori anziani, prendendo in considerazione l’atteggiamento
dimostrato nei confronti del lavoro e del tempo libero come pure altre variabili di natura
demografica, familiare, lavorativa e finanziaria.
2. Premesse
Esistono diverse tendenze di natura demografica ed economica suscettibili di rendere
possibili nuovi scenari in termini di lavoro e pensionamento e di generare negli americani in
età avanzata un nuovo atteggiamento nei confronti dell’attività lavorativa. Gli americani
vivono più a lungo e, durante gli ultimi anni della loro esistenza, paiono godere di condizioni
di salute migliori, risultando così in grado di lavorare più a lungo, se lo desiderano. Le
necessità economiche derivanti dalle insufficienze patrimoniali, dall’assenza di una copertura
garantita da un fondo pensione, dall’aumento delle spese sanitarie o dalla mancanza di
un’assicurazione sanitaria durante la pensione sono tutti fattori che negli Stati Uniti possono
spingere gli anziani a rimanere o a rientrare sul mercato del lavoro. Allo stesso tempo,
l’adozione di normative contro la discriminazione in base all’età e i cambiamenti relativi alla
natura delle mansioni lavorative offrono sempre più opportunità e sempre più incentivi volti
all’aumento della partecipazione alla popolazione attiva da parte degli anziani. Di
conseguenza, potrebbe esservi anche più spazio per i pensionamenti progressivi. In questa
parte dell’articolo si fornisce un’analisi preliminare di tali fattori di influenza e di sviluppo,
molti dei quali verranno ripresi nei modelli metodologici e analitici discussi nei paragrafi
successivi.
2.1 Aspetti demografici dell’invecchiamento
In base alle tendenze relative a fertilità, mortalità e condizioni di salute, si prevede che nel
corso della prima metà del Ventunesimo secolo la popolazione americana continuerà a
invecchiare. È naturalmente possibile che tali stime vadano riviste, ma esiste uno studio che
indica che le previsioni attuali potrebbero essere eccessivamente prudenti e che la società
potrebbe invecchiare più rapidamente di quanto non dicano i dati ufficiali (Anderson,
Taljapurkar, and Li, 2002). Qualunque siano gli sviluppi futuri, è probabile che gli anziani
continueranno a lavorare.
Uno dei principali fattori che conducono all’invecchiamento della popolazione è dato dalla
diminuzione della fertilità. Il tasso di fertilità medio (il numero medio di figli concepiti da una
donna nel corso della sua esistenza) è crollato da 3,61 nel 1960 a 2,04 nel 1998 e si prevede
che entro il 2025 scenderà ancora a 1,90 (U.S. Census Bureau, 2000). Se nascono meno
bambini, gli anziani rappresenteranno una fetta sempre più grande del totale della popolazione,
mentre se vi saranno sempre meno lavoratori giovani, gli anziani diventeranno sempre più
necessari e avranno più opportunità di continuare lavorare.
Dato che vivono più a lungo, negli Stati Uniti gli anziani dovrebbero avere sempre di più
40
la possibilità di partecipare alla popolazione attiva. La speranza di vita alla nascita è aumentata
da 70,6 anni nel 1970 a 76,9 anni nel 2000 e ci si attende che continuerà a crescere nel corso
di tutto il secolo. Oggi la speranza di vita dei sessantacinquenni è 18 anni, quando nel 1950
arrivava a 13,9 anni (U.S. Census Bureau, 2000; 2004). La figura 1 illustra l’aumento della
speranza di vita dei sessantacinquenni negli Stati Uniti tra il 1950 e il 2000.
Figura 1: Speranza di vita a 65 anni d’età, 1950-2000
Fonte: U.S. Census Bureau, 2004.
In America gli anziani non solo vivono più a lungo: in genere godono anche di una salute
migliore. I problemi fisici aumentano con l’età e le malattie croniche non sono diminuite di
molto con l’andare degli anni.3 Tuttavia, benché gli individui tendano in genere a perdere
efficienza fisica mentre invecchiano, le indagini sanitarie indicano che oggi in America gli
anziani siano meno “anziani” (in termini di abilità e funzionalità) rispetto alle generazioni
precedenti (Riche, 2001). Tra il 2001 e il 2003, il 73% degli Americani in età avanzata riteneva
le proprie condizioni di salute buone, molto buone o addirittura ottime, con uno scarto minimo
in base ai sessi. La percentuale di ultrasessantacinquenni che lamentavano condizioni di salute
discrete o insoddisfacenti è passata dal 29% del 1991 al 27% del 2001 (Federal Interagency
Forum on Ageing Statistics, 2004).4 Anche le dimensioni delle coorti influisce sul quadro
generale: il grande numero di baby-boomers (circa 76 milioni di nati tra il 1946 e il 1964) nei
prossimi decenni farà aumentare la popolazione anziana ancor più rapidamente.
3 I disturbi cronici come l’artrite, il diabete e le affezioni cardiache sono malattie raramente curate in maniera definitiva e rappresentano
un notevole fardello a livello economico e sanitario. Nel periodo 2001-2002, il 40% degli ultrasessantacinquenni era affetto da artrite,
il 50% da ipertensione, il 31% da problemi cardiaci e il 21% soffriva di una qualche forma di cancro (Federal Interagency Forum on
Aging Statistics, 2004). Tra il 1982 e il 1994, la percentuale di americani affetti da malattie croniche è leggermente diminuita, passando
dal 24% al 21%, ma il totale dei malati è aumentato da 6,4 milioni a 7 milioni di persone (Manton et al., 1997).
4 Tra il 1984 e il 1995, in America gli ultrasessantacinquenni hanno indicato un miglioramento dell’efficienza fisica valutata in base alla
capacità di camminare per un quarto di miglio, salire le scale, raggiungere un oggetto posizionato al di sopra della propria testa, chinarsi,
accovacciarsi o inginocchiarsi. Emergono tuttavia grandi differenze tra i vari gruppi etnici. Per esempio, nel 1995 il 33% degli anziani
afroamericani non era in grado di eseguire almeno un’attività fisica su nove, mentre tra i bianchi la percentuale era di appena il 25%.
Considerando uomini e donne in ogni fascia d’età, neri non ispanici e ispanici avevano meno probabilità dei bianchi di descrivere come
buone le proprie condizioni di salute, mentre il numero di valutazioni soddisfacenti tendeva a diminuire per tutti con l’aumentare
dell’età (Federal Interagency Forum on Ageing Statistics, 2000).
41
Le variazioni dei dati relativi a fertilità, longevità, condizioni di salute e dimensioni delle
fasce d’età fanno sì che in America il gruppo dei lavoratori giovani si restringa mentre aumenta
il numero di anziani ancora abili al lavoro, il che dovrebbe condurre a un aumento della
manodopera oltre i 65 anni d’età pronta a sfruttare l’opportunità data dal pensionamento
progressivo. Inoltre, i vincoli normativi per l’assunzione di manodopera in età avanzata vanno
indebolendosi, alterando a favore degli anziani la composizione della popolazione attiva.
2.2 Partecipazione degli anziani alla popolazione attiva
Sebbene nella seconda metà del XX secolo la partecipazione degli anziani alla popolazione
attiva americana si sia indebolita, emergono segnali in base ai quali saremmo di fronte a
un’inversione di tendenza. Nella fascia d’età che va dai 55 ai 64 anni, i tassi di partecipazione
alla popolazione attiva hanno subito variazioni comprese tra il 56,7% nel 1950 al picco del
61,8% del 1970, per toccare il minimo storico del 55,7% nel 1980 prima di riprendere a
crescere fino al 61,9% del 2002. Per il 2015 le proiezioni indicano un tasso del 61,6%. I tassi
di partecipazione alla popolazione attiva relativi agli anziani (oltre i 65 anni d’età) sono
diminuiti in maniera costante sin dagli anni Cinquanta, arrivando al 10,8% nel 1985. Tuttavia,
in questa fascia d’età la partecipazione alla popolazione attiva è salita al 12,8% nel 2000 e si
prevede un ulteriore aumento fino a superare la soglia del 16% entro il 2015 (Toossi, 2002;
2004).
Anche l’età media della manodopera ha subito variazioni negli ultimi 40 anni. Come
sottolineato da Toossi (2004), questo valore ha raggiunto il picco di 40,5 anni nel 1962, per poi
diminuire quando la generazione del baby-boom è arrivata sul mercato del lavoro, fino a un
minimo di 34,6 anni nel 1982. Da quel momento in poi, l’età media dei lavoratori ha iniziato
a salire fino a toccare 40 anni nel 2002. Anche se i recenti aumenti sono indubbiamente il
riflesso dell’invecchiamento dei baby-boomers, si potrebbe ipotizzare anche l’influsso
dell’accresciuta partecipazione alla popolazione attiva da parte degli ultrasessantacinquenni.
La tipologia del lavoro sta cambiando in modo tale che potrebbe facilitare il prolungamento
dell’attività lavorativa. Un’indagine condotta da AARP tra i responsabili risorse umane indica
che gli anziani ricevevano una valutazione inferiore agli altri lavoratori per quanto riguardava
gli aspetti legati all’apertura nei confronti di nuovi approcci, all’apprendimento di nuove
tecnologie e all’acquisizione delle qualifiche professionali più recenti (AARP, 2000).
Ciononostante, i minori requisiti in termini di prestanza fisica che caratterizzano un’economia
basata sull’informazione potrebbero rivelarsi un vantaggio per gli anziani che riescono ad
aggiornare le proprie competenze. Tra i 50 e i 59 anni d’età, la percentuale di chi utilizzava un
computer per lavoro è passata dal 43,9% del 1993 al 50,7% del 1997, un dato non troppo
dissimile dal 55% registrato nella fascia d’età compresa tra i 40 e i 49 anni. Un aumento
analogo ha riguardato gli ultrasessantenni: se nel 1993 solo il 27,3% utilizzava un computer sul
luogo di lavoro, nel 1997 si era arrivati al 32,6% (U.S. Census Bureau, 1995: Tabella 671;
2000: Tabella 690). Anche se l’ufficio censimenti americano dopo il 1997 non ha più
aggiornato i dati, rilevazioni più recenti indicano sviluppi simili in relazione alla presenza di
un computer a casa: la percentuale dei proprietari di computer tra gli ultrasessantacinquenni è
passata dall’8,3% del 1993 al 24,3% del 2000 (U.S. Census Bureau, 1993; 2001).
Anche per quanto riguarda la struttura delle prestazioni sanitarie e pensionistiche si stanno
verificando dei cambiamenti, il principale dei quali è stato il mutato atteggiamento delle
imprese, passate dai piani pensionistici di assegni definiti a quelli di contributi definiti, come
per esempio il 401(k). Se nel 1980 esistevano oltre 148.000 piani di assegni definiti che
coprivano 30 milioni di lavoratori economicamente attivi (38% della popolazione attiva), entro
il 1999 questi dati hanno registrato un calo enorme: poco meno di 50.000 piani di assegni
definiti per neppure 23 milioni di lavoratori americani (21% della popolazione attiva). Nello
42
stesso lasso di tempo, i piani di contributi definiti sono passati da 340.850 a 683.100, mentre i
lavoratori interessati sono cresciuti da 14 milioni (14% della popolazione attiva del 1980) a
oltre 46 milioni — 43% della forza lavoro del 1999 (U.S. Department of Labour, 2004: Tabella
E24). In genere i piani di assegni definiti assicurano il pagamento di una rendita per l’intera
durata della vita del lavoratore o del beneficiario, mentre quelli di tipo contributivo non
prevedono una simile possibilità, per cui chi va in pensione in base a questi ultimi potrebbe
anche esaurire le risorse accumulate ed essere obbligato a tornare a lavorare.
2.3 Flessibilità sul lavoro
L’aumento dei lavoratori anziani, accompagnato dalla concomitante diminuzione di quelli
più giovani, il miglioramento delle condizioni di salute, determinati cambiamenti istituzionali
e, in alcuni casi, le necessità economiche perduranti nella terza età sono tutti fattori suscettibili
di determinare il prolungamento della vita lavorativa degli americani. Se il fenomeno si fa
evidente, potrebbe incoraggiare la modifica delle norme che regolano il pensionamento e il
concetto stesso di pensione. L’idea di un’età pensionabile stabilita e uguale per tutti ha ceduto
il passo a un’ampia varietà di accordi aziendali relativi ai lavoratori anziani (Wiatrowski,
2001). I dati indicherebbero un aumento dei “lavori transitori”, cioè dei contratti a tempo
determinato o parziale che facilitano la transizione dalla piena occupazione al pensionamento.
Che lo facciano volontariamente o perché obbligati, dopo essere andati in pensione molti
anziani continuano a lavorare presso un’azienda diversa da quella per cui hanno lavorato tutta
la vita (Quinn and Kozy, 1996).
Inoltre, l’orario di lavoro flessibile sta diventando sempre più comune: nel 2004 il 28%
degli assunti a tempo pieno oltre i 20 anni d’età sfruttava questa opportunità, quando nel 1985
erano solo il 12% (U.S. Department of Labour, 2004: Tabella A).5 Nel 2004 il 27% dei
lavoratori di età compresa tra i 55 e i 64 anni disponeva di un orario di lavoro flessibile,
percentuale che passava al 35% tra gli ultrasessantacinquenni (U.S. Department of Labour,
2004: Tabella 1). La maggiore flessibilità dell’orario di lavoro può dunque contribuire
all’adozione dei programmi di pensionamento progressivo.
2.4 Il ruolo delle politiche statali
Esistono diverse proposte politiche che potrebbe far crescere le opportunità lavorative per
gli anziani: si pensi all’aumento della soglia minima per il pensionamento e/o il
prepensionamento in seno alla previdenza sociale, all’indicizzazione di tale soglia minima in
relazione alla speranza di vita, alla possibilità di attribuire a Medicare la responsabilità
principale per la copertura delle prestazioni sanitarie dei lavoratori che hanno superato i 65
anni d’età, all’eliminazione delle misure che nei piani pensionistici impediscono di maturare
ulteriori prestazioni dopo aver raggiunto l’età pensionabile, al miglioramento dell’offerta
formativa per il lavoratori anziani, alla maggiore applicazione delle norme contro le
discriminazioni sul luogo di lavoro basate sull’età, come l’Age Discrimination in Employment
Act (Rix, 2004).
I dati si riferiscono a disoccupati e occupati economicamente attivi del settore privato. La tendenza rimane invariata anche se si
utilizzano numeri diversi. Se si contano i lavoratori economicamente attivi, i pensionati e gli altri beneficiari, i piani pensionistici di
assegni definiti coprivano quasi 38 milioni di americani nel 1980, diventati 41 milioni nel 1999. I lavoratori e i beneficiari affidati ai
piani di contributi definiti sono invece aumentati da quasi 20 milioni di individui nel 1980 a oltre 60 milioni nel 1999 (U.S. Department
of Labour, 2004: Tabelle E1, E5).
5
43
3. Panoramica sulle ricerche disponibili
3.1. Fattori determinanti per il prolungamento della partecipazione alla popolazione attiva da
parte degli anziani
Le ricerche relative ai fattori determinanti per il prolungamento della partecipazione alla
popolazione attiva da parte degli anziani forniscono le basi per la metodologia seguita nel
presente studio. Gli esperti hanno identificato un insieme di fattori che possono influenzare la
decisione di continuare a lavorare da parte degli anziani americani, ivi comprese caratteristiche
individuali, famigliari e professionali.
3.1.1 Caratteristiche individuali
•
•
•
A causa degli svantaggi registrati in termini di capitale umano, opportunità di lavoro e
profilo sanitario, i membri anziani della popolazione di colore, ispanica e femminile si
trovano a dover lasciare la propria occupazione contro la propria volontà più
frequentemente dei maschi bianchi e spesso i periodi di disoccupazione che ne derivano
conducono a uno stato di “pensionamento” indesiderato o all’espulsione coatta dal mondo
del lavoro (Flipen e Tienda, 2000).
Chi ha un livello di istruzione elevato continua a lavorare anche in età avanzata (Haider and
Loughran, 2001). L’impatto negativo della scarsa scolarità sulla partecipazione alla
popolazione attiva risulta maggiore per le donne che per gli uomini e per i neri che per nonneri (Williamson e McNamara, 2001).
I soggetti che godono di condizioni di salute migliori continuano a lavorare anche in età
avanzata (Haider e Loughran, 2001; Quinn et al., 1998).
Al contrario, eventuali problemi di salute possono far tornare sulla decisione di prolungare
la vita lavorativa (Dwyer, 2001; Haider e Loughran, 2001) e indurre a optare per il
pensionamento (Reitzes et al., 1998).
3.1.2 Caratteristiche familiari
•
•
Reddito e patrimonio sono fattori importanti che entrano in gioco quando si decide
dell’eventualità di continuare a lavorare, ma gli effetti che hanno sono diversi. Le maggiori
dimensioni del patrimonio spiegano perché storicamente si assiste al calo della
partecipazione alla popolazione attiva da parte dei maschi anziani (Costa, 1998). Tuttavia,
proprio i soggetti più ricchi hanno maggiori probabilità di lavorare in età avanzata (Haider
e Loughran, 2001). Chi è benestante riesce ad attenuare il calo del reddito da lavoro
attingendo a fonti diverse del proprio patrimonio.
Le dimensioni del nucleo familiare influenzano la decisione di continuare a lavorare in età
avanzata. Si è visto che la propensione al pensionamento è inversamente proporzionale al
numero di figli, che a sua volta può tradursi in obblighi economici derivanti dal fatto di
avere persone a carico. La presenza di figli aumenta la probabilità di continuare a lavorare
più per le donne che per gli uomini (Reitzes et al., 1998; Gustman e Steinmeier, 1994).
3.1.3 Caratteristiche del lavoro
•
È probabile che i soggetti impegnati in lavori usuranti vadano in pensione prima degli altri
lavoratori (Hayward et al., 1989).
44
•
•
•
•
•
È stato riscontrato un collegamento tra la posticipazione del pensionamento e le professioni
più complesse, che richiedono maggiore creatività e sono caratterizzate da compiti meno
ripetitivi (Reitzes et al., 1998; Hayward et al., 1989).
La flessibilità sul lavoro è un incentivo a continuare, in parte perché rende più soddisfacenti
i compiti dei dipendenti (Reitzes et al., 1998; Hurd e McGarry, 1993). Queste
caratteristiche dell’occupazione (impegno fisico, flessibilità e aspetti finanziari), agendo sul
livello di soddisfazione del lavoratore, influenzano le decisioni relative alla prosecuzione
della vita professionale (Mueller et al., 1994).
I lavoratori che partecipano a piani pensionistici a contributi definiti in genere vanno in
pensione dopo quelli che usufruiscono di piani di assegni definiti (Frieberg e Webb, 2000).
Benché la copertura sanitaria fornita dal datore di lavoro contribuisca a rimandare il
pensionamento, anche la disponibilità di un’assicurazione malattia durante la pensione
permette di fare previsioni in questo senso (Gruber e Madrian, 2002). Per esempio, esiste
uno studio che ha rilevato che se l’azienda fornisce la copertura sanitaria ai pensionati, la
percentuale di abbandoni per pensionamento aumenta del 2% annuo in caso di condivisione
dei costi assicurativi tra datore di lavoro e dipendente, e del 6% annuo qualora il datore di
lavoro si faccia pienamente carico dell’assicurazione malattia (Blau e Gilleskie, 2001). Di
norma la decisione di uscire dal mondo del lavoro viene influenzata dall’interazione tra le
prestazioni sanitarie destinate ai pensionati e la disponibilità di una pensione privata (Wise,
1997).
Secondo una ricerca condotta sull’auto-valutazione dei casi di discriminazione basata
sull’età, i lavoratori che se ne dicono più colpiti hanno maggiori probabilità di abbandonare
il proprio datore di lavoro e meno probabilità di continuare a lavorare (Johnson e Neumark,
1997).
3.2 Definire e misurare il pensionamento parziale
Anche se il presente articolo si concentra principalmente sul pensionamento progressivo, ci
accingiamo a discutere gli studi relativi al pensionamento parziale alla luce dei punti di
somiglianza che accomunano i due sistemi. Per comodità si utilizzerà l’espressione
“pensionamento parziale” per indicare lo svolgimento di mansioni part-time a favore di un
datore di lavoro diverso da quello per il quale si è lavorato nel corso della propria carriera
professionale. Tuttavia, nella maggior parte delle ricerche sulle alternative al pensionamento
completo questo termine viene impiegato per riferirsi a qualsiasi riduzione graduale
dell’attività lavorativa, a prescindere dall’identità del datore di lavoro.
I tassi di partecipazione alla popolazione attiva vengono comunemente utilizzati quali
indici della prosecuzione dell’attività lavorativa da parte di soggetti anziani (Quinn, 1999;
Toossi, 2002; 2004), anche se si tratta di strumenti poco adatti a rendere conto della transizione
dal lavoro alla pensione. In un qualsiasi momento, il tasso di partecipazione alla popolazione
attiva rilevato per una fascia di età avanzata è dato dal numero degli anziani che abbandonano
la popolazione attiva e di quelli che entrano a farne parte: di conseguenza non si tratta di un
flusso unidirezionale di individui dal lavoro alla pensione. Sono dunque necessarie altre
misurazione per valutare le variazioni relative alla situazione pensionistica (Hayward et al.,
1994).
Un ulteriore aspetto teorico riguarda il valore attribuibile alle valutazioni personali rispetto
a uno standard oggettivo come le ore lavorate o il reddito da lavoro. È abbastanza chiaro che
l’autovalutazione circa lo status di pensionato possa evidenziare differenze sostanziali rispetto
a una misurazione oggettiva (Honig e Hanoch, 1985; Ruhm, 1990; Gustman e Steinmeier,
2001; ma cfr. anche la nota 7 in Gustman e Steinmeier, 1984). Molti tra quelli che si descrivono
45
come pensionati parziali percepiscono una retribuzione uguale o analoga allo stipendio
precedente, mentre molti di quelli che hanno assistito a una riduzione dello stipendio si
considerano dipendenti o pensionati a tempo pieno (Honig e Hanoch, 1985: 23). Si vede
dunque che affidarsi esclusivamente alle autovalutazioni può non essere molto utile se si
vogliono analizzare i dettagli del passaggio dal lavoro alla pensione.
Anche le misurazioni assolutamente oggettive possono nascondere delle insidie. Per
esempio, la diminuzione della retribuzione, sia essa dovuta a demansionamento o
trasferimento, potrebbe far erroneamente concludere che siamo di fronte a un pensionamento
progressivo, mentre in realtà il soggetto non ha ridotto l’orario di lavoro né ha iniziato la
transizione verso il pieno pensionamento. L’utilità dell’autovalutazione risiede nel fatto che ci
dà un’idea delle intenzioni individuali. Alcuni degli studi descritti più avanti si rifanno a una
definizione del pensionamento parziale che è il risultato congiunto dell’autovalutazione e di
misurazioni oggettive (Ruhm, 1990). L’approccio qui utilizzato, come è stato descritto nel
paragrafo dedicato alla metodologia, ai risultati dell’autovalutazione affianca l’analisi delle
variazioni delle ore lavorate.
Gustman and Steinmeier hanno condotto una delle prime ricerche empiriche su quello che
hanno definito “pensionamento parziale”. Grazie alle prime quattro onde dello studio storico
sulle pensioni realizzato dalla previdenza americana (Social Security Administration’s
Retirement History Study—RHS), consistente in un’indagine longitudinale condotta su soggetti
maschi in età compresa tra i 58 e i 63 anni all’inizio dei rilevamenti nel 1969, si è dimostrato
che non è corretto affidarsi a un esito dicotomico (pensionato, non pensionato) se si intende
prevedere il comportamento individuale di fronte alla pensione. Il campione è stato limitato ai
maschi di razza bianca la cui occupazione principale non era un lavoro autonomo, intendendo
per “occupazione principale” il lavoro a tempo pieno svolto all’età di 55 anni. Lo studio ha
dimostrato che circa il 3% dei lavoratori non soggetti al pensionamento obbligatorio si trovava
in regime di pensione parziale in relazione all’occupazione principale, mentre nell’11% dei
casi il pensionamento parziale non riguardava l’occupazione principale. Inoltre, i pensionati
parziali aumentavano con l’avanzare dell’età. Per esempio, sull’onda del 1975 la percentuale
del campione che denunciava il pensionamento parziale evidenziava un incremento
monotonico dal 23,5% a 64 anni fino al 38% a 69 d’età (Gustman e Steinmeier, 1984).
Nel 2000 Gustman e Steinmeier si sono occupati nuovamente del pensionamento parziale
ricorrendo all’autovalutazione, anche se stavolta hanno utilizzato un insieme di dati diverso,
fornito dallo Health and Retirement Study (HRS). Se nel 1992 il 6,3% degli intervistati si
dichiarava pensionato parziale, nel 1998 questo dato era salito al 12,7%.
L’esame del reddito fornisce un altro metodo per definire il pensionamento parziale. Honig
e Hanoch (1985), utilizzando le prime tre onde descritte nei dati RHS ricordati sopra, hanno
correlato la nozione di “pensione parziale” al rapporto tra reddito individuale corrente e reddito
massimo nel corso della vita lavorativa. Se il rapporto è uguale o inferiore a 0,5 , il soggetto in
questione è un pensionato parziale. In base a tale definizione, quasi il 20% del campione si
trovava in questa condizione; di questo 20%, il 39% si considerava pienamente in pensione, il
43% in pensione parziale e il restante 18% non si riteneva affatto in pensione.
Alcuni studi hanno definito il pensionamento parziale in base al numero di ore lavorate. Per
esempio Haider e Loghran (2001), grazie ai dati forniti dal censimento Current Population
Survey, hanno scoperto che dal 1996 a tutto il 1998 il 20% di coloro in età compresa tra i 50 e
i 58 anni e il 31% di quelli tra i 59 e i 61 anni hanno lavorato a tempo parziale (meno di 1.750
ore annue). Gustman e Steinmeier (2000) sono ricorsi a due metodi per stabilire la condizione
di pensionamento parziale basandosi sulle ore di lavoro: numero di ore lavorate normalmente
alla settimana (il pensionamento parziale insorgeva tra 1 a 24 ore la settimana) e numero di ore
lavorate normalmente all’anno (tra 1 e 1,199 ore all’anno). Grazie al primo indicatore si è
stabilito che nel 1992 il 7% degli intervistati si trovava in un regime di pensione parziale,
46
percentuale poi passata al 9,3% nel 1998. Il secondo metodo di misurazione ha invece prodotto
risultati leggermente superiori, compresi tra l’8,1% del 1992 e il 10,6% del 1998.
Anche la ricerca condotta da Gustman e Steinmeier nel 2000 si basava sulle condizioni
lavorative per stabilire l’eventuale regime di pensionamento parziale. Questo insorgeva quando
il soggetto aveva abbandonato un impiego a lungo termine (e per “lungo termine” si intendeva
almeno 10 anni di assunzione) per passare a una nuova occupazione. In virtù di tale criterio, il
24% delle quattro onde descritte dai dati HRS risultava in pensione parziale, mentre se il
periodo di assunzione veniva esteso a 20 anni, la media dei pensionati parziali si attestava al
21% del totale.
Nella sua analisi dei dati RHS, Ruhm (1990) ha combinato il criterio del reddito con quello
dell’autovalutazione perché temeva che gli eventuali tagli coatti all’orario lavorativo o allo
stipendio potessero falsare la distinzione tra pensionamento totale e parziale. In base al criterio
seguito, circa la metà del totale dei lavoratori a un certo punto della loro esistenza venivano a
trovarsi in un regime di pensionamento parziale, ma solo il 6,2% aveva lasciato parzialmente
l’occupazione principale. Ruhm inoltre si è concentrato sulla durata della pensione parziale,
scoprendo che questa in media superava i cinque anni (dall’insorgere del pensionamento
parziale al pensionamento completo).
Tabella 1: Confronto tra le ricerche sul pensionamento parziale: definizioni e risultati
Autore(i) (Anno)
Definizione di
Pensionamento parziale
% compresa nel regime
di pensione parziale
Gustman e Steinmeier (1984)
Autovalutazione
33% (“in un dato momento”)
Honig e Hanoch (1985)
Reddito < 50% del reddito massimo
durante la vita lavorativa
19,7%
Ruhm (1990)
Reddito e autovalutazione
Oltre il 50% (“in un dato momento”)
Gustman e Steinmeier (2000)
Autovalutazione
Numero di ore lavorate
normalmente alla settimana
Numero di ore lavorate
normalmente all’anno
Abbandono di occupazione
ultradecennale
Abbandono di occupazione
ultraventennale
Variazione della
retribuzione oraria
Variazione della retribuzione
settimanale
dal 6,6% al 12,9%
dal 7,6% al 10,2%
Haider e Loughran (2001)
Meno di 1.750 ore annue
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, Censimenti della Popolazione.
47
dall’8,6% al 10,9%
dal 22,7% al 26,0%
dal 19,1% al 23,8%
dal 10,1% al 12,6%
dall’11,7% al 15,6%
Dal 22% per la fascia d’età
compresa tra i 55 e i 58 anni
al 72% per gli ultraottantenni
ancora occupati
3.3 Ricerche sul pensionamento progressivo
Ai fini della presente relazione, per “pensionamento progressivo” si intende una riduzione
graduale dell’attività lavorativa svolta per il datore di lavoro di lungo termine nel momento in
cui un impiegato anziano si sta avvicinando al completo pensionamento. Fino a oggi le ricerche
condotte negli Stati Uniti per stabilire quante persone si avvalgano di un tale percorso sono
state relativamente poche. Gustman e Steinmeier (1984) sono stati tra i primi a operare una
distinzione tra il pensionamento parziale e quello progressivo e hanno scoperto che il 3% del
campione analizzato apparteneva al secondo regime. Successivamente, Ruhm ha notato che il
6,2% dei lavoratori compresi nel suo campione era composto da pensionati parziali che
continuavano a essere al servizio del loro datore di lavoro principale (Ruhm, 1990: 492). Da
ultimi, Even e Macpherson (2004) hanno scoperto che il pensionamento progressivo riguarda
una percentuale di lavoratori compresa tra il 2,7% e il 14,3%, a seconda della fascia d’età.6
Secondo l’ERISA Advisory Council (2000) i dipendenti che contemplano la possibilità di
andare in pensione in genere considerano con favore l’opzione di un percorso progressivo. Uno
studio AARP (2005) ha scoperto che sebbene solo il 19% dei lavoratori anziani considerati fosse
a conoscenza dell’espressione “pensionamento progressivo”, dopo avere letto una descrizione
del suo funzionamento si avevano dimostrazioni di interesse in quasi il 40% dei casi.
Analogamente, Abraham e Houseman (2004) hanno analizzato i progetti futuri dei lavoratori
e hanno rilevato un grande interesse per un’eventuale riduzione dell’orario lavorativo.
Analizzando i dati HRS relativi alle prime cinque onde, si è scoperto che il 18% degli intervistati
avrebbe desiderato una riduzione dell’orario di lavoro, a un ulteriore 5% sarebbe piaciuto
cambiare le mansioni svolte, il 25% avrebbe voluto smettere di lavorare del tutto, quasi l’8%
non avrebbe mai voluto smettere, mentre oltre il 45% non esprimeva alcuna preferenza o dava
una risposta non compresa tra quelle appena viste. Tra chi prevedeva di smettere di lavorare,
quasi due terzi realizzavano il proprio proposito, mentre continuava a lavorare l’86% di quelli
che avevano espresso un simile auspicio. Tuttavia, solo un terzo di coloro i quali speravano in
una riduzione dell’orario lavorativo riuscivano veramente a ottenerla, e cambiava mansioni solo
il 22% degli intervistati che si erano espressi a favore di questa opzione.
La reazione dei dipendenti di fronte al pensionamento progressivo può variare a seconda
delle modalità di funzionamento del piano (cfr. per esempio Bertelsen, 1983; Berry, 1998).7 Lo
stesso studio AARP in cui il 40% dei lavoratori aveva dimostrato interesse per tale opzione
indicava anche che per il 48% degli intervistati il pensionamento progressivo avrebbe perso di
attrattiva se avesse comportato lo svolgimento di mansioni diverse per il medesimo datore di
lavoro. Inoltre, il 63% di tutti i lavoratori aveva risposto che una simile soluzione sarebbe
risultata meno attraente se accompagnata dalla riduzione delle prestazioni pensionistiche.
Analogamente, Even e Macpherson (2004) sostengono che i lavoratori che usufruiscono di
fondi pensione hanno meno probabilità di passare a un impiego a tempo parziale rispetto a chi
ne è sprovvisto e, tra quelli che fanno questa scelta, chi gode della copertura pensionistica ha
maggiori probabilità di cambiare datore di lavoro. Nel caso dei lavoratori che desiderano
ridurre l’orario lavorativo o cambiare le mansioni svolte, non risulta sempre possibile
frazionare o modificare altrimenti certe funzioni (Abraham and Houseman, 2004).
6 Even e MacPherson (2004) hanno calcolato che il pensionamento progressivo riguarda il 3,9% dei lavoratori in età compresa tra i 50
e i 54 anni, il 2,7% tra i 55 e i 59 anni, il 3,5% tra i 60 e i 61 anni, l’8,3% tra i 62 e i 64 anni e il 14,3% degli ultrasessantacinquenni.
7 Una ricerca relativa alle facoltà universitarie ha rivelato che la percentuale globale di coloro i quali lasciavano l’impiego a tempo pieno
aumentava notevolmente, mentre l’incremento dei pensionati a tempo pieno risultava minimo. Prendendo in considerazione fattori
analizzabili quali l’età, il reddito, gli anni di servizio e le caratteristiche del lavoro, i dipendenti che usufruivano di un programma di
pensionamento progressivo offerto ufficialmente dal datore di lavoro risultavano più simili a chi continuava a lavorare a tempo pieno
piuttosto che a coloro i quali optavano per il pensionamento totale. La probabilità di partecipare a questi programmi era anche legata
alle prestazioni lavorative, al carico di lavoro e alla massimizzazione del reddito individuale (Allen, Clark and Ghent, 2001). Il caso di
una grande università statale ha rivelato che la presenza di un programma di pensionamento progressivo aumentava la probabilità che
le facoltà che ottenevano i risultati peggiori dessero prima il via ai pensionamenti (Allen, 2004).
48
A proposito dell’atteggiamento di chi opta per il pensionamento progressivo, l’analisi in
Watson Wyatt Worldwide (2004) indica che nel 57% dei casi la scelta è stata volontaria e
dettata dal desiderio di disporre di più tempo libero. In questo sottogruppo, il 42% ha spiegato
che la progressività era dovuta al fatto che amava lavorare, mentre il 28% aveva bisogno del
reddito percepito continuando a lavorare. Tuttavia, il 32% dei partecipanti ai programmi di
pensionamento progressivo optava per la pensione completa, per poi tornare a lavorare parttime, nel 40% dei casi per motivi di ordine economico. Quasi il 10% degli intervistati
affermava di avere scelto il percorso progressivo a seguito di una ricomposizione delle
mansioni e il 60% di questi ultimi continuava a lavorare perché aveva bisogno dello stipendio.
Inoltre, i dati forniti da Watson Wyatt Worldwide dimostravano che il pensionamento
progressivo può influenzare il momento dell’uscita dal mondo del lavoro: quasi il 25% di coloro
i quali avevano scelto questa opzione prevedeva di continuare a lavorare dopo il compimento
del 65° anno d’età, mentre il 20% non prevedeva affatto di andare in pensione. Questi risultati
sono confermati dalle ricerche relative ai lavoratori anziani, i quali hanno espresso la
disponibilità a continuare a lavorare più a lungo di quanto preventivato qualora il datore di
lavoro avesse offerto loro programmi di pensionamento progressivo (Watson Wyatt Worldwide,
2004; AARP, 2005). Nel caso dell’indagine AARP (2005), il 78% dei lavoratori anziani
interessati al pensionamento progressivo ha affermato che una simile opzione li avrebbe
incoraggiati a lavorare anche dopo aver raggiunto l’età pensionabile. Nel corso di un’altra
indagine condotta tra i dipendenti di uno dei sistemi scolastici pubblici, il 44% degli intervistati
ha affermato che avrebbe preso in considerazione l’eventualità di posticipare il pensionamento
completo qualora fosse stata offerta una qualche forma di progressività (Bartle, 1989).
Anche i datori di lavoro vedono di buon occhio il pensionamento progressivo, ma la
maggior parte dei programmi di questo tipo non è né di ampio respiro né parte di una politica
ufficiale scritta (Watson Wyatt Worldwide, 1999; Hutchens, 2003). Un’indagine condotta su
600 grandi aziende private ha rivelato che nel 16% dei casi viene offerto un qualche
programma ufficiale per la progressività della pensione, mentre il 40% dei datori di lavoro si
dice interessato ad adottare una simile soluzione (Watson Wyatt, 1999). Nel corso di una
ricerca riguardante 950 organizzazioni pubbliche e private con almeno 20 dipendenti, Hutchens
(2003) ha scoperto che sebbene il 73% dei datori di lavoro concedesse riduzioni di orario prima
del pensionamento ufficiale, solo nel 14% dei casi esisteva una politica di progressività scritta
e ufficiale generalmente valida per i lavoratori. Programmi di questo tipo sembrano essere più
comuni tra le organizzazioni più piccole e non sindacalizzate nel settore dei servizi, anche se
sono poi le imprese di grandi dimensioni a formalizzarli più frequentemente. I college e le
università, con il loro peculiare sistema di entrata in ruolo, sembrano essere all’avanguardia per
quanto concerne la concessione del pensionamento progressivo in seno alle singole facoltà.
Un’indagine in questo settore ha rivelato che nel 27% dei casi esistono programmi ufficiali in
virtù dei quali il personale di ruolo può andare gradualmente in pensione lavorando part-time
per un certo numero di anni prima di smettere del tutto (Ehrenberg, 2001).
Spesso accadeva anche che insieme al pensionamento progressivo venissero offerte altre
tipologie di gestione delle risorse umane, come il job sharing, la flessibilità degli orari e
l’assicurazione malattia per i dipendenti a tempo parziale (Hutchens, 2003). Quasi tre quarti dei
datori di lavoro modificavano le prestazioni dell’assicurazione malattia destinate a chi iniziava
il processo di pensionamento progressivo, mentre nel 34% dei casi la copertura assicurativa
veniva a decadere.
Esistono importanti barriere giuridiche, culturali e istituzionali che ostacolano
l’applicazione generalizzata dei programmi di pensionamento progressivo. La complessità
della normativa fiscale relativa alla distribuzione e alla maturazione delle prestazioni derivanti
dai piani pensione può impedire ai datori di lavoro di gestire tali prestazioni in maniera
compatibile con i programmi di pensionamento progressivo, anche se di recente il fisco
49
americano ha avanzato proposte volte alla semplificazione di tali aspetti. Inoltre, rimangono
incerte le eventuali modalità di applicazione delle leggi contro la discriminazione basata sull’età
ai programmi di pensionamento progressivo. Un’ulteriore fonte di preoccupazione per i datori
di lavoro è data dalla possibilità che i dipendenti intacchino le prestazioni disponibili, soprattutto
nel caso di determinati piani di contributi definiti. È dunque poco probabile che i datori di lavoro
istituiscano dei programmi di pensionamento progressivo, soprattutto su larga scala, senza che
prima sia stata fatta chiarezza sugli aspetti normativi e sia stata garantita la flessibilità necessaria
ad adattare tali programmi alle necessità delle imprese (Chen e Scott, 2003).
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8 Proposta di regolamento da parte del Dipartimento del Tesoro Americano 114726-04, Federal Register, vol. 69, no. 217, 10 nov. 2004.
Le normative proposte dall’Internal Revenue Service in genere prevedono una distribuzione di assegni definiti realizzata in seno a un
programma di pensionamento progressivo “autentico”. Chi sceglie questa opzione potrebbe ricevere una quota proporzionale delle
prestazioni maturate stabilita in base alla riduzione delle ore lavorate durante il pensionamento progressivo. Il lavoratore potrebbe
continuare a maturare le prestazioni previste dal fondo pensione. La proposta si limita solo ad alcuni tipi di erogazione delle prestazioni
e non contempla altre questioni come la discriminazione in base all’età o la copertura delle assicurazioni malattia.
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53
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 54-64
Una montagna troppo lontana?
La saga dei conti individuali previdenziali negli Stati Uniti
di Sheila Bair*
Riassunto
In quanto regime che prevede la ritenuta alla fonte, nel lungo termine la previdenza sociale
si scontra con sfide importanti dovute al rapido aumento dei pensionati, al mancato rialzo dei
tassi di fecondità e all’incremento della longevità. Purtroppo, negli Stati Uniti il dibattito sui
possibili rimedi alla crisi della previdenza pubblica è stato caratterizzato da un muro contro
muro. I repubblicani, guidati dall’amministrazione Bush, si sono dichiarati a favore di un
parziale finanziamento anticipato del sistema previdenziale tramite la creazione di conti
individuali su base volontaria e una graduale diminuzione dell’indice utilizzato per definire le
prestazioni iniziali per i lavoratori ad alto reddito. Dal canto loro, i democratici non hanno
avanzato proposte di riforma, pur criticando aspramente le proposte relative ai conti individuali
in quanto tentativi di “privatizzare” la sicurezza sociale. Dopo una panoramica sulla storia dei
conti individuali e sull’attuale dibattito che li riguarda, nell’articolo si giunge alla conclusione
che un simile sistema, finanziato stornando le imposte sul ruolo paga che contribuiscono alle
prestazioni pensionistiche tradizionali, non rappresenta una strada politicamente praticabile ed
è di ostacolo a un dialogo bipartisan sulle possibilità di ovviare ai problemi di solvibilità del
sistema previdenziale. Inoltre, l’articolo sposa la strategia proposta dal senatore Robert Bennett
(repubblicano eletto nello Utah) che prevede l’avvio di negoziati con i democratici su questo
tema a prescindere dal giudizio relativo ai conti individuali.
1. Introduzione
In una conversazione informale che abbiamo avuto nel suo ufficio in presenza del suo staff,
il senatore Robert Bennett (repubblicano eletto nello Utah) ha avuto modo di affermare: “Per
quanto riguarda la previdenza sociale, il Presidente si è trovato a dover scalare due montagne.
La prima consisteva nel convincere il popolo americano che esiste un problema di solvibilità,
e la cima è stata conquistata brillantemente. La seconda prevedeva invece di perorare la causa
di una riforma strutturale e dei conti individuali. Non è ancora giunto in vetta, ma si trova in
una posizione migliore per l’assalto finale ora che può sferrarlo partendo dalla sommità della
prima montagna”.
La metafora descrive efficacemente lo stato attuale del dibattito che ha luogo negli Stati
Uniti a proposito della previdenza pubblica, una delle principali eredità del periodo del New
Deal e fonte delle prestazioni pensionistiche per vecchiaia, invalidità e superstiti per quasi 48
milioni di americani. Il Presidente ha creato le condizioni politiche per discutere apertamente
dei problemi che affliggono il sistema previdenziale, tradizionalmente considerato
Dean’s Professor of Financial Regulatory Policy, University of Massachusetts-Amherst. Questo articolo è pubblicato in inglese sui
“Geneva Papers on Risk and Insurance”, volume 30, n. 4, ottobre 2005.
*
54
l’intoccabile “terzo binario” della politica statunitense. Egli ha inoltre compiuto grandi passi
avanti nel convincere l’opinione pubblica dell’esistenza di reali problemi di solvibilità —
problemi che non faranno altro che peggiorare quanto più a lungo il Congresso tarderà
nell’affrontarli. Tuttavia, non ha ancora raggiunto un consenso sufficiente per riformare il
sistema e offrire ai suoi assistiti la possibilità di spostare una parte delle ritenute sugli stipendi
su conti individuali che potrebbero essere investiti sui mercati finanziari privati. In realtà i
sondaggi più recenti indicano che, nonostante l’intenso sforzo promozionale fatto
dall’Amministrazione, il favore del pubblico in relazione ai conti individuali sta scemando.
Il Presidente ha spalleggiato lo sforzo compiuto dal Senatore Bennett per affrontare i
democratici sul primo aspetto del dibattito (la solvibilità), pur rimanendo fortemente
favorevole ai conti individuali. Il Senatore Bennett, imprenditore di successo prima di essere
eletto al Senato 13 anni fa, è un membro molto influente della direzione del gruppo
repubblicano al Senato. L’anno scorso, durante la sua presidenza del Joint Economic
Committee, ha condotto ricerche e interventi di ampio respiro sui problemi che affliggono la
previdenza sociale. Al momento della stesura del presente articolo, stava preparando un
progetto di legge volto a far fronte al 90% degli ammanchi in termini di finanziamento
anticipato del sistema previdenziale tramite la revisione della formula utilizzata per calcolare
le prestazioni destinate ai lavoratori ad alto reddito e l’innalzamento graduale dell’età
pensionabile. Un secondo progetto di legge, che dovrebbe essere presentato più avanti nel
tempo, proporrà i conti individuali previdenziali, oltre ad altre riforme riguardanti il sistema
pensionistico privato (entrambe le proposte verranno descritte più in dettaglio nel prosieguo
dell’articolo). La strategia del Senatore Bennett consiste nell’indurre i democratici ad
abbandonare le proprie posizioni fortemente critiche nei confronti dei conti individuali
offrendo in cambio la possibilità di intavolare negoziati separati in materia di solvibilità. Come
osservato dal noto commentatore politico David Broder in un recente articolo sul Washington
Post, il problema dell’insolvenza è concreto e deve essere risolto. Se i democratici sono
persone responsabili, prenderanno Bennett in parola. Un eventuale rifiuto di fronte a una simile
offerta indicherebbe che mettono la politica davanti agli interessi della Nazione (Broder, 2005).
E gli interessi della Nazione indicano la necessità di agire — prima è, meglio è. Secondo
le stime più recenti presentate dagli amministratori dei Social Security and Medicare Trust
Funds,1 le prestazioni previdenziali rappresentano già il 4,3% del prodotto interno lordo (PIL)
e si prevede che arriveranno al 6,4% del PIL entro il 2079. Tali prestazioni sono finanziate da
un’imposta sul ruolo paga del 12,4%. Il gettito fiscale non destinato a coprire prestazioni e
spese di amministrazione viene indirizzato verso i Social Security Trust Funds2 e investito in
obbligazioni speciali emesse dal governo statunitense. Le eccedenze accumulate nei fondi
fiduciari toccheranno il loro massimo nel 2017; a quel punto, il sistema dovrà ricorrere agli
interessi sulle obbligazioni per versare gli assegni previdenziali e, a partire dal 2027, dovrà
iniziare a rimborsare il debito. Entro il 2041 si esauriranno le eccedenze e le imposte
previdenziali sul ruolo paga saranno sufficienti soltanto a coprire il 74% delle prestazioni
erogate. Di conseguenza, se il Congresso non agisce subito, gli ammanchi nei finanziamenti
Esistono sei amministratori fiduciari dei Social Security and Medicare Trust Funds, che comprendono i Segretari dei dipartimenti del
tesoro, del lavoro, della sanità e del welfare, il Commissario per la sicurezza sociale e due membri eletti dal Presidente. Ogni anno gli
amministratori forniscono una relazione sullo stato attuale e sullo sviluppo previsto dei Social Security and Medicare Trust Funds per
i 75 anni successivi.
2 Questi fondi fiduciari sono stati creati dal Dipartimento del tesoro americano per rendere conto di tutti gli introiti e le spese registrati
dal programma. I fondi rappresentano il valore accumulato, compresi gli interessi, di tutte le eccedenze precedentemente registrate.
Esistono quattro fondi fiduciari distinti. Le prestazioni per vecchiaia, invalidità e superstiti sono versate dall’Old-Age and Survivors
Insurance (OASI) Trust Fund mentre gli assegni di invalidità provengono dal Disability Insurance (DI) Trust Fund. I due fondi sono
spesso designati congiuntamente per mezzo della sigla OASDI. Per quanto concerne Medicare, anche in questo caso esistono due fondi
fiduciari: lo Hospital Insurance (HI) Fund, che copre le spese di ricovero e correlate, e il Supplementary Medical Insurance (SMI) Trust
Fund, che versa gli assegni per l’assistenza medica, ambulatoriale e — a partire dal 2006 — per le prescrizioni farmacologiche. Il
presente articolo si occupa esclusivamente delle questioni connesse all’OASDI. Come segnalato da diversi commentatori, i Medicare
Funds si trovano di fronte a problemi di solvibilità ancora più gravi, dato che le stime attuali indicano che i fondi per l’assicurazione
sanitaria saranno esauriti entro il 2020.
1
55
porteranno a tagli indiscriminati pari al 26%. Al contrario, se il Congresso prende
immediatamente l’iniziativa, il sistema potrebbe raggiungere l’equilibrio attuariale grazie a un
aumento delle imposte sul ruolo paga del 15%, alla riduzione del 13% delle prestazioni
previdenziali o a una qualche combinazione tra queste due misure. Più il Congresso aspetta,
più difficili saranno le decisioni da prendere per assicurare la solvibilità a lungo termine del
sistema.
Togliendo dall’agenda i conti individuali — almeno per il momento — i repubblicani come
Bennett sperano di dare una scossa ai negoziati e spingere i democratici a unirsi a loro o a
proporre un proprio progetto per garantire la solvibilità previdenziale a lungo termine ed
evitare di dover operare in futuro tagli indiscriminati alle prestazioni. Simili riduzioni
andrebbero a colpire in maniera sproporzionata le famiglie a basso reddito proprio perché
queste si affidano maggiormente alla previdenza sociale per vedere garantito il proprio reddito
dopo il pensionamento. Per i nuclei familiari in età pensionabile la previdenza pubblica
rappresenta in pratica l’unica fonte di sostentamento.
Il destino dei conti individuali è segnato? Oppure i problemi di insolvenza possono essere
affrontati separatamente senza impedire ai loro fautori di riprendere la battaglia in un secondo
momento? Per rispondere a queste domande è necessario dare qualche informazione
preliminare sulla storia della previdenza sociale e sull’evoluzione delle proposte di riforma in
materia.
2. Il regime contributivo: l’idea originaria di Franklin Delano Roosevelt
Naturalmente, le pecche del sistema previdenziale sono proprie di qualsiasi regime in cui i
contributi versati da chi lavora finanziano le prestazioni versate ai pensionati e ad altri
beneficiari. Questo tipo di ritenute alla fonte funziona bene quando la forza lavoro cresce a un
tasso maggiore rispetto a quello della popolazione dei percipienti. Tuttavia, negli Stati Uniti
come nel resto del mondo, si sta assistendo a un grande cambiamento demografico.
L’invecchiamento della generazione del baby boom, insieme a tassi di fecondità costantemente
bassi e all’innalzamento della speranza di vita, fa sì che in proporzione ci saranno sempre meno
lavoratori a mantenere una popolazione anziana in espansione. In effetti, negli anni Cinquanta
si avevano 16 lavoratori per ogni assistito della previdenza sociale; oggi sono poco più di tre,
tra una generazione il rapporto scenderà a poco più di due a uno.
Ironicamente, quando ha proposto per la prima volta misure legislative in materia di
previdenza sociale, il Presidente Franklin Delano Roosevelt aveva in mente un sistema di
rendite pensionistiche finanziato dai contributi dei lavoratori stessi. Nel suo messaggio rivolto
al Congresso nel gennaio 1935, fece appello a favore di pensioni di vecchiaia non contributive
per chi era troppo anziano per finanziarsi un’assicurazione da solo, parallelamente a rendite
contributive obbligatorie che nel tempo sarebbero sfociate in un sistema autosufficiente per i
giovani e le generazioni future. Di conseguenza, le due disposizioni principali sulla sicurezza
sociale adottate dal Congresso nel 1935 furono il Titolo I, che finanziava i programmi
previdenziali statali per gli anziani, e il Titolo II, il precursore del sistema odierno, che
prevedeva prestazioni basate sui contributi prelevati dal ruolo paga dei lavoratori stessi. È
interessante notare che il discorso tenuto da Roosevelt nel 1935 prevedeva anche rendite
contributive volontarie grazie alle quali l’iniziativa individuale poteva far lievitare l’importo
delle pensioni di vecchiaia. Settant’anni dopo, questo programma è ancora oggetto di
discussione.
Il nuovo programma previdenziale era volto a garantire un regime contributivo
finanziariamente stabile nel quale i lavoratori stessi contribuivano alle prestazioni
pensionistiche che avrebbero ricevuto in futuro effettuando versamenti regolari in un fondo
56
comune. Tuttavia, a causa delle necessità economiche verificatesi dopo la Grande Depressione
e della forte recessione del 1938, l’anno successivo il Congresso apportò modifiche sostanziali
al programma stesso. Nello specifico, vennero aggiunte due classi di prestazioni: quelle dei
dipendenti riservate ai pensionati e gli assegni per i superstiti, destinabili alle famiglie nel caso
della prematura scomparsa di un lavoratore assistito. Per far fronte all’aumento delle
prestazioni, invece di dar luogo a un regime in cui attività e passività si equivalessero, si optò
per un sistema volto a trasferire il reddito dalle generazioni più giovani a quelle più anziane.
Negli anni ’70 l’ulteriore rafforzamento delle prestazioni, comprendente l’adeguamento
automatico al costo della vita, e la situazione economica sfavorevole determinarono la prima
grossa crisi nel finanziamento a breve termine del sistema di previdenza sociale. Nel 1977 il
Congresso modificò in maniera incrementale sia le imposte sul ruolo paga che le prestazioni
previdenziali: una mossa del tutto inadeguata. Nel 1983 il regime previdenziale si trovò a
fronteggiare un ammanco finanziario immediato di $150-200 miliardi, oltre a una previsione
di insolvenza a lungo termine a causa del futuro pensionamento della generazione del baby
boom. Il Presidente Ronald Reagan nominò una commissione bipartisan presieduta da Alan
Greenspan la quale, dimostrando notevole visione politica, giunse ad un accordo su un
pacchetto di riforme che scongiurò la crisi immediata e permise al sistema di accantonare
eccedenze, eccedenze che continueranno ad aumentare fino al 2017. In base alle
raccomandazioni della Commissione Greenspan, il Congresso apportò numerose modifiche al
sistema, per esempio tassando le prestazioni previdenziali, prevedendo il graduale aumento
dell’età pensionabile e includendo i dipendenti federali tra gli assistiti.
La Commissione Greenspan aveva guadagnato tempo ma non era riuscita a risolvere i
problemi di solvibilità a lungo termine del sistema. L’Amministrazione Clinton incaricò tre
commissioni nazionali di analizzare le eventuali possibilità di riforma: si trattava della
Bipartisan Commission on Entitlement and Tax Reform (1993-1995), dell’Advisory Council
on Social Security (1994-1996) e della National Commission on Retirement Policy (19971998). Tutte e tre le commissioni stilarono relazioni in cui i conti individuali erano annoverati
tra le opzioni valide per la riforma. I commenti della stampa indicano che i funzionari del
Tesoro avevano preso in seria considerazione una soluzione di questo genere, ma
l’Amministrazione Clinton non avanzò alcuna proposta ufficiale in tal senso.
3. Gli sforzi dell’Amministrazione Bush mirati a una riforma strutturale
Nel corso della sua prima campagna presidenziale, il Governatore Bush fece riferimento ai
conti individuali come a un tassello della sua generale visione della “società dei proprietari”,
secondo la quale la proprietà non avrebbe dovuto essere appannaggio di un club esclusivo, né
si poteva riservare l’indipendenza a una comunità ristretta: tutti avrebbero dovuto essere
comproprietari del sogno americano.
Durante il primo anno della sua Amministrazione, il Presidente Bush nominò una
commissione bipartisan per esaminare le riforme strutturali — ivi compresi i conti individuali —
volte a garantire la sopravvivenza della previdenza sociale. La commissione — presieduta
dall’ex senatore democratico Daniel Patrick Moynihan in coabitazione con il dirigente
d’azienda Richard Parsons — presentò la relazione finale nel dicembre 2001, concludendo che
era giunto il momento di introdurre i conti individuali. Nella relazione venivano illustrati tre
modelli di riforma e in tutti si prevedevano mezzi alternativi che permettessero ai lavoratori di
“ritagliarsi” una piccola fetta di imposte sul ruolo paga da investire sui mercati azionari e
obbligazionari. Le tradizionali prestazioni sarebbero state controbilanciate dai contributi
destinati ai conti individuali dei lavoratori. Nel perorare questa soluzione, la Commissione
elencò i principali argomenti a favore:
57
•
•
•
•
•
•
i conti individuali avrebbero garantito una parte dei finanziamenti anticipati dei redditi
pensionistici, rafforzando così la stabilità finanziaria del sistema, che a sua volta sarebbe
risultato più sostenibile.
Le pensioni sarebbero state più sicure perché i conti individuali facilitano la creazione di
ricchezza da parte dei singoli assistiti dalla previdenza sociale. Sulla scorta di ricerche
universitarie, la Commissione Moynihan scoprì che la proprietà patrimoniale contribuisce
al verificarsi di mutamenti psicologici e comportamentali comprendenti anche una
maggiore sensazione di sicurezza economica e una più spiccata propensione al risparmio.
La proprietà patrimoniale avrebbe aumentato la sicurezza, se il diritto alle prestazioni fosse
stato costantemente oggetto di contrattazione politica. Analogamente a qualsivoglia diritto
acquisito su scala federale, le prestazioni previdenziali risentono di eventuali cambiamenti
delle regole, mentre i conti individuali risentirebbero meno di eventuali interventi del
Congresso.
I conti individuali rappresenterebbero proprietà ereditabili. La Commissione Moynihan
scoprì che la possibilità dar luogo alla successione sarebbe un vantaggio in particolare per
i lavoratori maschi afroamericani e per altri gruppi demografici caratterizzati in genere da
redditi più bassi e inferiore speranza di vita.
I conti individuali permetterebbero ai singoli di ricevere utili maggiori sui contributi sul
ruolo paga. La maggior parte delle stime indica che nel sistema tradizionale i rendimenti
dei contributi derivati dall’imposta sul ruolo paga si aggirano attorno al 2%, mentre i
lavoratori potrebbero aspettarsi guadagni notevolmente maggiori da adeguati investimenti
sui mercati finanziari, ottenendo così un incremento delle prestazioni globali.
Con tutta probabilità i conti individuali determinerebbero un aumento del risparmio a
livello nazionale e incoraggerebbero la partecipazione alla popolazione attiva. Poiché le
eccedenze della previdenza sociale storicamente sono state usate per permettere la spesa in
disavanzo da parte dello Stato, la Commissione giunse alla conclusione che, destinando
parte delle imposte sul ruolo paga ai mercati finanziari, il risparmio sarebbe aumentato a
livello nazionale. Inoltre la Commissione scoprì che i conti individuali avrebbero fornito un
incentivo alla partecipazione alla popolazione attiva perché i contributi avrebbero corso un
minor rischio di essere considerati delle “tasse”.
Nonostante le reiterate raccomandazioni e le probanti analisi fornite dalla Commissione,
l’Amministrazione Bush, consapevole del fatto che i conti individuali si prestavano facilmente
alla manipolazione politica, decise di incoraggiare ulteriormente il dibattito pubblico in
proposito. Tuttavia, all’inizio del secondo mandato presidenziale, per l’Amministrazione Bush
la riforma della previdenza sociale e i conti individuali si trasformarono in una questione
interna di primo piano. Il Presidente e l’intera squadra economica portarono avanti un intenso
sforzo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui problemi di insolvenza a lungo termine
del sistema previdenziale e sull’importante ruolo svolto dai conti individuali per una durevole
riforma strutturale. Con eguale energia, gli oppositori — che comprendevano i parlamentari
democratici e organizzazioni di base come l’associazione dei pensionati americani (American
Association of Retired Persons — AARP) — denunciavano i conti individuali come un
tentativo di “privatizzare” la previdenza sociale. Le argomentazioni principali addotte in questo
senso erano le seguenti:
• Assorbendo parte delle imposte sul ruolo paga, i conti individuali peggiorano la solvibilità
e rendono ancor più necessari i tagli alle prestazioni e gli aumenti fiscali. I conti individuali
assorbirebbero ricchezza alcuni decenni prima di vedere controbilanciata la riduzione delle
prestazioni tradizionali. Per esempio, se ai lavoratori fosse concesso di contribuire ai conti
individuali per il 2% del ruolo paga in cambio di una riduzione delle prestazioni
tradizionali, al valore attuale non ci sarebbero conseguenze sul sistema previdenziale.
Tuttavia il flusso di cassa risulterebbe negativo oltre i 45 anni — il lasso di tempo
58
•
•
•
•
necessario affinché le prestazioni compensative superino il reddito reindirizzato (Orszag,
2004).
I conti individuali esporrebbero gli assistiti al rischio di mercato, che potrebbe rivelarsi
maggiore nel caso dei lavoratori a basso reddito perché in materia di investimento non
dispongono delle stesse competenze di chi percepisce redditi elevati. Dato che le pensioni
private hanno sposato sempre più la strategia dei fondi di contribuzione definita come quelli
denominati 401(k) e IRA, i quali chiedono al lavoratore di assumersi il rischio di mercato
dei propri investimenti, non ha molto senso incrementare ulteriormente tali rischi tramite la
previdenza sociale. Il lavoratori hanno bisogno di almeno una fonte di reddito stabile e
affidabile che tenga il passo dell’inflazione e perduri finché rimangono in vita.
Difficilmente i conti individuali offriranno le stesse garanzie delle prestazioni previdenziali
nei confronti dell’inflazione, del rischio di esaurire il proprio patrimonio e — per chi è a
carico — in caso di decesso prematuro del lavoratore. Di conseguenza, anche se il fatto che
siano “ereditabili” può rappresentare un vantaggio per i lavoratori che vivono meno a lungo
della media, i conti individuali non garantirebbero lo stesso reddito ai famigliari a carico e
ai superstiti.
I conti individuali indurranno gli assistiti del sistema previdenziale a usufruire
anticipatamente delle relative prestazioni, il che potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza
della pensione.
In assenza di eccedenze di bilancio o di aumento delle imposte, i conti individuali non
contribuiscono al risparmio nazionale, oltre a rendere più incerto il futuro della previdenza
sociale a causa della riduzione dei finanziamenti alle prestazioni correnti.
Nonostante i grandi sforzi compiuti dall’Amministrazione americana per estendere il
consenso popolare sui conti individuali, i sondaggi hanno sempre dimostrato che le
argomentazioni opposte riuscivano a far presa sulla maggioranza della popolazione. Secondo
l’ultima ricerca Gallup, realizzata il 30 giugno 2005, solo il 44% degli intervistati era favorevole
ai conti individuali, mentre il 53% si dichiarava contrario. Le opinioni politiche spiegavano la
divisione più netta, essendo due terzi dei repubblicani favorevoli all’idea, mentre quasi tre quarti
dei democratici erano contrari. Ma anche le differenze tra fasce d’età risultavano quasi altrettanto
nette: il 57% degli intervistati di età compresa tra i 18 e i 29 anni vedeva di buon occhio i conti
individuali, così come il 51% del gruppo compreso tra i 30 e i 49 anni d’età. Al contrario, si
opponeva il 63% di chi aveva tra i 50 e i 64 anni e il 57% degli ultrasessantacinquenni. Il favore
relativamente marcato di cui godevano i conti personali tra le generazioni più giovani trova
conferma in un’indagine informale che ho condotto tra i miei studenti, che nella maggior parte
sono convinti democratici. In genere essi pensano che, quando andranno in pensione, del sistema
di previdenza sociale non sarà rimasto nulla, quindi preferiscono i conti individuali perché li
rendono proprietari di un patrimonio. Ma non si tratta dell’unica ragione. Uno studente, tra l’altro
un oppositore particolarmente fiero dell’amministrazione Bush, mi ha detto che era favorevole ai
conti individuali perché non voleva che le imposte sul ruolo paga da lui versate a fini
previdenziali finissero per finanziare la guerra in Iraq voluta dal Governo.
4. Entra in scena il Senatore Bennett
In questo scenario, il Senatore Bennett si è fatto avanti con un progetto legislativo
caratterizzato da un doppio approccio. In primo luogo, come si è avuto modo di dire, desidera
affrontare separatamente i problemi di insolvenza della previdenza sociale e la questione dei
conti individuali. Sebbene sia un convinto fautore di questi ultimi, vuole evitare che lo scarso
favore di cui godono sia d’inciampo al tentativo di evitare l’insolvenza del sistema
previdenziale nel lungo periodo. La proposta di legge volta a coprire gli ammanchi finanziari
a lungo termine della previdenza sociale prevede tre componenti.
59
5. Indicizzazione progressiva
Quando l’amministrazione responsabile della previdenza sociale stabilisce la pensione
iniziale2 di un lavoratore, ne rettifica i redditi precedenti in base all’aumento dei salari. In
media i salari crescono più dell’inflazione in ragione di circa l’1% annuo, per cui le prestazioni
iniziali così calcolate risultano notevolmente superiori rispetto a una pensione determinata in
base all’aumento dei prezzi. La differenza può risultare ragguardevole. Se lo stipendio fosse
indicizzato rispetto all’inflazione, chi guadagnava $20.000 nel 1970 oggi percepirebbe
$97.454. In altre parole, i $97.454 di oggi garantiscono lo stesso potere d’acquisto che si aveva
nel 1970 con $20.000. Tuttavia, se lo stipendio fosse indicizzato sulla crescita dei salari, oggi
la stessa persona guadagnerebbe $119.000. L’indicizzazione dei salari tiene conto di tutti i
fattori che hanno condotto al miglioramento dello standard di vita e garantisce che le pensioni
iniziali cresceranno nel tempo più dell’inflazione. Nell’esempio riportato sopra, il risultato fa
pensare che il lavoratore in questione percepisca il 20% in più del reddito effettivo (Joint
Economic Committee, 27 aprile 2005).
Le opinioni circa l’opportunità di passare dall’indicizzazione basata sui salari a un sistema
basato sui prezzi sono discordi. Robert Pozen, esperto finanziario democratico e membro della
Commissione Moynihan, ha proposto un approccio denominato “indicizzazione progressiva”,
a sua volta fatto proprio dal Senatore Bennett e valutato positivamente dal Presidente Bush. In
base a questo sistema, per chi rientra nella fascia salariale più bassa (meno di $25.000 annui),
ai fini del calcolo della pensione iniziale gli stipendi passati continuerebbero a essere
indicizzati in base all’aumento dei salari. Chi si trova nella fascia più alta (oltre $113.000
annui) sarebbe soggetto all’indicizzazione basata sulla variazione dei prezzi, mentre i
lavoratori della fascia intermedia vedrebbero i propri stipendi passati rettificati secondo un
“mix progressivo” di aumenti salariali e inflazione (Pozen, 2004).
6. Indicizzazione in base alla longevità ed età pensionabile
Per gli americani che compivano 65 anni nel 1945 la speranza di vita media era di 78 anni.
Per chi compie 60 anni oggi siamo arrivati a 83 ed entro il 2040 arriveremo a 85 anni. Un simile
sviluppo demografico, oltre al mero numero di pensionati della generazione del baby boom,
rappresenta uno dei principali fattori che nel lungo periodo determineranno l’insolvenza della
previdenza sociale. Praticamente tutti gli esperti di politiche pubbliche che hanno parlato al
Congresso si sono raccomandati di affrontare il problema riducendo le prestazioni nel corso
dell’esistenza, innalzando l’età pensionabile o combinando in diversi modi queste due
soluzioni. Purtroppo, anche se gli esperti in materia vedono di buon occhio l’innalzamento
dell’età pensionabile, si tratta di una delle opzioni meno amate dagli americani, i quali, stando
ai sondaggi, vogliono andare in pensione prima e non dopo.
Con gli emendamenti del 1983 l’età a cui un lavoratore può ritirarsi dall’attività e percepire
la pensione per intero (definita Età Pensionabile Normale — Normal Retirement Age o NRA)
sarà gradualmente portata a 67 anni nel 2022. La proposta di legge del Senatore Bennett
prevede una leggera accelerazione, in virtù della quale la NRA sarà di 67 anni già nel 2017. In
seguito le pensioni iniziali verranno corrette periodicamente per tenere conto delle variazioni
nella speranza di vita media dei futuri pensionati.
2 Una volta stabilite le prestazioni iniziali, la previdenza sociale statunitense calcola gli adeguamenti automatici annui in base al costo
della vita (cost of living adjustments — COLAs), indicizzati sui prezzi al consumo (Consumer Price Index). Molti economisti ritengono
che l’indice dei prezzi al consumo sopravvaluti gli incrementi del costo della vita, ma si tratta di una questione distinta che non viene
affrontata nel disegno legge di Bennett.
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Protezione dei lavoratori disabili: il Senatore Bennett prevede di non applicare le modifiche
alle formule per il calcolo delle pensioni a chi è affetto da invalidità. Una volta andati in
pensione e dopo aver iniziato a percepire gli assegni versati dal fondo Old Age and Survivor
Trust Fund, si procederebbe a modificare le formule per il calcolo delle prestazioni.
La proposta del Senatore Bennett si occupa esclusivamente della parte dell’equazione che
riguarda le prestazioni e per questo è già stata criticata da alcuni democratici che probabilmente
preferiscono aumentare le tasse per ristabilire la solvibilità del sistema. L’eventualità che il
Senatore Bennett riesca a portarli al tavolo dei negoziati dipenderà dai calcoli politici che essi
faranno per stabilire che cosa sia meno dannoso:
1) sviluppare una proposta per risolvere il problema che comporterà necessariamente un
aumento delle tasse, tagli alle prestazioni o entrambi i provvedimenti;
2) non fare nulla, peggiorando il taglio alle prestazioni e l’aumento delle tasse necessari in
futuro. A complicare la vita al Senatore Bennett vi sono alcuni senatori repubblicani dell’ala
conservatrice che insistono affinché la solvibilità e i conti individuali siano affrontati nello
stesso pacchetto. Egli deve riuscire a convincere da un lato i senatori democratici del fatto
che hanno tutto l’interesse a negoziare e dall’altro i fautori dei conti individuali del fatto
che un eventuale accordo sulla questione della solvibilità non pregiudicherebbe la
possibilità di arrivare a una riforma strutturale.
Che cosa direbbe il Senatore Bennett in materia di conti individuali? La sua proposta
prende atto del fatto che i conti individuali a fini previdenziali sono solo uno dei fattori volti a
garantire la sicurezza della crescente comunità dei pensionati americani. Di conseguenza, tiene
conto della necessità di operare riforme strutturali sia nel sistema previdenziale pubblico che
nel regime pensionistico privato.
Conti individuali previdenziali “intagliati”: in opposizione ai conti “ritagliati” previsti da
altre proposte in materia, il Senatore Bennett proporrebbe di “intagliare” volontariamente tali
conti. Secondo quest’approccio, il lavoratore destinerebbe un ulteriore 2% del proprio
stipendio a un conto individuale. Se opta per questa soluzione, sul conto individuale verrebbero
versati anche contributi dalle imposte sul ruolo paga in ragione del 2% dello stipendio
considerato. Le prestazioni offerte dal sistema tradizionale verrebbero rettificate per
rispecchiare il minore livello contributivo del lavoratore in questione.
L’approccio basato sull’”intaglio” — cioè sul fatto che i lavoratori contribuiscano a
finanziare i conti individuali con ulteriori contributi volontari sul ruolo paga — dovrebbe servire
a ridurre i costi transitori determinati dai conti “ritagliati”, cioè quelli finanziati interamente
tramite le imposte sul ruolo paga già in vigore. In questo modo, si controbatte a uno dei
principali argomenti addotti in opposizione ai conti individuali, ovvero il fatto che, anche se nel
lungo periodo finiscono per migliorare la solvibilità del sistema, nella fase di transizione essi
non fanno che peggiorare i problemi finanziari della previdenza sociale, spostando risorse fiscali
che altrimenti verrebbero destinate a contribuire alle prestazioni tradizionali.
Il Senatore Bennett risponderebbe a chi dubita che sia opportuno che, per mezzo dei conti
individuali, i lavoratori si assumano il rischio di mercato limitando le possibilità di
investimento al ventaglio relativamente ristretto oggi disponibile per i dipendenti federali in
base al programma Thrift Savings Plan (TSP). Il TSP si configura essenzialmente come un
programma di tipo 401(k) destinato a chi lavora per il governo federale. Creato nel 1986, è
caratterizzato da cinque possibilità di investimento ben distinte: un fondo di investimento (di
società) a rendimento fisso, un fondo d’investimento indicizzato in azioni ordinarie, un fondo
indicizzato in titoli a bassa capitalizzazione; un fondo d’investimento indicizzato in titoli
internazionali. I fondi sono ben gestiti e le spese contenute, perciò hanno riscosso un notevole
successo tra i dipendenti federali, con una partecipazione superiore all’85%.
Riforma delle pensioni private: il pacchetto del Senatore Bennett prevederà anche riforme
61
volte a far crescere la partecipazione ai regimi pensionistici privati, aumentando la quota di
risparmio a essi destinata. Il progetto si basa sulle ricerche condotte dal Professor Richard H.
Thaler presso l’Università di Chicago nel tentativo di conciliare le moderne teorie psicologiche
e le analisi economiche. Gli studi svolti da Thaler hanno stabilito che la partecipazione dei
dipendenti ai programmi pensionistici promossi dai datori di lavoro è soprattutto il frutto
dell’inerzia: se l’adesione viene resa automatica, i tassi di partecipazione si alzano a dismisura.
Parlando al Congresso, Thaler ha citato il caso di una società che registrava un tasso di
partecipazione al proprio progetto 401(k) pari al 49% dei nuovi assunti. In questo caso si era
ricorsi all’adesione esplicita: i dipendenti dovevano riempire un modulo in cui affermavano di
voler partecipare al programma. A un certo punto la società è passata al silenzio-assenso, cioè
ha comunicato ai dipendenti che sarebbero stati inseriti automaticamente nel programma
401(k) a meno che non avessero firmato un modulo con cui chiedevano di esserne esclusi. In
seguito a questa variazione, il tasso di adesione tra i neoassunti è schizzato all’86% (Thaler, 10
marzo 2004)
Inoltre Thaler ha scoperto che è più facile convincere i lavoratori a risparmiare in futuro
invece di aumentare la fetta di reddito attualmente destinata al risparmio. Di conseguenza, con
il suo collaboratore Shlomo Benartzi della University of California at Los Angeles (UCLA), ha
sviluppato il Save More Tomorrow Plan (progetto “Risparmia di più domani”), noto anche con
la sigla SMarT, in base al quale i datori di lavoro contattano i lavoratori pochi mesi prima del
successivo scatto di stipendio, chiedendo se desiderano aumentare la quota di risparmio nel
momento in cui ricevono l’aumento. Come nel caso del silenzio-assenso, SMarT ha riscosso
un enorme successo. Thaler menziona un esempio in cui oltre l’80% dei dipendenti contattati
ha aderito al programma, quadruplicando il proprio tasso di risparmio nel giro di due anni.
Le proposte del Senatore Bennett tengono conto dei risultati della ricerca nella misura in
cui spingono i datori di lavoro a imporre l’adesione automatica (silenzio-assenso) ai
programmi 401(k) e altri piani pensionistici fondati sulla sospensione d’imposta, oltre a offrire
programmi del tipo “SMarT” per permettere ai dipendenti di risparmiare automaticamente una
percentuale maggiore dei futuri aumenti di stipendio.
Come incentivo, secondo il progetto di legge di Bennett, i datori di lavoro che offrono
questi programmi sarebbero considerati in regola con diversi requisiti anti-discriminazione —
norme complesse volte a garantire che i benefici fiscali associati ai piani pensionistici per i
dipendenti non vadano indebitamente a vantaggio dei lavoratori con gli stipendi più alti. Se le
ricerche di Thaler sono affidabili, l’adozione generalizzata dell’adesione automatica ai
programmi SMarT potrebbe portare a un sensibile miglioramento del tasso di risparmio tra i
lavoratori americani.
7. Ce la farà il Senatore Bennett?
Il dibattito sulla sicurezza sociale è giunto a un’impasse a causa dei conti individuali. La
strategia del Senatore Bennett sembra la più promettente se si desidera dare una scossa ai
negoziati sulla solvibilità pur continuando a permettere ai repubblicani di fare pressione a
favore dei conti individuali. I fautori di questi ultimi — i quali possono contare sul migliore
portavoce possibile, il Presidente Bush — negli ultimi 18 mesi si sono adoperati senza
risparmiarsi per spiegarne i benefici al pubblico. Tuttavia, le buone politiche non sempre sono
realizzabili. I medesimi cambiamenti demografici causa dei problemi finanziari della
previdenza pubblica sono in parte responsabili del clima politico ostile alle riforme strutturali.
Gli americani in pensione o prossimi al pensionamento aumentano vertiginosamente e
dispongono di lobby molto sofisticate ed efficaci che si oppongono ai conti individuali. Gli
anziani sono quelli che meno hanno da guadagnare — e più da temere — dai conti individuali
62
per via dall’andamento dei costi di transizione. I lavoratori più giovani — quelli che hanno più
da guadagnare dai conti individuali e da perdere a seguito dei futuri tagli alle prestazioni se il
Congresso continuerà a non fare nulla — formano una forza politica meno potente e non
dispongono di una lobby organizzata in maniera efficiente. Inoltre, le associazioni di anziani e
i loro rappresentanti sono spinti da motivazioni più forti perché si trovano a dovere difendere
in concreto le prestazioni tradizionali. Al contrario, per i giovani i conti individuali non sono
altro che un’astrazione politica.
Tutto quello che si poteva fare per promuovere i conti individuali è stato fatto e più si va
avanti, più il consenso pubblico sembra scemare, invece di crescere. Inoltre, il muro contro
muro a livello politico sulla questione impedisce un dialogo costruttivo in un settore in cui tutte
le generazioni desiderano che si faccia qualcosa per garantire la solvibilità del sistema. Forse
è il caso di mettere da parte i conti individuali, almeno per un po’. Le richieste insistite affinché
i tentativi di riforma affrontino entrambe le questioni simultaneamente potranno solo condurre
a un atteggiamento ancor più demagogico da entrambe le parti sul problema della
“privatizzazione” della previdenza sociale, spaventando ulteriormente gli americani e
contribuendo a nascondere il fatto che i fautori dei conti individuali non sono riusciti a
presentare una proposta alternativa.
Inoltre, chi è favorevole ai conti individuali dovrebbe prestare orecchio alle proposte di
modifica avanzate dal Senatore Bennett. Persino i democratici hanno ammesso che i conti
individuali potrebbero favorire i lavoratori a basso reddito, di cui solo un quinto aderisce a
piani di pensionamento privati tipo 401(k) o IRA. I democratici hanno fatto capire che
appoggerebbero i conti individuali che si configurassero come “strumenti paralleli”, cioè
finanziati da contributi aggiuntivi rispetto alle imposte sul ruolo paga. L’opera di “intaglio” che
caratterizza l’approccio del Senatore Bennett rappresenta un buon compromesso tra il
“ritaglio” dei conti e le mere “aggiunte”. Adottando tale approccio, da astrazione politica i
conti individuali diventerebbero una realtà concreta, otterrebbero un maggior consenso e forse
si creerebbe un clima migliore anche per riforme di più ampio respiro.
Recentemente mi è capitato di chiedere al mio ex datore di lavoro, il Senatore Robert Dole,
nel 1983 Presidente della Commissione finanze al Senato e co-presidente della Commissione
Greenspan, perché allora si era riusciti a raggiungere un accordo bipartisan, mentre oggi
sembra impossibile. La risposta è stata semplicissima: “Dovevamo fare qualcosa o non sarebbe
stato possibile pagare le pensioni”. Speriamo che il Congresso stavolta non aspetti di scorgere
una crisi dietro l’angolo prima di agire. Le decisioni si faranno più difficili ogni anno che passa.
Io sono un esponente della generazione del baby boom ma un sistema previdenziale insolvente
non è il tipo di eredità che desidero lasciare ai miei figli, e penso che altri esponenti della mia
generazione siano d’accordo con me.
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64
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 65-81
Lavorare oltre i 60 anni:
aspetti fondamentali e raccomandazioni
di Geneviève Reday-Mulvey*
Riassunto
Questo articolo dedicato al lavoro oltre i 60 anni consiste innanzitutto in una breve
panoramica su alcuni aspetti e risultati illustrati in un volume pubblicato di recente dall’autore,
in cui si dimostra come i vincoli demografici e pensionistici possano rappresentare una sfida
costruttiva alla luce dei nuovi scenari sociali e occupazionali, oltre ad analizzare il modo in cui
la riduzione dell’orario lavorativo e la promozione della gestione dell’età possono contribuire
al prolungamento della vita lavorativa. Nella seconda parte dell’introduzione si riporta un
estratto del capitolo 9 del libro, riguardante il bisogno di equità, diversità e flessibilità. Nella
terza parte si riassumono le principali raccomandazioni politiche fatte.
Parole chiave: occupazione; pensioni; lavoratori anziani; politiche pubbliche sociali e
occupazionali; gestione dell’età in azienda.
1. Introduzione
A causa dei cambiamenti demografici presenti e futuri, tutti i membri dell’UE hanno
recentemente proceduto a importanti riforme dei sistemi pensionistici. Tali innovazioni in
genere prevedono l’innalzamento dell’età pensionabile, (o l’aumento degli anni di
contribuzione), una maggiore flessibilità riguardo al pensionamento obbligatorio e sforzi tesi a
estendere il periodo di contribuzione necessario a ricevere le prestazioni pensionistiche nella
loro interezza. In poche parole, si incoraggiano un pensionamento tardivo e più flessibile e la
combinazione di pensione e reddito da lavoro. I responsabili a livello politico e la
Commissione europea1 hanno anche compreso che per applicare tali riforme e rispondere in
maniera efficace alle sfide demografiche è essenziale rafforzare il tasso di attività dei lavoratori
“anziani”. Se è diventato chiaro perché sia necessario lavorare oltre i 60 anni, rimane da
decidere chi e come sia chiamato a farlo.
Nel contesto del Programma dei quattro pilastri, l’Associazione di Ginevra, già da 20 anni
consapevole della necessità di definire politiche globali in grado di affrontare la crisi dei nostri
sistemi di previdenza sociale, si è fatta promotrice del prolungamento flessibile della vita
lavorativa (il “quarto pilastro”), uno dei passi essenziali da compiere per garantire il
finanziamento delle pensioni in futuro.2 Tuttavia, se si vuole che il prolungamento della vita
lavorativa risulti fattibile e sufficientemente generalizzato, è necessario tenere in
The Geneva Association, 53, rue di Malagnou 1208, Switzerland, E-mail: [email protected]. Geneviève
Reday-Mulvey è a capo del Programma dei Quattro Pilastri presso l’Associazione di Ginevra e nel 2005 ha pubblicato il libro Working
Beyond 60: Key Policies and Practices in Europe, Palgrave Macmillan, Basingstoke. Questo articolo è apparso in inglese sui Geneva
Papers on Risk and Insurance, volume 30, n. 4, ottobre 2005.
1 European Commission (2003a, b).
2 Delsen and Reday-Mulvey (1996).
*
65
considerazione i desideri e le necessità di lavoratori e aziende. Il Programma dei quattro pilastri
si è concentrato sull’idea del pensionamento graduale innanzitutto come possibile modalità di
transizione tra l’uscita dal mondo del lavoro e il raggiungimento dell’età pensionabile e in
seconda battuta in quanto percorso “naturale” verso il prolungamento della vita lavorativa. È
emerso che part-time e flessibilità riflettono i recenti cambiamenti avvenuti a livello di mercato
del lavoro, del settore dei servizi e delle nuove strutture sociali che influiscono sul ciclo
biologico. Si è quindi proposto di affiancare politiche mirate a incoraggiare impieghi part time
e flessibili dopo i 60 anni ad altre misure volte alla gestione dell’età (per esempio la formazione
permanente o continua), parallelamente a una diversificazione delle carriere che permetta ad
alcune categorie di lavoratori di andare in pensione prima di chi svolge compiti di natura
principalmente intellettuale.
2. Breve panoramica sui contenuti del volume Working Beyond 60
2.1 Lavorare oltre i 60 anni: perché? Limiti e opportunità
Probabilmente è l’allungamento della vita la conquista principale del XX secolo: non solo
si vive più a lungo, ma si è anche avuto un miglioramento delle condizioni di salute della
popolazione di età compresa tra i 60 e gli 80 anni. Rispetto a mezzo secolo fa, le persone
vivono in buona salute tra 10 e 20 anni di più. Non è solo la vecchiaia a durare di più: anche
l’età adulta si è allungata e i giovani oggi possono dedicare allo studio un numero maggiore di
anni. Di conseguenza, si va in pensione prima che si sia superata la soglia della terza età, che
dunque va ridefinita perché non corrisponde più al momento del pensionamento, tantomeno a
quello dell’abbandono della vita attiva.3 Rimane però senza risposta la domanda più
importante: come riusciremo a finanziare 20 anni di pensione per gli uomini e 25 per le donne
(media delle proiezioni nell’Europa dei 15)?
Nel corso degli ultimi due decenni, il prepensionamento è diventato una pratica
generalizzata e si è progressivamente trasformato in un importante paradosso sociale,
costituendo spesso un’esperienza difficile per i lavoratori a causa della mancanza di un periodo
di transizione vero e proprio tra lavoro e pensione a tempo pieno. Il problema derivante da
un’uscita relativamente anticipata dal mercato del lavoro si è fatto sempre più pressante man
mano che si allungava la speranza di vita in buone condizioni di salute, per cui un numero
crescente di sessantenni restava attivo e sano pur essendo estromesso del tutto dal mondo
lavorativo. In diversi Paesi, soprattutto nell’Europa continentale (per esempio Germania,
Francia, Italia, Paesi Bassi e Austria), e in molte aziende (in particolare quelle più grandi)
questa situazione è stata e continua a essere ritenuta da molti un nuovo “diritto sociale”.4
Previsioni demografiche e limiti di bilancio hanno costretto i membri OCSE a una profonda
revisione e a un aggiornamento dei rispettivi sistemi previdenziali, soprattutto per quanto
riguarda i regimi pensionistici. Rimane però la questione principale: come rendere possibile il
lavoro dopo i 60 anni? Come incoraggiare aziende e dipendenti ad adottare un approccio
costruttivo che renda possibile per entrambi prolungare il rapporto di lavoro oltre i limiti odierni?
2.2 Nuovi scenari sociali e occupazionali
Negli ultimi anni, per la maggior parte di noi il ciclo biologico è profondamente mutato:
l’organizzazione della vita lavorativa in tre periodi verticali distinti in base all’età (formazione,
3
4
Auer and Fortuny (2000).
Guillemard (2003).
66
lavoro e pensione) sta gradualmente cedendo il passo a una classificazione orizzontale in cui
studiamo, lavoriamo, mettiamo su famiglia, passiamo il tempo libero e andiamo in pensione
secondo modelli diversi da quelli seguiti in passato. La formazione continua e permanente
cominciano a essere considerate parti integranti dell’esistenza e dell’esperienza professionale
di ciascuno; il tempo parziale e il lavoro flessibile hanno guadagnato molto terreno; la maggior
parte delle persone non è più “anziana” a 60 o 65 anni (rimaniamo giovani e in buona salute
per più anni: O. Giarini parla di svecchiamento5) e molti “invecchiano attivamente”, svolgendo
attività di volontariato e compiti in ambiente famigliare che sono essenziali per le nostre
comunità. L’andare in pensione da un giorno all’altro era una temibile mannaia per generazioni
di lavoratori che, in base alle indagini effettuate, desiderano fortemente un periodo di
transizione tra l’impiego a tempo pieno e il pensionamento completo. L’effetto di coorte farà
sì che chi va in pensione oggi (e ancor più chi lo farà nei prossimi anni e decenni) è e
continuerà a essere molto diverso dai pensionati di ieri, i quali hanno iniziato a lavorare quando
erano molto giovani, spesso in condizioni disagiate.
Le nuove tendenze occupazionali sono favorevoli al prolungamento dell’età lavorativa oltre
i 60 o anche i 65 anni. Se non consideriamo solo le attività strettamente appartenenti al terziario
ma anche i servizi prestati nella produzione e nell’agricoltura (per esempio ricerca,
pianificazione, marketing, manutenzione, gestione magazzini, controllo qualità, sicurezza e
igiene sul lavoro, distribuzione), oggi l’80% delle occupazioni svolte nella nostra economia
rientra tra i servizi e questa percentuale è destinata a crescere nei prossimi anni. Nel settore nei
servizi, non solo il lavoro part-time e flessibile è più frequente, ma gran parte delle mansioni
prevede soprattutto competenze intellettuali e sociali. Le seconde difficilmente peggiorano col
tempo e in certi casi possono persino migliorare. Non solo la manodopera è invecchiata ed è
caratterizzata da un tasso di partecipazione femminile più alto, le donne e gli anziani
rappresentano risorse disponibili non ancora sfruttate. Tuttavia, si tratta di due categorie di
lavoratori spesso impiegate part-time nei servizi e che si dichiarano disposte a lavorare anche
dopo aver compiuto 60/65 anni se viene loro offerta la possibilità di flessibilizzare le proprie
mansioni. Quindi, eventuali politiche volte ad aiutare donne e anziani a conciliare il lavoro con
gli impegni familiari e i limiti fisici, migliorando le prestazioni pensionistiche, daranno un
contributo tangibile nel far fronte alla sfida posta dall’invecchiamento della popolazione. Il
miglioramento dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro permetterà agli anziani di
condurre una vita attiva più lunga.
2.3 Lavorare oltre i 60 anni: come? Riduzione dell’orario di lavoro e promozione della
gestione dell’età
2.3.1 Riduzione dell’orario di lavoro
La riduzione dell’orario di lavoro è fondamentale per facilitare e incoraggiare il lavoro
sopra i 60 anni. La ricerca scientifica ha dimostrato che oltre questa soglia i lavoratori non sono
meno efficienti o produttivi rispetto ai giovani, anche se spesso evidenziano punti di forza e
debolezza specifici: le prestazioni fisiche diminuiscono con l’età ma le capacità intellettuali e
sociali migliorano, soprattutto in condizioni di stress contenuto.6
Il tempo pieno dopo i 60 anni risulta apprezzato solo da una minoranza dei lavoratori, quelli
più motivati che spesso sono autonomi o in grado di gestire gli impegni in modo flessibile. I
vantaggi del lavoro part-time (e del pensionamento graduale) sono notevoli sia per i datori di
lavoro (per esempio riduzione dei costi, maggiore produttività, ridotto assenteismo), come
5
6
Cfr. per esempio The Four Pillars Newsletter, 27 agosto 2000.
Ilmarinen (1999).
67
dimostrato dalle scelte operate in azienda, sia per i dipendenti (per esempio minor stress e
migliori condizioni di salute, maggiore soddisfazione dal lavoro, transizione tra l’impiego a
tempo pieno e il completo pensionamento), ma anche per la comunità (per esempio gettito
contributivo superiore, riduzione del lavoro nero).
Il tempo parziale può essere un ponte efficace tra l’età in cui avviene l’effettiva uscita dal
mondo del lavoro (per esempio 60 anni) e l’età pensionabile stabilita per legge: talvolta ci si
riferisce a questa soluzione col termine di prepensionamento parziale. Paesi come la Finlandia,
la Francia e la Germania sono riusciti a sfruttare tale possibilità con successo.
Nel lungo periodo, il lavoro part-time diventerà idealmente un prolungamento della vita
lavorativa oltre i 65 anni, e questo per diversi motivi: il bisogno di far fronte all’innalzamento
dell’età pensionabile, di aumentare gli anni di contributi e di offrire pensioni migliori (per
esempio alle donne); il desiderio di continuare a sentirsi attivi, utili e parte dell’azienda; i
vantaggi derivanti dall’esercizio delle proprie capacità mentali, sociali e fisiche.7
2.3.2 Politiche pubbliche di interesse recentemente adottate nei Paesi dell’UE
Le organizzazioni sovranazionali e le parti sociali hanno svolto un ruolo importante,
aiutando i singoli Stati a definire e adottare politiche e obiettivi atti a invertire l’attuale
tendenza al prepensionamento. In particolare, per il 2010 la Commissione europea ha definiti
due obiettivi principali: in primis il raggiungimento di un tasso di occupazione del 50% per i
lavoratori in età compresa tra i 55 e i 64 anni; in seconda battuta, l’innalzamento di cinque anni
dell’età a cui si smette di lavorare (età di effettivo abbandono della vita attiva).8
Negli ultimi anni, diversi Paesi dell’UE hanno adottato una politica globale o un approccio
olistico che potrebbero essere presi a esempio da altre nazioni: alla riforma delle pensioni si
sono aggiunte riforme dei sussidi di invalidità e disoccupazione, incentivi a trovare lavoro e
misure che si sono già tradotte in vantaggi pratici, come le seguenti:
• l’età di uscita dal mondo del lavoro è stata aumentata di due anni in Finlandia e nei Paesi
Bassi;
• in Finlandia, Danimarca e nei Paesi Bassi si è avuta una diminuzione dei sussidi di
disoccupazione;
• in totale, il 60% delle aziende danesi ha adottato una o più misure incentivanti per la
gestione dell’età;9
• le autorità del Regno Unito hanno convinto molte aziende a ricorrere al pensionamento
flessibile ed adottare un codice di condotta adeguato, mentre si è incentivato
economicamente il ritorno al lavoro da parte degli anziani;
• i Paesi Bassi hanno incoraggiato il lavoro atipico, con particolare riferimento al part-time
durante gli ultimi anni della carriera.
Altri membri dell’UE, nella maggior parte dei casi caratterizzati da un alto tasso di
abbandoni anticipati del mondo del lavoro, hanno cercato di invertire la tendenza attuale
adottando politiche specifiche, benché i risultati ottenuti finora siano risultati modesti:
• la Germania e la Francia hanno approvato la riforma delle pensioni e della previdenza
sociale, per esempio sostituendo il prepensionamento completo con quello a tempo
parziale; attualmente sono impegnate nell’adozione di misure di più ampia portata.
7
8
9
Reday-Mulvey (2000-2005).
European Commission (2004).
The Geneva Association (2003).
68
•
•
•
L’Italia ha proceduto a una drastica riforma delle pensioni, ma ora deve affrontare il
problema della disoccupazione.
La Svizzera rappresenta un caso particolare perché evidenzia un alto tasso di
disoccupazione dopo i 60 anni in assenza di politiche ufficiali a riguardo (con l’eccezione
di una previdenza sociale non molto generosa), mentre solo di recente è emersa la tendenza
all’uscita anticipata dal mondo del lavoro.
L’Ungheria ha compiuto una svolta drastica in materia di pensioni, finora senza però
registrare alcun risultato in termini di disoccupazione.
2.3.3 Misure chiave volte alla gestione dell’età recentemente adottate dalle imprese dell’UE
La gestione dell’età10 in ambito aziendale comprende: la riduzione degli orari di lavoro,
l’adozione di pensioni graduali/flessibili e del lavoro part-time, la pianificazione delle carriere,
la formazione permanente e continua, ergonomia e mobilità, gli scatti di anzianità, i regimi
pensionistici, valorizzazione delle differenze d’età, la prevenzione della discriminazione in
base all’età e i codici di condotta. Per ciascuna di questi settori vengono esaminate alcune
aziende che hanno ottenuto risultati positivi. Riportiamo di seguito gli esempi principali:
• riduzione degli orari di lavoro, pensioni graduali/flessibili e lavoro part-time: si tratta di
misure relativamente facili da adottare e sia le imprese britanniche che quelle europee ne
hanno tratto beneficio mantenendo intatte l’esperienza e la cultura aziendali, migliorando
la soddisfazione dei clienti, andando incontro ai bisogni dei consumatori legati all’età,
riducendo l’assenteismo (per esempio in Francia) e migliorando la propria immagine.
• Pianificazione delle carriere: sono riscontrabili esempi positivi in Germania, Norvegia e
Francia (per esempio in Axa France la pianificazione delle carriere incoraggia la mobilità
delle mansioni all’interno dell’azienda).
• La formazione permanente e continua è ritenuta fondamentale e sta diventando sempre più
comune nelle aziende di grandi dimensioni della maggior parte dei Paesi, ma soprattutto in
Svezia, Germania, Francia, nei Paesi Bassi e nel Regno Unito.
• Ergonomia e mobilità.
• Le modifiche al sistema di indicizzazione dei salari all’anzianità procedono lentamente ma
sono essenziali se si intendono prevenire le discriminazioni nei confronti dei lavoratori
anziani.
• I regimi pensionistici, che in passato spesso tenevano conto dell’ultimo stipendio (per
esempio nei Paesi Bassi e nel Regno Unito), oggi vengono modificati per prendere in
considerazione gli ultimi 10 o 20 anni al massimo.
• Misure atte a prevenire le discriminazioni in base all’età: entro il 2006 tutti i membri
dell’Europa dei 15 devono aver approvato leggi in proposito, e molti (chi più, come i Paesi
Bassi, chi meno) lo hanno già fatto.
• In diversi Paesi le autorità governative hanno approntato codici di condotta, poi approvati
dalle aziende, che prevedono linee guida valide per datori di lavoro e dipendenti: il Regno
Unito offre uno degli esempi migliori.11 Esiste anche un codice di condotta europeo che
disciplina il rapporto tra età e occupazione.
10
11
Walker and Wigfield (2003).
Taylor (2003).
69
3. Chi potrebbe e vorrebbe lavorare dopo i 60 anni?
3.1 Il bisogno di tener conto delle differenze e l’importanza dell’equità
Quando le aziende adottano e applicano politiche volte al prolungamento della vita
lavorativa, grande importanza viene assegnata al bisogno di tener conto delle differenze. Ciò
avviene perché gli accessi al mercato del lavoro avvengono a età diverse e in situazioni
personali differenti, come diversa è l’aspettativa di vita di ciascuno.
3.2 Periodi di istruzione e formazione prolungati
Nel corso delle ultime due generazioni, in tutti i Paesi sviluppati si è avuta una vera e
propria rivoluzione in seguito alla quale in genere i giovani beneficiano di periodi di istruzione
e formazione molto più lunghi che in passato, risultando maggiormente qualificati. Mai come
ora i giovani sono entrati tardi a far parte del mondo del lavoro. Pur con variazioni in funzione
dei singoli Paesi, in genere ciò avviene intorno ai 20 anni o anche dopo. Per esempio, l’età
media in cui si inizia a lavorare risulta tra le più alte dell’UE in Francia e in Germania
(rispettivamente 21 e 22 anni), è leggermente inferiore nel Regno Unito (circa 20 anni) e tocca
la soglia minima in Danimarca, dove si avvicina ai 18 anni. Questi valori differiscono
enormemente dall’età in cui hanno iniziato a lavorare molti di coloro i quali stanno per andare
in pensione oggi (tra i 14 e i 17 anni). Il momento in cui i giovani ottengono il primo impiego
cambia non solo da una generazione all’altra, ma anche nello spazio di una sola generazione e
dipende principalmente dal livello di istruzione raggiunto. Ovviamente, se il sistema
pensionistico prevede almeno 40 anni di contributi, risulterà fondamentale l’età a cui si inizia
a lavorare. Proprio per questo motivo, molti sociologi pensano che sia ingiusto imporre a tutti
la medesima età pensionabile. A ciò si aggiunga che le mansioni svolte differiscono
enormemente a seconda del settore e della categoria professionali considerati. Per esempio, i
lavoratori del comparto dell’edilizia non sono evidentemente in grado di continuare a svolgere
le proprie mansioni per 40 anni ed è assolutamente necessario prevedere un’età pensionabile
diversa.
3.3 L’età pensionabile deve essere stabilita in funzione delle condizioni di lavoro?
L’età pensionabile dovrebbe dunque essere stabilita in base alle condizioni più o meno
usuranti del lavoro svolto? In linea di principio la risposta è sì, ed è proprio per questo motivo
che ciò già avviene, tra gli altri, nel caso dei vigili del fuoco, del personale militare e dei piloti
di aerei. Oggi tutti i Paesi prevedono condizioni specifiche per determinate categorie di
lavoratori.
In Svizzera, l’età pensionabile delle donne va aumentando e, dietro consiglio dell’OCSE,
si sta considerando la possibilità di arrivare a 67 anni per tutti. Ciononostante, qualche anno fa,
l’età pensionabile degli addetti all’edilizia è stata ridotta da 65 a 60 anni in considerazione delle
condizioni di lavoro usuranti, ma anche per abbassare il tasso di invalidità del comparto.
Anche se il fattore appena descritto è stato e in parte continua a essere responsabile dei
pensionamenti anticipati in alcuni settori, in molti casi si è verificato un netto miglioramento.
In passato nelle miniere di carbone il lavoro era estremamente usurante, ma nella maggior parte
degli Stati europei, se non in tutti, i minatori si possono dire estinti: oggi forse guidano un treno
ad alta velocità e, anche se sotto molti punti di vista tale compito comporta maggiori
responsabilità, non è certamente faticoso come lo era condurre una locomotiva a vapore 50 o
60 anni fa.
70
È necessario mantenere i privilegi e le prerogative concessi in passato ora che la situazione
è cambiata? Quasi sicuramente no. Tuttavia, in molti casi, la seconda metà della vita lavorativa
va profondamente riconsiderata e ridisegnata per prevedere mansioni che richiedano minor
sforzo fisico e risultino più sedentarie. In alternativa, i vigili del fuoco e le infermiere che
devono andare in pensione prima dei loro coetanei potrebbero trovare un impiego part-time di
altro tipo. Per esempio i settori dell’educazione, delle iniziative culturali e della formazione
offrono molte opportunità per iniziare una nuova “carriera”.
Gli esempi sono numerosi. Ne forniamo alcuni a titolo illustrativo, ma il lettore non avrà
sicuramente difficoltà a immaginarne altri. Dopo i 55 anni i membri del personale
infermieristico trovano spesso difficile continuare a lavorare a tempo pieno in ospedale.
Tuttavia, essi dispongono di esperienza e conoscenze e spesso sanno come trattare i pazienti;
sarebbe dunque possibile assegnare loro funzioni diverse, per esempio al centralino
dell’ospedale (per le emergenze), nelle scuole, nelle strutture mobili per l’emotrasfusione,
nell’assistenza sanitaria a lungo termine per gli anziani residenti in città o nell’assistenza a
domicilio per pazienti in età avanzata che necessitano di una presenza competente e di conforto
morale. Anche gli insegnanti dopo i 55 anni e 30 anni di esperienza trovano difficile il loro
lavoro. In molti casi se ne potrebbe ridurre l’orario lavorativo per trasferirli ad altre mansioni
retribuite (biblioteche, librerie, lezioni private, attività in enti non governativi, ecc.). Anche i
servizi al cittadino offerti dai comuni si giovano dell’apporto di personale di esperienza
proveniente da background diversi e quindi rappresenterebbero uno sbocco valido per
continuare a lavorare.
3.4 Differenze nella speranza di vita
È possibile misurare quanto usurante sia un lavoro o una mansione? È sicuramente difficile,
soprattutto quando le condizioni di lavoro cambiano continuamente. In presenza dei dati
necessari, uno degli approcci evidentemente più funzionali consiste nell’esaminare la speranza
di vita e il possibile sviluppo delle condizioni di salute. In media, in Francia, la speranza di vita
di un collaboratore domestico trentacinquenne è 36,5 anni, quella di un colletto blu 37. Al
contrario, la speranza di vita di dirigenti statali, artisti e lavoratori di concetto sale a 46 anni.
La notevole differenza relativa alla speranza di vita tra categorie di lavoratori nel caso degli
uomini è doppia rispetto alle donne.12
È per questi motivi che il concetto di età pensionabile dovrebbe essere gradualmente
sostituito dal numero di anni di versamento dei contributi per la pensione. È di fondamentale
importanza che in futuro i regimi pensionistici si basino su criteri più oggettivi ed equi di
quanto non abbiano fatto finora. Le riforme analoghe a quelle adottate in Svezia13 seguono in
gran parte questi principi. Tra l’altro, tranne in casi eccezionali in cui il prepensionamento
rappresenta una compensazione per svantaggi acclarati, si è parlato della necessità di riallineare
le condizioni dei dipendenti del settore pubblico e di quello privato. Nella maggior parte dei
casi, tra cui anche l’Italia, si è riusciti a rispettare questi criteri, anche se in altri, come in
Francia, esistono ancora notevoli disparità relative all’età e alle condizioni di pensionamento.
Se dunque, per chiari motivi economici e finanziari, la società chiede ai lavoratori di
rimanere più a lungo sul mercato del lavoro, occorre anche accettare il fatto che le fasi finali
della vita lavorativa di ciascuno presentino delle differenze. Il dibattito pubblico sulla
questione e le politiche che determina devono dunque stabilire un numero ridotto di eccezioni
all’innalzamento dell’età pensionabile, contribuendo a confermare le nuove normative e a
consolidare linee di condotta valide per il futuro.
12
13
Conseil Economique et Social (2001).
Reday-Mulvey (1999, pp. 461-472).
71
In altre parole, se si intende evitare che tali misure vengano osteggiate, le imprese e le
autorità pubbliche devono far sì che il nuovo corso preveda un’ampia gamma di possibilità in
fine carriera e di modalità di transizione verso la pensione.14 Questa diversità si limiterebbe a
riflettere le caratteristiche dei comparti, delle professioni, delle categorie in cui si dividono
lavoratori e individui e delle preferenze culturali di cui occorre tenere conto.
3.5 Il bisogno di flessibilità e l’importanza di una scelta informata
In gran parte dei Paesi europei, negli ultimi 25 anni il mercato del lavoro si è fatto
estremamente più flessibile. Le nuove funzioni della nostra economia dei servizi hanno
contribuito grandemente a promuovere e rafforzare tale tendenza, tanto che i lavori atipici
hanno conquistato uno spazio enorme. La flessibilità degli orari oggi è fondamentale non solo
per chi ha figli piccoli e deve conciliare famiglia e lavoro, ma anche per chi si trova al termine
della vita lavorativa, rendendo sia possibile che necessario continuare a lavorare. Tuttavia, nel
caso di mansioni a tempo pieno, tale prolungamento potrà avvenire solo in pochi casi, come i
lavoratori autonomi, i quali usufruiscono di orari di per sé più flessibili, chi gode di buone
condizioni di salute e chi ricava maggiori soddisfazioni dal proprio lavoro. Al contrario, il
dipendente medio sarà con tutta probabilità più disposto a lavorare più a lungo se potrà
usufruire del part-time e quindi disporre di più tempo libero da dedicare ad attività esterne al
campo lavorativo. Anche le imprese beneficeranno della situazione poiché è ormai provato che
il tempo parziale riduce l’assenteismo e il costo dei lavoratori anziani. In poche parole, una
simile soluzione faciliterebbe il passaggio dal lavoro alla pensione sia per l’azienda che per il
lavoratore. In tutta Europa, le aziende che hanno adottato questo approccio per prolungare la
vita lavorativa per mezzo del part-time sono rimaste molto soddisfatte dei risultati.
3.6 Lavorare più a lungo — una necessità inevitabile
Una notevole percentuale degli appartenenti alla generazione del baby boom dovrà lavorare
più a lungo a cause della riforma delle pensioni. Inoltre, una certa fetta di quelli che hanno
lavorato part-time per buona parte della vita (si tratta soprattutto di donne, anche se gli uomini
sono in aumento) dovranno continuare a lavorare per rafforzare il secondo pilastro
pensionistico.
Al momento, però, le donne non solo sono più abituate al part-time e al lavoro flessibile e
temporaneo ma, data l’esiguità dei contributi versati e alla luce del fatto che la loro attività ha
sovente subito interruzioni per motivi famigliari, a parità di qualifiche le prestazioni maturate
sono spesso inferiori a quelle spettanti agli uomini. Nonostante il graduale avvicinamento dei
sistemi pensionistici nazionali in seno all’UE, la Commissione europea non nega che nel caso
delle donne che hanno svolto lavori atipici permarrà a lungo una notevole differenza nelle
pensioni maturate, soprattutto in riferimento al secondo pilastro. Di conseguenza, come per
esempio dimostra una recente pubblicazione,15 nel Regno Unito tra le donne coniugate una su
quattro vive nell’indigenza e il numero delle donne in pensione che si affidano a sussidi
calcolati in base alla condizione economica risulta doppio rispetto a quello degli uomini.
Fortunatamente, nella maggior parte dei membri dell’Europa dei 15 i dati non sono così
allarmanti. Tuttavia, la maggior parte delle donne, soprattutto quelle che si trovano a invecchiare
da sole (perché divorziate, vedove o non coniugate) avrà bisogno di continuare a lavorare anche
dopo l’età pensionabile perché reddito e pensione raggiungano un livello accettabile.
14
15
Reday-Mulvey (1999, pp. 461-472).
Conseil d’Analyse Economique (2000).
72
Dato che nella maggior parte dei Paesi le donne hanno una speranza di vita ben maggiore
di quella degli uomini, non sarebbe giusto che lavorassero più a lungo? A prescindere dalla
risposta che si vuole dare, pensiamo che occorra incoraggiare entrambi a lavorare per più
tempo (e a continuare a formarsi fino al termine della vita attiva), soprattutto a tempo parziale,
in modo da continuare a contribuire all’economia e massimizzare le proprie prestazioni
pensionistiche. È tuttavia innegabile che le donne in genere si accollino più degli uomini la
responsabilità della cura dei figli e di anziani e ammalati in seno alla famiglia e alla comunità.
Per esempio, non è raro trovare donne di circa 60 anni che si occupano dei genitori o dei
suoceri che invecchiano, fornendo in pratica la maggior parte dell’assistenza necessaria. Come
nonne, svolgono un ruolo centrale anche nell’educazione dei più piccoli, rappresentando
spesso l’unica soluzione che permette alle figlie e alle nuore di conciliare famiglia e lavoro. È
anche indubbio che le donne spesso rappresentino la maggioranza dei collaboratori delle
organizzazioni di volontariato. In effetti, in tutto il mondo, sono le donne che svolgono la quota
di gran lunga maggiore del lavoro non retribuito (cioè non monetarizzato, benché essenziale
per la comunità), mentre gli uomini svolgono gran parte delle mansioni retribuite. Nonostante
quanto è stato fatto per ridurre le differenze in campo lavorativo, i ruoli maschili e femminili
rimangono fondamentalmente complementari. È per questo motivo, se non altro, che la
Commissione europea sta promuovendo sistemi e regimi pensionistici liberi da differenze di
trattamento connesse al genere.
3.7 L’importanza della scelta informata
Anche la flessibilità riveste un’importanza enorme al termine della vita lavorativa perché
se si vogliono trattenere i lavoratori dall’andare in pensione, occorre motivarli e mantenerli
produttivi, e ciò non sarà possibile a meno che non venga assicurata loro libertà di scelta (un
valore fondamentale nella società moderna) in proposito essi devono essere pienamente a
conoscenza delle alternative disponibili: in pratica, lasciare il lavoro prima con una pensione
ridotta o continuare a lavorare per poi godere di prestazioni superiori. Di qui la necessità da
parte dei lavoratori di ricevere regolarmente il saldo della pensione maturata in funzione del
numero di anni in cui hanno lavorato (per esempio il bollettino arancione sulle pensioni
distribuito ogni anno in Svezia).
Ma la realtà della vita quotidiana di ciascuno non può né deve cambiare da un giorno
all’altro. È dunque importante prolungare di qualche anno, rispetto alla sua durata odierna, la
vita lavorativa al fine di massimizzare le prestazioni pensionistiche e garantire un passaggio
dolce tra il lavoro a tempo pieno e il pensionamento completo. Tuttavia, è anche importante che
questo prolungamento risulti flessibile e per lo più a tempo parziale; inoltre, tutti dovranno
approvarne pienamente i termini e le condizioni. In altre parole, il pensionamento dovrebbe
diventare un processo piuttosto che la brusca transizione che è oggi nella maggior parte dei casi.
4. Raccomandazioni principali
Per riuscire a prolungare la vita lavorativa occorre soddisfare alcuni prerequisiti qualsiasi
nuova politica o nuova misura adottate dalle autorità, qualsiasi cambiamento significativo della
cultura d’impresa dovranno essere preceduti da un dibattito coerente, veramente democratico,
ampio e informato sulle questioni sul tappeto. A questo proposito i Paesi scandinavi possono
essere d’esempio. È inoltre di fondamentale importanza che tutte le normative che disciplinano
pensioni, assicurazione sociale e disposizioni fiscali siano improntate allo stesso obiettivo:
prolungare la vita lavorativa. In seno alle aziende, questa decisione dovrà essere accompagnata
dalla modifica degli orari di lavoro, mentre i Paesi che dispongono di un numero elevato di
manodopera qualificata a tempo parziale avranno molte meno difficoltà degli altri.
73
Analogamente, la formazione permanente fino al termine della carriera sarà fondamentale per
mantenere livelli ottimali in termini di produttività e motivazione. Infine, il part-time porterà a
una riduzione dei costi legati ai lavoratori anziani. Di seguito verranno esaminate brevemente
quattro raccomandazioni relative alla necessità (1) di un approccio olistico, (2) di coordinare
le politiche sociali ed economiche, (3) di un dibattito approfondito e informato e (4) di un piano
d’azione rapido ed efficace.
4.1 La necessità di un approccio olistico
I Paesi che finora hanno avuto più successo nel garantire la flessibilità del prolungamento
della vita lavorativa, come la Finlandia, la Danimarca e il Regno Unito, hanno tutti adottato un
approccio globale per permettere un invecchiamento attivo e in buone condizioni di salute e la
gestione degli ultimi periodi di lavoro. Oggi a quasi tutti i livelli — istituzioni europee, governi
nazionali, aziende e sindacati — si è convinti della bontà di tale scelta. Ciò si è dimostrato vero
in particolare in Paesi come la Germania, la Francia, l’Italia, l’Austria e i Paesi Bassi, dove
esisteva una cultura del prepensionamento particolarmente radicata. Solo quando cominciano
a cambiare tutte le variabili — riforma delle pensioni, normative previdenziali, occupazione e
politiche aziendali — cambiano progressivamente anche i comportamenti, le norme e la cultura
che caratterizzano tutti gli attori sulla scena economica e sociale. Ricordiamoci che le questioni
a lungo termine possono essere affrontate solo con politiche di ampio respiro perduranti nel
tempo. Il grafico che segue indica non solo che le politiche socioeconomiche necessitano del
corretto coordinamento ma che devono prendere atto anche della gestione dell’età a livello
aziendale e della nuova configurazione del ciclo biologico. A questo punto risulta evidente che
se vogliamo la riforma delle pensioni, dobbiamo farla accompagnare da una profonda revisione
dei contesti in cui essa si troverà ad agire, marcatamente nell’ambito del pensionamento e delle
fasi finali della vita lavorativa (Figura 1).
4.2 La necessità di politiche socioeconomiche coordinate
Già nel 1996 un esperto giapponese, I. Shimowada, concludeva che non si sottolineerà mai
abbastanza l’importanza della corretta integrazione delle politiche pubbliche e private volte a
promuovere il lavoro degli anziani.16 Effettivamente, nel corso degli anni ’90, la maggior parte
dei Paesi occidentali ha riformato il proprio sistema pensionistico, ma i governi si sono accorti
solo recentemente che, per incoraggiare il prolungamento della vita lavorativa, alle riforme
sociali occorreva affiancare misure occupazionali a livello dello Stato e delle aziende.
16
Delsen and Reday-Mulvey (1996, p. 162).
74
Figura 1: Modello per prolungare il lavoro oltre i 60 anni
POLITICHE SOCIALI
RIFORMA DELLE PENSIONI
- misure restrittive
- incentivi
LAVORATORI/COMUNITÀ
NUOVO CICLO BIOLOGICO
- capacità fisiche e mentali
- formazione permanente
- gestione degli orari
PROLUNGAMENTO
della
VITA LAVORATIVA
(flessibilità degli orari di lavoro)
POLITICA ECONOMICA
INCREMENTO
DELL’OCCUPAZIONE
- misure restrittive
- incentivi
AZIENDE
GESTIONE DELL’ETÀ
- formazione permanente
- lavoro part-time
- ergonomia
Fonte: G. Reday-Mulvey, in Report Avenir Suisse, 2002.
4.3 Politiche pubbliche: la necessità di incentivi e misure restrittive
Ciò che risulta essenziale è che le politiche pubbliche devono avere un respiro
sufficientemente ampio e devono essere accompagnate da incentivi a vari livelli. Al fine di
ridurre le possibilità di uscita anticipata dal mondo del lavoro, è fondamentale che le riforme
pensionistiche siano accompagnate da altri cambiamenti al sistema previdenziale, volti in
particolare a rendere più difficile e costosa la possibilità di usufruire della pensione anticipata
e dei sussidi di disoccupazione e di invalidità, rendendone più severi i termini per la
concessione. Tuttavia, è evidente che restrizioni di questo tipo devono essere affiancate da
incentivi finanziati dallo Stato: per incoraggiare nuovi comportamenti e nuove idee sono
necessari sia il bastone, sia la carota. Per cambiare la cultura del prepensionamento, ormai
profondamente radicata nelle menti dei cittadini, occorrono interventi drastici e una
collaborazione efficiente tra Stato e aziende mirata all’applicazione graduale delle nuove
politiche di gestione dell’età.
4.4 Politiche aziendali: la necessità di misure di ampio respiro per la vita lavorativa
Tra tutti gli aspetti degni di attenzione, ne esistono almeno quattro su cui deve concentrarsi
l’approccio politico integrato qui descritto. Innanzitutto, la formazione. Per permettere ai
lavoratori anziani di rimanere competitivi, la formazione permanente non dovrebbe cessare
verso i 45-50 anni, ma continuare fino al termine della vita lavorativa ed essere maggiormente
mirata alle necessità dei lavoratori dotati di esperienza (Figura 2). I Paesi già caratterizzati da
simili politiche aziendali si trovano in una posizione di gran lunga migliore. In Svezia17 e in
Svizzera la formazione rimane molto importante durante l’intera carriera del lavoratore e non
17
The Geneva Association (2004).
75
sembra che le cose cambino molto nel caso degli anziani. In Francia e in Germania questo
approccio sta guadagnando terreno soprattutto nelle aziende più grandi. In particolare sorge la
necessità di una profonda riorganizzazione della seconda metà della vita lavorativa, volta a
garantire una nuova identità e nuove funzioni ai lavoratori in età compresa tra i 45 e i 65 anni.
Figura 2: Coordinamento delle politiche economiche e sociali
POLITICA SOCIALE
Riforma delle pensioni
Misure restrittive
- innalzare l’età pensionabile
- aumentare gli anni di contributi
- ridurre leggermente le prestazioni
- trovare nuovi metodi di finanziamento
-…
Incentivi
- sviluppo del secondo pilastro pensionistico
- incoraggiare fondi pensione privati (3° pilastro)
- rafforzare il rapporto tra pensioni e anni di contributi
- promuovere pensioni flessibili e personalizzate
- permettere il cumulo di redditi da pensione e da lavoro
-…
PROLUNGAMENTO DELLA VITA LAVORATIVA
Misure restrittive
- limitare l’accesso al prepensionamento
- limitare l’accesso ai sussidi di invalidità
- limitare l’accesso ai sussidi di disoccupazione
-…
Incentivi
- reintegrare i lavoratori ultracinquantacinquenni
- rafforzare la partecipazione femminile
- modificare le condizioni di lavoro negli ultimi
anni: formazione permanente, part-time …
- flessibilizzare l’uscita dal lavoro
- fornire incentivi sotto forma di sussidi
- applicare leggi contro la discriminazione
- promuovere le buone prassi (codici ecc.)
-…
POLITICA ECONOMICA
Occupazione: rafforzare la partecipazione degli ultracinquantacinquenni
Fonte: G. Reday-Mulvey, The Geneva Association, 2003.
Secondariamente, una variabile fondamentale è data dalla politica dei salari. È evidente che
agganciare i salari all’anzianità di servizio significa aumentare il costo dei lavoratori che si
trovano alla fine della carriera, il che ha sempre ostacolato qualsiasi tentativo fatto per
prolungare la vita lavorativa. Occorre incoraggiare la tendenza che sta prendendo piede oggi
per il calcolo degli stipendi e che prevede di ridurre l’importanza assegnata all’anzianità di
servizio a favore della produttività. Le necessità economiche dei lavoratori più anziani di
norma sono inferiori rispetto a quelle dei loro colleghi quarantenni. Inoltre, i cambiamenti nel
calcolo delle pensioni fanno sì che non vi sia più bisogno che lo stipendio a fine carriera sia
quello più alto, il che permette alle aziende di correlare gli stipendi alla produttività e non
solamente all’età.
In terzo luogo, gli stipendi part-time sono chiaramente una variabile importante nel
tentativo di ridurre il costo dei lavoratori anziani. Il tempo parziale va accompagnato da una
migliore rete di protezione sociale e da misure di promozione interne alle aziende. Queste
ultime hanno in gran parte provveduto a migliorare le condizioni previste per i dipendenti in
76
regime di part-time e alcuni Paesi, tra cui Francia e Paesi Bassi, hanno modificato la
legislazione in proposito.
Da ultimo, le pensioni di lavoro devono tenere conto di cicli biologici più lunghi e più
flessibili. Nonostante i progressi compiuti, in particolare in Inghilterra e nei Paesi Bassi, nel
tentativo di indicizzarli allo stipendio medio, in molti Paesi i fondi pensione rimangono
ancorati all’ultimo stipendio.
4.5 La necessità di un dibattito approfondito e informato
Un ulteriore fattore essenziale per garantire il successo delle politiche volte a prolungare la
vita lavorativa è dato dal quanto efficacemente siano state comunicate all’opinione pubblica e
quanto siano state da essa accettate grazie a un dibattito ampio e informato sulla questione.
Le esperienze compiute finora in molti Paesi che sono riusciti ad adottare politiche e
disposizioni in questo senso dimostrano che l’argomento deve essere reso noto a tutti gli attori
coinvolti — aziende, dipendenti e sindacati — e deve essere dibattuto per essere compreso
pienamente. Inoltre, le imprese necessitano di un approccio a lungo termine per compiere
investimenti e cambiare opinioni e atteggiamenti ormai invalsi. Di qui l’importanza di
campagne di informazione e sensibilizzazione mirate e la necessità di dare vita a un dibattito
aperto in seno alle aziende, ai sindacati e all’opinione pubblica in genere. Anche i media
devono naturalmente svolgere un ruolo chiave nella comunicazione di questo nuovo
messaggio, e cioè che oggi si invecchia più tardi e che occorre rivedere seriamente il modo in
cui gestiamo le nostre vite tra i 50/55 anni e i 70 anni. Le aziende oggi devono dare il via a una
discussione democratica su questi argomenti e incoraggiare un più ampio dibattito con le
istituzioni dotate di potere decisionale e gli organi di stampa. I principi cui si ispira questa
nuova concezione dell’invecchiamento devono essere veicolati con un linguaggio nuovo che
sia comprensibile e nel contempo innovativo. L’esperienza: un tesoro nazionale (Finlandia),
L’invecchiamento attivo (in tutto il mondo) o Invecchiare bene (Regno Unito) sono alcuni
esempi di come sia possibile compiere questi importanti primi passi verso il cambiamento dei
pregiudizi e degli atteggiamenti del pubblico.
4.6 La necessità di un piano d’azione rapido ed efficace
Alcuni esperti ritengono che solo quando il mercato del lavoro avrà sofferto di gravi
mancanze di manodopera (a seconda del Paese, ciò si verificherà nel giro di 4-10 anni) le
aziende faranno di tutto per trattenere i lavoratori più a lungo di quanto non facciano oggi,
modificando di conseguenza le condizioni di lavoro. In molte imprese danesi e inglesi che oggi
fungono da modelli proprio in tal senso (cioè adottando questo nuovo approccio) la svolta è
stata determinata dalla mancanza di forza lavoro. Tuttavia, siamo dell’opinione che ora stia al
governo prevedere e pianificare questi fenomeni all’interno di una strategia globale per
l’invecchiamento e il lavoro piuttosto che aspettare che venga a mancare la manodopera prima
di agire. Eventuali forti variazioni nell’indice di dipendenza dimostreranno che nella maggior
parte dei Paesi il benessere di tutta la popolazione dipenderà da un numero di lavoratori
minore. Entro il 2010 i lavoratori sopra i 45 anni rappresenteranno il 40% della manodopera
disponibile nell’UE. Si verificherà una mancanza di lavoratori in genere, non solo di giovani,
e in alcuni Paesi si è già verificata. Tutte le fasce d’età dovranno prestare il proprio aiuto e
quindi i più anziani si troveranno ad avere un ruolo chiave perché sono numerosi e
garantiscono qualità ed esperienza. Inoltre sarà necessario applicare le politiche pubbliche e
private su una certa scala e per un certo periodo di tempo prima di ottenere risultati
apprezzabili.
77
4.7 Altre politiche
Offriamo alcuni ulteriori esempi di misure politiche che consideriamo utili e che possono
essere distinte in tre categorie.
4.7.1 La necessità di aumentare la partecipazione al lavoro in genere e di controllare i flussi
migratori
La prima misura riguarda l’incremento dell’occupazione totale, in questo caso aumentando
i tassi di partecipazione di tre categorie specifiche di potenziali lavoratori: le donne, i
disoccupati e gli invalidi. Come abbiamo visto, tra i membri dell’UE emergono differenze
importanti nei tassi di partecipazione alla popolazione attiva di queste tre categorie.
I paesi scandinavi, per esempio, ottengono risultati migliori rispetto agli stati meridionali,
ma nel lungo periodo il principio della convergenza dovrebbe far sì che questi valori migliorino
un po’ ovunque. Il lavoro a tempo parziale risulta essenziale soprattutto nel caso delle donne e
degli invalidi perché non solo rappresenta un’ottima possibilità per passare dall’inattività
all’attività, ma permette anche di conciliare lavoro e impegni famigliari, potendo così
contribuire all’innalzamento del tasso di fertilità femminile.
Una simile svolta richiede misure tese a favorire l’occupazione in maniera attiva e meno
protezione sociale passiva. Paesi come la Finlandia, la Danimarca, la Svezia, i Paesi Bassi e
altri hanno adottato ottime disposizioni speciali volte a favorire l’occupazione degli invalidi,
compresi i lavori sorretti da sussidi statali, spesso con contratti a tempo parziale. Altri Stati
membri (Austria, Francia, Germania, Irlanda e Regno Unito) hanno fissato degli obiettivi
nazionali riguardanti l’occupazione degli invalidi.
Un’altra soluzione, oggetto di frequenti discussioni negli ultimi anni, prevede di
incrementare, ove possibile, i flussi migratori verso i membri dell’UE. Sia l’ONU18 che l’OCSE
hanno calcolato il numero di nuovi immigrati necessario a controbilanciare lo sviluppo
demografico e il conseguente calo della forza lavoro in Europa. Per esempio, in base alle stime
redatte dall’ONU nel 2000, il numero di immigranti necessari per mantenere invariata la
popolazione in età lavorativa in Francia e nel Regno Unito è circa il doppio rispetto al
fabbisogno registrato negli anni Novanta. Analogamente, la Germania necessiterebbe di circa
3,4 milioni di immigranti ogni anno, cioè oltre 10 volte i nuovi arrivi registrati tra il 1993 e il
1998. Nel caso tedesco, per esempio, il solo fattore numerico condurrebbe a enormi problemi
sociali e politici. È per questo motivo che a nostro avviso, in Germania come altrove, sarebbe
utile aggiungere una qualche forma di controllo sui flussi migratori.
4.7.2 La necessità di rafforzare le politiche per la famiglia
La seconda tipologia di misure da adottare riveste secondo noi una maggiore importanza
rispetto all’immigrazione ed è rappresentata da politiche per la famiglia volte a promuovere un
costante aumento dei tassi di fertilità a lungo termine in Europa. Diverse indagini dimostrano
che le donne non concepiscono quanti figli vorrebbero. Riteniamo che vi sia una correlazione
sia diretta che indiretta tra la presenza di politiche in favore della famiglia e il tasso di fertilità.
Tali politiche devono comprendere, tra l’altro, assegni famigliari generosi, un sistema di
imposte favorevole ai nuclei famigliari più estesi, la disponibilità di strutture adeguate alla cura
dei bambini e di altre persone a carico e un migliore equilibrio tra lavoro e vita famigliare. Lo
18
United Nations (2000).
78
scarto tra il tasso di occupazione delle donne con e senza prole è particolarmente pronunciato
in Irlanda (16,3%), Germania (21,4%) e Regno Unito (22,8%). In questi Paesi, come anche in
Spagna o in Grecia, dove la forbice è relativamente più contenuta, i servizi assistenziali
disponibili sono colpevolmente incapaci di far fronte alle necessità. Dove le strutture sono
migliori, come in Svezia (1,7 nel 2002) o in Francia (1,9), il tasso di fertilità risulta superiore
rispetto agli Stati del sud dell’Unione.19
A questo proposito, risulta alquanto interessante l’esempio offerto dalla Norvegia.
Si tratta di uno dei Paesi contraddistinti dai tassi di fertilità più elevati in Europa (1,8) ma
evidenzia anche uno dei migliori tassi di occupazione femminile. Tutto ciò risulta
sorprendente, salvo poi scoprire che le aziende norvegesi attirano la manodopera femminile
offrendo ottime strutture per l’infanzia.
In breve, le politiche destinate alla famiglia svolgeranno un ruolo essenziale in Europa al
fine di garantire un aumento dei tassi di fertilità nel lungo periodo ed evitare i pericoli di una
società “anziana” affetta dal calo sia della popolazione che della manodopera.
4.7.3 La necessità di migliorare la qualità del lavoro
Al glorioso trentennio successivo alla Seconda guerra mondiale ha fatto seguito un periodo
di vent’anni durante il quale l’importanza assegnata agli interessi personali, alla famiglia e al
tempo libero è andata aumentando, mentre si tendeva a dare meno valore al lavoro. Nei Paesi
europei si è ridotto l’orario lavorativo, le condizioni lavorative sono state personalizzate e
flessibilizzate, le vacanze si sono allungate e oggi la stragrande maggioranza della popolazione
può dedicare il proprio tempo ai viaggi e ai propri interessi personali.
Se l’invecchiamento attivo deve diventare un fenomeno comune, è necessario rivedere il
ruolo assegnato al lavoro nella nostra vita. Dobbiamo migliorare la qualità del lavoro ad ogni
costo per convincere un maggior numero di cinquantenni e sessantenni, ma forse anche di
settantenni, a modificare l’equilibrio tra attività lavorativa e tempo libero a favore della prima.
Come abbiamo già avuto modo di ricordare, chi ha un’occupazione di bassa qualità si ritira dal
mercato del lavoro tra i 2 e i 4 anni prima di chi invece ha mansioni di alta qualità. L’effetto di
coorte — in virtù del quale aumenta il numero dei lavoratori qualificati impiegati nel settore
dei servizi con orari flessibili, i quali usufruiscono di corsi di formazione permanente e
continua — renderà più semplice rispetto al passato ritardare l’uscita dal mercato del lavoro e
flessibilizzare gli orari.
Forse una delle maggiori sfide che ci attendono oggi è data dalla necessità di organizzare
meglio la nostra società laddove la richiesta di moltissimi dei “servizi tradizionali” rimane
inevasa. Dobbiamo ripensare il lavoro e il pensionamento e considerarli parte di un continuum
integrato in cui riformando un aspetto se ne modifica un altro. Aumentare gli anni di
contribuzione ai fondi pensione è semplicemente inconcepibile senza riconsiderare
completamente il nostro concetto di lavoro e occupazione. Non basta chiedere alle aziende di
far continuare a lavorare i dipendenti fino a 65 anni e oltre. Le attività e le mansioni assegnate,
siano esse retribuite o meno, devono risultare soddisfacenti per chi le espleta e devono
rimanerlo per tutto il periodo che va dall’ingresso all’uscita dal mondo del lavoro.20
Le nostre società non dovrebbero prevedere la scelta tra tempo libero e lavoro, mentre
dovrebbero essere in grado di offrire un equilibrio soddisfacente tra i due. Ciò che è vero a
livello individuale vale anche a livello dell’intera società se si prendono in considerazione
19
20
Godet (2003).
Buck and Dworschak (2003).
79
benessere e lavoro. Questo cambiamento di prospettiva è necessario se si vuole che nel giro di
pochi anni o decenni la vita lavorativa possa allungarsi di qualche anno ancora.
Oggi, di fronte sia alle sfide demografiche che alla prevista riduzione della manodopera,
dobbiamo riscoprire il valore e il piacere del lavoro. Naturalmente, questo ci porta a ripensare
e migliorare le condizioni lavorative. Nel giro di poco tempo saranno sempre di più le aziende
che offriranno condizioni migliori per trattenere i dipendenti anziani più a lungo di oggi. Ma è
necessario un processo di umanizzazione che incoraggi ritmi più flessibili, una formazione
adeguata, l’ergonomia e l’igiene del posto di lavoro, oltre a rendere la vita professionale
compatibile con attività assistenziali e altri impegni volontari importanti per la comunità,
soprattutto se si tratta di una comunità di anziani.
Le nostre società si sono evolute dalla produzione di beni industriali alla creazione di
un’economia basata soprattutto su servizi e informazioni, con il conseguente e radicale
mutamento dell’organizzazione del lavoro. Le nostre società, caratterizzate da una popolazione
che sta invecchiando (e in futuro l’invecchiamento sarà sempre più marcato), vedranno la
maturità prendere il posto dell’odierno culto della giovinezza, mentre alla solidarietà e
all’utilità sociali verrà data l’importanza che meritano.
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81
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 82-98
L’occupazione degli anziani:
possiamo imparare dal Giappone?
1
di Bernard H. Casey*
1. Contenuti
In Giappone il livello di occupazione degli anziani, anche di chi ha oltrepassato l’età
pensionabile, risulta molto elevato. La causa è stata individuata nel vigente sistema
dell’impiego a vita e nei regimi che prevedono trasferimenti e demansionamenti volti a ridurre
gli stipendi dopo che i lavoratori hanno superato la mezza età. Il presente articolo sottolinea
anche il ruolo svolto dalla struttura dell’industria giapponese e l’importanza delle numerose
occupazioni relativamente protette ma improduttive. Inoltre, si mette in dubbio la
sopravvivenza stessa del sistema dell’impiego a vita, dimostrando come vengano introdotti
sistemi di prepensionamento analoghi a quelli occidentali per reagire ad un periodo prolungato
di recessione. A ciò si aggiunga che esistono elementi esterni che spingono verso la
deregolamentazione, minando la capacità di assorbire manodopera anziana da parte dei settori
protetti. Come i loro omologhi occidentali, i datori di lavoro giapponesi tendono a liberarsi
degli anziani ma, di fronte allo sviluppo demografico attuale, tutti gli imprenditori dovranno
imparare a utilizzarli meglio.
2. Introduzione
Spesso si cita il Giappone per l’elevato livello di partecipazione alla popolazione attiva tra
gli anziani, soprattutto maschi. Nel 2000, quasi il 95% degli uomini in età compresa tra i 55 e
i 59 anni, quasi tre quarti di chi aveva tra i 60 e i 64 anni e un terzo degli ultrasessantacinquenni
erano ancora attivi. Tra questi, quasi tutti preferivano lavorare: i rispettivi tassi di occupazione
si posizionavano al 90, 63 e 33%.2 La Figura 1 illustra la situazione in paragone ad altri Paesi.
1 Una versione preparatoria di questo intervento è stata presentata in occasione del Workshop on Ageing, Skills and Labour Markets,
organizzato dal CEPII e tenutosi a Nantes, 7-8 settembre 2001. Questo articolo è pubblicato in inglese sui Geneva Papers on Risk and
Insurance, volume 30, n. 4, ottobre 2005.
* Attualmente l’autore è senior research fellow presso The Pensions Institute, Cass Business School, Londra. Ha lavorato come esperto
di economia all’OCSE e ha firmato numerosi contributi riguardanti età e occupazione, il sistema pensionistico, l’occupazione in età
avanzata e le cure a lungo termine destinate agli anziani. Gran parte del suo lavoro è di impostazione comparativa. Egli desidera
ringraziare Atsuhiro Yamada, Tetsuo Ogawa e Kika Kobatake per i preziosi commenti e l’aiuto prestato a più riprese nel corso della
stesura del presente articolo. Qualsivoglia errore o imprecisione vanno comunque attribuiti esclusivamente all’autore. Bernard H.
Casey può essere contattato ai seguenti indirizzi: The Pensions Institute, Cass Business School, City University, 106 Bunhill Row,
London EC1Y 8TZ UK; e-mail: [email protected].
2 La quasi totalità dei dati forniti nell’articolo si riferisce agli uomini. Anche il tasso di occupazione delle donne anziane risulta elevato
in Giappone, ma sia in Svezia che negli USA risulta equivalente se non addirittura maggiore.
82
USA
Regno Unito
Svezia
Paesi Bassi
Italia
Germania
Francia
Finlandia
Canada
Giappone
Figura 1: Tassi di occupazione tra i maschi anziani, anno 2000 (%)
Fonte: OCSE.
Questi tassi di occupazione elevati si verificano in concomitanza con l’adozione di un’età
pensionabile obbligatoria relativamente bassa in molti settori dell’economia giapponese: si è
passati da 55 a 60 anni nel giro dell’ultimo trentennio. Si tenga inoltre conto del fatto che vige
un sistema retributivo che in paragone rende i lavoratori anziani più costosi. Il sistema
“dell’impiego a vita” stabilisce le retribuzioni in base all’anzianità di servizio e quindi, in
pratica, in base all’età. In questo articolo ci si chiede perché, date le circostanze e alla luce dei
risultati relativamente deludenti dell’economia giapponese nell’ultimo decennio, si siano
mantenuti tassi di occupazione così elevati. In seconda battuta, ci si domanda se sarà possibile
mantenerli invariati anche in futuro.
3. Alcune spiegazioni convenzionali, altre meno
Il sistema dell’impiego a vita è espressione di elementi culturali, cui si va ad aggiungere la
tarda industrializzazione. Alcuni esperti ritengono che si tratti del risultato dell’assunzione di
lavoratori rurali, i quali si sarebbero trovati a passare dalle dipendenze di una comunità protetta
a quelle di un’altra comunità protetta. L’azienda riproduceva molti aspetti del villaggio,
soprattutto per quanto riguarda l’impossibilità di concepire il lavoro individuale — per non
parlare delle retribuzioni individuali — a vantaggio dell’idea della cooperazione3 — e quindi
di retribuzioni stabilite in base al tipo di lavoratore. In azienda si sono conservate le differenze
di salario tra uomini e donne, ma le retribuzioni erano anche il riflesso delle responsabilità
assunte, le quali si riteneva aumentassero con l’età (Sano, 1997). Secondo altri, invece, il
sistema dell’impiego a vita forniva una risposta razionale alla mancanza di forza lavoro in
periodi di crescita sostenuta, oltre a rappresentare un sistema con cui cercare di ridurre il
ricambio di manodopera specializzata in azienda. I primi segnali sono comparsi negli anni
Venti, ma il sistema non ha assunto importanza prima degli anni Cinquanta (Matsuzuka, 2002).
Qualsiasi ne sia stata la causa, diversi studiosi hanno sottolineato come, rispetto ad altri Paesi
che dispongono di dati analoghi, l’aumento delle retribuzioni dei lavoratori giapponesi risulta
più accentuato e persiste per un periodo di tempo più lungo (OECD, 1996:105).
3 Il fenomeno è legato all’alta flessibilità occupazionale che, a sua volta, è stata menzionata per spiegare gli elevati livelli di produttività.
Cfr. Keike (1997).
83
È proprio a causa dell’evidente rapporto esistente tra età e livello retributivo che le aziende
impongono il pensionamento obbligatorio,4 per cui ci si attende che l’uscita dal mondo del
lavoro abbia luogo qualche anno dopo aver raggiunto il picco massimo delle responsabilità
professionali. Il pensionamento obbligatorio è adottato da quasi tutte le grandi aziende e dalla
maggior parte di tutte le altre, a eccezione di quelle più piccole. L’età pensionabile è stata
definita dai datori di lavoro o tramite contrattazione collettiva, mentre il governo ne ha
incoraggiato l’innalzamento per cercare di restare al passo con l’età pensionabile prevista dal
sistema pubblico. Quest’ultima si attesta in concreto sui 60 anni, anche se sin dalla metà degli
anni Novanta si sono avute diverse iniziative volte a portarla a 65. Tuttavia, in base alle leggi
vigenti, tale aumento non si verificherà prima del 2013 per gli uomini e del 2018 per le donne.5
Ai precedenti innalzamenti dell’età pensionabile — verificatisi negli anni Ottanta e Novanta
— è corrisposto l’aumento dell’età in cui si raggiungeva il salario massimo. Nel 1980 il picco
salariale si verificava a 52 anni, nel 1999 a circa 57 (JIL, 2000).
Uno dei fattori che conducono agli alti tassi di occupazione tra la popolazione anziana è
stato individuato nelle strategie adottate dai datori di lavoro al fine di aggirare alcune delle
conseguenze del pensionamento obbligatorio e del sistema retributivo legato all’anzianità. In
molti casi, a chi raggiunge l’età pensionabile viene offerto un qualche tipo di riassunzione,
spesso su base temporanea, magari modificando termini e condizioni contrattuali. Tra le
aziende che applicano un’età pensionabile inferiore ai 65 anni, oggi la percentuale di quelle che
offrono la continuazione del rapporto di lavoro ha raggiunto il 55%, anche se solamente in un
quarto dei casi si soddisfano tutte le richieste di riassunzione (cfr. OECD, 2004).6
Sovente viene fatto riferimento all’abitudine per cui gli ultracinquantenni sono trasferiti
dalla casa madre ad aziende subappaltatrici in base ad accordi denominati shukko e tenseki. Lo
shukko prevede che il lavoratore trasferito continui a essere un dipendente della casa madre,
mentre in base al tenseki egli diventa un impiegato dell’azienda cui è destinato. Accade che a
un periodo di trasferimento che prevede lo shukko facciano seguito la rescissione del contratto
originario e la riassunzione in base al tenseki (Sato, 1996).
Qualora non vi sia possibilità né di reinserimento né di trasferimento, l’azienda farà di tutto
per aiutare il dipendente a trovare un altro impiego o addirittura — dopo avergli assegnato una
somma forfetaria a fini pensionistici — ad iniziare un’attività in proprio (Rebick, 1995).
Il mutamento delle mansioni o delle condizioni contrattuali e/o il passaggio al lavoro
autonomo in età avanzata di norma sono accompagnati da un qualche tipo di riduzione dello
stipendio. Così, dopo aver toccato l’apice, la curva che esprime il rapporto tra età e retribuzione
subisce un tracollo subitaneo più evidente che in molti altri Paesi.7 Per chi rimane nella vecchia
azienda si calcola che il taglio salariale si aggiri intorno al 30%; per chi viene trasferito esso
tocca quasi il 50%. (JIL, 2000).
Tuttavia il reddito totale cala un po’ meno. In base alle disposizioni che governano il
sistema delle pensioni statali, chi ha diritto alla pensione correlata al reddito può iniziare a
riceverla pur tornando a lavorare. Prima di portare il limite a 65 anni, questa regola si applicava
a chi aveva un’età compresa tra i 60 e i 64 anni. Era previsto un “test ” che riduceva la pensione
4 Si tratta di un classico esempio del perché esista il pensionamento obbligatorio. Per ulteriori dettagli, cfr. Lazear (1987).
5 Il regime pensionistico giapponese consta di due livelli — uno scaglione di base che prevede un identico tasso per tutti e uno scaglione
correlato allo stipendio: rispettivamente, si tratta del 18 e del 30% circa sul reddito medio lordo. Dall’inizio degli anni Cinquanta si accede
alle prestazioni di base solo dopo i 65 anni, mentre è possibile iniziare a percepire per intero la pensione correlata al reddito a partire dal
60° anno d’età. Chi smetteva completamente di lavorare a 60 anni aveva il diritto di ricevere un’addizionale pari alla pensione di base.
Tuttavia, a partire dal 1994 tale possibilità è stata gradualmente ridotta, fino a sparire completamente dopo il 2000 (cfr. Casey, 2004).
6 I dati si riferiscono alle imprese del settore privato con almeno 30 dipendenti.
7 Gran parte delle curve che mettono in relazione età e retribuzioni attraversano i settori e non indicano lo sviluppo di coorti, per tacere
dei singoli. Di conseguenza, accade raramente che illustrino l’aumento della retribuzione con l’avanzare dell’età e non riescono a
rendere conto dei cambiamenti relativi al tipo di mansioni eventualmente svolte dai lavoratori considerati.
84
di almeno il 20% per arrivare gradualmente fino al 100% se lo stipendio superava quello medio
dei lavoratori dell’industria.
In base a questo sistema, chi accettava di lavorare con un livello retributivo pari alla metà
del salario medio del settore industriale riusciva a incrementare il proprio reddito lordo del
50% circa. Come illustrato dalla Figura 2, continuava a lavorare approssimativamente il 30%
degli uomini in età compresa tra i 60 e i 64 anni che beneficiavano di una pensione statale
correlata alle retribuzioni. A partire dal 2002 è entrata in vigore un’ulteriore “normativa sui
redditi” concernente il secondo livello pensionistico, la quale per certi aspetti risultava meno
severa e si applicava ai lavoratori tra i 65 e i 69 anni d’età (cfr. OECD, 2004).
Figura 2: Occupazione e pensioni tra i maschi anziani.
Fonte: Social Insurance Agency, Annual Operational Report FY 2000.
Nota: comprende persone la cui pensione è stata sospesa del tutto (fino a un quarto).
Parallelamente alla possibilità di continuare a lavorare pur ricevendo la pensione, le
pratiche quali la possibilità di reimpiego o il trasferimento a una controllata forniscono una
spiegazione parziale al fenomeno della permanenza nel mondo lavorativo da parte di anziani
che hanno superato l’età del pensionamento obbligatorio. Spesso si è data eccessiva
importanza al ruolo svolto dal sistema dell’impiego a vita. Gli esperti ritengono che esso si
applicasse a circa il 20-30% dei dipendenti — lavoratori maschi assunti a tempo pieno dalle
grandi imprese (Lincoln, 2001). Inoltre, come spiegato alla Tabella 1, nel 2000, tra chi si
avvicinava alla soglia dei 50 anni solamente un uomo su quattro lavorava in imprese private e
non del settore agricolo con 1000 dipendenti o più, mentre meno di uno su tre era impiegato in
aziende con almeno 500 dipendenti. In proporzione al totale dei lavoratori uomini nella stessa
fascia d’età, le percentuali crollano a un quinto e un quarto.
85
Tabella 1: Occupazione di uomini tra i 45 e i 49 anni
in base alle dimensioni dell’azienda, anno 2000 (%)
Uomini 45-49 anni
Totale
Nell’agricoltura
Lavoratori autonomi non nell’agricoltura
Nell’amministrazione pubblica
Dipendenti del settore privato
In un’azienda con meno di 10 dipendenti
In un’azienda con meno di 30 dipendenti
In un’azienda con più di 499 dipendenti
In un’azienda con più di 1000 dipendenti
100
3
2
11
84
13
24
24
19
100
15
28
29
23
Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau (2000a), Report on the Special Survey of the Labour Force, February
2000 (Labour Force Series No. 65); calcoli dell’autore.
Rispetto a quelle più grandi, le piccole imprese tendono a ricorrere meno al pensionamento
obbligatorio oltre una certa età. A metà degli anni Novanta, mentre quasi tutte le imprese con
almeno 300 dipendenti applicavano un’età pensionabile obbligatoria, lo stesso accadeva solo
nel 72% delle aziende con un numero di dipendenti compreso tra 10 e 29, e solo nel 32% di
quelle che avevano meno di 10 dipendenti (Sato, 2000). Inoltre, le piccole imprese tendono più
delle grandi a permettere la prosecuzione del rapporto di lavoro dopo il raggiungimento
dell’età pensionabile obbligatoria: ciò avveniva in circa il 55% dei casi, contro il 35% delle
aziende con 5000 dipendenti o più. Tuttavia, rispetto alle grandi aziende, le piccole imprese
non dimostrano una maggiore propensione a offrire la possibilità di continuare a lavorare a tutti
coloro i quali desiderano farlo. Ciò significa che una buona fetta della popolazione anziana non
riceve alcuna assistenza strutturata da parte del datore di lavoro nella ricerca di un impiego
successivamente al pensionamento. È difficile riuscire a sapere che cosa capiti loro perché la
maggior parte delle indagini in proposito non prende in considerazione le imprese con meno di
30 dipendenti, anche se esse danno lavoro a circa un quarto di tutta la manodopera del settore
privato. È lecito ritenere che nelle imprese piccole e molto piccole le relazioni personali siano
tali che molti continuino a lavorare fino a tarda età e pochi siano costretti al pensionamento.
D’altro canto, come avviene nella maggiore parte degli altri paesi, le condizioni di lavoro
nelle piccole imprese sono notevolmente inferiori rispetto alla grande industria. Gli stipendi
sono più bassi, il ricorso a piani pensionistici integrativi minore, mentre è meno frequente
l’abitudine di versare una somma forfetaria al momento del pensionamento. I lavoratori anziani
che, invece di prolungare il rapporto con il vecchio datore di lavoro, vengono trasferiti a una
piccola azienda si trovano di fronte a una notevole diminuzione dello stipendio, in parte
compensata dalla possibilità di ricevere una pensione parziale e dalla liquidazione ricevuta. I
dipendenti anziani che si trasferiscono in un’altra azienda senza assistenza da parte del
precedente datore di lavoro di norma non ricevono il trattamento di fine rapporto e possono
andare incontro a una notevole riduzione del reddito (Yamada, 2000).
L’analisi del ruolo svolto dai trasferimenti verso una nuova azienda permette di capire
meglio perché tra chi ha poco meno o poco più di sessant’anni sono così numerosi quelli che
continuano a lavorare, ma non spiega perché lo faccia anche chi ha raggiunto e superato la
soglia dei 65 anni. A questo proposito, è necessario considerare più attentamente l’effettiva
condotta dei lavoratori più anziani in Giappone, come appunto facciamo alla Tabella 2.
86
Tabella 2: Caratteristiche dell’occupazione tra i maschi anziani, anno 2000 (%)
Tutte le età
55-64 anni
65 anni e oltre
76
72
84
78
33
26
5
14
19
37
6
16
17
39
31
14
19
64
In agricoltura
Autonomi
Impiegati nell’azienda di famiglia
Part-time
76
12
34
85
3
30
86
10
49
Nel commercio al dettaglio
Autonomi o impiegati nell’azienda di famiglia
3
6
10
11
1
6
3
6
5,2
18
*
5
7
7
7,1
44
4
15
15
24
3,7
Tasso di partecipazione
Tasso di occupazione
Di cui, che lavorano in
Agricoltura
Edilizia
Commercio al dettaglio
Agricoltura, edilizia o
commercio al dettaglio
In altro settore non agricolo
Autonomi
Familiari collaboratori
Part-time
In mobilità
Temporanei o giornalieri
Tasso di disoccupazione
Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Report on the Special Survery of the Labour Force, February 2000
(Labour Force Series No. 65), and Annual Report on the Labour Force Survey: 2000; calcoli dell’autore. *Inferiore a 0,5.
Ovviamente, il lavoro autonomo rappresenta un’importante opportunità per continuare una
vita attiva dopo i 65 anni. La percentuale dei lavoratori autonomi cresce costantemente in
relazione all’età, passando dal 17% nella fascia compresa tra i 55 e i 59 anni, al 30% tra i 60 e
i 64 anni, fino ad arrivare al 48% tra gli ultrasessantacinquenni. Se lo si aggiunge alle attività
nell’azienda di famiglia (retribuite o meno), nel 2000 il lavoro autonomo rappresentava quasi
due terzi (62%) del totale della forza lavoro oltre i 65 anni d’età. Anche il tempo parziale
svolge un ruolo importante: dopo i 65 anni, un lavoratore su quattro ricorre al part-time. Il
settore agricolo rappresenta quasi un terzo degli occupati dopo i 65 anni e, in seno a questo
gruppo, si ha una preponderanza di lavoratori autonomi o impegnati nell’azienda di famiglia.
I settori del commercio all’ingrosso e al dettaglio raccoglievano un quinto della forza lavoro
oltre i 64 anni d’età, il settore edilizio un settimo. Questi tre rappresentano insieme due terzi
del totale dei lavoratori maschi in età avanzata, con livelli due volte superiori alla norma.
Si è già parlato del passaggio a un’occupazione autonoma al termine del percorso
lavorativo, spesso grazie all’incoraggiamento del datore di lavoro. Anche l’ingresso nel settore
del commercio al dettaglio e all’ingrosso rappresenta un’opzione comune, soprattutto nel caso
di relazioni familiari pregresse. Più significativa appare la scelta del rientro nel settore agricolo,
in quanto rispecchia il fatto che al di fuori delle aree metropolitane molti lavoratori in questo
settore sono kengyo nouka, oppure svolgono lavori part-time parallelamente all’impiego nel
settore industriale. Il fenomeno indica inoltre che altri pensionati del settore industriale
ritornano alla comunità rurale, perpetuando il legame famigliare che era stato mantenuto
tramite la proprietà di appezzamenti di terreno.
87
4. Tensioni all’interno del sistema
Da oltre un decennio l’economia giapponese è caratterizzata da bassi tassi di crescita e dalla
prospettiva dell’invecchiamento della forza lavoro. La disoccupazione rimane bassa in
paragone agli standard nazionali, ma è cresciuta a livelli elevati secondo il metro giapponese.
In conseguenza del persistere di risultati deludenti, le imprese si sono trovate obbligate a
realizzare ristrutturazioni e tagliare i costi. Al sistema bancario, in parte a seguito di pressioni
governative ed esterne, è stato chiesto di essere più severo nella politica dei prestiti, di
recuperare i finanziamenti negativi e di obbligare alla chiusura le attività non redditizie. Infine,
sempre con il contributo di pressioni esterne, il governo ha dato il via alla deregolamentazione
di settori importanti dell’economia, forzando così le imprese ad adottare pratiche più efficienti.
La conseguenza è stata che quelle politiche e pratiche in materia di manodopera
improntate a una crescita elevata e a una forza lavoro in espansione non sono più risultate
efficaci. Il sistema dell’impiego a vita che insieme al shukko e al tenseki garantiva a una parte
degli anziani la possibilità di continuare a lavorare ha perduto l’efficienza che lo
contraddistingueva. Le grandi imprese non si sono limitate a ridurre le assunzioni, ma hanno
iniziato a licenziare. Già nel 1993 sono state svolte indagini che indicavano che le aziende
ritenevano di trovarsi di fronte a un eccesso di manodopera anziana (dai 45 anni in su) con
mansioni d’ufficio e amministrative e che, nella stragrande maggioranza dei casi, tali
eccedenze erano strutturali piuttosto che congiunturali; inoltre il problema si faceva più
pressante con l’aumentare delle dimensioni dell’azienda (Sato, 1994). Nei casi estremi, alcune
grandi imprese hanno iniziato a inserire i licenziamenti nei loro progetti di ristrutturazione
(Osawa e Kingston, 1996), talvolta anche licenziamenti “non volontari” (Araki, 1995). In altri
casi venivano offerte altre vie d’uscita, come pensioni anticipate o trattamenti di fine rapporto
maggiorati, occasionalmente a lavoratori di appena 50 anni (Sato, 1994). Negli ultimi tempi
l’incidenza di tali pratiche “non giapponesi” non sembra aver fatto altro che crescere, come
indicato alla Tabella 3.
Tabella 3: Grandi aziende che hanno annunciato/adottato
piani di prepensionamento a partire dal 1999
Azienda
Settore
Data
Arabian Oil
Raffinazione del petrolio
Annunciato nel marzo 2000
Dainippon ink
Prodotti chimici
2000-2001
Fujisawa Pharmaceutical Co. Ltd.
Finestra aperta tra fine novembre 2004
e metà gennaio 2005
Japan Energy Corp.
Raffinazione del petrolio
e manifattura
Dal 2000 al 2001
Showa Shell
Raffinazione del petrolio
Dal 1999 al 2001
Isuzu
Automobili
Nel 2000-2001
Mazda (della Ford)
Automobili
Marzo 2000
Nissan (della Renault)
Automobili
Ulteriori dettagli
In tutto hanno fatto
domanda 716 dipendenti
di cui 218 delle filiali in
parte in preparazione alla
fusione con Yamanouchi
Pharmaceutical Co., Ltd.
per costituire la Astellas
Pharma Inc.
Vi furono anche trasferimenti
in consociate
Chiusura degli stabilimenti e
perdite. 2210 prepensionamenti
(8% della forza lavoro):
piano offerto a tutti i lavoratori di 40+
anni con almeno 10 anni di servizio
Piani per ridurre del 3-5% all’anno la
forza lavoro. In Francia
la Renault ha un programma
di prepensionamento per tutti
i lavoratori con più di 57 anni
(continua alla pagina successiva)
88
Tabella 3: (continua da pagina precedente)
Anritsu
Elettronica
Maggio 2002
Fujitsu
Elettronica
Estate 2001
Offerta ai lavoratori comuni in età
45-59 anni, con almeno 10 anni di
servizio, con conseguente abbandono
di 312 dipendenti
(compresi 57 inviati in altre aziende)
Prepensionamento volontario offerto a
tutti i lavoratori di 45+ anni
in Giappone. Parte del piano
era ridurre la forza lavoro
globale del 21%
Hitachi
Elettronica
Primavera 1999
Programmi ripetuti negli anni seguenti
Matsushita (Panasonic)
Elettricità/elettronica
Marzo 2000-2001 e gennaio 2005
Alla ricerca del prepensionamento di
5000 lavoratori come parte
del piano di ridurre la forza
lavoro di 13000 unità.
Obiettivo di rendere le sussidiarie
più efficienti. Alla ricerca di
altri 3000 prepensionamenti
alla data del 2005
Mitsubishi Electrical Co.
Elettronica
Nel 2000-2001
Parte della riduzione del 10%
della forza lavoro
Saga
Elettronica
Prima metà del 1999
Toshiba
Elettronica
Agosto 2001
Prepensionamento volontario dei 40+
con indennità di licenziamento di 21/2.
Costo atteso di 60 mld di yen. Parte
della riduzione del 10% della forza lavoro
Kawasaki
Industria pesante/siderurgia
Da metà 2000
In trattative di fusione con la NKK
(vedi sotto)
Nippon Steel
Siderurgia
1999-2000
NKK
Siderurgia
Japan Tobacco
Tabacco
In trattative di fusione con la Kawasaki
1999 e di nuovo nel 2003-2004
Anno finanziario 1999-2000: riduzione
del 10% della forza lavoro in
Giappone e percentuale simile
all’estero; 2003-2004: riduzione
della forza lavoro del 25%
compreso il prepensionament
offerto a dipendenti di 45-59 anni
con almeno 15 anni di servizio;
domanda di 5800 dei 12000 aventi
diritto (ne erano previste solo 3500)
Kirin
Distillazione
Dal 1999 al 2001
Anche trasferimenti in consociate
Snow Brand Milk
Alimentare
2000
In parte conseguenza di un caso di
intossicazione alimentare
JAL
Trasporto aereo
Primavera 2000
NTT
Telecomunicazioni
Da settembre 2000
In tutto 6500 volontari oltre a una
riduzione di 21000 posti già prevista
(riduzione del 17% della forza lavoro).
Offerti a tutti i dipendenti di 47-60
anni 10 mesi di retribuzione base
più indennità di pensionamento
Daiei
Commercio al dettaglio
1999-2000
Vendita di attività per coprire i costi del
prepensionamento
Kanematsu
Import-export
Annunciato alla metà del 1999
Grande ristrutturazione imposta
dalle banche
Mitsukoshi
Gruppo di grande distribuzioneRiportata nell’ottobre 2004
Alla ricerca di prepensionamento volontario
di lavoratori di 40+
Mycal
Commercio al dettaglio
Chiusura di punti vendita. Esigenza di
Gennaio 2001
prestiti
bancari per coprire i costi del
prepensionamento
Seiye
Catena di supermercati
Riportata nel dicembre 2003
Programma di prepensionamento
volontario quale
(di proprietà della Wall Mart per il 38%)
parte del piano di riduzione del
personale di 1613 unità (o circa 1/5)
Chiyoda e Dai-Tokyo
Assicurazioni
Primavera 2000
Parte di una fusione
Nikko Securities
Servizi finanziari
1998-2000
Offerta ai dipendenti di 40+
Sanawa
Servizi bancari
1999-2000
Vari collegi privati
Istruzione
Riferita nel marzo 2001
Diminuzione del numero di studenti
Fonte: Ricerca sul Financial Times “Top World Sources” oltre alla ricerca su Google di Giappone + “prepensionamento”.
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Nella Tabella 3, la cosa interessante è data dalla comparsa nell’elenco dei grandi produttori
di automobili. Negli ultimi anni sia Nissan che Mazda sono state scalate da aziende straniere.
Le nuove amministrazioni che si sono insediate non erano giapponesi, né si attenevano alle
pratiche seguite in Giappone (per esempio cfr. Ibson, 2001).8 Nel mettere in pratica i piani di
ristrutturazione, quello che cercavano di fare assomigliava molto a ciò che avevano fatto nel
Paese d’origine, in Francia o in America. Sono ricorsi ai licenziamenti e in particolare hanno
offerto programmi di prepensionamento; in questo secondo caso il livello di partecipazione è
stato alto. Le aziende hanno registrato un eccesso di adesioni nel giro di giorni o addirittura
di ore, sintomo del fatto che i lavoratori temevano che i tagli fossero inevitabili e che
condizioni simili non sarebbero state offerte una seconda volta (Yomiuri Shimbun, 2001, ma
cfr. anche il caso — spesso menzionato — di Japan Tobacco alla Tabella 3).9
I problemi che affliggevano le grandi aziende si sono ripercossi sul funzionamento dei
sistemi shukko e tenseki. I settori in cui operano le società che ricevono la manodopera
trasferita hanno sofferto dello stesso rallentamento della domanda e si trovano di fronte alla
medesima necessità di ristrutturare del settore che comprende le aziende d’origine dei
lavoratori. Di conseguenza, il sistema è andato in panne. La capacità di ricezione della forza
lavoro trasferita è peggiorata a causa di altri due fenomeni. In primis, i piani di ristrutturazione
di molte grandi aziende comportano la razionalizzazione dei sistemi delle forniture: la nuova
gestione straniera di Nissan è stata spesso citata come uno dei precursori in questo campo. Si
è cercato di ridurre il numero dei subappaltatori per costringerli a essere più efficienti, talvolta
rivolgendosi addirittura all’estero.10 In secondo luogo, le piccole aziende in particolare si sono
sentite minacciate dai tentativi volti a obbligare il settore bancario a ridurre i finanziamenti
negativi, e la loro posizione è resa ancor più difficile dalla rescissione dei contratti di fornitura
con le grandi società. Anche se a questi tagli si è proceduto lentamente, i casi di bancarotta
sono aumentati: nel 2000 sono cresciuti del 12% rispetto all’anno precedente, raggiungendo
il livello più alto dal 1987. Le piccole e medie aziende sono state colpite due volte: sia perché
le banche analizzavano più attentamente la loto situazione finanziaria, sia perché le case
madri cercavano di liberarsi dai debiti sacrificando le controllate meno efficienti (cfr. TDB,
numerose edizioni).
La Figura 3 illustra lo sviluppo dell’incidenza di licenziamenti, prepensionamenti e
trasferimenti a partire dagli anni Novanta, rilevando la percentuale di aziende che ha adottato
misure particolari per riuscire a far fronte al calo della domanda. Per avere un riferimento, si
riporta anche il tasso di disoccupazione totale. Sebbene vi sia solo una piccola minoranza di
datori di lavoro che afferma di avere dovuto ricorrere ai prepensionamenti, la loro incidenza
ha continuato a crescere sensibilmente. Allo stesso tempo, si è avuto un calo dell’incidenza
dei trasferimenti verso occupazioni esterne.
Il primo e più famoso dei gaijin è stato Carlos Gohsan che per conto di Renault ha assunto la gestione di Nissan.
Japan Tobacco ha reso noto che, invece dei 3.500 attesi, sono stati 5.800 i dipendenti che hanno chiesto il prepensionamento volontario
offerto dal programma di taglio dei costi (cfr. per esempio la relazione dell’Associated Press in data 5-1-2005).
10 Un’indagine condotta dal Mitsubishi Research Institute prevedeva la perdita di 143.000 posti di lavoro nel comparto automobilistico,
di cui quasi l’80% tra i fornitori, per lo più piccole aziende (Financial Times, 5-9-2001).
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9
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Figura 3: Percentuale di aziende che sono ricorse a licenziamenti,
trasferimenti e prepensionamenti.
Manifattura – trasferimenti (shukko)
Manifattura – licenziamenti
Manifattura – prepensionamenti
Tasso di disoccupazione
Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Survey on Labour Economy Trends, trimestrale
(http://www.dbtk.mhlw.go.jp/toukei/kouhyo/data-rou15/jikei/jikeiretu-02.xls), OCSE (tassi di disoccupazione standardizzati).
Sono state innanzitutto le grandi aziende a votarsi alla pratica del prepensionamento. La
Tabella 4 indica che nel 2002 quasi una su cinque delle maggiori società ha offerto una tale
opzione. Il settore manifatturiero ha fatto largo uso di questo strumento, ma sono state le
aziende dei servizi finanziari a ricorrervi maggiormente.
Tabella 4: Percentuale di aziende che sono ricorse ai prepensionamenti,
divise per settore e dimensioni
2000
2001
2002
2,1
2,8
6,3
13,9
8,1
5,1
2,6
1,5
3,7
6,3
10,6
17,6
13,9
6,0
5,5
2,6
4,8
6,7
10,8
19,5
17,3
9,7
6,7
3,3
Tutti i settori
Manifattura
Servizi finanziari
5000+ dipendenti
1000-4999 dipendenti
300-999 dipendenti
100-299 dipendenti
30-99 dipendenti
Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Survey in Employment Management.
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Probabilmente gli sforzi compiuti dal governo per soddisfare le richieste di maggiore
rigore finanziario finiranno per comportare ulteriori conseguenze negative sulle possibilità di
impiego degli anziani. La Tabella 2 illustrava l’importanza del settore edilizio per
l’occupazione di manodopera in età avanzata. Questo comparto è stato uno dei principali
beneficiari di molti programmi di spesa aggiuntivi con cui il governo ha cercato di sostenere
l’economia dopo lo “scoppio della bolla”. Diverse opere pubbliche sono state criticate in
quanto spreco di risorse o, nel migliore dei casi, niente più di una forma di sussidio di
disoccupazione sotto mentite spoglie; dai più critici, erano bollate come casi di clientelismo
(cfr. OECD, 2000). Nell’agosto 2001, il governo ha approvato il maggiore taglio alle spese
“della storia” (circa il 2%), il cui impatto maggiore avrebbe riguardato i progetti
infrastrutturali.11
Infine, si dubita sempre di più che i settori che in passato assorbivano parte degli anziani
che non venivano trasferiti dai loro precedenti datori di lavoro possano continuare a farlo. Le
richieste interne e internazionali hanno condotto a una sensibile deregolamentazione degli
altri due comparti fondamentali per l’occupazione degli anziani: il commercio al dettaglio e
l’agricoltura. Si prevede che una serie di “piani per la deregolamentazione” possa
incoraggiare l’apertura di grandi supermercati e centri commerciali, il cui sviluppo finora era
stato osteggiato dalle amministrazioni locali nel tentativo di proteggere il benessere dei
piccoli commercianti, e lo scioglimento dei monopoli nel commercio all’ingrosso, che si
trovava effettivamente nelle mani dei produttori nazionali. Se verrà adottata, la giurisprudenza
a riguardo porterà alla chiusura di molti piccoli punti vendita e società di distribuzione che
oggi danno lavoro agli anziani, sia in qualità di autonomi che in aziende a conduzione
familiare (Yahata, 1995).
Al settore agricolo sono state imposte le decisioni dell’Organizzazione mondiale per il
commercio, in particolare quelle successive all’Uruguay Round del 1994, che hanno richiesto
l’apertura dei mercati alle importazioni di riso e manzo. Sebbene la forza lavoro in questo
comparto sia crollata di un quinto durante gli anni Novanta, il numero di
ultrasessantacinquenni occupati nell’agricoltura è rimasto quasi invariato, arrivando a
rappresentare oltre il 40% del totale nel 1996, quando nel 1989 ammontava a un quarto.12 Nel
1995 il governo si è impegnato a realizzare un programma della durata di sei anni volto a
promuovere la ristrutturazione dell’agricoltura e, come osservato dall’OCSE, data l’età
relativamente avanzata della manodopera del settore, gran parte della ristrutturazione avrebbe
riguardato i rapporti intergenerazionali (OECD, 1996: 81). Se la riforma viene portata alla sua
logica conclusione, in un’agricoltura fortemente regolamentata lo spazio riservato ai “lavori
protetti” non potrà far altro che diminuire rapidamente.
5. Risposte politiche
Pur rimanendo elevato rispetto agli standard internazionali, in Giappone il tasso di
occupazione degli anziani è andato diminuendo sin dalla fine degli anni Novanta. L’occupazione
tra gli anziani maschi eccedeva il 50% del valore totale, mentre tra chi aveva superato i
sessant’anni superava il 10% nel 1998 e ha registrato valori a una cifra solo nel 2002.
Il totale degli investimenti statali rispetto al PNL è passato da un massimo dell’8,5% nel 1997 a circa il 4,5% nel 2004 (cfr. OECD, 2005: 86).
Nel 2003 gli ultrasessantacinquenni rappresentavano il 47% dei lavoratori dell’agricoltura. A partire dal 1996 il totale della manodopera
impiegata nel settore è crollato di quasi il 20%, mentre la quota di lavoratori di almeno 65 anni d’età si era ridotta di appena l5%.
11
12
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Tasso di occupazione
(%) uomini
Tasso di disoccupazione (%)
Figura 4: Trend dei tassi di occupazione e disoccupazione
tasso di occupazione, 55-59 anni
tasso di occupazione, 60-64 anni
tasso di occupazione, 65+ anni
tasso di disoccupazione (tutte le età, uomini e donne)
tasso di disoccupazione (uomini, 55-64 anni)
Fonte: Management and Co-ordination Agency, Statistics Bureau, Annual Report on the
Labour Force Survey: 2003.
Ciononostante, in Giappone “l’etica del lavoro” (se è lecito applicare un concetto
protestante a una società improntata al confucianesimo) continua a essere molto sentita, Gli
anziani sembrano volere lavorare di più rispetto ai loro coetanei in diversi altri Paesi.13 In
effetti, il graduale declino del sistema dell’impiego a vita e, in particolare, la maggiore
incidenza di licenziamenti e prepensionamenti sembrano avere conseguenze profonde sulle
condizioni psicologiche degli anziani. Come evidenziato dalla Figura 5, si è registrato un
notevole aumento dei suicidi tra gli uomini di mezza età.
13 I “protestanti” Paesi Bassi rappresentano un’eccezione. Secondo un’indagine condotta tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli
anni Novanta in più nazioni e riguardante gli ultrasessantenni, nei Paesi Bassi in poco più del 70% dei casi la risposta è stata che
preferirebbero lavorare perché altrimenti la vita risulterebbe oltremodo noiosa, mentre solo nel 20% delle risposte il motivo era il
bisogno di denaro. Si tratta delle medesime percentuali del Giappone. Altrove al fattore economico veniva assegnata un’importanza
maggiore, mentre il valore intrinseco del lavoro veniva considerato molto meno.
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Figura 5: Andamento dei suicidi tra gli anziani maschi (cifre per 100000 persone)
uomini di tutte le età
uomini 45-49 anni
uomini 50-54 anni
uomini 55-59 anni
uomini 60-64 anni
uomini 65-69 anni
donne di tutte le età
Fonte: Ministry of Health, Labour and Welfare, Suicide Statistics; Management and Co-ordination
Agency, Statistics Bureau, Annual Report on the Labour Force Survey: 2003.
I responsabili a livello politico hanno cercato di far fronte alla situazione in diversi modi. Anche se
il governo avesse incoraggiato l’innalzamento dell’età pensionabile da 55 a 60 anni, la normativa che
proibisce ai datori di lavoro di imporre il pensionamento obbligatorio a 60 anni è entrata in vigore solo
nel 1998. Durante le contrattazioni del 2000 e del 2001, i sindacati hanno posto l’incremento dell’età
della pensione al centro delle proprie rivendicazioni salariali, ma il governo si è limitato ad appoggiarli
tramite la tradizionale strategia esortativa. Si è avuta la riforma della Legge per la stabilizzazione del
lavoro degli anziani, ma questa si limita a fare delle raccomandazioni. I datori di lavoro dovrebbero
impegnarsi per offrire opportunità di lavoro ai dipendenti anziani adottando misure volte allo sviluppo
e al miglioramento della spendibilità sul mercato, dell’ambiente lavorativo e di altre condizioni, oltre
a impegnarsi per fornire un’assistenza adeguata ai dipendenti affinché essi possano “progettare la
propria vita lavorativa” quando invecchiano. Qualora venga applicata un’età pensionabile
obbligatoria, dovrebbero impegnarsi per adottare le misure necessarie a fornire un’occupazione stabile
fino all’età di 65 anni introducendo o migliorando sistemi di situazione permanente, oltre ad adottare
misure volte ad assistere chi se ne va nel trovare un’occupazione alternativa.
Non si è registrato tentativo alcuno di introdurre norme discriminatorie in base all’età.
Tuttavia, in base a una nuova disposizione della Legge sulle misure occupazionali entrata in
vigore alla fine del 2001, ai datori di lavoro si richiede di compiere sforzi per garantire pari
opportunità nelle assunzioni a prescindere dall’età; inoltre, in proposito è stato varato un certo
numero di linee guida. Anche se sembra che inizialmente si sia verificata una certa
diminuzione del ricorso agli annunci di lavoro che specificavano i limiti d’età, le direttive
prevedevano diverse eccezioni. Di conseguenza, le aziende che applicavano il sistema del
pensionamento obbligatorio erano autorizzate a stabilire limiti d’età nelle assunzioni
giustificandoli con la necessità di fornire un alto grado di formazione sul lavoro, quando le
aziende che adottano sistemi salariali basati sull’anzianità ne erano spesso esentate, se non
potevano assumere anziani con retribuzioni più basse a causa del loro regolamento interno.14
14 Risulta chiaro il parallelismo con la direttiva dell’Unione Europea sull’uguaglianza sul lavoro, almeno in relazione alla questione
dell’età. L’articolo 6 elenca una serie di motivi che giustificano eventuali differenze di trattamento in base all’età (cfr. CEC, 2000). È
possibile anche notare che, pur avendo il Giappone una legge che proibisce ogni discriminazione basata sul sesso (ma non sulla razza),
essa è stata descritta come “un’anatra zoppa” (Hanami, 2000). Fino al 1997 le disposizioni in materia richiedevano semplicemente che
i datori di lavoro si sforzassero di offrire pari opportunità alle donne in caso di assunzione e licenziamento. Benché fossero proibite
eventuali discriminazioni quanto a formazione e tagli al personale, però, le autorità di controllo non disponevano di potere alcuno per
far rispettare le proprie decisioni (cfr. Imada, 1996; Araki, 1998).
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I dati relativi al 2002 rivelano che il 44% dei disoccupati in età compresa tra i 45 e i 54
anni e quasi il 55% degli ultracinquantacinquenni sostenevano che il motivo principale per cui
non riuscivano a trovare lavoro era che non rientravano nella fascia d’età che poteva
presentare domanda (MHLW, 2003: 38).
Spesso i documenti ufficiali menzionano quanto siano state rafforzate a favore degli
anziani le politiche riguardanti il mercato del lavoro (per ulteriori informazioni, cfr., MHLW,
diversi anni, e OECD, 2004). Per molti anni il governo ha messo in atto sistemi di
incentivazione salariale per promuovere l’assunzione di “persone difficili da inserire nel
mondo del lavoro”, come gli anziani e i disabili, cui si sono aggiunte le sovvenzioni ai datori
di lavoro che assumevano dipendenti di mezza età o anziani in regioni ad alta disoccupazione.
Inoltre, chi trova un nuovo lavoro dopo aver lasciato l’occupazione precedente a 60 anni
riceve un sussidio che compensa in parte il calo della retribuzione che subisce — una
disposizione che nel 2001 riguardava quasi un dipendente su venti. Tuttavia, non sembra
esistere alcuna valutazione dell’impatto di tutte queste misure.
Gli esperti sottolineano il fatto che i datori di lavoro sembrano introdurre cambiamenti
graduali alle pratiche seguite per le assunzioni. In particolare, si ricorda come essi sostengano
di mirare a ridimensionare l’importanza assegnata all’età nel determinare le retribuzioni. Il
Grafico 6 riporta i risultati di un’indagine realizzata alla fine degli anni ’90, una delle più
citate. Occorre tuttavia notare che le aziende si aspettano che vi siano cambiamenti maggiori
nella struttura salariale dei dirigenti piuttosto che a livello dei normali dipendenti (tecnici
amministrativi e operai), i quali rappresentano circa i cinque sesti della forza lavoro maschile
nella fascia d’età critica compresa tra i 45 e i 54 anni.
Figura 6: Intenzioni dei datori di lavoro in relazione ai cambiamenti delle tabelle salariali
mantenimento
del sistema di anzianità
equilibrio tra abilità,
performance e anzianità
maggiore rilievo ad abilità
e performance
concentrazione su abilità
e performance
rilievo solo alle abilità
e performance
posizioni manageriali
altri dipendenti
Fonte: JIL, 2000.
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Per quanto concerne gli operai, potrebbe risultare vantaggioso modificare le retribuzioni
ricorrendo a programmi volti a prolungare il periodo lavorativo. Le riduzioni che
accompagnano il lavoro part-time e temporaneo sono notevoli. Gli atipici evidenziano livelli
retributivi notevolmente inferiori ai dipendenti a tempo indeterminato e di norma hanno
diritto a indennità accessorie, compreso l’accesso al secondo livello delle pensioni (cfr. Casey,
2004 e OECD, 2005: cap. 6).
Oltre a un certo interesse nella modifica del sistema delle retribuzioni, sembra emergere
anche una certa considerazione per eventuali cambiamenti al sistema delle carriere. Alcuni
datori di lavoro danno meno importanza all’anzianità e più al merito quando si tratta di
decidere un avanzamento di carriera, conducendo a quelle che vengono definite “promozioni
che non rispettano i turni”. Si tratterebbe di casi “quotidiani” o “frequenti” in circa un terzo
delle aziende (JIL, 2000). Naturalmente, in questa eventualità i datori di lavoro possono
rilevare un calo della motivazione tra i dipendenti anziani che sono stati sopravanzati, così
spesso affermano anche di aver introdotto una qualche forma di compensazione per
rassicurarli. Si può trattare di iniziative più o meno di facciata, così come l’accettazione della
nuova situazione da parte dei dipendenti può essere più o meno veritiera.
Cionondimeno, i datori di lavoro non possono limitarsi a concentrare l’attenzione sui
propri regimi salariali e sui sistemi di promozione. Come nella maggior parte degli altri Paesi,
in Giappone le aziende destinano ai giovani una fetta sproporzionata delle risorse destinate
alla formazione. Già di per sé questa abitudine può scoraggiare i lavoratori anziani dalla
riqualificazione, oltre a renderli improduttivi (Seike, 1994). Analogamente ai loro omologhi
stranieri, i datori di lavoro giapponesi sembrano avere una visione tradizionale degli anziani
e ritengono di non poterli assumere perché perderebbero competenze professionali e
flessibilità mentre invecchiano (Wanatabe, 1992). La necessità di far fronte
all’invecchiamento della forza lavoro e di prolungare la vita lavorativa implica che non sarà
più sufficiente ricorrere ai mezzi tradizionali per tenere conto dei lavoratori anziani (incarichi
temporanei, demansionamenti e trasferimenti): diventerà assolutamente necessario
riqualificare la manodopera di mezza età e anziana. Tuttavia, ad oggi non sembra che sia stata
adottata alcuna misura in questo senso, se si eccettuano i contributi concessi per coprire le
spese per i corsi per corrispondenza. Aumentando il numero dei lavoratori anziani che cercano
di migliorare le proprie competenze tecniche e professionali, alcune aziende hanno iniziato a
incoraggiare i dipendenti di mezza età o in età avanzata affinché acquisiscano titoli
riconosciuti, anche se nella maggior parte dei casi la decisione in merito viene lasciata ai
lavoratori stessi (Kawakita, 1996).
6. Conclusioni
Spesso il Giappone è stato indicato come un caso a sé stante. Secondo alcuni, il Paese è
caratterizzato da una sua diversità — forse unicità — culturale, il che significa che le pratiche
e le esperienze giapponesi sono difficilmente trasferibili altrove. Secondo altri, soprattutto chi
è interessato ai “lavori-ponte”,15 dal Giappone è possibile imparare. Il presente articolo
sostiene che il Giappone rappresenti effettivamente un caso particolare, anche se non così
speciale come può sembrare a prima vista. Sostiene altresì che è improbabile che il Giappone
continui a rimanere speciale a lungo. Poco di ciò che avviene in questo Paese può essere
imitato, e le condizioni che ne avevano permesso le peculiarità stanno venendo meno. Nel
contempo, il Giappone si trova di fronte a problemi comuni a molte altre nazioni
Si tratta di lavori a tempo parziale o che richiedono un minore impegno e sono spesso peggio retribuiti, intrapresi dagli anziani dopo
aver interrotto la propria carriera e prima di andare completamente in pensione. Cfr. Ruhm (1991).
15
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industrializzate. Così, se esiste una lezione da trarre, questa non è che si può imparare dal
Giappone: al contrario, è possibile che sia il Giappone a dover imparare qualcosa dagli altri
paesi. D’altro canto, pochi hanno già capito come sviluppare politiche e pratiche volte a
migliorare l’impiegabilità degli anziani. Tutti i paesi, Giappone compreso, dovrebbero
continuare in questa loro ricerca con rinnovata energia.
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98
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 99-101
Un commento: tra pensione e vecchiaia il passo è lungo!
di Raimondo Cagiano de Azevedo* e Benedetta Cassani**
La moderna transizione demografica ha trovato nelle società sviluppate le due più
accentuate caratterizzazioni: da una parte la forte diminuzione della fecondità e dall’altro
l’allungamento della vita fino ai limiti estremi oggi conosciuti. Il marcato invecchiamento della
popolazione ne è il risultato, configurandosi come uno dei maggiori progressi e al tempo stesso
come problema per eccellenza delle società moderne.
Si tratta di un fenomeno che sembra ignorare le frontiere nazionali, visto che i paesi europei
diventano altrettanti laboratori che procedono simultaneamente e con gli stessi risultati agli
stessi esperimenti socio-demografici: l’elemento critico, comune ai paesi sviluppati, è
costituito dagli obiettivi di politica economico-sociale ed in particolare dai diversi aspetti delle
ormai inevitabili riforme pensionistiche. Tali aspetti possono essere coniugati in una premessa
comune, cui fanno fronte due posizioni contrapposte, con proprie implicazioni e
interdipendenze.
La premessa si riflette nelle attuali trasformazioni delle strutture per età in atto nelle
popolazioni europee: il continuo aumento della popolazione dipendente, percettrice di
trasferimenti sociali, rispetto al calo della popolazione attiva, mette in discussione il rapporto
prestazioni-contributi che ha caratterizzato il sistema attuale di solidarietà tra le generazioni.
Secondo le previsioni dell’United Nation Population Division (UNDP), la classe degli anziani
in Europa costituirà il 36% della popolazione totale nel 2050, crescendo di ben dieci punti
percentuali rispetto ai valori attuali (26,6%), mentre l’età mediana è destinata ad aumentare di
8 anni, raggiungendo i 47 anni nel 2050. Questa crescita incessante del numero degli anziani
sarà la dinamica caratterizzante fino a quando le generazioni nate nel periodo del baby boom
raggiungeranno età prossime alla vita media alla nascita. Italia e Spagna sono i paesi in cui tale
dinamica risulterà più intensa con una crescita del numero di anziani per ogni 10 individui in
età attiva rispettivamente da 2,5 a 6,6 per l’Italia e da 2,9 a 6,8 per la Spagna (Eurostat, 2005).
In tale contesto si contrappongono due implicazioni delle riforme in atto: da un lato i
demografi richiamano l’attenzione sui termini e le misure del modello pensionistico,
inadeguate alle necessità conoscitive e interpretative di oggi; mentre l’esigenza politica di
contenere la conflittualità tra welfare state e crescita economica mantiene il dibattito attuale
ancora in termini di misure di vecchiaia e di invecchiamento “istituzionale” che in tutte le fonti
ufficiali sono rimaste invariabilmente ancorate alla soglia dei 65 anni; le provocatorie
indicazioni, di fonte Nazioni Unite, per una soglia a 77 anni in Italia sono oggi “politically
uncorrect”; ma demograficamente parlando, meno paradossali di quanto possa apparire.
È qui che si pone la diatriba di antica data e comunque il ricorrente dibattito intorno alle
misure statistiche della vecchiaia e dell’invecchiamento; ed è qui che viene rimesso in
questione il tradizionale ciclo di vita con i relativi indici di dipendenza; della vita attiva;
dell’invecchiamento e della vecchiaia; con i relativi rapporti statistici solidamente insediati e
*
Facoltà di Economia, Università La Sapienza, Roma.
99
immutabili in tutta la manualistica demografica del secolo trascorso.
Molto interessante, a questo riguardo, è stata una riclassificazione delle diverse tipologie di
invecchiamento proposta da Natale e de Sarno Prignano (1999). Gli autori hanno proposto una
ripartizione dell’invecchiamento in demografico, biologico e sociale. L’invecchiamento
biologico è definito come il deterioramento delle capacità funzionali, e gli indicatori che lo
misurano sono rappresentati, oltre che dall’età biologica, anche da misure antropometriche, test
fisiologici, psicometrici e sociali. L’invecchiamento sociale, invece, è rappresentato dall’
“anticipo del termine delle età socialmente rilevanti: allevamento dei figli e attività lavorativa”
(Natale e de Sarno Prignano, 1999), e l’indicatore che fornisce informazioni utili sul diverso
livello di invecchiamento è rappresentato dall’età sociale. Tra gli altri, Massimo Livi Bacci, fin
dal 1987, riconosce che, nel corso dei decenni, si è venuto a verificare un crescente gap tra la
vecchiaia biologica e quella sociale, quasi coincidenti in passato. Se da un lato, infatti, si è
avuto un rinvio della vecchiaia biologica, con un aumento degli anni vissuti, e vissuti
mediamente in migliori condizioni di salute e di efficienza fisica e psichica, dall’altra si è
anticipato notevolmente, nel corso del ciclo di vita, il termine di attività socialmente rilevanti:
l’allevamento dei figli e l’attività lavorativa. Il primo fenomeno ha allungato il tempo rinviando
la vecchiaia biologica; il secondo ha accorciato l’arco di vita socialmente rilevante,
“anticipando” l’inizio della vecchiaia sociale. Nel lungo periodo questo ha significato
l’arretramento dell’invecchiamento biologico e l’allungamento della vecchiaia sociale, con
tutte le conseguenze socio-economiche che tale processo ha generato.
Questa distanza, che sempre più si frappone tra i concetti di invecchiamento biologico,
demografico e sociale, si traduce nell’impossibilità di misurare l’invecchiamento della
popolazione mediante una soglia d’anzianità (60, 65 anni), generalmente legata al momento
dell’uscita dal mercato del lavoro. L’invecchiamento non ha una connotazione temporale
univoca, bensì è un processo continuo che varia non solo da individuo a individuo, ma anche
da una generazione all’altra: un sessantacinquenne di oggi è difficilmente confrontabile con un
sessantacinquenne di 10, 50 o 100 anni fa (Crisci, et al. 2004).
Senza essere demografo, ma con lucida osservazione, Bobbio (1996) sintetizzava la
questione così: “La soglia della vecchiaia in questi ultimi anni si è spostata di circa un
ventennio. Oggi il sessantenne è vecchio solo in senso burocratico, perché è giunto all'età in
cui generalmente ha diritto a una pensione. L'ottantenne, salvo eccezioni, era considerato un
vecchio decrepito, di cui non valeva la pena di occuparsi. Oggi, invece, la vecchiaia, non
burocratica ma psicologica, comincia quando ci si approssima agli ottanta, che è poi l'età media
della vita, un po' meno per i maschi, un po’ più per le donne”. L’adozione di un limite fisso
come soglia di accesso alla vita anziana risulta, quindi, quanto mai anacronistica, ponendo “la
necessità di una revisione, non solo demografica, ma anche sociale, politica ed economica,
della soglia di accesso alla classe degli anziani” (Cagiano de Azevedo, 2004); e anche,
eventualmente, di ripensare definizioni di vecchiaia più come distanza dalla fine della vita che
non dalla sua origine.
Di fronte a questo scenario, l’Europa è chiamata ad affrontare al più presto la questione
dell’invecchiamento demografico, per individuare un sentiero comune di politiche che, pur con
tempi diversi, conduca a un ripensamento della gestione delle età, e in particolare dei flussi di
ingresso e di uscita dal mercato del lavoro, con la consapevolezza che “l’evoluzione non è né
un fatto né una realtà, ma solo un modo di organizzare la conoscenza del mondo” (Lewontin e
Levins, 1978).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
Bobbio N. (1996): De Senectute, Einaudi, Torino.
Cagiano de Azevedo, R., e Capacci, G. (2003): Invecchiamento e svecchiamento della
popolazione europea, Aracne Editore, Roma.
100
Cagiano de Azevedo, R. (a cura di), (2004): The European Welfare in a Counterageing Society,
Ed. Kappa, Roma.
Crisci, M., Gesano, G. e Heins, F. (2004): Population Ageing in the Regions of the European
Union, IRES, Piemonte.
Lewontin, R.C. e Levins, R. (1978): “Evoluzione”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino.
United Nations (2006): Population Ageing 2006, Population Division, United Nations, New
York.
United Nations Economic and Social Affairs (2001): Replacement Migration — Is It a Solution
to Declining and Ageing Populations?, New York.
101
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 102-118
L’invecchiamento demografico in Italia:
verso un miglioramento della relazione tra età e lavoro
di Manuela Stranges*
1. Introduzione
Uno dei processi di maggiore rilievo in corso nei paesi industrializzati è certamente quello
dell’invecchiamento demografico, non solo per le conseguenze che esso avrà sulla struttura e
sulla composizione delle popolazioni interessate, ma anche e soprattutto per le implicazioni di
natura sociale ed economica. Il grado di problematicità conseguente al processo di
invecchiamento dipenderà in maniera forte dal modo in cui i governi e i soggetti economici
saranno in grado di guardare agli effetti del processo stesso, mitigando quelli indesiderati
attraverso l’attuazione di strumenti ad hoc e cogliendo le opportunità, laddove presenti. Appare
dunque necessario individuare un punto di equilibrio tra l’inevitabilità di alcune dinamiche
demografiche e le necessità imprescindibili dei sistemi economici (Stranges, 2006, p. 123).
Scopo del presente contributo è mostrare, attraverso alcuni indici e indicatori demografici,
l’evoluzione del processo di invecchiamento con particolare riferimento alle ricadute sul
mercato del lavoro. Saranno perciò analizzati i tassi di partecipazione dei lavoratori maturi e
anziani, cercando di individuare gli strumenti che possono favorire l’aumento di tale
partecipazione. Tra questi, particolare importanza rivestono i programmi di apprendimento
continuo che, attraverso un adeguamento costante delle competenze e conoscenze del
lavoratore, sono in grado di favorirne la ritenzione all’interno del sistema produttivo. L’analisi,
concentrata sull’Italia e volta a fare emergere le differenze esistenti tra le regioni, presenta
anche confronti con gli altri stati europei, allo scopo di mostrare la posizione del nostro paese
rispetto ai livelli medi dell’Unione Europea e ai trend in atto negli altri paesi.
2. L’invecchiamento demografico in Italia
2.1. Un’analisi dei dati ai censimenti del secondo dopoguerra
Con il termine invecchiamento demografico indichiamo l’aumento, in termini assoluti e
percentuali, della fascia anziana rispetto agli altri gruppi che compongono la popolazione e al
suo totale. Le cause di questo processo sono sostanzialmente due: l’allungamento della vita
(longevità) e la riduzione delle nascite (denatalità). Se la longevità è di per sé una conquista,
l’invecchiamento demografico è una sua conseguenza ineluttabile che pone, però, diversi
problemi di ordine sociale, culturale ed economico. Il numero sempre crescente di anziani si
tradurrà in richieste sempre maggiori di servizi socio-sanitari e di cura. Oltre a ciò, lo squilibrio
che s’ingenererà tra le classi economicamente produttive e le classi anziane (che non solo sono
economicamente passive, ma rappresentano anche un costo in termini pensionistici e
assistenziali) mette a dura prova la sostenibilità dei sistemi di welfare contemporanei.
*
Dottore di ricerca in Demografia, Dipartimento di Economia e Statistica, Università degli Studi della Calabria, [email protected].
102
Il processo di invecchiamento che interessa la popolazione italiana ha avuto origine già nel
corso del XX secolo, a seguito della conclusione del processo di Transizione Demografica che
ha interessato tutte le popolazioni a sviluppo avanzato, e si è progressivamente acuito a mano
a mano che il miglioramento delle condizioni sociali e igienico-sanitarie hanno determinato un
allungamento della vita media. A tale invecchiamento dall’alto si è aggiunto anche un
invecchiamento dal basso, determinato dalla forte denatalità, che ha contribuito a squilibrare i
rapporti tra i diversi gruppi di popolazione. Per comprendere l’origine del processo di
invecchiamento, si può far riferimento alla Tabella 1, che raccoglie alcuni dati relativi ai
censimenti del secondo dopoguerra: valori percentuali della popolazione italiana per
macroclassi d’età,1 valori della vita media a 60 anni e degli indici di struttura.2
La componente anziana, che in percentuale rappresenta un indice di invecchiamento della
popolazione, è passata da 8,2% nel 1951 a 18,7% nel 2001, valore che, come vedremo in
seguito, si è ulteriormente accresciuto negli anni successivi. Parallelamente è diminuito il peso
della componente adulta della popolazione e, ancor più marcatamente, quello della
componente giovanile, pari al 26,1% del totale della popolazione italiana al censimento del
1951 e solo al 14,2% a quello del 2001. L’analisi degli indici di struttura ci permette di cogliere
con maggiore chiarezza il progressivo invecchiamento, messo in evidenza dalla crescita
dell’indice di vecchiaia (che misura quanti anziani ci sono ogni 100 giovanissimi) e dell’indice
di dipendenza anziani (che misura quanti anziani ci sono ogni 100 persone comprese nella
fascia produttiva). Il valore della vita media maschile e femminile si è notevolmente
accresciuto, come indicato dall’età media in corrispondenza dell’età 60 (e60), con un guadagno
di 4,4 anni dal 1951 al 2001 per gli uomini e di 7,4 anni nel medesimo periodo per le donne.
Tabella 1: Principali indicatori del processo di invecchiamento in Italia
ai Censimenti della Popolazione (1951-2001)
Anni
1951
1961
1971
1981
1991
2001
Struttura per età
della popolazione
(valori percentuali)
Indici di struttura
Età media a 60 anni
(valori percentuali)
(valori in anni)
0-14
15-64
65 +
strutturale
Vecchiaia
totale
26,1
24,5
24,4
21,5
15,9
14,2
65,7
66,0
64,3
65,3
68,8
67,1
8,2
9,5
11,3
13,2
15,3
18,7
31,4
38,8
46,3
61,4
96,2
131,4
Dipendenza Dipendenza
12,5
14,4
17,6
20,2
22,2
27,9
52,2
51,5
55,5
53,1
45,3
49,1
Maschi
Femmine
16,0
16,7
16,7
17,0
18,7
20,4
17,5
19,3
20,2
21,4
23,2
24,9
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, Censimenti della Popolazione.
1 Le tre macroclassi d’età considerate corrispondono alle tre fasi della vita degli individui. Pertanto il gruppo 0-14 anni indica la
popolazione giovane, quello 15-64 la popolazione adulta, quello 65+ la popolazione anziana.
2 Gli indici di struttura elementari qui calcolati sono:
a. l’indice di vecchiaia, attraverso la formula: P65+
P0-14
b. l’indice di dipendenza strutturale (o di carico sociale), attraverso la formula: P0-19+ + P65+
c. l’indice di dipendenza anziani, attraverso la formula:
P20-64
P65+
P20-64
103
2.2. Tendenze recenti e previsioni per il futuro
Dopo aver analizzato i dati fino al 2001, passiamo all’osservazione delle tendenze più
recenti del fenomeno dell’invecchiamento, cercando anche di mostrare quali potranno essere
le tendenze future. A tale scopo utilizziamo le ultime previsioni demografiche rilasciate
dall’Istat. Nella tab. 2 sono raccolti i principali indicatori demografici relativi alla popolazione
italiana tra il 2002 e il 2005, con una previsione al 2030 e al 2050. Appare evidente come il
processo di invecchiamento proseguirà in maniera progressiva, giungendo nel 2050 a
deformare3 la struttura per età della popolazione, con una quota di anziani (33,6% del totale
della popolazione) oltre due volte e mezzo la quota di giovani (solo il 12,7%). La riduzione
sarà ovviamente evidente anche nella fascia di età adulta, come conseguenza delle passate
tendenze della fecondità. Le conseguenze di tale processo di squilibrio generazionale sono
efficacemente sintetizzate attraverso gli indici di struttura della popolazione, che
raggiungeranno valori più che doppi rispetto a quelli attuali.
Tabella 2: Tendenze recenti del processo di invecchiamento in Italia (2002-2050)
Anni
2002
2003
2004
2005
2030
2050
Numero
medio
di figli
per donna
1,27
1,29
1,33
1,32
1,48
1,60
Speranza di vita
alla nascita
(in anni)
Struttura per età
della popolazione
(valori percentuali)
Maschi Femmine
0-14 15-64
77,1
77,2
77,7
77,6
81,0
86,6
83,0
82,8
83,7
83,2
83,6
88,8
14,2
14,2
14,1
14,1
12,2
12,7
66,8
66,6
66,4
66,1
60,8
53,7
65+
19,0
19,2
19,5
19,8
27,0
33,6
Indici di struttura
(valori percentuali)
Età media
(valori in anni)
Vecchiaia Dipendenza Dipendenza
strutturale
133,8
135,9
137,8
140,4
222,1
264,1
49,8
50,1
50,6
51,2
64,0
86,0
28,5
28,9
29,3
29,9
44,0
63,0
anziani
42,2
42,3
42,5
42,7
47,0
49,1
Fonte: anni fino al 2005, nostre elaborazioni su dati Istat, 2006a; dati 2030 e 2050, nostre elaborazioni su previsioni Istat (base 2005),
2006b.
3 Conseguentemente alle passate tendenze della fecondità e della mortalità le strutture per età delle popolazioni europee risultano
piuttosto “deformate rispetto alle millenarie strutture per età conseguenti ai tradizionali livelli di fecondità e mortalità” (Golini e
Mussino, 1995, p. 193). Dato che al diminuire della fecondità e all’aumentare dell’invecchiamento diminuisce la dimensione della
generazione media delle donne in età feconda, a partire da un certo livello di mortalità, per cercare di controbilanciare il numero dei
morti, il tasso di fecondità totale del momento, capace di assicurare all’anno una crescita zero (o, perlomeno, un lieve decremento
dell’ammontare della popolazione), cresce in maniera proporzionale all’aumento della percentuale di ultrasessantenni. Ad esempio,
nelle popolazioni dove la percentuale di ultrasessantenni è pari al 25%, basta il puro tasso di sostituzione del 2,1 per assicurare la
crescita zero, cioè il livello al quale una popolazione riesce a rinnovare la sua struttura, pur mantenendosi inalterata in termini di
ammontare. Qualora però la percentuale degli anziani (60+) salga a un livello del 30%, la fecondità del momento dovrebbe raggiungere
quota 2,8 per garantire la crescita zero, o almeno un livello di 2,5 per avere un decremento moderato della popolazione. Tali livelli di
fecondità oramai non si riscontrano più in nessuna popolazione occidentale, Europa compresa, e non è immaginabile che vi possa essere
un’inversione di tendenza tale da raggiungere questi livelli. Basandosi sui dati delle popolazioni stabili associate agli attuali livelli di
mortalità delle popolazioni occidentali, si può supporre una popolazione con una percentuale di ultrasessantenni del 30% corra il rischio
che la struttura per età della popolazione, raggiunta una certa conformazione, costituisca essa stessa un fattore non trascurabile
dell’intenso declino demografico e di un invecchiamento ancora più accentuato. Se poi gli anziani superano il 30% (a livelli, ad
esempio, del 35% o del 40%), allora si potrebbe giungere a una sorta di punto di non ritorno demografico: l’intenso declino demografico
e l’accelerazione nel processo di invecchiamento conseguenti a tale aumento eccessivo della popolazione anziana sarebbero tali da far
si che la popolazione non abbia più “la capacità endogena di ‘riassorbire’ le deformazioni della struttura per età e fermare o invertire le
tendenze demografiche in atto” (Golino e Mussino, 1995, p. 196).
104
Osservando i dati sulla speranza di vita alla nascita maschile e femminile (che nel 2050
raggiungerà, rispettivamente, 86,6 e 88,8 anni) occorre anche evidenziare che la crescita di
popolazione anziana riguarderà soprattutto le fasce d’età estreme (i cosiddetti grandi vecchi)
che rappresentano il gruppo più fragile tra gli anziani. In un recente articolo apparso su
Gerontology, due ricercatori del Max Planck Institute for Human Development di Berlino
hanno esaminato i guadagni e le perdite della senescenza (Baltes e Smith, 2003). Le buone
notizie riguardo alla longevità si concentrano, secondo gli autori, quasi esclusivamente nella
terza età: aumento della speranza di vita, migliori capacità fisiche e mentali, maggiori riserve
cognitivo-emozionali nella mente dell’anziano, benessere emozionale e personale, ecc.
Riguardo alla quarta età, invece, gli autori individuano le cattive notizie, ossia: perdita delle
capacità cognitive e di apprendimento, aumento della sindrome da stress cronico, aumento
della demenza senile, livelli elevati di fragilità, disfunzionalità e pluripatologie, ecc. Non
ultima va considerata la questione morale di guadagnare anni di esistenza, ma in condizioni di
salute che non consentono di vivere dignitosamente. Proprio riguardo a tali considerazioni
l’attenzione degli studiosi si va gradualmente concentrando non solo sull’aumento
dell’aspettativa di vita, ma soprattutto sui guadagni di anni in buona salute e liberi da disabilità.
La crescita del gruppo degli ultraottantenni porrà problemi ancora più gravi, mettendo a dura
prova il funzionamento del sistema di sicurezza sociale, soprattutto in relazione all’asimmetria
tra popolazione economicamente produttiva e popolazione improduttiva e bisognosa di cure.
Se l’invecchiamento dall’alto è reso evidente dai guadagni di vita, l’invecchiamento dal
basso si esprime attraverso i valori del tasso totale di fecondità (numero medio di figli per
donna) che, nonostante una lieve ripresa, resta ampiamente sotto il valore di ricambio di 2,1
figli.4 In considerazione dei recenti sviluppi socio-economici e culturali e dei cambiamenti
nelle modalità di formazione delle famiglie e pianificazione delle scelte riproduttive5 non vi
sono indicazioni che facciano ipotizzare un’inversione di tendenza in tal senso.
2.3. I differenziali regionali
Pur se con una comune e netta tendenza al progressivo invecchiamento demografico, le
regioni italiane non presentano il medesimo livello di manifestazione del fenomeno: in
particolare le regioni meridionali, nelle quali la discesa della fecondità è stata più lenta,
presentano un minor grado d’invecchiamento (a causa di un ridotto apporto dal basso).
Verosimilmente, però, i guadagni di fecondità che si realizzeranno saranno attribuibili,
soprattutto nel futuro più immediato, alle regioni del Centro e del Nord (tendenza già visibile),
nelle quali la maggiore stabilità lavorativa delle donne (testimoniata dai tassi di occupazione
femminile più elevati) permetterà un recupero in età più avanzate (oltre i 30 e fino ai 40 anni)
della fecondità persa in età giovane. Le regioni nelle quali si ha la maggiore quota di
popolazione anziana sul totale regionale sono tutte centro-settentrionali: Liguria (26,6%),
Toscana e Umbria (23,3%), Emilia Romagna (22,8%). Le regioni più giovani sono, invece, tutte
meridionali: Campania (15,3% di anziani), Puglia (17,3%), Sardegna (17,6%), Sicilia (18,0%).
Analoghi equilibri si registrano osservando i valori degli indici di struttura. Pare opportuno
rilevare che la Campania è l’unica regione italiana ad avere un valore di indice di vecchiaia
inferiore a 100 (in corrispondenza del quale c’è esattamente 1 anziano per ogni giovanissimo),
mentre la Liguria è l’unica regione ad avere valore superiore a 200 (in corrispondenza del quale
il numero di anziani è esattamente doppio rispetto a quello dei giovani).
Poiché il rapporto tra i sessi alla nascita è abbastanza stabile (105 maschi ogni 100 femmine), la quota di nascite femminili è pari al
48,8%. Quindi il livello di fecondità di 2,1 corrisponde ad un numero di figlie pari a 1 (2,1*0,488), ed è quindi quel valore che assicura
il ricambio generazionale (garantendo la sostituzione d’ogni madre con una figlia).
5 Lo spostamento in avanti dell’età media al matrimonio e dell’età media alla maternità determinano una riduzione del numero medio
di figli, in quanto fare figli tardi significa anche farne meno. Va, inoltre, considerato il cambiamento nella valutazione economica dei
figli, oltre alla ridefinizione dei ruoli sociali e familiari della donna, che hanno contribuito a determinare una considerazione più
consapevole del trade-off figli/carriera.
4
105
Tabella 3: Indicatori demografici dell’invecchiamento per regioni e ripartizioni (2005)
Regioni
Numero Speranza di vita
medio
alla nascita
di figli
(in anni)
per donna
Maschi Femmine
Struttura per età
della popolazione
(valori percentuali)
0-14 15-64
65+
Indici di struttura
(valori percentuali)
Età media
(valori in anni)
Vecchiaia Dipendenza Dipendenza
strutturale
anziani
Piemonte
1,27
77,3
82,9
12,4 65,0
22,6
181,3
53,8
34,7
44,9
Valle d'Aosta
1,34
77,3
82,9
13,3 66,5
20,2
151,8
50,4
30,4
43,6
Lombardia
1,35
77,6
83,5
13,6 66,9
19,5
143,2
49,5
29,2
43,0
Trentino
Alto Adige
1,54
78,2
84,1
16,2 66,2
17,7
109,3
51,2
26,7
41,2
Veneto
1,35
77,9
84,0
13,9 66,9
19,2
138,5
49,4
28,7
42,8
Friuli
1,23
Venezia Giulia
77,8
83,1
12,0 65,4
22,6
188,0
52,9
34,5
45,3
Liguria
1,18
77,3
82,9
11,1 62,3
26,6
240,3
60,6
42,8
47,3
Emilia
Romagna
1,34
78,1
83,6
12,5 64,7
22,8
182,9
54,5
35,2
44,9
Nord
1,33
77,7
83,5
13,2 65,9
21,0
159,4
51,8
31,8
43,9
Toscana
1,27
78,4
84,0
12,1 64,6
23,3
192,0
54,8
36,1
45,3
Umbria
1,31
78,0
83,8
12,5 64,2
23,3
186,4
55,9
36,4
44,9
Marche
1,28
78,8
84,7
13,1 64,4
22,6
172,9
55,4
35,1
44,2
Lazio
1,27
77,6
82,7
13,9 67,0
19,1
137,6
49,3
28,5
42,5
Centro
1,27
78,1
83,5
13,1 65,7
21,2
162,0
52,3
32,4
43,8
Abruzzo
1,21
77,2
83,8
13,4 65,3
21,3
158,6
53,1
32,6
43,3
Molise
1,14
77,2
83,8
13,4 64,7
22,0
164,7
54,7
34,0
43,5
Campania
1,43
76,1
81,8
17,5 67,2
15,3
87,8
48,8
22,8
38,9
Puglia
1,27
78,5
83,5
15,7 67,0
17,3
110,2
49,2
25,8
40,5
Basilicata
1,15
77,6
83,4
14,5 65,6
19,9
137,8
52,4
30,4
41,9
Calabria
1,24
77,6
82,9
15,2 66,5
18,3
120,2
50,3
27,5
40,9
Sicilia
1,41
77,4
82,3
16,1 65,9
18,0
111,3
51,8
27,3
40,6
Sardegna
1,05
77,2
83,6
12,9 69,5
17,6
136,8
43,9
25,3
42,1
Mezzogiorno
1,32
77,2
82,7
15,8 66,8
17,4
110,3
49,8
26,1
40,5
ITALIA
1,32
77,6
83,2
14,1 66,1
19,8
140,4
51,2
29,9
42,7
Fonte: dati Istat, 2006.
Le differenze territoriali possono essere efficacemente presentate attraverso le seguenti
cartografie, costruite allo scopo di mostrare come il processo di invecchiamento sia più acuto
nelle regioni del nord e del centro e meno intenso nelle regioni meridionali, con Liguria e
Campania come regioni estreme.
106
Figura 1: Valore dell’indice di vecchiaia nelle regioni italiane
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006
Figura 2: Valore dell’indice di dipendenza anziani nelle regioni italiane
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006
Figura 3: Valore dell’indice di dipendenza strutturale nelle regioni italiane
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006
Figura 4: Età media della popolazione nelle regioni italiane
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006
107
3. Invecchiamento e lavoro
3.1. Lavoratori maturi e partecipazione al mercato del lavoro
Appare chiaro dalle analisi sin qui compiute come il processo di invecchiamento
demografico pone molte questioni importanti in relazione ai necessari riassetti del mercato del
lavoro, dei sistemi pensionistici e fiscali a seguito delle mutate condizioni di contesto. Nella
direzione di mantenere la sostenibilità dei sistemi economici e sociali europei, nel marzo 2000
il Consiglio Europeo di Lisbona stabilì l’obiettivo generale di raggiungere un tasso di
occupazione pari al 70%. Poiché la quota di popolazione che costituisce la forza lavoro tende
progressivamente ad assottigliarsi, la partita decisiva si giocherà sulla capacità di incrementare
la partecipazione dei lavoratori (in particolare quelli maturi e anziani) al mercato, aumentando
i tassi di occupazione femminile, allungando il periodo lavorativo e disincentivando l’uscita
prematura dal sistema produttivo.
Nella direzione del raggiungimento di quanto stabilito a Lisbona, i due Consigli successivi
di Stoccolma (2001) e di Barcellona (2002) hanno definito due obiettivi:
1. elevare il tasso di occupazione dei lavoratori di età compresa tra 55 e 64 anni al 50% entro
il 2010 (obiettivo di Stoccolma);
2. aumentare progressivamente di circa 5 anni (fino a 65,4) l’età media effettiva alla quale i
lavoratori cessano di lavorare (obiettivo di Barcellona).
L’analisi dei tassi di partecipazione dei lavoratori maturi in Italia e in Europa sarà condotta
proprio in riferimento a questi obiettivi, allo scopo di comprendere quali progressi sono stati
compiuti e quali regioni presentano, invece, un ritardo in tal senso. La Tabella 4 mostra i tassi
di occupazione delle persone di età compresa tra 55 e 64 anni per regione. Il dato interessante
che emerge è che i tassi di partecipazione dei lavoratori maturi sono maggiori nelle regioni
meridionali che non in quelle settentrionali e centrali: i valori più elevati si registrano, infatti,
in Calabria (37,7%), in Molise (37,4%), in Basilicata (36,5%) e in Abruzzo (35,8%). I valori
più bassi, invece, sono quelli di Friuli Venezia Giulia (26,4%), Veneto (27,4%), Puglia (unica
eccezione tra le regione meridionali, col 27,7%) e Piemonte (28,1%).
La distanza del valore italiano dall’obiettivo di Stoccolma si è progressivamente ridotta,
passando da 22,4 punti percentuali del 1999 a 18,6 nel 2005. Tra le regioni italiane solo la
Puglia ha manifestato un decremento della partecipazione dei lavoratori maturi, mentre in tutte
le altre la tendenza alla crescita è evidente. Le regioni che hanno manifestato i tassi di
variazione più elevati sono Valle d’Aosta (132), Toscana (129) e Umbria (126). I valori italiani
sono, però, ancora eccessivamente bassi e, come apparirà evidente dal confronto con gli altri
paesi europei nel paragrafo successivo, molto distanti dai valori medi dell’Unione Europea a
15 e a 25.
108
Tabella 4: Tasso di occupazione della popolazione tra 55-64 anni. Valori percentuali
Anno
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
Variazioni
1999-2005
Piemonte
Valle d'Aosta
Liguria
Lombardia
Trentino Alto Adige
Veneto
Friuli Venezia Giulia
Emilia Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
ITALIA
22,4
23,5
25,3
23,3
29,0
24,2
22,4
30,1
27,5
26,2
28,7
34,4
32,5
32,0
32,2
29,7
31,6
32,3
27,4
28,6
27,6
22,9
27,8
24,6
22,3
29,4
25,7
23,3
29,0
27,6
25,4
27,6
34,2
34,7
34,0
32,9
30,4
32,3
31,3
28,6
27,2
27,7
23,0
29,1
26,8
22,6
29,9
24,9
23,4
28,1
28,9
26,3
29,4
33,4
33,7
32,7
33,6
30,8
30,7
34,0
29,9
26,4
28,0
23,2
28,1
26,5
24,2
30,0
26,1
23,5
29,4
30,3
27,8
29,4
34,2
33,8
35,4
33,9
31,4
31,3
34,3
31,5
28,6
28,9
26,2
29,2
27,0
25,7
30,7
27,8
24,2
31,6
31,6
29,5
30,1
36,3
35,8
37,2
34,4
31,8
31,5
36,1
31,7
27,3
30,3
26,9
32,0
28,3
28,3
32,4
28,1
26,5
32,1
32,2
31,0
32,7
35,1
34,4
34,1
32,3
28,5
34,8
38,2
30,1
29,3
30,5
28,1
31,1
29,9
28,8
32,0
27,4
26,4
33,4
35,5
33,0
32,7
35,8
35,8
37,4
32,4
27,7
36,5
37,7
33,0
31,3
31,4
125
132
118
124
110
113
118
111
129
126
114
104
110
117
101
93
115
117
121
109
114
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a.
Tabella 5: Tasso di occupazione della popolazione 55-64 anni per sesso. Valori percentuali
Anno
Piemonte
Valle d'Aosta
Liguria
Lombardia
Trentino
Alto Adige
Veneto
Friuli
Venezia Giulia
Emilia
Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
ITALIA
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
U
D
U
D
U
D
U
D
U
D
U
D
32,1
30,9
35,2
34,7
40,4
13,1
16,2
16,4
12,7
18,4
31,8
32,8
34,3
32,6
39,9
14,3
22,8
15,8
12,5
19,6
30,8
34,7
35,0
32,4
38,4
15,4
23,5
19,3
13,2
21,7
31,5
32,7
34,9
33,9
40,1
15,3
23,5
18,8
15,0
20,3
34,6
33,6
37,0
36,5
39,6
18,1
24,8
17,9
15,4
22,1
34,6
37,3
36,6
39,7
41,6
19,6
26,6
20,9
17,4
23,5
Variazioni
1999-2005
U D
U D
37,4
37,5
36,9
38,9
41,6
19,2
24,5
23,6
19,2
22,7
117
121
105
112
103
146
151
144
151
123
37,1 11,9
31,4 13,7
39,3 12,6
32,1 14,8
36,6 13,6
32,1 14,9
36,7 15,9
30,9 16,3
38,9 17,1
32,8 15,9
39,5 17,0
36,9 16,4
38,1 17,1
33,9 19,2
103 144
108 140
40,8 20,1
39,0 19,7
38,0 18,8
39,6 19,8
40,4 23,3
41,0 23,7
42,7 24,5
105 122
36,9
36,2
39,0
51,8
47,1
47,3
52,0
47,6
44,5
51,6
45,6
44,6
41,2
37,2
35,2
38,5
50,1
52,6
49,0
51,9
49,1
47,7
49,3
46,4
42,2
40,9
38,8
35,4
39,8
50,0
50,9
47,9
51,2
48,0
44,9
50,1
46,9
39,9
40,4
40,9
34,5
37,8
50,4
46,5
51,3
52,8
47,6
44,4
51,5
48,3
42,7
41,3
42,3
37,7
37,6
52,3
46,7
53,6
53,2
49,2
44,3
53,2
48,7
40,7
42,8
41,6
40,3
45,1
47,5
47,0
46,2
47,3
41,4
48,8
53,8
45,3
43,0
42,2
44,4
40,8
43,6
46,7
47,7
48,5
47,1
42,0
49,0
53,5
48,5
46,1
42,7
120
113
112
90
101
103
91
88
110
104
106
103
104
18,8
16,7
19,0
18,6
18,6
17,7
14,2
13,3
19,6
14,0
11,0
13,8
15,0
18,6
16,1
17,4
19,7
17,5
19,9
15,3
13,2
18,0
14,1
12,5
13,2
15,3
19,7
17,8
19,7
18,3
17,2
18,3
17,2
14,9
17,5
18,4
14,3
13,8
16,2
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a.
109
20,3
21,4
21,4
19,3
21,6
20,3
16,2
16,5
19,1
17,7
16,2
15,4
17,3
21,5
21,8
23,1
21,8
25,2
21,6
16,8
15,7
19,6
19,6
16,1
14,8
18,5
23,6
22,1
21,0
24,0
22,3
22,3
18,0
16,5
21,6
23,0
16,1
16,3
19,6
27,2
25,5
22,5
26,1
24,2
26,4
18,4
14,4
24,4
22,2
18,9
17,1
20,8
145
153
118
140
130
149
129
108
125
159
172
124
139
L’innalzamento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro dovrà, ovviamente,
riguardare entrambi i sessi. Se i tassi di occupazione femminili italiani sono tuttora molto bassi,
ancora più negativa, anche se in miglioramento, è la situazione per quanto concerne le lavoratrici
più anziane. La Tabella 5 mostra, appunto, le differenze tra i due sessi: tra il 1999 e il 2005 la
distanza tra i tassi di partecipazione maschili e femminili si è progressivamente ridotta,
attestandosi su un valore di 21,9 punti percentuali nel 2005. Il tasso di partecipazione delle donne
nella fascia d’età 55-64 anni è cresciuto dal 15% del 1999 al 20,8% del 2005, con una variazione
complessiva nel periodo del 139%, contro una sostanziale immobilità dei tassi di partecipazione
maschili (crescita 1999-2005 pari al 104%). La crescita a ritmi più elevati dei tassi di
partecipazione delle donne mature al mercato del lavoro può essere mostrata attraverso la Figura
5, che presenta i risultati del calcolo dell’accrescimento attraverso i numeri indice a base 1999.
L’analisi dei dati disaggregati per sesso ci permette di notare come in due regioni, Lazio e
Campania, vi è stata, in realtà, una diminuzione dei tassi di partecipazione dei lavoratori
anziani maschi compensata, però, dall’aumento della partecipazione femminile. Ciò ha fatto sì
che si determinasse, in ogni caso, una crescita (la variazione totale delle due regioni è stata pari,
rispettivamente, a 104 e a 101). In Puglia, invece, la diminuzione nella partecipazione ha
interessato entrambi i sessi, determinando un decremento generale dei tassi di partecipazione
(variazione 1999-2005 pari a 93). Tali osservazioni ci permettono di confermare l’importanza
della partecipazione femminile nella direzione di un riequilibrio del mercato del lavoro.6
Figura 5: Crescita dei tassi di partecipazione dei lavoratori 55-64 anni
al mercato del lavoro. Numeri indice per sesso a base 1999 = 100
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, 2006
Ulteriori considerazioni in relazione al differenziale di genere possono essere fatte stimando il
rapporto di mascolinità tra i tassi e l’indice di eccedenza maschile,7 i cui risultati per l’Italia sono
raccolti nella Tabella 6: se al 1999 i lavoratori anziani di sesso maschile eccedevano del 46,62%
quelli di sesso femminile, tale eccedenza si è ridotta al 34,49% nel 2005. Ciò equivale ad affermare
che, se nel 1999 vi erano oltre 274 uomini ogni 100 donne tra i lavoratori di età compresa tra i 55
e i 64 anni, tale proporzione si è ridotta a un valore di 205 a 100 nel 2005. L’entrata massiccia delle
L’importanza dell’affermazione della partecipazione femminile è rimarcata anche dal fatto che tra gli obiettivi fissati a livello europeo
per far fronte agli squilibri indotti dai processi demografici vi è anche l’innalzamento dei tassi di occupazione femminili ad un livello
del 60% entro il 2010 (Consiglio Europeo di Lisbona, marzo 2000).
7 Il rapporto di mascolinità viene calcolato come
Nm / Nf per lo specifico sottogruppo.
Nm -Nf
L’indice di eccedenza maschile viene calcolato utilizzando la formula (Leti, 1983, p. 515): Nm +Nf *100
Entrambi sono solitamente calcolati sui valori assoluti dei due gruppi (maschile e femminile), ma in questo caso sono stati utilizzati i
valori percentuali. Il risultato comparativo a cui si perviene in ogni caso non cambia.
6
110
donne nel mercato del lavoro ha, dunque, contribuito in una prima fase (e contribuisce tuttora) a
mitigare gli effetti negativi dell’invecchiamento. È chiaro, comunque, che le ricadute positive
dell’affermazione della partecipazione femminile al mercato del lavoro sono destinate a ridursi, a
mano a mano che il processo d’invecchiamento proseguirà e il ricambio all’interno della fascia
produttiva non sarà più garantito né dagli uomini e né tanto meno dalle donne.
Tabella 6: Progressiva riduzione degli squilibri di genere tra i lavoratori italiani 55-64 anni
Rapporto di mascolinità
Indice di eccedenza maschile
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
274,67
46,62
267,32
45,55
249,38
42,76
238,73
40,96
231,35
39,64
215,31
36,57
205,29
34,49
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a.
3.2. Un confronto con gli altri paesi europei: progressi verso il raggiungimento degli obiettivi
programmati
Per comprendere qual’è la posizione italiana rispetto agli altri paesi europei, confrontiamo i
tassi di occupazione dei lavoratori 55-64 anni nei diversi paesi. Il valore medio dell’Europa a 15 è
cresciuto dal 35,7% del 1994 al 44,1% del 2005, anche se con valori molto difformi tra i diversi
Stati. Agli estremi più bassi troviamo Austria, Belgio, Lussemburgo e Italia (tutti sotto il 32%),
mentre agli estremi più elevati troviamo Svezia, Danimarca, Regno Unito e Finlandia (tutti sopra
il 50%). Il valore medio dell’Europa a 25 presenta valori più bassi a causa del ridotto apporto dei
nuovi dieci paesi, attestandosi al 42,5% nel 2005. Tra i nuovi paesi europei, i valori estremi sono
rappresentati dal 27,2% della Polonia e dal 56,1% dell’Estonia.
Tabella 7: Tassi di occupazione dei lavoratori 55-64 anni nei paesi UE15 e UE25. Valori percentuali
Austria
Belgio
Danimarca
Germania
Grecia
Finlandia
Francia
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Paesi Bassi
Portogallo
Regno Unito
Spagna
Svezia
EU 15
Cipro
Lettonia
Lituania
Ungheria
Malta
Polonia
Estonia
Repubblica Ceca
Slovenia
Slovacchia
EU 25
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
27,2
22,5
50,9
36,6
40,1
33,2
29,6
38,8
29,3
23,5
29,1
46,8
47,4
21,6
62,0
35,7
-
29,7
22,9
49,8
37,7
41,0
34,4
29,6
39,2
28,4
23,7
28,9
46,0
47,5
32,3
62,0
36,0
-
29,1
21,9
49,1
37,9
41,2
35,4
29,4
29,7
28,6
22,9
30,5
47,3
47,7
33,2
63,4
36,3
17,7
19,1
-
28,3
22,1
51,7
38,1
41,0
35,6
29,0
40,4
27,9
23,9
32,0
48,5
48,3
34,1
62,6
36,4
17,7
33,9
21,8
35,7
28,4
22,9
52,0
37,7
39,0
36,2
28,3
41,7
27,7
25,1
33,9
49,6
49,0
35,1
63,0
36,6
36,3
39,5
17,3
32,1
50,2
37,1
23,9
22,8
35,8
29,7
24,6
54,5
37,8
39,3
39,0
28,8
43,7
27,6
26,4
36,4
50,1
49,6
35,0
63,9
37,1
36,6
40,9
29,4
31,9
47,5
37,5
22,0
22,3
36,2
28,8
26,3
55,7
37,6
39,0
41,6
29,9
45,3
27,7
26,7
38,2
50,7
50,7
37,0
64,9
37,8
49,4
36,0
40,4
22,2
28,5
28,4
46,3
36,3
22,7
21,3
36,6
28,9
25,1
58,0
37,9
38,2
45,7
31,9
46,8
28,0
25,6
39,6
50,2
52,2
39,2
66,7
38,8
49,1
36,9
38,9
23,5
29,4
27,4
48,5
37,1
27,5
22,4
37,5
29,1
26,6
57,9
38,9
39,2
47,8
34,7
48,0
28,9
28,1
42,3
51,4
53,4
39,6
68,0
40,2
49,4
41,7
41,6
25,6
30,1
26,1
51,6
40,8
24,5
22,8
38,7
30,3
28,1
60,2
39,9
41,3
29,6
36,8
49,0
30,3
30,3
44,3
51,6
55,4
40,7
68,6
41,7
50,4
44,1
44,7
28,9
32,5
26,9
52,3
42,3
23,5
24,6
40,2
28,8
30,0
60,3
41,8
39,4
50,9
37,3
49,5
30,5
30,4
45,2
50,3
56,2
41,3
69,1
42,5
49,9
47,9
47,1
31,3
31,5
26,2
52,4
42,7
29,0
26,8
41,0
31,8
31,8
59,5
45,4
41,6
52,7
37,9
52,6
31,4
31,7
46,1
50,5
56,9
43,1
69,4
44,1
50,6
49,5
49,2
33,0
30,8
27,2
56,1
44,5
30,7
30,3
42,5
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a.
111
Osservando la Figura 6 è possibile individuare chiaramente i paesi che hanno raggiunto
l’obiettivo del 50% del tasso di partecipazione dei lavoratori anziani e quelli che, invece, sono
ancora lontani. Al 2005 solo otto dei 25 paesi hanno superato l’obiettivo stabilito dal Consiglio
di Stoccolma: Irlanda, Cipro, Portogallo, Finlandia, Estonia, Regno Unito, Danimarca e
Svezia. Tra i paesi che sono al di sotto dell’obiettivo ve ne è un gruppo, costituito da sette paesi
(Grecia, Spagna, Germania, Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Lituania e Lettonia), che presentano
valori inferiori, ma di non oltre 10 punti percentuali, all’obiettivo del 50%. Infine, è possibile
individuare un ultimo gruppo di dieci paesi (Francia, Malta, Ungheria, Lussemburgo, Italia,
Belgio, Slovenia, Slovacchia, Austria e Polonia) che presentano valori inferiori all’obiettivo di
Stoccolma di oltre 10 punti percentuali.
Figura 6: Tassi di partecipazione dei lavoratori 55-64 anni al mercato del lavoro
nei paesi europei. Distanza dall’obiettivo di Stoccolma (2004 e 2005)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006b.
Oltre all’aumento dei tassi di partecipazione dei lavoratori più anziani, un altro elemento
fondamentale per la lotta agli squilibri indotti dai processi demografici è l’allungamento del
periodo lavorativo (e, quindi, del periodo contributivo). L’indicatore Eurostat riportato in Tabella
8 fornisce un’età media in corrispondenza della quale le persone attive si ritirano definitivamente
dal mercato del lavoro. La stima è basata su un modello probabilistico che considera i cambiamenti
relativi dei tassi di attività da un anno all’altro a una specifica età. Il tasso di attività rappresenta la
forza lavoro (occupata e inoccupata) come percentuale rispetto al totale della popolazione per una
data età. I dati sono tratti dallo European Labour Force Survey condotto dall’Eurostat.
La distanza media dei paesi EU15 dall’Obiettivo di Barcellona (65,4 anni) è di 4,4 anni, mentre
la distanza media dei paesi EU25 è di 4,6 anni. L’età media di uscita femminile è inferiore a quella
maschile in tutti i paesi, tranne Francia, Irlanda e Portogallo, dove la distanza è, rispettivamente, di
0,6, 1,0 e 1,4 punti percentuali a favore del sesso femminile. Negli altri paesi la distanza a favore
degli uomini varia da un massimo di 4,6 punti percentuali della Polonia a un minimo di 0,2 dei Paesi
Bassi. Nessun paese europeo ha ancora raggiunto l’obiettivo fissato dal Consiglio Europeo di
Barcellona, anzi vi sono addirittura stati nei quali si è manifestata una diminuzione dell’età media
all’uscita dal mercato del lavoro: tra questi la Danimarca (il cui valore totale era di 61,6 nel 2001,
sceso a 60,9 nel 2005), la Lettonia (62,4 nel 2001 e 62,1 nel 2005) e, seppur in misura lieve, l’Italia
(59,8 anni nel 2001 e 59,7 nel 2005). Gli altri paesi hanno manifestato una crescita dell’età media,
anche se in alcuni casi molto lieve (Finlandia e Austria). I maggiori passi in avanti nella direzione
di una posticipazione del pensionamento sono stati fatti dal Belgio (+3,8 anni sul valore totale tra il
2001 e il 2005), dalla Polonia (+2,9 anni), dal Lussemburgo (+2,6) e dalla Spagna (+2,1).
112
Tabella 8: Età media di cessazione del lavoro
(ponderata con la probabilità di ritiro dal mercato del lavoro) nei paesi UE15 e UE25
Austria
Belgio
Danimarca
Finlandia
Francia
Germania
Grecia
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Paesi Bassi
Portogallo
Spagna
Svezia
Regno Unito
EU 15
Cipro
Estonia
Lettonia
Lituania
Malta
Polonia
Slovenia
Slovacchia
Rep. Ceca
Ungheria
EU 25
2001
2002
2003
2004
2005
Uomini Donne Totale
Uomini Donne Totale
Uomini Donne Totale
Uomini Donne Totale
Uomini Donne Totale
59,9
57,8
62,1
61,5
58,2
60,9
63,4
59,9
61,1
62,3
60,6
61,9
63,0
60,7
57,8
59,3
60,7
58,4
60,4
58,5
55,9
61,0
61,3
58,0
60,4
63,0
59,8
60,8
61,6
60,0
61,6
61,0
59,9
55,5
56,0
57,3
57,0
59,3
59,2
56,8
61,6
61,4
58,1
60,6
63,2
59,8
56,8
60,9
61,9
60,3
61,8
62,0
60,3
62,3
61,1
62,4
58,9
57,6
56,6
57,5
58,9
57,6
59,9
59,4
58,6
61,9
60,6
58,9
61,1
61,1
62,8
60,2
62,9
62,9
61,4
63,4
62,7
61,0
58,1
59,6
62,2
59,6
60,8
59,2
58,4
59,8
60,4
58,7
60,3
61,5
63,5
59,7
61,6
63,1
61,6
63,1
61,8
60,5
55,8
55,7
58,4
58,8
60,0
59,3
60,2
60,9
60,5
58,8
60,7
61,3
59,9
61,4
59,3
62,2
63,0
61,5
63,3
62,3
60,8
61,4
61,6
58,2
56,9
56,6
57,5
60,2
59,1
60,4
59,4
58,6
62,3
60,7
59,7
61,9
63,4
62,7
60,9
61,0
63,7
61,7
63,5
64,2
61,7
59,8
60,0
61,2
60,9
61,5
58,2
58,7
62,0
60,0
59,6
61,4
62,2
63,0
61,0
60,1
60,6
61,3
62,8
61,9
61,0
56,4
55,9
59,0
62,1
60,5
58,8
58,7
62,2
60,4
59,6
61,6
62,7
62,9
61,0
57,4
60,5
62,1
61,5
63,1
63,0
61,3
62,7
60,8
58,0
57,9
56,2
57,8
60,1
61,6
61,0
59,1
62,6
60,2
58,4
61,4
63,4
61,1
61,2
61,5
63,1
62,9
61,0
60,0
60,3
61,3
60,3
60,9
59,6
61,6
60,8
59,4
61,1
62,3
61,1
63,1
62,9
62,4
61,4
60,7
55,8
57,0
58,9
60,7
60,2
59,4
62,1
60,5
58,9
61,3
62,8
58,3
61,1
62,2
62,2
62,8
62,1
60,8
62,7
62,3
62,9
60,8
58,0
57,7
58,5
60,0
60,5
60,5
60,3
61,6
61,2
61,8
58,5
62,5
63,6
60,7
61,6
62,4
62,0
64,3
63,4
61,4
62,0
61,1
62,3
61,2
61,4
59,4
59,6
60,7
61,7
59,1
61,0
64,6
58,8
61,4
63,8
59,1
63,0
61,9
60,8
57,4
57,6
59,1
58,7
60,4
59,8
60,6
60,9
61,7
58,8
61,7
64,1
59,7
59,4
61,5
63,1
62,4
63,7
62,6
61,1
61,7
62,1
60,0
58,8
59,5
58,5
59,2
60,6
59,8
60,9
Fonte: dati Eurostat, 2006b.
Figura 7: Età media di cessazione del lavoro nei paesi europei.
Distanza dall’obiettivo di Barcellona (20058)
Fonte: dati Eurostat, 2006b.
8
I dati per la Germania e per Cipro sono relativi all’anno 2004, non essendo disponibili dati per l’ultimo anno di osservazione (2005).
113
Come per l’esame dei progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo di Stoccolma, anche
in questo caso l’analisi grafica (Figura 7) ci consente di individuare tre gruppi di paesi.9 Il
primo gruppo, composto da sette stati (Lettonia, Spagna, Regno Unito, Cipro, Portogallo,
Svezia e Irlanda), prossimi all’obiettivo di Barcellona, che hanno età media di uscita dal mondo
del lavoro maggiore di 62 anni; un secondo gruppo, composto da nove paesi (Lituania, Belgio,
Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Finlandia, Grecia, Estonia), in posizione
intermedia, con un’età di uscita compresa tra 60 e 62 anni; infine, il terzo gruppo, composto da
nove paesi (Ungheria, Austria, Italia, Polonia, Lussemburgo, Slovacchia, Malta, Francia,
Slovenia), a elevata distanza dall’obiettivo, la cui età di uscita è inferiore a 60 anni. Come si
può notare, anche in questo caso l’Italia non presenta una situazione favorevole rispetto agli
altri paesi europei e alla media UE15 e UE25.
4. Strategie per il prolungamento del periodo lavorativo
4.1. Un modello interpretativo per la bassa partecipazione dei lavoratori maturi e anziani al
mercato del lavoro
Sono stati numerosi gli studi che hanno cercato di individuare le cause della bassa
partecipazione dei lavoratori maturi e anziani al mercato del lavoro. La maggior parte delle
ricerche si è soffermata sulle modalità operative dei fattori di spinta e di attrazione (EspingAndersen, 1996 e 2000; Guillemard e de Vroom, 2001; Jansen, 2001), teorizzando l’esistenza
di un modello esplicativo di tipo push- pull, che analizza l’azione concomitante dei fattori di
spinta (push factors) all’uscita dal mercato del lavoro e di fattori attrattivi (pull factors) verso
il pensionamento. L’analisi delle ragioni della bassa partecipazione andrebbe condotta anche
con riferimento al lato della domanda e al lato dell’offerta di questo specifico sottogruppo di
lavoratori (Stranges, 2006, pp. 127-132).
Dal lato della domanda vanno analizzati i fattori che influenzano la scelta del datore di
lavoro di assumere o mantenere persone mature o anziane all’interno della propria azienda,
spesso basati più su stereotipi e pregiudizi che su fatti concreti. Tra questi: l’idea della rapida
obsolescenza delle competenze e delle capacità dei lavoratori anziani, le presunte ridotte
performance lavorative, l’avversione ai cambiamenti e agli spostamenti. A questi fattori, la cui
reale esistenza non è supportata da studi scientifici, si unisce il maggior costo legato ai criteri
di avanzamento in carriera per anzianità che spesso si traducono in salari più elevati per i
dipendenti più maturi, facendo così lievitare i costi relativi alla loro assunzione o al loro
mantenimento. Tutto ciò invoglierebbe i datori di lavoro ad assumere personale più giovane,
che può rappresentare un costo minore rispetto a quello di età più elevata. La correlazione
positiva tra età e stipendio è, infatti, confermata anche da numerosi studi internazionali.10
Dal lato dell’offerta, invece, vanno considerati tutti i fattori che spingono le persone ad
abbandonare la propria attività lavorativa. Tali ragioni sono sia di tipo espulsivo dal mercato
del lavoro e sia di tipo attrattivo dai sistemi pensionistici. Si pensi, ad esempio, all’eccessivo
uso di strumenti assistenziali che determina negli individui una diminuzione dell’attaccamento
al lavoro e l’idea di poter uscire prima dal mercato avvalendosi di tali strumenti, o ancora ai
vari tipi di disincentivi fiscali che potrebbero scoraggiare chi decide di continuare a lavorare
anche una volta raggiunta l’età pensionabile. Tra i fattori da tenere in considerazione non vanno
9 Si tratta, ovviamente, solo di una schematizzazione che consente di capire quali paesi sono più vicini e quali più lontani dallo specifico
obiettivo. Nella formulazione della tripartizione l’ipotesi implicita è che proseguano le tendenze già in atto di aumento dell’età media
di uscita del mercato.
10 Studi comparati dell’OCSE hanno mostrato che negli Stati Uniti, in Giappone, e in misura minore nel Regno Unito, gli stipendi
crescono fino ai 50-55 anni, e iniziano però a diminuire velocemente immediatamente dopo. In Francia, invece, i guadagni crescono
ininterrottamente con l’età. (OECD, 1996).
114
dimenticati quelli psico-sociali, ad esempio l’idea che potrebbe maturare nei lavoratori più
anziani di inadeguatezza ai sistemi economici in continua trasformazione, che richiedono
adattamenti, spesso repentini, delle proprie competenze e abilità. Proprio riguardo a
quest’ultimo punto, si delinea con forza l’importanza di un processo formativo distribuito su
tutto l’arco della vita lavorativa degli individui, che favorisca la loro idoneità continua al
mercato del lavoro, favorendo anche l’attaccamento lavorativo e disincentivando l’uscita
prematura.
4.2. L’importanza strategica della formazione permanente
La società attuale, knowledge based, è una società dai ritmi molto veloci, caratterizzata
dalla rapida obsolescenza di competenze, abilità e conoscenze. Nelle società più tradizionali
l’acquisizione della conoscenza attraverso le diverse attività educative e formative avveniva
in un periodo di tempo limitato, solitamente prima del proprio ingresso nel mercato del
lavoro, e le competenze acquisite erano sufficienti allo svolgimento della propria mansione,
compito o professione per un periodo di tempo molto lungo, che nella maggior parte dei casi
coincideva con tutto il periodo lavorativo. Oggi, proprio in ragione della rapidità delle
trasformazioni economiche, sociali e culturali, il modello educativo-formativo deve mutare
radicalmente, muovendosi in una direzione di distribuzione della formazione in periodo di
tempo molto più lungo. Emerge con chiarezza l’importanza dei processi di lifelong
learning,11 testimoniata anche dall’interesse a livello istituzionale. L’Unione Europea, con la
Comunicazione della Commissione del novembre 2001, intitolata “Realizzare uno spazio
europeo dell'apprendimento permanente”, (basata sul memorandum sull’istruzione e la
formazione permanente del novembre 2000) e la Risoluzione del 27 giugno 2002
sull’apprendimento permanente, ha, di fatto, sancito la volontà di permettere a tutti i cittadini
l’accesso alla formazione lungo l’intero arco della vita, sottolineando l’importanza
dell’impegno a livello dei singoli stati membri.
In particolare, nella risoluzione si dà rilievo alla promozione dell’apprendimento sul
luogo di lavoro, allo sviluppo di strategie per individuare e incrementare la partecipazione di
gruppi esclusi dalla società della conoscenza a causa dei loro scarsi livelli di competenze di
base e alla partecipazione attiva nell’apprendimento permanente. Poiché l’obiettivo
principale da raggiungere per mitigare gli effetti dell’invecchiamento demografico sul
mercato del lavoro è l’incremento dei tassi di partecipazione (totale, femminile e degli
anziani), i processi di lifelong learning possono divenire strumenti convenzionali per
favorire e migliorare tale partecipazione. Osserviamo l’evoluzione dei processi di lifelong
learning nelle regioni italiane (Tabella 9): i dati si riferiscono alla percentuale di popolazione
adulta (di età compresa tra i 25 e i 64 anni) che partecipa ad attività di istruzione e
formazione sulla popolazione della medesima età (in base alle dichiarazioni rese rispetto alle
4 settimane precedenti l’intervista).
Un interessante approccio all’importanza dei processi di lifelong learning è contenuto in Giarini e Malitza (2003), poi ripreso da
Malitza e Gheorghiu (2006).
11
115
Tabella 9: Processi di lifelong learning nelle regioni italiane. Valori percentuali
ANNO
Piemonte
Valle d'Aosta
Liguria
Lombardia
Trentino
Alto Adige
Veneto
Friuli
Venezia Giulia
Emilia
Romagna
Toscana
Umbria
Marche
Lazio
Abruzzo
Molise
Campania
Puglia
Basilicata
Calabria
Sicilia
Sardegna
ITALIA
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005 Variazioni
1998-2005
5,3
4,0
4,9
6,0
6,2
4,7
6,3
7,5
5,8
4,4
5,5
8,3
5,8
4,4
5,5
8,3
3,9
3,3
4,1
5,0
3,8
4,1
3,9
4,2
5,1
5,2
4,5
6,3
6,0
8,0
4,8
4,1
5,8
5,5
7,6
91
145
112
127
6,0
6,8
6,8
8,0
7,4
6,5
7,4
6,5
5,0
5,6
5,1
5,5
6,1
8,0
6,0
6,6
100
97
5,9
7,7
7,1
7,1
5,5
5,7
6,6
5,7
97
5,8
4,5
4,3
5,6
4,2
5,2
3,9
4,8
4,5
5,5
3,3
6,6
4,8
6,0
4,9
5,4
5,6
3,8
4,6
4,2
5,0
5,7
5,6
3,5
7,1
5,5
6,5
6,3
5,4
5,5
4,3
5,1
4,7
6,2
5,7
5,5
4,4
6,6
5,5
6,5
6,3
5,4
5,5
4,3
5,1
4,7
6,2
5,7
5,5
4,4
6,6
5,1
4,9
5,6
4,2
4,8
4,7
4,9
3,6
4,2
4,7
4,5
3,4
5,8
4,6
5,4
5,2
4,6
5,0
4,7
5,1
3,4
4,1
5,5
4,5
3,4
6,0
4,7
6,2
7,5
6,0
7,9
7,4
6,6
5,8
5,2
5,8
6,7
5,1
6,6
6,8
6,8
7,0
5,3
7,7
7,1
6,3
5,0
4,8
5,7
5,9
4,9
6,0
6,2
117
156
123
138
169
121
128
100
127
107
148
91
129
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a.
Al 2005, le regioni dove i processi di lifelong learning appaiono maggiormente diffusi
sono il Lazio (7,7%), il Trentino Alto Adige (7,6%) e l’Abruzzo (7,1%), mentre le regioni in
cui il ricorso alla formazione permanente è meno esteso sono la Valle d’Aosta (4,1%), il
Piemonte e la Puglia (4,8%) e la Sicilia (4,9%). Il dato più preoccupante è che in alcune
regioni gli interventi di lifelong learning sono progressivamente diminuiti nel periodo di
tempo considerato: la flessione più evidente in Emilia Romagna, Piemonte e Friuli Venezia
Giulia. Progressi, invece, si sono registrati in Abruzzo e, in misura più ridotta, in Liguria,
Umbria, Sicilia, Lazio e Campania. Il valore medio italiano al 2005 è pari al 6,2%.
Confrontando i dati dell’Italia con quelli degli altri paesi europei (Figura 8), ci si rende
conto di come il nostro paese si collochi tra quelli in cui i processi di lifelong learning sono
meno diffusi: con il 6,2% è ampiamente sotto la media europea a 25 e a 15 (rispettivamente
11,0 e 12,1%). Paragonando il valore italiano con quello della Svezia (34,7%) o del Regno
Unito (29,1%), appare chiaro come saranno necessari maggiori sforzi per far sì che la
formazione permanente diventi un tratto caratteristico e usuale del nostro sistema educativo.
116
Figura 8: Popolazione 24-65 anni dei paesi UE25 coinvolta in processi di lifelong learning.
Valori percentuali (2005)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006b.
5. Riflessioni conclusive
L’invecchiamento della popolazione ridisegnerà la struttura e il profilo demografico del
nostro paese, ridefinendo la forma e i significati del nostro sistema generazionale, con
conseguenze abbastanza forti su tutto il sistema economico nel suo complesso. Rappresenta,
pertanto, una delle più grandi sfide delle società contemporanee, il cui grado di complessità e
problematicità dipenderà in maniera cruciale dalla capacità di reagire del sistema economico
stesso (reattività), o addirittura di agire preventivamente (proattività). Il raggiungimento degli
obiettivi europei è imprescindibile per il mantenimento del benessere sociale e per garantire la
sostenibilità dei sistemi di welfare. L’Italia, in realtà, è ancora abbastanza indietro rispetto agli
altri paesi europei, sia in relazione ai tassi di partecipazione dei lavoratori anziani al mercato
del lavoro, sia per quanto riguarda l’età media di cessazione dell’attività lavorativa e sia, infine,
per quanto concerne l’implementazione di strategie di lifelong learning.
La creazione e il mantenimento di una forza lavoro che comprenda tutte le età, cioè un
mercato in cui le competenze e le capacità contino più dell’età cronologica, implica
l’introduzione e il miglioramento di sistemi di istruzione e riqualificazione a carriera avanzata.
Si palesa, dunque, il ruolo fondamentale dei processi di lifelong learning, vale a dire
l’aggiustamento progressivo delle abilità e delle competenze, in modo tale permettere
l’incontro tra i bisogni e le esigenze di una popolazione che invecchia con quelli di un mercato
e di un’economia mondiale in continuo divenire. Ci sono due ordini di ragioni che avvalorano
l’importanza di questo processo di formazione continua: innanzitutto, le competenze e le
capacità dei lavoratori risulterebbero più rispondenti ai bisogni contingenti del mercato; in
secondo luogo ne risulterebbe migliorato anche l’attaccamento al mercato del lavoro.
La formazione continua è un elemento fondamentale nella direzione del prolungamento
della vita attiva degli individui. È necessario, di conseguenza, che vi siano maggiori
investimenti da parte dei governi, ma anche dei singoli datori di lavoro, per l’attuazione di
piani formativi mirati, che tengano anche conto delle specifiche esigenze, attitudini, capacità
dei lavoratori delle fasce d’età più elevate. Percorrere questa strada appare compito tutt’altro
che facile, poiché presuppone un cambiamento dell’impostazione culturale dell’intero sistema
formativo, che oggi investe quasi interamente sui giovani, mettendo, invece, a punto specifici
117
interventi mirati alle esigenze di un mercato che invecchia. Lo sforzo dei governi sarà quello
di promuovere l’invecchiamento attivo, così come definito dalla Commissione Europea (1999),
ossia “[…] una strategia articolata che, da un lato incentivi gli anziani a continuare ad
impegnarsi nell’attività di lavoro e nella vita sociale, dall’altro dia loro la possibilità di farlo
[…]”.
Naturalmente, gli interventi formativi devono essere pianificati in modo tale da seguire
l’individuo in tutta la sua vita lavorativa, affinché la formazione si configuri come un elemento
ordinario, e non straordinario ed occasionale, del sistema produttivo. Agendo in questa
direzione sarà possibile raggiungere l’obiettivo supremo dell’attuazione dei processi di lifelong
learning: mantenere nel tempo una base di popolazione attiva più ampia e maggiormente
qualificata, che possa contrastare in maniera adeguata gli squilibri economici che
ineluttabilmente s’ingenerano in una popolazione che invecchia (Stranges, 2006).
L’adattamento sociale ed economico presuppone un preventivo cambiamento culturale: la sfida
posta dal mercato del lavoro diviene, dunque, una sfida anche per i sistemi educativi dei diversi
paesi.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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di lifelong learning”, Affari Sociali Internazionali, n. 1/2006, Franco Angeli, Roma, pp.
123-144.
118
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 119-125
Lavoro e salute in età avanzata: l’influenza reciproca
di Cristina Giudici*
1. Introduzione
Nel contesto del dibattito europeo sull’invecchiamento, un ruolo centrale è ricoperto
dall’evoluzione delle condizioni di salute della popolazione e in particolare dell’equilibrio tra
durata e qualità della vita: il prolungamento della vita individuale viene accompagnato da un
miglioramento della qualità? E che cosa si intende per “qualità” del periodo vissuto?
La qualità della vita può essere definita un fenomeno a più dimensioni che investe diversi
aspetti dell’esistenza; si tratta di un processo complesso in cui interagiscono numerosi elementi
appartenenti al passato e al presente della storia di ciascun individuo, ivi compresi fattori
economici e sociali, come lo status professionale, i rapporti familiari, ecc. (Wiggins et al.,
2004; Walker, 2005). Ne consegue che la letteratura relativa alle scienze mediche e sociali in
genere definisce la qualità della vita in base alla capacità e invalidità individuali e alle
condizioni di salute percepite (Fernandez-Ballesteros, 1998; Walker, 2005; Verbrugge, 1995;
Beaumont et Kenealy, 2004; Robine, 2005). Il presente articolo considera le condizioni di
salute come il risultato dell’opposizione tra abilità e disabilità.
Dal punto di vista politico i governi hanno un forte interesse a prevedere quali bisogni
emergeranno nel campo dell’assistenza agli anziani, con un’attenzione crescente alla
prevenzione di problemi funzionali e della dipendenza. Da questo punto di vista, gran parte dei
Paesi europei adotta politiche per l’invecchiamento attivo volte a realizzare una “società per
tutte le età”. In questo contesto, il piano internazionale d’azione sull’invecchiamento (Madrid
2002) rappresenta un punto di riferimento.
Il presente studio mira principalmente a sottolineare il rapporto tra attività, nel senso di
partecipazione sociale, e salute degli anziani. Si tratta di un rapporto reciproco e biunivoco: le
cattive condizioni di salute impediscono la partecipazione sociale, ma l’isolamento può
ripercuotersi negativamente sulla salute, soprattutto quella mentale.
2. Il quadro concettuale
Questa ricerca è stata condotta in seno al quadro concettuale fornito dall’Organizzazione
mondiale della sanità denominato International Classification of Functioning (ICF —
Classificazione Internazionale su funzionamento, disabilità e salute). L’ICF classifica le
condizioni di salute e gli aspetti correlati in maniera tale da descrivere la situazione di individui
integrati nella società. In base a questo quadro, un’eventuale invalidità relativa alla struttura o
alle funzioni fisiche potrebbe ostacolare le attività condotte dal singolo, risultando quindi in
una limitazione alla partecipazione sociale. Tutti questi elementi influenzano le condizioni di
salute percepite e reali e sono soggetti all’influsso di numerosi fattori ambientali e individuali.
*
Università La Sapienza, Roma.
119
Figura 1: Interazione tra concetti — ICF 2001
Da questo punto di vista, la salute viene inquadrata in un contesto sociale e culturale, dal
quale si può evincere l’influenza reciproca esistente tra condizioni di salute, attività individuali
e partecipazione sociale.
Nello specifico, l’ICF propone un elenco dettagliato di attività sociali “normali” suddiviso
in nove gruppi: Apprendimento e applicazione di conoscenze; Compiti e bisogni generali;
Comunicazione; Movimento; Cura di sé; Settori della vita domestica; Interazioni
interpersonali; Settori principali dell’esistenza; Vita sociale e nella comunità. Tutti questi
fattori sono collegati alla partecipazione sociale e vengono influenzati notevolmente dal
contesto ambientale (tecnologie, servizi, politiche, assistenza e amicizie, ecc.), che può
facilitare od ostacolare la partecipazione sociale stessa (per esempio chi soffre di una invalidità
fisica ma vive in una zona con strutture adeguate potrebbe mantenere un livello normale di
partecipazione e attività sociali).
Esiste una notevole massa di studi sul come utilizzare questo quadro di riferimento,
soprattutto in relazione a quegli aspetti che collegano l’invalidità alle restrizioni alla
partecipazione (Désesquelles 2002), anche se alcuni esperti sostengono che la direzione del
processo sia quella inversa (Laditka 2003).
3. Dati e metodologia
Lo studio è stato condotto su dati estratti da un’indagine francese su handicap, incapacità e
dipendenza fisica e psicologica (HID). Si tratta di un’indagine longitudinale comprendente due
ondate: una prima fase, iniziata nel 1998, è consistita nel sottoporre un questionario a persone
ricoverate in istituti sociali e di cura (1500 intervistati). Il questionario si strutturava in dieci
moduli, dalle invalidità alla partecipazione sociale, compresi i limiti alle attività. La medesima
batteria di domande è stata sottoposta nel 1999 a persone residenti a casa loro (16500
intervistati). Due anni dopo entrambi i gruppi delle stesse persone sono stati intervistati una
seconda volta.
La prima ondata dell’indagine HID è rappresentativa dell’intera popolazione francese,
mentre la seconda illustra l’evoluzione delle situazioni individuali.
Le variabili considerate nell’analisi riguardano le limitazioni funzionali fisiche, sensoriali
e cognitive (invalidità) fino alle limitazioni delle attività e alle restrizioni della partecipazione:
120
dal punto di vista fisico, si considera la capacità individuale di utilizzare mani e dita senza
problemi; per quanto concerne la salute mentale, le variabili tengono conto delle capacità di
orientamento spazio-temporale: se il soggetto riesce a ricordare che ora è e se riesce a ritrovare
la strada di casa; le limitazioni funzionali sensoriali fanno riferimento alla capacità individuale
di vedere da vicino, sentire o parlare. Per quanto concerne le limitazioni alle attività, il
riferimento è dato dalle cosiddette attività della vita quotidiana (Activities of Daily Living —
ADL), per esempio lavarsi, vestirsi, mangiare cibi precotti, andare al bagno, alzarsi da letto o
da una sedia.
Per ciascuna domanda le risposte possibili sono raggruppate in quattro categorie: nessun
problema; qualche difficoltà; grandi difficoltà; necessità di assistenza. Anche se la situazione
più frequente è la prima, il presente studio adotta una definizione restrittiva di invalidità,
secondo la quale i disabili sono persone che incontrano grandi difficoltà o che necessitano di
assistenza in tutti i campi.
Di conseguenza si è giunti a una sintesi delle limitazioni alle attività e delle invalidità di
tipo fisico, sensoriale e mentale; ciò significa che i soggetti risultano “limitati” nella vita
quotidiana se hanno bisogno di assistenza o incontrano grandi difficoltà in almeno uno dei
campi ADL. Per quanto riguarda la salute mentale, si considera un individuo “invalido” se non
controlla il proprio orientamento spaziale o temporale (cioè se perdono spesso o costantemente
l’orientamento in almeno uno o due dei campi considerati), ecc.
Per quanto concerne la partecipazione sociale, le variabili che entrano in gioco
comprendono la vita coniugale (non necessariamente il matrimonio: è sufficiente la
convivenza); l’esistenza e disponibilità di contatti familiari e sociali; lo status sociale
(dipendenti, manager, dirigenti); sono state anche prese in considerazione eventuali
informazioni riguardanti esperienze drammatiche avvenute negli ultimi due anni (di norma si
tratta della morte di un congiunto); la vita associativa (se il soggetto sia o no membro di almeno
un’associazione); le vacanze (se il soggetto vada o no in vacanza per almeno una settimana
all’anno).
4. Principali risultati
La Tabella 1 indica la percentuale di persone che dichiarano di intrattenere rapporti sociali
e familiari con/senza disabilità sulla totalità della popolazione maschile e femminile (con più
di 15 anni d’età).
La partecipazione sociale con/senza disabilità in età avanzata va interpretata con
riferimento alla situazione della popolazione in generale: nel corso della normale durata
dell’esistenza gli individui stringono rapporti sociali (con amici, familiari, colleghi, ecc.)
soprattutto nel corso della vita attiva. Invecchiando, diminuiscono le occasioni di interazione
sociale a causa della morte dei coetanei e della diminuzione delle possibilità di movimento. Nel
contempo, ci si rivolge sempre di più alla famiglia: il numero e la disponibilità dei parenti
diventano fattori cruciali nella vita sociale dell’individuo. Con l’età i rapporti familiari
diminuiscono a causa della morte dei parenti, soprattutto nel caso di chi è rimasto single, anche
se le condizioni di salute non sembrano essere determinanti. Al contrario, la dipendenza
influisce sulla vita associativa: gli invalidi risultano partecipare poco alla vita associativa e la
differenza cresce con l’avanzare dell’età.
121
Tabella 1: Condizioni di salute e coinvolgimento sociale (dati percentuali)
Rapporti
familiari
Relazioni
sociali
Vita
associativa
Vacanze
55+
15+
55+
15+
55+
15+
55+
15+
Almeno una restrizione ADL
79,8
82,6
79,1
78,9
20,9
21,0
29,8
47,5
Nessuna restrizione ADL
79,7
83,3
81,7
81,5
34,5
30,5
51,0
70,8
Almeno una limitazione cognitiva
78,7
82,3
77,0
76,7
21,4
20,8
32,1
52,2
Nessuna limitazione cognitiva
80,7
84,0
83,5
83,6
36,1
32,6
53,0
72,7
Fonte: Indagine HID-Ménage 1999.
Tuttavia, il prevalere di rapporti familiari e sociali con/senza disabilità potrebbe risentire di
caratteristiche individuali quali età, sesso, posizione sociale, ecc. È possibile ricorrere a un
modello di regressione logistica per illustrare il diverso impatto avuto dalle caratteristiche
individuali sulla partecipazione sociale e sulle condizioni di salute.
Com’era prevedibile, con l’età le condizioni di salute impediscono la partecipazione sociale
e fanno aumentare l’isolamento. In parte ciò potrebbe essere la conseguenza di un effetto
generazionale (i giovani si contraddistinguono per una maggiore partecipazione sociale), ma
non si può escludere che anche l’età abbia un ruolo. Il sesso sembra svolgere un ruolo ambiguo
in relazione alle diverse attività. Al contrario, la vita coniugale e lo status professionale paiono
avere un effetto determinante sulla partecipazione sociale (cfr. Tabelle 2 e 3).
Da una prospettiva opposta, la probabilità di passare da una condizione scevra di invalidità
a una situazione caratterizzata dall’inabilità risulta maggiore per gli uomini e aumenta con
l’età. Le condizioni fisiche influenzano la salute mentale, ma l’analisi evidenzia anche l’effetto
di altre covariate (Tabelle 4 e 5): in genere l’esistenza di un ambiente familiare e sociale con
cui l’individuo può interagire pare essere un fattore importante per la salvaguardia della salute,
soprattutto mentale. Anche l’interesse per attività e hobby o per l’apprendimento permanente
influenzano positivamente le condizioni mentali.
5. Conclusioni… o un nuovo punto di partenza?
Con l’età, agli impegni professionali e familiari si sostituiscono altre attività (associazioni,
hobby, impegno sociale, ecc.), le quali rappresentano la principale valvola di sfogo per
partecipare alla vita sociale.
L’analisi ha evidenziato il legame che intercorre tra attività (nel senso della partecipazione
all’esistenza) e benessere fisico e psicologico in età avanzata. Secondo questo approccio, il
dibattito sulla vita attiva e sulla partecipazione in età avanzata dovrebbe andare avanti, tenendo
conto del fatto che l’obiettivo finale deve essere politico: la concezione che se ne ricava
riguarda innanzitutto le politiche per la vita attiva, con un ruolo essenziale svolto da
partecipazione sociale e integrazione intergenerazionale.
122
Tabelle 2 e 3: Regressione logistica relativa alle variabili:
Andare in vacanza
Costante
Essere membro di un’associazione
coef
wald
1,02
177,1
-0,14
rif
6,5
rif
Costante
Sesso
M
F
M
F
rif
-0,24
-0,66
-1,20
rif
14,7
90,4
157,2
-1,20
//
1,47
0,48
rif
-0,34
-0,33
183,6
//
151,0
31,6
rif
26,2
7,7
-0,74
rif
-0,96
-0,46
-0,45
52,4
rif
15,8
19,0
53,9
55-65
65-75
75-85
85 +
agricoltore
commerciante
dirigente/statale
quadro intermedio
impiegato
operaio
nessuna attività professionale
Non coniugato
Coniugato
Separato
Divorziato
Vedovo
-0,35
rif
Sì
No
-0,66
rif
132,3
rif
Sì
No
rif
3,8
6,5
13,5
0,25
//
0,69
0,43
rif
-0,23
-0,31
8,5
//
59,2
28,4
rif
10,4
5,1
-0,22
rif
-0,94
-0,34
//
4,4
rif
9,3
8,7
//
-0,37
rif
45,1
rif
-0,3
rif
26,6
rif
Limitazione funzionale sensoriale
-0,14
rif
7,1
rif
-0,29
rif
26,1
rif
Sì
No
Restrizione alle attività
Sì
No
rif
0,11
0,17
-0,39
Limitazione funzionale fisica
Limitazione funzionale sensoriale
Sì
No
23,9
rif
Limitazione funzionale cognitiva
43,6
rif
Limitazione funzionale fisica
Sì
No
0,27
rif
Stato civile
Limitazione funzionale cognitiva
Sì
No
93,6
Ultima professione esercitata
Stato civile
Non coniugato
Coniugato
Separato
Divorziato
Vedovo
-0,72
Età
Ultima professione esercitata
agricoltore
commerciante
dirigente/statale
quadro intermedio
impiegato
operaio
nessuna attività professionale
wald
Sesso
Età
55-65
65-75
75-85
85 +
coef
//
rif
//
rif
-0,28
rif
21,0
rif
Restrizione alle attività
Sì
No
123
Tabella 4 e 5: Regressione logistica relativa a:
Almeno una disabilità mentale
Costante
coef
wald
1,05
88,6
//
rif
//
rif
Almeno una restrizione ADL
Costante
Sesso
M
F
M
F
-0,45
-0,85
-0,78
rif
20,8
84,8
74,0
rif
//
//
-0,58
-0,36
rif
0,28
0,39
//
//
30,5
16,6
rif
16,1
9,4
//
rif
//
//
0,13
//
rif
//
//
4,4
rif
0,28
rif
19,9
55-65
65-75
75-85
85 +
agricoltore
commerciante
dirigente/statale
quadro intermedio
impiegato
operaio
nessuna attività professionale
Non coniugato
Coniugato
Separato
Divorziato
Vedovo
Rif
//
//
29,4
0,25
//
-0,5
//
rif
//
//
8,2
//
22,2
//
Rif
//
//
//
rif
//
//
0,11
//
Rif
//
//
2,7
rif
//
Rif
//
1,68
rif
693,7
rif
Limitazione funzionale fisica
1,14
rif
406,4
rif
Sì
No
Limitazione funzionale sensoriale
0,82
rif
264,0
rif
0,72
rif
163,9
rif
Sì
No
Restrizione alle attività
Sì
No
rif
//
//
0,53
Sì
No
Limitazione funzionale sensoriale
Sì
No
4,7
Rif
Rapporti sociali
Limitazione funzionale fisica
Sì
No
-0,13
rif
Stato civile
Rapporti sociali
Sì
No
415,0
Ultima professione esercitata
Stato civile
Non coniugato
Coniugato
Separato
Divorziato
Vedovo
-1,61
Età
Ultima professione esercitata
agricoltore
commerciante
dirigente/statale
quadro intermedio
impiegato
operaio
nessuna attività professionale
wald
Sesso
Età
55-65
65-75
75-85
85 +
coef
0,35
rif
44,8
rif
Limitazione funzionale cognitiva
Sì
No
124
1,04
rif
396,5
rif
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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125
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 126-136
I portafogli delle famiglie 1995-2004 e la previdenza
nei principali paesi OCSE : Primi segnali di convergenza
verso veicoli a più lungo termine?
1
di Daniele Fano e Teresa Sbano*
1. Introduzione
Come ben mostrato in numerosi contributi a questa rivista, nella maggior parte dei Paesi
europei le famiglie non appaiono preparate ad affrontare la responsabilità della salvaguardia
dei livelli di vita nella vecchiaia che le sfide demografiche e il minor impegno dello Stato e
delle grandi imprese hanno trasferito sulle loro spalle. Certamente, le sfide poste
dall’allungamento del ciclo vitale sono così ampie da richiedere soluzioni articolate e flessibili
sia in direzione del prolungamento della vita lavorativa, sia nel senso della ottimizzazione del
risparmio al medio-lungo termine.
Confermiamo, in questo lavoro, che le attività finanziarie destinate ai fondi pensione e alle
assicurazioni vita sono, in molti paesi, trascurabili o insufficienti. Esploriamo anche alcune
tendenze in atto dalle quali emergono timidi segnali positivi.
Ci avvaliamo di una classificazione delle attività delle famiglie più dettagliata di quella
tradizionale, definita in un nostro lavoro in comune con l’OCSE,2 e su una ricostruzione dei
dati per il periodo 1995-2004.
Oltre al limitato sviluppo del risparmio a lungo termine, un fattore peculiare è dato dalla
grande diversità di strumenti con cui lo stesso problema viene affrontato nei diversi Paesi, con
fondi pensione a prestazione definita o a contribuzione definita, con polizze assicurative del
tipo “unit-linked” o tradizionali. In generale, vi sono notevoli differenze nell’allocazione della
ricchezza finanziaria delle famiglie tra diversi Paesi ed è naturalmente interessante, proprio alla
luce dell’urgenza della questione previdenziale, capire se vi sono tendenze a divergere
ulteriormente o invece a convergere. Mentre nel periodo 1995-2000 sembra che continuino a
prevalere fattori di diversità, dal 2000 in poi riscontriamo segnali più evidenti di convergenza.
Il decollo di strumenti previdenziali di secondo e terzo pilastro a contribuzione definita
dovrebbe, in futuro, rafforzare tale tendenza.
Anche le oscillazioni nell’ allocazione dei portafogli rispetto al rischio fornisce indicazioni
interessanti.
Nelle conclusioni cercheremo di delineare alcune implicazioni riguardo alla
regolamentazione e all’offerta di prodotti previdenziali e assicurativi.
PGAM Economic Research, 2006.
* Gli autori ringraziano Laura Marzorati e Giuseppe Costanzo di PGAM Research per I loro commenti. La responsabilità di quanto
scritto è esclusivamente degli autori medesimi.
2 Babeau, A. e Sbano T. )2002), “Household Wealth in the Financial Accounts of Europe, the United States and Japan”, Trends in Savings
and Wealth, WP N1/03, http://www.savingsandwealth.com.
1
126
2. Sussistono importanti differenze nella composizione delle attività finanziarie
delle famiglie tra i principali Paesi OCSE
Tabella 1: Composizione delle attività finanziarie delle famiglie al 31-12-2004
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
La composizione delle attività finanziarie delle famiglie mostra notevoli differenziazioni
tra i principali Paesi. In Giappone, per esempio, il peso dei depositi supera ancora il 50%, e a
ciò hanno probabilmente contribuito i 15 anni di deflazione che hanno reso meno interessanti
i mercati azionari e obbligazionari. Ma un altro fattore stupisce nel caso del Giappone che ha,
com’è noto, i più alti tassi di invecchiamento della popolazione: il peso relativamente basso dei
fondi pensione e delle polizze vita, rispetto a Olanda, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Viene confermato lo scarso sviluppo degli strumenti previdenziali per Italia e Spagna. La
Francia e, in una certa misura, la Germania, hanno supplito con un settore relativamente forte
delle assicurazioni vita. Quest’ultimo vede le polizze unit-linked ormai affermate in molti paesi
a eccezione di Germania e Giappone. Non si riesce naturalmente a desumere da questi dati
quanto della componente assicurativa rappresenti effettivamente risparmio previdenziale a
lungo termine e quanto invece risparmio cautelativo a medio termine (“buffer stock”) o
arbitraggio fiscale.
Per quanto attiene le forme pensionistiche vere e proprie, i Paesi Bassi rappresentano una
eccezione per l’assoluta prevalenza delle prestazioni definite, mentre in altri Paesi, come vedremo
meglio nel seguito dell’articolo, la componente a contribuzione definita è la più dinamica.
3. Le differenziazioni esistenti: riflettono esigenze prospettiche o piuttosto retaggi
storici o differenze culturali?
Un’interpretazione naturale riguardo alla debolezza delle componenti assicurative e
previdenziali in Paesi dell’Europa Continentale a eccezione dell’Olanda, potrebbe far
riferimento alla contrapposizione tra modelli di welfare “alla Beveridge” dove il primo pilastro
pubblico ha un ruolo di “rete di sicurezza”, e modelli bismarckiani, dove il primo pilastro è
tradizionalmente teso a salvaguardare il potere di acquisto nella terza età.
In realtà sappiamo che i tassi di sostituzione attesi dei sistemi bismarckiani tenderanno ad
avvicinarsi a quelli dei Paesi anglo-sassoni.3 Essi saranno inoltre caratterizzati da una notevole
varianza a parità di coorte. Pertanto le famiglie dovrebbero in qualche misura provvedere sin
d’ora a compensare i minori livelli attesi delle prestazioni pubbliche.
3 Si veda per esempio Liedke P.M. (2006): “From Bismarck’s Pension Trap to the New Silver Workers of Tomorrow”, European Papers
on the New Welfare, No. 4 February, pp. 71-76.
127
•
•
Occorre quindi chiedersi se in realtà nei Paesi a tradizione bismarckiana:
le famiglie abbiano in qualche modo razionalmente “anticipato” la futura caduta delle
prestazioni previdenziali aumentando altre forme di ricchezza, finanziaria e reale,
(indipendentemente quindi dalle componenti di natura esplicitamente assicurativa e
previdenziale); oppure
se siamo di fronte a fenomeni di miopia che comportano un’insufficienza
nell’accumulazione di attività reali e finanziarie.
Anche se non è questa la sede per approfondire tali tematiche, possiamo limitarci a notare
che:
• i livelli relativamente importanti di ricchezza finanziaria e reale (tabelle sotto) accumulati
dalle famiglie, nel caso per esempio di Giappone e Italia, possono essere coerenti con una
ipotesi di “anticipazione razionale” delle esigenze previdenziali in senso almeno parziale.
Ciò dimostra che è comunque importante non limitare la valutazione dell’adeguatezza del
risparmio delle famiglie rispetto alle esigenze di medio-lungo termine ai veicoli
esplicitamente pensionistici e assicurativi.
In altri termini, è importante abbracciare il risparmio nel suo insieme e in tutte le
componenti.
•
•
D’altra parte, è anche vero che, se si vuole avere un quadro della sostenibilità dei redditi
lungo l’arco vitale, i dati aggregati di contabilità finanziaria sono del tutto insufficienti a
valutare le problematiche di cui soffre, in quanto la concentrazione della ricchezza e dei
flussi di risparmio richiede di spostare l’attenzione a livello micro.
Altri indicatori, precisamente a livello micro, come ad esempio i bassissimi tassi di
risparmio dei giovani rilevati nelle indagini sui bilanci delle famiglie di Paesi come l’Italia,
puntano invece nella direzione opposta. Le ricerche di behavioural finance hanno mostrato
che anche in presenza di consapevolezza della questione previdenziale — consapevolezza
tutt’altro che scontata — gli individui tendono a rinviare le decisioni di risparmio a lungo
termine più difficili e dolorose.
Nell’insieme c’è un certo consenso riguardo al fatto che le coorti in età lavorativa siano portate
a non risparmiare sufficientemente per il lungo termine.4 È interessante analizzare da questo punto
di vista le tendenze in atto nella composizione delle attività finanziarie delle famiglie.
A tal fine ci chiederemo in primo luogo se esistono o meno segnali di convergenza o di
divergenza nella struttura delle attività finanziarie delle famiglie nei paesi esaminti e, in
secondo luogo, come si caratterizzano le tendenze in atto.
Tabella 2: Indicatori del livello della ricchezza finanziaria e reale delle famiglie
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
4 Thaler, R.H. e Benartzi, S. (2001): “Using Behavioural Economics to Increase Employee Savings”, August; Thaler, R.H. (1994)
“Psychology and Savings Policies”, The American Economic Review, Vol. 84, No. 2, May.
128
4. Primi segnali di convergenza?
Al fine di analizzare la convergenza (o la divergenza) negli strumenti finanziari detenuti
dalle famiglie abbiamo, in primo luogo, analizzato:
• le correlazioni tra i mix di tali strumenti nel tempo per l’insieme dei Paesi presi in esame,
• l’ambito più strettamente europeo, in termini di scostamenti rispetto ad un “benchmark”.
•
•
Tale analisi ci ha portato a distinguere tra due sottoperiodi:
il periodo 1995-2000, in cui l’Europa si avvicina agli USA, ma la struttura dell’asset mix
nei paesi europei presi in esame non presenta elementi di convergenza,
il secondo, a partire dal 2001, che mostra invece chiari segni di convergenza anche in
ambito europeo.
In particolare, tra il 1995 e il 2000 la riduzione dei depositi e di altre componenti liquide in
Europa ha portato a un riavvicinamento tra la struttura del vecchio continente e di quello
nuovo.
Tabella 3: Correlazione della composizione delle attività finanziarie
delle famiglie tra i Paesi, 1995-2000
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
In ambito intra-europeo non vi sono invece segni di convergenza nel periodo 1995-2000.
Invece a partire dal 2001 l’incremento delle componenti assicurative e dei fondi pensione a
contribuzione definita porta ad una riduzione della distanza tra i Paesi dell’Europa continentale
(esclusi i Paesi Bassi), da una parte, e il Regno Unito e i Paesi Bassi stessi dall’altra.
129
Tabella 4: Correlazione della composizione delle attività finanziarie
delle famiglie tra i Paesi 2000-2004
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
Al fine di approfondire quest’ultimo aspetto abbiamo misurato le distanze tra i vari Paesi
europei e un “benchmark”, definito come la composizione media europea nel 2004. Questo
esercizio mostra che, pur in presenza di primi segni di convergenza, rimangono importanti
differenze nella composizione delle attività finanziarie delle famiglie tra i diversi Paesi. Così,
le famiglie italiane continuano a essere caratterizzate dall’importanza dei titoli obbligazionari
nei loro portafogli e quelle inglesi e olandesi dalla presenza di attività a lungo termine, in
particolare attraverso i fondi pensione a prestazione definita.
Tabella 5: Composizione delle attività finanziarie delle famiglie nei maggiori Paesi europei:
quanto i singoli Paesi sono distanti dalla media europea?
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
Nota: in grassetto il gap negativo più alto, in grigio il gap positivo più alto.
Il coefficiente di variazione conferma che, sebbene la dispersione tra Paesi rimanga in
generale elevata, vi è un sottoinsieme di strumenti che appare “trascinare” la convergenza, i
fondi pensione a contribuzione definita e le polizze di tipo “unit-linked”.
130
Tabella 6: Coefficienti di variazione del peso degli strumenti
in ogni Paese EU tra il 1995 al 2000 e tra 2000 a 2004
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
Figura 1: Composizione — Attività finanziarie delle famiglie (2004)
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
Per testare ulteriormente se le economie considerate tendono a convergere a un comune
livello del loro risparmio gestito (fondi comuni, fondi pensione e assicurazioni vita) abbiamo
condotto alcuni esercizi per testare la Beta-convergenza e la Sigma-convergenza.5 Date le
poche osservazioni usate, gli esercizi devono essere interpretati con cautela. Nei prossimi
lavori cercheremo di allargare il campione e il periodo di osservazione per ottenere stime più
significative.
La Beta-convergenza mostra se il livello del gestito nei vari Paesi tende ad allinearsi ad un
benchmark comune nel tempo considerato. La convergenza è presente quando c’è una
relazione inversa tra il tasso di crescita e il livello iniziale dell’indicatore considerato.
L’esistenza di un processo di convergenza nel quale le regioni con un livello più basso del
rapporto del gestito rispetto al PIL crescono più velocemente di quelle con un livello più alto
è rappresentato nel grafico sottostante (pendenza negativa della retta). La beta convergenza è
confermata dal fatto che, se consideriamo come indicatore il rapporto tra gestito e attività
finanziarie delle famiglie, abbiamo nuovamente una pendenza negativa e quindi il processo
non è dovuto solo a una convergenza delle attività finanziarie in percentuale al PIL ma anche
a uno spostamento di flussi da prodotti non gestiti verso gestiti.
Per un’applicazione più ampia si veda Bartiloro, L. e De Bonis, R. (2005): The Financial System of European Countries: Theoretical
Issues and Empirical Evidence, Banca d’Italia, Roma.
5
131
Tassi di crescita del rapporto gestito/
PIL 1995-2004
Figura 2: Beta-convergenza
La Sigma-convergenza misura se i Paesi tendono a diventare simili in termini di
deviazione dal benchmark. Abbiamo analizzato la Sigma-convergenza misurando la
deviazione standard del logaritmo del rapporto del gestito rispetto al PIL all’inizio e alla fine
del periodo analizzato. Nel 1995 la deviazione standard dell’indicatore era uguale a 35%,
mentre nel 2004 è diminuita raggiungendo il livello del 22,7%. Nel periodo considerato
risulta evidente la presenza di Sigma-convergenza tra i Paesi considerati (vedi anche la
Figura sottostante).
Deviazione standard log (gestito/PIL)
Figura 2: Sigma-convergenza
132
5. I tassi di crescita della ricchezza e il ruolo crescente dell’ “Instividuo”
Vale la pena soffermarsi in particolare sullo sviluppo dei fondi a contribuzione definita e
delle polizze assicurative unit-linked non solo perché emergono come fattori trainanti della
convergenza, ma anche perché sottendono un trend destinato probabilmente a rafforzarsi
ancora nei prossimi anni.
Il mondo delle “prestazioni definite”, ancora intatto per i pensionati recenti, sta
rapidamente declinando:
• il primo pilastro previdenziale pubblico sta trasformandosi in molti Paesi in “contributivo
figurativo” e anche, nel caso di prestazioni definite tuttora in essere, prevede spesso
meccanismi di indicizzazione solo parziale nel tempo;
• i fondi aziendali a prestazione definita vengono ormai sostituiti da veicoli a contribuzione
definita;
• alle polizze tradizionali si affiancano, con ruolo crescente, quelle “unit-linked” prive o
con limitate garanzie.
Le istituzioni pubbliche e private stanno pertanto trasferendo sui singoli la responsabilità
di valutare l’adeguatezza delle risorse previdenziali e di operare di conseguenza. L’individuo
deve quindi farsi carico di quello che prima le istituzioni facevano per lui, assicurarsi un
adeguato tasso di sostituzione rispetto ai redditi del periodo lavorativo in modo da sostenere
i livelli di vita nella vecchiaia. L’individuo diventa “instividuo”.
Il dibattito sull’argomento è ampiamente sviluppato su questa rivista. La consapevolezza
dell’insufficienza della diffusione delle forme individuali di risparmio e l’esigenza di
agevolarne la diffusione ha portato, laddove la previdenza integrativa non è obbligatoria, alla
diffusione per legge di forme di tacito assenso, come nel caso della recente riforma
previdenziale negli USA e in Italia.
Riteniamo che il trend di crescita degli strumenti di risparmio “instividuale”
caratterizzerà fortemente i prossimi anni.
Figura 3: Tavola previsionale — crescita del segmento “Instividuale”
CAGR 2005-2013E
Attività finanziarie
Retail
Instividuale
Altro istituzionale
6%
8%
17%
4%
IL MERCATO DELL’INSTIVIDUALE:
Fondi pensione a contribuzione definita e veicoli
assicurativi non tradizionali
N.B. L’Europa continentale include la Spagna, la Germania, la Francia e l’Italia.
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali
133
In sintesi, per la maggior parte dei Paesi l’accumulazione della ricchezza a fini
previdenziali continuerà. La stessa esigenza di rinviare, per legge o di fatto, l’età
pensionabile dovrebbe allentare le pressioni sul decumulo di risorse.
•
•
•
Alcuni Paesi come il Regno Unito e l’Olanda hanno negli ultimi vent’anni costruito e/o
consolidato sistemi fondati sui fondi pensione e sulle assicurazioni vita.
In Francia e in Germania la componente assicurativa e quella di investimenti con
garanzia stanno crescendo.
Italia e Spagna stanno iniziando a veicolare il risparmio verso impieghi a più lungo
termine.
6. Il mix di rischio di portafoglio: le famiglie sanno sfruttare le opportunità
offerte dai mercati azionari?
Un altro aspetto rilevante riguarda il mix di rischio dei portafogli.
Rileviamo che i paesi più istituzionalizzati (cioè dove è minore il peso dei depositi e del
risparmio amministrato) sono anche quelli dove da una parte l’esposizione ai mercati
azionari (rappresentativi delle attività rischiose) è più alta e dove, d’altra parte, le
oscillazioni del portafoglio delle famiglie sono più contenute. Non sorprende che i veicoli a
medio-lungo termine agiscano da contrappeso rispetto alla naturale tendenza degli investitori
a “rincorrere” i mercati con il rischio di acquistare azioni quando i mercati sono più cari,
salvo poi spaventarsi e “vendere” quando i mercati sono bassi.
L’Italia e la Spagna sembrano aver approfittato meno della crescita dei mercati azionari
nel ventennio che ha preceduto il 2000 e anzi, da buone ritardatarie, di aver anche subito (in
senso relativo) maggiormente i danni della correzione.
Figura 4: Tavola previsionale — crescita del segmento “Instividuale”
Italia
Spagna
Fonte: Elaborazioni di PGAM Research su dati delle banche centrali.
134
Germania
Francia
USA
Regno Unito
I mercati azionari comportano certamente rischi, ma forniscono anche opportunità. Il
“premio per il rischio” delle azioni rispetto alle obbligazioni va utilizzato con opportuni criteri
di diversificazione e di bilanciamento con altre componenti, come quella obbligazionaria e
quella immobiliare, ma costituisce un fattore chiave di successo per portafogli orientati al
lungo termine. La tendenza alla istituzionalizzazione del risparmio che abbiamo rilevato
dovrebbe precisare una occasione del genere.
Preoccupa tuttavia che, nel caso italiano, la recente riforma (Decreto n. 252 del 5/12/2005)
preveda come per il trasferimento del TFR tramite silenzio assenso un investimento in un
portafoglio virtualmente privo di rischio. Diverso il caso svedese, che prevede come “comparto
default” della previdenza a capitalizzazione l’investimento in un fondo azionario global.6 Tra i due
estremi una soluzione equilibrata dovrebbe comunque prevedere una diversificazione in azioni.
7. Conclusioni
Quale che sia il ventaglio di soluzioni per affrontare la sfida demografica, la struttura e la
qualità del risparmio a medio e lungo termine sono destinati a svolgere un ruolo fondamentale.
Attualmente la maggior parte dei Paesi esaminati e, soprattutto, i Paesi dell’Europa
continentale a esclusione dell’Olanda, presentano forti limitazioni in termini di sviluppo dei
veicoli a lungo termine e di qualità della diversificazione dei portafogli.
Vi sono tuttavia recenti sviluppi interessanti che indicano una forte crescita degli strumenti
destinati all’“instividuo”. Molto rimane tuttavia da fare, sia perché tali strumenti raggiungano
un peso davvero rilevante nei portafogli delle famiglie, sia perché vengano offerti in maniera
realmente corrispondente alle esigenze delle famiglie stesse.
Abbiamo affrontato solo alcuni aspetti della problematica. Altri aspetti potranno essere
affrontati con particolare riferimento al disegno del profilo ottimale dei nuovi strumenti
previdenziali.
In particolare ci si dovrà chiedere come rendere tali strumenti sufficientemente flessibili per
rispondere alla necessità di posticipare il periodo di pensionamento, di effettuare attività di
lavoro part-time durante la pensione, di affrontare le spese di “long-term care”, il rischio
sopravvivenza, nonché il desiderio “altruistico” di avere una riserva finanziaria per aiutare i
propri cari e/o lasciare un’eredità.
A monte di tutto ciò vi sono problematiche di educazione finanziaria degli investitori e di
qualità dell’offerta da parte di gestori finanziari e assicurativi e distributori.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Fano, D. e Onado, M. (2006): “I veicoli multicomparto nella previdenza complementare. La
sfida della semplicità”. In Messori, M. (a cura di), La previdenza complementare in Italia,
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6
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Tridico, P.: “Crescita e convergenza economica nei modelli neoclassici”, Università di Roma
“Tre”, http://host.uniroma3.it/facolta/economia/materiali/insegnamenti/346_1369.pdf.
136
Quaderni Europei sul nuovo Welfare, N. 7, Febbraio 2007, 137-149
Il risk-adjustment nei contratti di assicurazione malattia
di lungo periodo in Germania
di Johann Eekhoff, Markus Jankowski e Anne Zimmermann*
Riassunto
Sul mercato tedesco delle assicurazioni malattia private (AMP), nel caso dei contratti di
lungo periodo si ricorre ad accantonamenti per la vecchiaia per ridurre l’incremento del premio
correlato all’età. Attualmente, gli accantonamenti non vengono trasferiti nel caso in cui
l’assicurato passi a una compagnia assicurativa diversa. In questo modo l’assicurato non è
incentivato a rescindere la vecchia polizza perché con un nuovo contratto si troverebbe a
pagare un premio più alto per i medesimi servizi a causa dell’età più avanzata e della perdita
degli accantonamenti per la vecchiaia. Da tempo in Germania si discute della possibilità di
rafforzare la concorrenza sul mercato delle AMP. La questione principale è se il trasferimento
degli accantonamenti per la vecchiaia comporti la selezione dei rischi oppure no.
Abbiamo rivisto il modello basato sulla trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia
correlati ai rischi,1 dimostrando che è effettivamente possibile prevenire la selezione dei rischi
in un mercato delle AMP concorrenziale. Produrremo una serie di argomentazioni contro le
critiche rivolte più di frequente al modello di Meyer.2
Parole chiave: assicurazioni malattia private; selezione dei rischi; risk adjustment; contratti di
lungo periodo.
1. Introduzione
Un aspetto importante in relazione ai mercati delle assicurazioni malattia private riguarda
come ovviare all’impasse data dalla possibilità di ricorrere a contratti di assicurazione di lungo
periodo da una parte e dal pericolo di selezione dei rischi dall’altra.
Per avere contratti malattia di lungo periodo sembra esservi la necessità di regolamentare i
premi, anche se ciò va a scapito della concorrenza.3 Anche se le compagnie di assicurazione
possono identificare i rischi dell’assicurato nel corso del tempo, nei contratti di lungo periodo
non è permesso modificare i premi in base al rischio individuale.
Università di Colonia, Dipartimento di Politica Economica, Albertus-Magnus-Platz, D-50923 Colonia, Germania.
E-mail: [email protected], [email protected] e [email protected]. Johann Eekhoff è Professore di
politica economica presso l’Università di Colonia ed ex segretario di stato del ministero federale dell’economia. Markus Jankowski ha
studiato economia all’Università di Costanza ed è stato ricercatore presso il dipartimento di politica economica dell’Università di Colonia
fino al marzo 2005. Anne Zimmermann ha studiato economia all’Università di Bonn e attualmente lavora come ricercatrice presso il
dipartimento di politica economica dell’Università di Colonia. L’articolo è stato reso possibile dal contributo finanziario dell’Istituto per
gli studi economici Otto Wolff di Colonia. Ringraziamo Nicole Blout, Sven Ramsey e due revisori anonimi per le loro utili annotazioni.
Articolo pubblicato in inglese nei Geneva Papers on Risk and Insurance — Issues and Practice, Vol. 31(4), ottobre 2006.
1 Meyer (1992).
2 Ibid.
3 Pauly (1984).
*
137
Se il mercato fosse aperto alla concorrenza, le compagnie assicurative che volessero
massimizzare gli utili farebbero bene a interessarsi esclusivamente agli individui a basso
rischio, cioè agli assicurati che presentano una previsione di spesa annua (al valore corrente)
inferiore ai premi assicurativi (sempre al valore corrente). Si dedicano risorse allo sviluppo di
meccanismi di selezione volti a identificare i clienti a basso rischio invece di migliorare
efficienza e qualità delle prestazioni sanitarie fornite. Tale selezione dei rischi comporta lo
spreco di risorse che nel settore sanitario non sono abbondanti.
Sui mercati delle assicurazioni malattia private si discutono approcci diversi per arrivare
alla concorrenza in un settore legato al livello dei rischi e caratterizzato da contratti di lungo
periodo.4 I contratti garantiti e rinnovabili assicurano la concorrenza solo nel caso di rischi
contenuti, mentre chi presenta rischi maggiori va incontro a perdite finanziarie nel caso in cui
rescinda la polizza dopo qualche anno.5 Al contrario, le assicurazioni a premi ricorrenti possono
risultare svantaggiose sia per l’assicurato che per l’assicuratore, per tacere della compagnia.
Inoltre, potrebbe essere difficile imporre gli indennizzi necessari da parte degli assicurati che
presentano rischi contenuti a favore della compagnia assicurativa in caso di rescissione.6
Le assicurazioni malattia sul mercato privato tedesco (AMP) possono essere viste come il
risultato della combinazione di contratti garantiti e rinnovabili e dell’accantonamento per la
vecchiaia, un fattore di risparmio cautelativo. Se un assicurato cambia compagnia, né l’anticipo
sul contratto garantito e rinnovabile né l’accantonamento per la vecchiaia saranno trasferiti al
nuovo assicuratore, applicando così il regime di concorrenza solo ai nuovi arrivi sul mercato
assicurativo. Il presente articolo fornisce una panoramica dell’attuale dibattito sulla possibilità
di rafforzare la concorrenza sul mercato delle AMP in Germania e dimostra che, nel caso dei
contratti di lungo periodo, si può raggiungere la piena concorrenza affidandosi alla
correlazione ai rischi sia per i premi assicurativi che per gli accantonamenti per la vecchiaia,
secondo la proposta avanzata per primo da Meyer.7
L’articolo è strutturato come segue: nel prossimo paragrafo viene offerta una panoramica
del mercato delle AMP in Germania. Successivamente viene presentato e poi discusso il
modello della trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia correlati al rischio. Il
penultimo paragrafo affronta brevemente i problemi cui questo modello andrebbe incontro se
fosse applicato al sistema delle assicurazioni malattia in Germania. Infine si presentano le
conclusioni.
2. Il mercato delle AMP in Germania
In Germania il mercato delle assicurazioni malattia si divide in due rami diversi. La
maggior parte dei dipendenti e delle loro famiglie è assicurata presso una delle circa 300 casse
mutua malattia che fanno parte del sistema dell’assicurazione sociale obbligatoria. I dipendenti
che percepiscono un reddito superiore a un dato importo, i lavoratori autonomi e gli statali
possono scegliere il secondo ramo, cioè il mercato privato.
Sul mercato privato tedesco i contratti di lungo periodo prevedono premi correlati al
rischio. Attualmente non è permesso aumentare il premio a causa del peggioramento delle
condizioni di salute dell’assicurato. I premi, che nel caso dei contratti a breve termine
crescerebbero in virtù dell’aumento delle spese previste con l’avanzare dell’età dell’assicurato,
sono controbilanciati da un fattore di risparmio cautelativo: gli accantonamenti per la
4 Il problema dell’organizzazione del mercato delle assicurazioni di lungo periodo contro le malattie è stato affrontato per primo da
Arrow (1963, p. 964) e Pauly (1970, p. 411).
5 Pauly et al. (1995).
6 Per ulteriori dettagli cfr. Cochrane (1995).
7 Meyer (1992).
138
vecchiaia. Il premio versato dall’assicurato in giovane età subisce un leggero incremento,
rendendo possibile la creazione di un fondo per la vecchiaia. Più tardi, quando il premio non
riesce più a coprire le spese annue previste, si riducono gli accantonamenti per compensare i
costi aggiuntivi.8
In questo tipo di mercato non c’è quasi spazio per la selezione dei rischi dato che,
ogniqualvolta si sottoscrive una polizza, l’assicuratore calcola un premio correlato al rischio in
grado di coprire le spese previste in futuro. I premi si calcolano come segue: chi non è stato
affetto da malattie degne di nota versa una somma standard; chi è ad alto rischio è soggetto al
cosiddetto risk loading, pari a una percentuale della tariffa base; in certi casi è persino possibile
negare la copertura assicurativa. Dopo avere sottoscritto una polizza malattia privata,
l’assicuratore non può rescinderla a condizione che l’assicurato abbia fornito informazioni
veritiere sul suo stato di salute al momento della sottoscrizione. La rescissione è invece
possibile per l’assicurato. Tuttavia, in Germania il mercato delle AMP manca di concorrenza.
Gli assicurati si trovano raramente nella condizione di cambiare compagnia di assicurazioni
dopo aver sottoscritto la polizza, anche se non sono soddisfatti della scelta compiuta. Il motivo
è dato dal fatto che chiunque abbandoni l’assicuratore originario perde il fondo accumulato per
la vecchiaia. Se si cambia, i soldi accantonati restano in mano alla compagnia assicurativa
originaria. Di conseguenza l’assicurato dovrà versare al nuovo assicuratore un premio più alto,
poiché questo sarà calcolato sulla base dell’età e delle condizioni di salute al momento in cui
si richiede una nuova polizza. Solo per chi è stato assicurato per breve tempo, e quindi non ha
ancora accantonato somme notevoli, sarà possibile cambiare compagnia di assicurazioni.
Questo vincolo limita la concorrenza ai soggetti giovani e in salute, oltre a rendere difficoltoso
l’accesso al mercato di nuovi operatori.9
Ma allora perché non si trasferiscono gli accantonamenti per la vecchiaia? Si sostiene che
la trasferibilità potrebbe incoraggiare la selezione dei rischi. Se gli accantonamenti fossero
uguali per tutti gli assicurati, le compagnie sarebbero incentivate a scegliere i “clienti
vantaggiosi”. Chi riuscisse a selezionarli, incasserebbe accantonamenti per la vecchiaia elevati
in relazione alle spese attese, arrivando così a un’inefficiente perequazione dei rischi, cioè alla
selezione dei rischi.10 Secondo un’altra argomentazione spesso addotta, di taglio maggiormente
ridistributivo, finirebbero per aumentare i premi previsti per tutti gli assicurati “fedeli”, dato
che questi non potrebbero più beneficiare degli accantonamenti per la vecchiaia trasferiti da chi
rescinde la polizza.11
3. La trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia correlati al rischio
Quello sulla possibilità di trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia non è un dibattito
recente. Meyer12 è stato il primo a dimostrare che sarebbe stata possibile una maggiore
efficienza se gli accantonamenti, come li conosce il mercato delle assicurazioni private in
Germania, fossero proporzionali al rischio individuale e fossero resi trasferibili in caso di
cambio di compagnia assicurativa.13 Si consideri l’esempio che segue, fermo restando il regime
di assicurazioni malattia private vigente in Germania come descritto al paragrafo precedente.
Se un assicurato viene classificato come soggetto ad alto rischio, per esempio a causa di un
incidente o di una malattia cronica, la quota media degli accantonamenti non sarà più
Il sistema potrebbe essere considerato una variante del rinnovo garantito. Cfr. Kifmann (2000, p. 579) e Baumann et al. (2004).
È più difficile attirare un numero di clienti sufficiente a mutualizzare i rischi in maniera efficiente.
Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 43).
11 Alcune polizze vengono rescisse dopo due anni dalla sottoscrizione perché l’assicurato riceve un’offerta migliore da parte della
concorrenza. Se gli accantonamenti per la vecchiaia fossero trasferibili, si dovrebbe avere un calo dei premi versati ai nuovi assicuratori.
Sarebbe anche possibile rescindere una polizza a seguito del rientro nel sistema di assicurazione sociale obbligatoria, per esempio se si
cambia lavoro.
12 Meyer (1992).
13 Cfr. anche Monopolkommission (1998), Sachverständigenrat (2002), Donges et al. (2002), Meier (2003), Eekhoff (2005).
8
9
10
139
sufficiente a coprire le maggiori spese previste in futuro per le cure mediche. Fintanto che
questa persona manterrà la polizza originale con l’assicuratore A, in seno alla totalità degli
assicurati, saranno i soggetti caratterizzati da un livello di rischio inferiore a coprirne le spese
future. Effettivamente, è questa la funzione contratti di assicurazione di lungo periodo.
Tuttavia, oggi, chi rescinde la polizza con l’assicuratore A per sottoscriverne un’altra con il
concorrente B, pur trattandosi di un’assicurazione di lungo periodo, è costretto a versare un
premio notevolmente maggiore a B perché gli accantonamenti per la vecchiaia non possono
essere trasferiti. Così, nel sistema tedesco delle assicurazioni malattia private i contratti di
lungo periodo non vengono applicati per intero. Un assicurato con alti livelli di rischio che
decide di cambiare compagnia di assicurazione invece di conservare la polizza originaria si
troverà a incorrere in una perdita finanziaria.
Per quanto concerne l’adozione di contratti di lungo periodo, ipotizziamo che l’assicuratore
A debba trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia all’assicuratore B. In questo modello,
per evitare la selezione dei rischi è necessario modificare gli accantonamenti in base alle
condizioni di salute. I fondi trasferiti a B per la copertura di un livello di rischio basso sono
inferiori alla media, mentre quelli relativi ai rischi elevati sono superiori. Più nello specifico,
dati il premio dell’assicuratore A e le condizioni di salute dell’assicurato X, l’accantonamento
per la vecchiaia rispecchierà la differenza tra i costi attesi e le previsioni di spesa futura di X.
La differenza tra l’accantonamento medio e l’importo inferiore nel caso di un basso livello di
rischio può essere considerato un indennizzo per le maggiori spese attese in virtù dell’alto
livello di rischio assicurato. È solo tramite questa compensazione interna al vecchio gruppo
degli assicurati che gli individui a basso rischio in procinto di cambiare assicuratore riescono
a coprire le previsioni di spesa degli assicurati (ad alto rischio) che invece rimangono nel
programma originario.14
Se la polizza di A viene rescissa da un assicurato ad alto rischio, si trasferisce a B un
accantonamento per la vecchiaia correlato al rischio e rispecchiante le maggiori previsioni di
spesa. Il premio di B viene calcolato sulla base delle nuove informazioni relative alle
condizioni di salute dell’assicurato e del (maggiore) accantonamento per la vecchiaia che ne
discende. A parità di competenze tecnologiche e completezza delle informazioni, in un mercato
equilibrato i premi dei diversi assicuratori non differiscono. Se variano le competenze
tecnologiche, le differenze tra i premi saranno dovute solamente ai diversi gradi di efficienza
produttiva e alla qualità dei servizi sanitari forniti dall’assicuratore. In ogni caso, esse non
dipendono dalle condizioni di salute dell’assicurato, rendendo così possibili i contratti di lungo
periodo.15 Le domande cruciali da porsi in caso di informazioni incomplete sono le seguenti: le
compagnie assicurative hanno la possibilità di calcolare male gli accantonamenti per l’età e
hanno interesse a farlo? Dispongono delle informazioni necessarie per tenere conto dei rischi?
I paragrafi che seguono illustrano come la correlazione al rischio degli accantonamenti per la
vecchiaia rimane non solo possibile in caso di incompletezza dell’informazione, ma si dimostra
anche una maniera efficace per evitare la selezione dei rischi.16
3.1 Correlazione ottimale al livello di rischio: il punto di vista dell’assicuratore
Anche se tutti gli assicuratori dispongono di informazioni sufficienti per correlare gli
accantonamenti per la vecchiaia al rischio individuale, potrebbero comunque essere
incoraggiati ad affermare che l’assicurato gode di ottima (o pessima) salute per calcolare un
accantonamento errato sulla base della documentazione medica disponibile. Ciò è vero nel caso
in cui non sia possibile contestare le condizioni di salute e il relativo accantonamento per la
14
15
16
Meyer (1992, p. 192 e segg.).
Cfr. per esempio Meier (2003, p. 9).
Ibid.
140
vecchiaia.17 Ciononostante dimostreremo che gli assicuratori hanno tutto l’interesse di
calcolare correttamente un accantonamento per la vecchiaia correlato al livello di rischio
individuale.
3.1.1. Correlazione degli accantonamenti per la vecchiaia al livello di rischio e qualità delle cure
Innanzitutto ipotizziamo che tutti gli operatori forniscano servizi assicurativi e sanitari del
medesimo livello qualitativo. Se un assicurato X ad alto livello di rischio rescinde il contratto
con l’assicuratore A, per quest’ultimo la scelta tra conservare la polizza e trasferire
l’accantonamento per la vecchiaia sarà completamente indifferente, ovviamente purché la
somma trasferita sia pari alla differenza tra il valore corrente delle spese mediche previste e i
premi attesi. Se l’assicuratore A invogliasse l’assicurato18 ad alto rischio19 a rescindere la
polizza concedendo un accantonamento più elevato, finirebbe per perdere soldi. L’assicuratore
potrebbe anche calcolare un accantonamento inferiore per guadagnare di più se l’assicurato
passa a un’altra compagnia, ma X dovrebbe versare un premio più alto per la nuova polizza
con l’assicuratore B a causa dell’accantonamento ridotto e dell’elevato livello di rischio.
Naturalmente X rescinderà la vecchia polizza esclusivamente nel caso in cui abbia
l’opportunità di migliorare la propria situazione, il che sarebbe possibile solo se il premio
destinato a B risultasse almeno marginalmente inferiore alla somma precedentemente richiesta
da A. Consapevole di questo fatto, A aumenterà l’accantonamento per la vecchiaia finché
continuerà ad essere possibile ottenere un introito marginale dagli assicurati ad alto rischio che
decidono di non rescindere le proprie polizze. Di conseguenza, l’accantonamento per la
vecchiaia correlato al rischio può essere visto come il prezzo da pagare per “sbarazzarsi” degli
assicurati ad alto rischio. A parità di competenze tecnologiche, la somma che A è disposto a
trasferire a B deve essere solo marginalmente inferiore alla differenza tra le spese previste in
futuro e i premi attesi in relazione all’assicurato X.
Questo stato di cose rimarrà invariato fintantoché gli assicuratori non avranno la possibilità
di fornire servizi assicurativi o sanitari di qualità diversa, cioè fino a quando le assicurazioni
rimarranno un prodotto omogeneo.
Partendo dall’assunto che la qualità è importante, la selezione dei rischi diventa probabile
nel momento della rescissione di un contratto qualora le compagnie assicurative godano della
libertà di stabilire in quel preciso momento gli accantonamenti per la vecchiaia. Gli assicurati
che ricevono un accantonamento eccessivamente basso rescinderanno la polizza con A solo se
effettivamente insoddisfatti. Nel loro caso, l’obbligo di versare un premio più alto a B sembrerà
accettabile. A potrebbe favorire un simile sviluppo offrendo ulteriori “incentivi” volti a
influenzare determinati gruppi e indurli a effettuare il trasferimento. Per esempio, si può ridurre
la qualità delle cure mediche o di altri servizi per spingere l’assicurato a trasferire la polizza
anche se paga di più.20
L’assicuratore può riuscire a individuare gli assicurati particolarmente insoddisfatti dei
servizi sanitari. In un contesto di gestione delle cure, per esempio, chi fornisce la copertura
assicurativa potrebbe influenzare il processo della selezione dei rischi offrendo servizi di
qualità superiore in settori di particolare rilevanza per alcuni gruppi di assicurati. Ad esempio,
per le giovani coppie intenzionate ad avere figli il problema è evidente: si presume che queste
persone siano interessate a ricevere determinati servizi, come assistenza ostetrica e pediatrica
di alta qualità, e si aspettano che il loro assicuratore A agisca di conseguenza. Da parte sua, A
Ibid.
Lo stesso meccanismo si applica agli assicurati a basso rischio.
19 Cfr. Meyer (1992, p. 197) e, per un’analisi più in dettaglio, Eekhoff (2005).
20 Per una panoramica delle diverse strategie di selezione dei rischi, cfr. van de Ven and van Vliet (1992) e van de Ven (2001).
17
18
141
può presumere che, se sufficientemente insoddisfatta dei servizi resi, la coppia sia disposta ad
accettare l’aumento del premio assicurativo proposto da un possibile nuovo assicuratore B. Il
trasferimento di un accantonamento per la vecchiaia eccessivamente basso rispetto alle
condizioni di salute della coppia determinerebbe per A una posizione di vantaggio: gli
assicurati possono essere spinti ad uscire dal portafoglio clienti, il che alla compagnia di A
ovviamente non dispiacerebbe. La rimanenza degli accantonamenti per la vecchiaia risulterà
probabilmente più alta di quanto necessario per coprire le spese future dell’utenza rimanente:
l’assicuratore A può dunque utilizzare questa eccedenza per ridurre i premi degli assicurati che
rimangono.
3.1.2 La “regola della somma”
L’atteggiamento dell’assicuratore, e dunque le pratiche descritte sopra, potrebbero
cambiare nel caso in cui la dirigenza si trovasse esposta al rischio immediato di mettere a
repentaglio il buon nome della società.21 Una soluzione più sicura, anche se allo stesso tempo
più costosa,22 del problema della selezione dei rischi è data dalla “regola della somma”.
L’accantonamento per la vecchiaia correlato all’età deve essere calcolato annualmente per
ciascun assicurato, mentre la somma di tutti gli accantonamenti individuali deve essere sempre
pari al totale riportato a bilancio. Se l’assicuratore A ha stabilito un accantonamento individuale
eccessivamente basso, l’assicuratore B dovrebbe essere estremamente efficiente per
compensare il nuovo assicurato dell’ammanco in termini di accantonamenti per la vecchiaia.
Se ciò non avvenisse, con tutta probabilità l’assicurato eviterebbe di effettuare il trasferimento,
pur essendo insoddisfatto dei servizi prestati da A. In fin dei conti, la nuova polizza risulterebbe
chiaramente più costosa. Tuttavia, allo stesso tempo, gli accantonamenti relativi agli altri
clienti tenderebbero a essere eccessivi, dato che la somma degli stessi dovrebbe corrispondere
alla voce registrata a bilancio.
A sua volta, ciò potrebbe indurre questi altri clienti a rescindere le polizze sottoscritte con
A, dato che sarebbe possibile acquistare la copertura assicurativa per un premio minore senza
che B debba agire in maniera più efficiente. Inoltre, i restanti clienti di A dovrebbero accettare
un aumento dei premi, poiché A stesso non sarebbe più in grado di coprire tutte le spese future
a causa del livello insufficiente degli accantonamenti per la vecchiaia. L’incremento dei premi
spingerebbe così altri assicurati ad abbandonare A, dal momento che la differenza tra i premi
richiesti dai due concorrenti tenderebbe a ridursi o addirittura ad annullarsi. Si vede quindi che,
in un contesto competitivo, un calcolo errato degli accantonamenti per la vecchiaia può
effettivamente portare un assicuratore al fallimento.23
Se questa “regola della somma” è sottoposta al controllo di un’autorità che non è parte in
causa o di revisori esterni, non vi è più alcun vantaggio nel procedere a un calcolo errato degli
accantonamenti per la vecchiaia. La qualità dei servizi forniti potrebbe risultare ancora
disomogenea, ma le differenze sarebbero rispecchiate dal variare dei premi e non
permetterebbero alcuna selezione dei rischi. Diventa così impossibile sfruttare la maggiore
propensione a pagare certi servizi calcolando gli accantonamenti in maniera errata.
3.1.3 L’importo totale degli accantonamenti per la vecchiaia
Al fine di aggirare la regola della somma illustrata sopra, l’assicuratore A può anche cercare
di ridurre gli accantonamenti per la vecchiaia portati a bilancio fino a ottenere un totale
21
22
23
Cfr. van de Ven (2001, p. 93) o Kifmann (200, p. 578), i quali adottano la stessa argomentazione in contesti analoghi.
Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 46).
Cfr. Donges et al. (2002, p. 53).
142
insufficiente. Per coprire l’incremento delle spese mediche cui va incontro con
l’invecchiamento, è necessario che l’intero portafoglio clienti disponga di accantonamenti
adeguatamente elevati. Se A stabilisce un accantonamento inferiore a quanto necessario per
evitare il futuro incremento dei premi, probabilmente si avranno due conseguenze. In primis,
se A sceglie questa strategia per attirare più clienti grazie a premi più bassi, verosimilmente il
vantaggio competitivo iniziale scomparirà dopo poco, visto che gli accantonamenti
risulteranno presto insufficienti e non copriranno le spese cui andranno incontro gli anziani.
Inevitabilmente, i premi saranno destinati a crescere. In seconda battuta, A potrebbe portare a
bilancio accantonamenti inferiori al necessario al fine di realizzare un surplus nel breve periodo
o evitare che i clienti rescindano le loro polizze. Se A richiede gli stessi premi del concorrente
B (il che è necessario per poter affrontare le spese future in altra maniera, per esempio
assegnando risorse finanziarie alla riserva in eccedenza), B cercherà di attirare nuovi assicurati
offrendo servizi di qualità migliore, oltre a premi più bassi o accantonamenti per la vecchiaia
più elevati. Secondo questo modello, l’unica conclusione possibile è che stabilire
accantonamenti insufficienti a coprire le spese future non è una strategia che paga quando si
cerca di imporsi su un mercato competitivo.
Tutto ciò è vero almeno finché gli assicurati sono interessati a una polizza malattia di lungo
periodo. Ma che accade se un cliente ritiene che rimarrà in condizioni di salute migliori della
media degli assicurati e dunque non è disposto a pagare i premi più alti richiesti da un contratto
di lungo periodo? E se il consumatore opta per prodotti diversi rispetto alla copertura
assicurativa, per esempio automobili o vacanze? In effetti, data una situazione di questo genere,
sia l’assicurato che l’assicuratore preferiscono stabilire contributi molto bassi
all’accantonamento per la vecchiaia. Quest’ultimo sarà troppo ridotto per coprire gli aumenti
cui sarà soggetto il premio in relazione all’avanzare dell’età.
Ma anche se si ipotizza che gli assicuratori non prevedano alcun accantonamento, nel caso
dei contratti di lungo periodo continuerebbe a vigere il meccanismo del risk-adjustment. Un
cliente “a basso rischio” che rescinde la polizza dovrà continuare a versare un indennizzo per
coprire il valore corrente dei premi attesi in eccesso rispetto al valore corrente delle spese
sanitarie individuali previste. Al contrario, un assicurato “ad alto rischio” incasserà una sorta
di indennizzo per spese sanitarie superiori alla media.24
Tuttavia, gli accantonamenti per la vecchiaia potrebbero continuare a essere necessari per
due ulteriori ragioni. In primo luogo, come già affermato da Cochrane,25 se si obbligano gli
assicurati a basso rischio che richiedono la rescissione del contratto a versare un indennizzo
all’assicuratore, si può incorrere in problemi di ordine legale, problemi che potrebbero essere
evitati imponendo gli accantonamenti per la vecchiaia. Questi ultimi, anche nei casi di
individui a basso rischio, risulterebbero vantaggiosi dopo un breve periodo di tempo. Occorre
tuttavia sottolineare che si tratta di una questione meramente legale. Dal punto di vista
economico, una compagnia assicurativa competitiva sarebbe in grado di offrire un premio più
basso oppure — a parità di costi — potrebbe corrispondere l’indennizzo richiesto
all’assicuratore precedente.
Il secondo motivo per cui gli accantonamenti per la vecchiaia potrebbero continuare a
essere necessari è l’eventualità della richiesta di trovare un modo per evitare lo sfruttamento
del sistema previdenziale pubblico. Se gli organismi previdenziali coprissero i costi
dell’assicurazione malattia o le spese sanitarie, gli assicurati potrebbero sfruttare la situazione
per consumare altri tipi di beni piuttosto che contribuire agli accantonamenti per la vecchiaia.26
Dando per scontato che i costi derivanti dalle prestazioni gratuite offerte dalla previdenza
24
25
26
Cfr. Cochrane (1995).
Ibid.
Cfr. Hayek (1960, p. 286).
143
sociale siano superiori a quelli dovuti a una limitazione della libertà di scelta del consumatore,
risulta necessario definire un contributo minimo all’accantonamento per la vecchiaia.27
3.1.4 Risk-adjustment e informazioni necessarie
È molto improbabile che un assicuratore sia in grado di ottenere informazioni complete
sulle condizioni di salute di un cliente e sulle spese mendiche future. Tuttavia, per calcolare gli
accantonamenti per la vecchiaia tenendo conto dei rischi occorre conoscere la spesa media
prevista per le diverse categorie di rischio. Alcuni autori dubitano che ciò sia possibile,28 ma
questo problema può essere risolto. Innanzitutto, in Germania le compagnie assicurative
private sono riuscite ad accumulare una grande esperienza nel calcolo dei premi correlati al
rischio. In un simile scenario, si sono già trovate ad applicare gli accantonamenti per la
vecchiaia nel caso di diverse categorie di rischio.
Inoltre, se la selezione dei rischi derivante dalla trasferibilità di una percentuale media degli
accantonamenti per la vecchiaia è considerata un problema grave da parte delle compagnie
assicurative, esse devono ovviamente essere già in grado di calcolare la differenza tra il valore
corrente delle spese future e il valore corrente dei premi futuri.
In caso contrario, non sarebbero in grado di classificare i clienti ad alto o basso rischio, dato
l’ammontare dell’accantonamento medio per la vecchiaia.
Non è nemmeno assolutamente necessario differenziare per quanto possibile il risk
adjustment degli accantonamenti. Si immagini una situazione in cui l’assicuratore A sia
consapevole del fatto che il trasferimento di una percentuale media dell’accantonamento per la
vecchiaia conduca alla selezione dei rischi, oltre a sapere che può facilmente distinguere tra tre
diverse categorie di rischio: basso, medio e alto. Inoltre, egli dispone di una serie di criteri di
selezione in base ai quali assegnare i clienti a una delle tre categorie. In termini di
ottimizzazione, il problema di A consiste nello stabilire se sia più economico sviluppare un
sistema di classificazione più sottile o sopportare i costi dovuti dalla possibilità di “scrematura”
da parte dell’assicuratore B. Esisterà sempre un punto di equilibrio tra i costi di una
differenziazione più precisa volta a ridurre al minimo il pericolo della selezione dei rischi e le
maggiori spese imposte da una maggiore differenziazione. Il livello ottimale viene raggiunto
nel momento in cui i costi marginali di questi due fattori vengono a coincidere. In tal modo,
dato il costo del risk adjustment, le compagnie assicurative modificheranno gli accantonamenti
per la vecchiaia in base ai rischi individuali per quanto necessario al fine di evitare in maniera
efficiente la selezione dei rischi.
È vero che sul mercato AMP tedesco i dati sui costi futuri delle diverse malattie potrebbero
essere relativamente scarsi. Ma se fosse introdotto il modello proposto, le compagnie
assicurative sarebbero obbligate ad effettuare calcoli più precisi, il che implicherebbe la
raccolta di maggiori informazioni e l’organizzazione di ulteriori indagini sulla correlazione tra
malattie attuali e spese mediche future in seno allo stesso bacino di clienti.29
Nel 2000 il paragrafo 12 comma 4a della legge per la supervisione delle assicurazioni (VAG) ha adottato un ricarico del 10% sui premi
al fine di ottenere un controllo più efficiente della maggiorazione dei premi a carico degli assicurati, dato che il mercato assicurativo
privato tedesco non permetteva più a molti pensionati di farvi fronte. Cfr. anche Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 12).
28 Unabhängige Expertenkommission (1996, p. 46), Meier (2003, p. 15).
29 Cfr. anche Monopolkommission (1998, p. 343).
27
144
4. Applicazione al sistema di assicurazioni malattia in Germania
4.1 La riforma del mercato delle APM in Germania
L’adozione del modello visto sopra al mercato delle APM in Germania dovrebbe essere
abbastanza semplice. La riforma dell’attuale legge sul controllo delle assicurazioni potrebbe
obbligare le compagnie interessate a trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia correlati al
rischio. Poiché in realtà questi esistono già, si tratterebbe semplicemente di adattare il metodo
di calcolo alle nuove regole. Per esempio, non sarebbero più valide le procedure attualmente
seguite30 per trattenere gli accantonamenti come se fossero una sorta di spese di chiusura.
Finora la nuova distribuzione di questi importi tra le altre attività ha implicato il trasferimento
dai clienti insoddisfatti a quelli che conservano i contratti. Quindi, nel breve periodo la scelta
di trasferire effettivamente gli accantonamenti per la vecchiaia condurrebbe giocoforza
all’incremento dei premi per quegli assicurati che rimangono fedeli alla compagnia originaria.31
D’altro canto, è lecito supporre che nel lungo periodo il miglioramento dell’efficienza
compenserà almeno in parte questi aumenti. Potrebbe anche essere necessario riconsiderare il
modo in cui nel calcolo si tiene conto del risk loading.
La simulazione dei premi in un modello provvisto di accantonamenti per la vecchiaia
correlati ai rischi ha dimostrato che — partendo da premesse ben precise — chi è a rischio
maggiore si sarebbe trovato a fronteggiare un incremento dei premi più marcato, per esempio
a causa dei progressi tecnologici, se avesse cambiato compagnia assicurativa prima. In
previsione di tale incremento, evitare di rescindere il proprio contratto avrebbe significato
trarre un vantaggio economico.32 Simili conclusioni dipendono dall’ipotesi iniziale secondo cui
le tariffe standard e i valori di risk loading relativi ai clienti ad alto rischio continuano a essere
calcolati secondo le procedure vigenti. Se il metodo di calcolo venisse adattato alle nuove
necessità, il problema non sussisterebbe.
Da tale prospettiva teorica, sembra possibile trasferire gli accantonamenti per la vecchiaia
correlati ai rischi. Sarebbe interessante scoprire perché finora le riforme necessarie al mercato
tedesco delle APM non hanno avuto luogo, anche se si limitano a piccole modifiche alle
normative e ai metodi di calcolo. Si tratta di un aspetto potenzialmente molto interessante dal
punto di vista dell’opinione pubblica e delle future ricerche nel settore.33
4.2 La riforma delle assicurazioni malattie pubbliche in Germania
In seno al sistema di assicurazione sociale obbligatorio (casse mutua malattia) tedesco, i
contributi sono versati dalla comunità intera e correlati al reddito. Gli anziani e coloro i quali
hanno un reddito basso versano contributi inferiori a chi appartiene a fasce di reddito più alte.
Mogli e figli a carico sono coperti dalla medesima cassa del famigliare che percepisce un
reddito senza che sia necessario versare altri contributi. La correlazione alla comunità, oltre che
al reddito, dei contributi, fa sì che sia necessario adottare un sistema di risk-adjustment,
altrimenti si potrebbe avere una selezione dei rischi volta ad attirare chi è relativamente
giovane, sano e abbiente. Il sistema è volto a compensare le casse mutua malattia degli
svantaggi insiti nella struttura del rischio e nella fascia di reddito degli assicurati, tenendo conto
Cfr. i paragrafi 2 e 5 della Kalkulationsverordnung (normativa per il calcolo).
Meyer (1992, p. 193).
Milbrodt (2004).
33 Non è questo il luogo per addentrarsi nei dettagli di quest’analisi. Per una discussione più approfondita cfr. Jankowski (2006). Sembra
che la ragione principale per cui non si è proceduto al trasferimento degli accantonamenti per la vecchiaia sia stata la volontà di evitare
“un’eccessiva” corsa ai clienti già assicurati presso una compagnia privata. Per ulteriori informazioni e per avere una panoramica storica
sull’evoluzione del mercato delle APM in Germania, cfr. Terhorst (2000).
30
31
32
145
delle differenze esistenti in termini di reddito medio, età, sesso o invalidità. Tuttavia, questo
approccio si è rivelato insufficiente perché dà la possibilità di selezionare un gruppo di
assicurati relativamente sani.34 Si è dunque deciso di migliorarlo aggiungendo fattori di
compensazione di tipo medico, quali i risultati delle diagnosi e la prescrizione di medicinali. Il
nuovo sistema dovrebbe entrare in vigore a partire dal 2007.35
Il nuovo modello è stato criticato perché poco efficiente e scarsamente ridistributivo.36 Il
sistema di risk-structure adjustment non riuscirebbe a evitare del tutto gli sprechi a causa delle
difficoltà incontrate del legislatore nell’ovviare al compromesso tra la selezione dei rischi e i
costi eccessivamente alti del risk adjustment.37
Inoltre, le casse mutua malattia non sono sistemi a capitalizzazione. Un giovane assicurato
verserà un contributo superiore alla media delle spese mediche all’interno della sua fascia
d’età, mentre un anziano pagherà di meno rispetto alla media della sua coorte. Si ha così un
trasferimento diretto dai giovani agli anziani e, quando interviene un declino delle nascite, i
contributi sono destinati ad aumentare. Ne consegue che il sistema non è sostenibile, nel senso
che non garantisce che ogni generazione versi lo stesso importo per ottenere i medesimi
servizi.38
Alla luce di questi problemi, alcuni autori guardano al modello della trasferibilità degli
accantonamenti per la vecchiaia correlati ai rischi come a un possibile elemento di riforma del
settore delle assicurazioni malattia pubbliche in Germania.39 Ma la trasformazione del sistema
delle casse mutua malattia in un mercato di assicurazioni private in concorrenza reciproca
rappresenterebbe comunque, almeno dal punto di vista politico, un risultato notevolmente più
difficile da ottenere. Due aspetti secondari riguardano la distinzione tra assicurazione e
ridistribuzione40 e i problemi che verosimilmente emergeranno quando si cercherà di
privatizzare gli enti pubblici interessati. Il sistema degli accantonamenti per la vecchiaia
correlati al rischio dovrebbe quindi sostituire il regime del risk-structure-adjustment. Durante
tali riforme occorrerà tenere conto delle differenze esistenti tra le strutture dei rischi risultanti
dall’evoluzione storica delle casse mutua malattia.
Le difficoltà principali insite in una trasformazione di questa portata riguardano
l’indebitamento implicito del sistema previdenziale tedesco, finanziato tramite ritenute alla
fonte. Mentre in questo regime sono i contributi delle generazioni future a ridurre i premi, in
un sistema a capitalizzazione ciascun assicurato accantona quote di risparmio cautelativo. Di
conseguenza, nel passaggio da un sistema all’altro è necessario disporre di un fondo capitale
sufficiente a soddisfare le richieste dei contribuenti attuali. Dunque occorrerebbe convertire
l’indebitamento implicito delle casse mutua malattia in debito pubblico. Il fondo capitale stesso
dovrebbe essere disponibile a un dato momento, cioè quando le casse mutua malattia vengono
privatizzate. Ad ogni modo, il finanziamento del fondo rappresenterebbe una sfida importante
dal punto di vista ridistributivo e dell’efficienza del sistema: occorre stabilire quale sarà la
generazione chiamata ad ammortizzare il debito pubblico, probabilmente una decisione
difficile per ragioni politiche ed economiche. Che impatto avrà la conversione
dell’indebitamento implicito in debito pubblico sull’efficienza dei mercati finanziari? Ultimo
ma non meno importante, bisogna considerare che sono già anni che la Germania non rispetta
i limiti del debito pubblico previsti dal trattato di Maastricht.
Casse et al. (2001).
Busse and Riesberg (2004, p. 196).
36 Il dibattito sulla riforma delle assicurazioni malattia pubbliche in Germania è descritto, per esempio, da Breyer (2005).
37 Cfr. Selden (1998, p. 175).
38 Per un’analisi dell’impatto dell’invecchiamento della popolazione sulla sostenibilità dei mercati delle assicurazioni malattia pubbliche
e sulle politiche fiscali di quattro Paesi, cfr. Hagis et al. (2005).
39 Per esempio, cfr. Monopolkommission (1998), Donges et al. (2002) e Jankowski (2006).
40 Breyer (2005).
34
35
146
Finora a questi problemi non è stata trovata soluzione ma, nonostante le difficoltà, si
dovrebbe ricordare che esistono diritti acquisiti che vanno rispettati: in caso di riforma vi
sarà un aumento del debito pubblico. Ciò detto, a differenza di quanto avviene oggi, il
nuovo sistema non sarebbe così legato agli sviluppi demografici, mentre il meccanismo
del risk adjustment previene le inefficienze residue dovute all’applicazione di modelli
basati sul risk-structure-adjustment. Se non si abbandonano le ritenute alla fonte, o
aumentano i tassi di contribuzione o si riduce il ventaglio dei servizi resi. Da questo punto
di vista, il modello qui illustrato potrebbe rappresentare (almeno in teoria) una possibilità
da tenere in considerazione nella riforma delle assicurazioni malattia pubbliche in
Germania.
5. Conclusioni
Il presente articolo ha illustrato il dibattito che si sta tenendo in Germania circa la
trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia in relazione alle assicurazioni malattia
pubbliche, rivedendo la possibilità del risk adjustment. Un simile approccio stimola la
concorrenza tra gli operatori del ramo e li obbliga a calcolare gli accantonamenti per la
vecchiaia tenendo conto dei rischi e della possibilità di trasferirli. Sono state anche esaminate
le principali obiezioni al modello proposto. Sebbene da più parti si sottolinei che in teoria esso
potrebbe incrementare l’efficienza dei mercati del settore delle assicurazioni malattia, se ne
mette in dubbio la fattibilità. Spesso si sostiene che non è possibile contestare la correttezza
dell’importo degli accantonamenti per la vecchiaia correlati ai rischi, poiché è fin troppo
facile compiere eventuali errori a livello individuale. Abbiamo però dimostrato che, dato un
contesto normativo appropriato, gli assicuratori non hanno più alcun motivo di stabilire
accantonamenti errati al fine di far fronte alla concorrenza. Si è inoltre visto che per riuscire
a prevenire la selezione dei rischi, non è necessario ottenere informazioni complete su tutte le
possibili spese mediche future. Si può dunque concludere che l’adozione del regime di
trasferibilità degli accantonamenti per la vecchiaia rappresenta un problema più politico che
pratico.
L’adozione del modello sarebbe effettivamente possibile tanto nel settore assicurativo
pubblico che in quello privato. Tuttavia, la riforma del settore pubblico in Germania
risulterebbe oltremodo difficile per ragioni legate all’efficienza del sistema e alla
ridistribuzione delle risorse. La situazione è ulteriormente complicata a causa di fattori
economico-politici, rendendo ancor più improbabile la riforma del settore delle assicurazioni
malattia pubbliche.
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149
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THE RISK INSTITUTE — ISTITUTO DEL RISCHIO
L’INSTITUT DU RISQUE
Basato su una rete di volontariato in parte appoggiata dall’Associazione di Ginevra,
l’Istituto del Rischio è stato creato per estendere gli studi relativi al rischio, alla vulnerabilità e
all’incertezza fino a coprire i più ampi aspetti culturali, economici, sociali e politici delle
società moderne.
Il punto di partenza per la definizione del programma d’azione è stato un incontro informale
tenutosi a Parigi nel 1986. Tra i partecipanti ricordiamo Raymond Barre, Fabio Padoa, Richard
Pian, Edward Ploman, Alvin e Heidi Toffler e Orio Giarini.
Un primo rapporto, realizzato da Orio Giarini e Walter Stahel, è stato pubblicato nel 1989,
ristampato nel 1991, rivisto nel 1993 con il titolo The Limits to Certainty — Managing Risks
in the Modern Service Economy e introduzione del premio Nobel Ilya Prigogine (Kluwer
Academic Publishers, Dordrecht, the Nehterlands). È stato pubblicato anche in francese,
italiano (I limiti della certezza — affrontare i rischi nella nuova economia di servizio), rumeno
e giapponese. Nel 2000, in Germania, si è pubblicata una versione completamente rinnovata
dal titolo Die Performance Gesellschaft (Metropolis-Verlag, Marburg).
Il libro sottolinea il fatto che l’incertezza non è semplicemente il risultato della mancanza
o insufficienza di informazioni. Tutte le azioni che si protraggono nel futuro presentano per
definizione un certo grado di incertezza. Ogni “sistema perfetto” (o ideologia) rappresenta
un’utopia, spesso pericolosa: la completa rimozione delle incertezze dalle società umane
implica l’eliminazione della libertà. L’apprendimento e la vita sono una questione di abilità e
capacità di affrontare, gestire, limitare, contenere e sfruttare il rischio e l’incertezza.
Nel 2002 l’Istituto del Rischio ha pubblicato per i tipi di Economica (Parigi) un libro in
francese sull’itinerario verso la pensione a 80 anni (Itinéraire vers la retraite à 80 ans). Da
allora l’Istituto si occupa prevalentemente di un programma di ricerca sulle implicazioni sociali
ed economiche del prolungamento della speranza di vita (in genere non correttamente definita
“invecchiamento” della società), che viene considerato il fenomeno sociale più importante
della nostra era.
Per i Quaderni Europei sul Nuovo Welfare vedere: www.newwelfare.org
Direttore: Orio Giarini
Via della Torretta, 10
I - 34121 Trieste
Tel./Fax +39 040 3222056
[email protected]
Route de Malagnou, 53
CH - 1208 Geneva
Tel. +41-227076600 - Fax +41-227367536
[email protected]
150
MACROS RESEARCH
Creata nel 1987 a Milano, Macros Research è una società che realizza studi e ricerche per
il settore finanziario, compagnie di assicurazioni e istituti bancari.
È parte integrante di Macros Group, composto da altre due società: Macros Consulting, che
opera nel campo della consulenza strategica per l’alta direzione e Macros Risk Management,
società che offre consulenza sulla gestione intergrata del Rischio.
Macros Research realizza ricerche e studi attraverso un approccio interdisciplinare, per
analizzare e approfondire la gestione dei rischi economici e sociali nell’ambito pubblico e
privato. Obiettivo di Macros Research è di promuovere e realizzare ricerche teoriche ed
empiriche nell’area dell’economia assicurativa riferite all’allungamento del ciclo di vita e il
suo impatto sul sistema di welfare, alla previdenza e alla sanità. Tra le varie ricerche di Macros
Research, di notevole importanza sono: le politiche di welfare in Italia e in Europa, i sistemi
previdenziali in EU e nei paesi dell’OCSE, il risparmio privato e i sistemi pensionistici
pubblici, Ageing society e mercato del lavoro e Long Term Care.
Macros Research ha pubblicato diverse monografie, paper e cura con l’Istituto del Rischio
i Quaderni Europei sul nuovo Welfare — svecchiamento e società. Macros Research fin dalla
sua nascita si è particolarmente contraddistinta per la sua visione internazionale, testimoniata
dalla sua collaborazione da oltre 20 anni con l’Associazione di Ginevra (The Geneva
Association), con l’Istituto del Rischio di Ginevra-Milano-Trieste, Università e Istituti di
ricerca nazionali ed internazionali. La vocazione internazionale di Macros Research è inoltre
confermata dai convegni organizzati con la partecipazione di esperti internazionali.
Presidente
Angelo Scarioni
Research Manager
Mara Tagliabue
Research Co-ordinator
Angelo Paulli
Macros Research
Largo Donegani,3
I – 20121 Milano
Tel. + 39 02 290 041 93
Fax + 39 02 655 41 28
[email protected]
www.macrosgroup.it
151
International Association for the Study of Insurance
Economics
“The Geneva Association”
The Geneva Association is a unique non-profit worldwide organisation formed by some
80 Chief Executive Officers of the most important insurance companies in Europe, North
America, South America, Asia, Africa and Australia. Its main goal is to research the growing
economic importance of insurance activities in the major sectors of the economy.
The Geneva Association acts as a forum for its members, providing a worldwide unique
platform for the top insurance CEOs. It organises the framework for its members and their
companies to exchange ideas and discuss key strategic issues. To this end, it has established
large international networks of experts and high-level industry platforms. The Geneva
Association serves as a catalyst for progress in this unprecedented period of fundamental
change in the insurance industry. It seeks to clarify the key role that insurance plays in the
further development of the modern economy.
Its activities are focused around 6 research programmes which constitute the core of its
research activities:
1) Risk Management: The aim of this programme is to research and illustrate the new risks
in the emerging service economy.
2) Insurance and Finance: This research programme comprises academic and professional
research activities in the fields of finance where they are relevant to the insurance and risk
management sector.
3) The Four Pillars — Research Programme on Social Security, Insurance, Savings and
Employment: To identify possible solutions to the problem of the future financing of
pensions and, more generally, of social security in our post-industrial societies.
4) Health and Ageing: This programme seeks to bring together facts, figures and analyses
linked to issues in health. The key is to test new and promising ideas, linking them to related
studies and initiatives in the health sector and trying to find solutions for the future
financing of healthcare.
5) Insurance Economics: It is dedicated to making an original contribution to the progress of
insurance through promoting studies of the interdependence between economics and
insurance, to highlighting the importance of risk and insurance economics as part of the
modern general economic theory.
6) PROGRES (regulation and legal issues): This research programme focuses on questions
related to regulation, supervision and international co-operation of insurance and financial
services as well as other legal issues of importance.
Today, after more than 30 years of existence, The Geneva Association has become a fixture
for the insurance world through the quality of its research and the expertise of its global
networks.
President: Henri de Castries (CEO, AXA, Paris)
Secretary General and Managing Director: Patrick Liedtke (Geneva)
152
MONTEPASCHI VITA
Montepaschi Vita, Compagnia di Assicurazione sulla Vita del Gruppo MPS, è nata nel 1991
e in breve tempo si è affermata come la prima bancassicurazione d’Italia, conquistando la
fiducia della clientela e imponendosi ai primi posti nel mercato assicurativo nazionale.
Montepaschi Vita, da alcuni anni, sta dimostrando un costante e profondo impegno
nell’ambito della ricerca, promuovendo, fra le altre iniziative, un Forum annuale, momento di
confronto tra i vertici degli operatori finanziari ed assicurativi italiani ed europei su temi chiave
legati al filo conduttore dei nuovi paradigmi del valore. Fra i temi approfonditi nelle differenti
edizioni del Forum, ampio spazio è stato dato al tema di cui trattano i Quaderni, con particolare
attenzione alle implicazioni intrinseche alla riforma del welfare mix, inerenti il ruolo che si
troveranno a ricoprire gli operatori bancari e assicurativi.
Il tema, di particolare attualità, è basilare per lo sviluppo di adeguate strategie da parte dei
gestori finanziari, categoria a cui apparteniamo, in quanto il concetto stesso di risparmio si
trova a sperimentare un interessante percorso evolutivo che porta ora a dare enfasi non solo agli
aspetti di sicurezza e redditività, ma anche alla “finalizzazione”. Il concetto di “finalizzazione
del risparmio rappresenta una delle risposte ai nuovi trend demografici e sociali. Il campo di
gioco è ampio, ricco di opportunità ma anche di rischi. Gli assicuratori sono tra gli operatori
che meglio possono cogliere le nuove sfide attingendo alla loro più autentica vocazione di
“gestori di rischi”. A fronte di un nuovo ruolo degli operatori privati emerge l’importanza del
“Patto Sociale” e del rapporto fiduciario che deve legare gli operatori stessi ai cittadini/clienti
nel mettere a disposizione leve e professionalità finanziarie per gestire al meglio la copertura
dei rischi “sociali”.
Montepaschi Vita
Presidente
Direttore Generale
Direzione Generale
Silvano Andriani
Emanuele Marsiglia
Via Aldo Fabrizi, 9 - 00128 Roma - Tel. 06.508701
153
GRUPPO
IL GRUPPO FONDIARIA SAI
FONDIARIA
Nato il 31 dicembre 2002 dall’incorporazione di “La Fondiaria Assicurazioni” in “SaiSocietà Assicuratrice Industriale”, Fondiaria-Sai è un primario gruppo assicurativo italiano,
leader nei rami danni, con circa nove milioni di clienti e una raccolta premi per quasi 10
miliardi di euro. Per offrire prodotti e servizi assicurativi, previdenziali, finanziari e bancari dei
suoi prestigiosi marchi (Sai, Fondiaria, Milano, NuovaMaa, Previdente, Italia, Siat, Sasa...), il
Gruppo può contare sulla competenza di circa 6.000 dipendenti e sulle qualificate capacità
della rete di consulenza e vendita assicurativo-finanziaria più capillare del mercato italiano:
3.500 agenzie, 1.500 promotori finanziari e 2.000 sportelli con accordi di bancassurance.
Capofila di un gruppo composto da circa 100 società, controllate e collegate, attive anche nei
settori immobiliare, agricolo, dell’assistenza e dei servizi, Fondiaria-Sai è quotata alla Borsa di
Milano.
Il Gruppo Fondiaria Sai avverte da sempre la responsabilità di creare non solo valore
economico per i suoi azionisti, ma anche valore etico per i suoi stakeholder: clienti, dipendenti,
pubbliche amministrazioni, comunità locali ed enti attivi sul territorio e nella società civile. Per
promuovere la “cultura della solidarietà” nel nostro Paese, il Gruppo ha costituito la
Fondazione Fondiaria-Sai — che eroga contributi nel settore socio-assistenziale e culturale —
e pubblica annualmente il Rendiconto Sociale, lo strumento che profila in modo tangibile e
trasparente l’esercizio della responsabilità sociale di impresa, adottando un approccio
originale, che coinvolge nella redazione gli studenti universitari e genera di per sé una ricaduta
di benefici economico-sociali.
Presidente
Amministratore Delegato e Direttore Generale
Direzione Generale
154
Jonella Ligresti
Fausto Marchionni
Corso Galileo Galilei, 12
10126 Torino - Tel. 011 6657111
ALREADY PUBLISHED
EUROPEAN PAPERS
ON THE NEW WELFARE
the counter-ageing society
AGEING AND COUNTER-AGEING
Editorial
Orio Giarini
Financial Sustainability of Social Protection Systems
Maite Barea
Phased Retirement: Who Opts for It and Toward What End?
Yung-Ping Chen and John C. Scott
Part-Time Pensions and Part-Time Work in Sweden
Eskil Wadensjö
Is the Fertility Decline a Consequence of the Growth of the Welfare State? Evidence
from Historical Data
Mikko Puhakka and Matti Viren
The Biology of Ageing
S. Gustincich, M. Biagioli, R. Calligaris, Z. Scotto Lavina and S. Zucchelli
Health Care System in the Industrialised Countries and the Role of Private Insurance
Alfeo Zanette and Monica Ricatti
Longevity, Systemic Models and Business Risk
Andrea Battista
Abstracts from The Employment Dilemma and the Future of Work
Orio Giarini and Patrick M. Liedtke
Sponsors
No. 6, October 2006
155
L’IMPRESA ASSICURATIVA.
FABBRICA, FINANZA E
RUOLO SOCIALE.
Risarcimento diretto, polizze vita, riforma
delle pensioni: mai come in questo
momento alcuni tra i temi nodali delle
assicurazioni sono al centro del dibattito
pubblico. In un contesto sociale in cui
cambiano rapidamente assetti demografici
e dinamiche interne, le imprese
assicurative sono chiamate a rispondere a
nuove domande, assumendo funzioni e
responsabilità di public utility.
Sebbene le assicurazioni rappresentino
un’importante risorsa del sistema-Paese,
nel panorama editoriale italiano è mancata
fino a ieri una trattazione ampia e organica
sulla struttura e sul ruolo di queste imprese.
L’impresa assicurativa. Fabbrica, finanza
e ruolo sociale di Fausto Marchionni,
pubblicato da Il Sole 24 Ore, non colma
soltanto questa lacuna, ma affronta
argomenti cruciali come il ruolo delle
assicurazioni nel sistema finanziario, le
teorie del rischio, l’assicurazione come
risposta al bisogno (individuale e
collettivo) di sicurezza e l’integrazione tra
pubblico e privato nella gestione del
welfare. Scritto con l’intento di parlare a un pubblico ampio, il libro utilizza un linguaggio chiaro e
semplice, che coniuga la tecnicità dell’assicuratore con il rigore accademico, ed è destinato ad assolvere
un’importante funzione formativa per gli studenti universitari.
Il libro ha il sottotitolo Fabbrica, finanza e ruolo sociale perché sono tre i punti essenziali dell’impresa
assicurativa moderna. Anzitutto è giusto ribadire che l’assicurazione è una fabbrica a pieno titolo, che
produce la “polizza assicurativa”, prodotto singolare perché rimane intangibile sino al momento
dell’eventuale sinistro. La parte finanziaria dell’impresa assicurativa, in secondo luogo, nasce dalla
“fabbrica”, ma è direttamente legata al suo ruolo sociale (certificato attraverso la stesura del Rendiconto
Sociale): gli investimenti delle assicurazioni, infatti, contribuiscono in modo decisivo alla crescita e alla
stabilità del Paese e costituiscono una riserva indispensabile per gli ammortizzatori sociali.
Il libro focalizza l’attenzione anche sui mutamenti in atto nel mercato, dove nei due grandi comparti
dell’industria assicurativa — il ramo danni e il ramo vita — il secondo è in forte aumento, in linea con
una tendenza europea. Il risparmiatore italiano, infatti, si sta orientando verso piani di risparmio di mediolungo termine che diano diritto a una disponibilità di mezzi per l’istruzione superiore dei figli, per la tutela
dalle fluttuazioni di reddito, per una pensione sicura.
Viene in tal modo aperta una finestra sul futuro che lascia presagire come negli anni a venire l’impresa
assicurativa sarà sempre più un attore sociale di primo piano e un protagonista dello sviluppo economico
e culturale.
FAUSTO MARCHIONNI, L’impresa assicurativa. Fabbrica, finanza e ruolo sociale, Il Sole 24 Ore,
Milano 2006, pag. 357, euro 35.
156
L’INDUSTRIA ASSICURATIVA.
Gli Standard IAS/IFRS
Il libro L’INDUSTRIA ASSICURATIVA
Gli Standard IAS/IFRS prende spunto
dagli atti del convegno “Insurance and
International
Financial
Reporting
Standards” organizzato a Milano nel
dicembre 2004 dall’ANIA, (Associazione
Nazionale fra le Imprese Assicuratrici),
Macros
Risk
Management
e
l’Associazione di Ginevra. Il volume
riguarda
le
questioni
inerenti
all’applicazione dei nuovi principi
contabili per le imprese assicurative e
bancassicurative. I temi centrali e le
riflessioni proposte rispondono alle
seguenti domande: qual è l’impatto dei
nuovi principi contabili sull’attività
assicurativa?
Quali
saranno
le
conseguenze sul processo di gestione
della compagnia? Quali le conseguenze
sulle strategie di investimento? Quale
impatto sul modello di distribuzione e sui
prodotti? Quali saranno gli indici e i
parametri per valutare la performance
della società? Come cambia la modalità
di reporting con gli stakeholder? Le
risposte a questi interrogativi serviranno
a comprendere meglio l’evoluzione che le imprese assicurative e bancassicurative potranno produrre
in tema di Governance e di trasparenza verso il mercato. Questo libro si propone, attraverso le
testimonianze di autorevoli esponenti del settore assicurativo internazionale e nazionale, di valutare
quali sono i cambiamenti da introdurre nella gestione aziendale e quelli da realizzare a lungo termine.
La prefazione di questo libro è a cura del Presidente dell’ANIA, Fabio Cerchiai e del Presidente
dell’Associazione di Ginevra Henri de Castries, Presidente del Management Board e CEO del Gruppo
AXA.
ANIA, The Geneva Association, Macros Risk Management, L’INDUSTRIA ASSICURATIVA Gli
Standard IAS/IFRS, a cura di Giampaolo Galli, Patrick M. Liedtke, Angelo Scarioni, Franco Angeli,
Milano 2006, pag 129, euro 29.
157
LA PREVIDENZA
COMPLEMENTARE
IN ITALIA
La previdenza
complementare in Italia
a cura di
MESSORI M. (a cura di)
Collana “Percorsi”
pp. 648, 7 40,00
88-15-10900-5
anno di pubblicazione 2006
Il volume esamina il secondo pilastro
pensionistico italiano così da trarre un
primo e generale bilancio della materia,
sottolineando i principali problemi aperti
dal nuovo assetto normativo e suggerendo
alcune innovazioni di policy che
potrebbero dar luogo a un più rapido ed
equilibrato sviluppo dei fondi pensione.
Marcello Messori
Prima che entrino in vigore nel 2008 i
recenti decreti attuativi della Legge
delega approvata nell'estate del 2004,
sarebbe infatti possibile intervenire per
ridurre le distanze fra un'ideale
configurazione ottimale e la concreta
realtà del secondo pilastro pensionistico
italiano. Rispetto ai paesi europei con più
antica
tradizione
di
previdenza
complementare, la situazione dell'Italia è
il Mulino
arretrata. Al fine di stimolare la crescita
dei nostri fondi pensione e di ridurre le
distanze da vari partner europei, il volume prende in esame i limiti del quadro normativo, le carenze
nell'informazione e nella tutela degli aderenti, il grado di concorrenza e di governance delle diverse
forme pensionistiche complementari, le modalità della loro gestione finanziaria, la diversificazione dei
conseguenti portafogli, il loro trattamento fiscale, il raccordo con il primo pilastro pubblico e il
passaggio dalla fase di capitalizzazione a quella di erogazione dei benefici.
Marcello Messori insegna Economia dell'informazione ed Economia dei mercati monetari e
finanziari nella Facoltà di Economia dell'Università di Roma “Tor Vergata”. Tra le sue pubblicazioni
più recenti ricordiamo Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale (curato assieme a
R. Costi, Il Mulino, 2005).
MESSORI M. (a cura di) - La previdenza complementare in Italia - Collana “Percorsi” pp. 648,
7 40,00 - 88-15-10900-5 - anno di pubblicazione 2006.
158
HARDBACK LIST 50 1-4039-4796-1
ORDER THE BOOK BY:
tel. +44 (0)1256 302866
fax +44 (0)1256 330688
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The Employment Dilemma and the Future of Work
Report to the Club of Rome
By Orio Giarini & Patrick M. Liedtke
Second edition 2006 • 151 pages • CHF 60
Modern societies are trying to develop concepts that allow them to protect their citizens and
at the same time stay competitive in the globalised markets. The approach of the new welfare
state is no longer to arrange for full coverage of (ideally) all risks but to replace the existing
extraordinarily expensive systems with more targeted and efficient approaches. This is achieved
through requiring people to assume more risks individually and to organise their adequate
protection themselves. This so-called “risk shift from public to private”, unfortunately, has had
as a consequence many half-hearted or partial reforms leading to ineffective working structures,
inadequate employment arrangements, and ultimately an erosion of the protective systems
rather than their real modernization.
In this report, the authors analyse work in all its forms in the modern service economy and
propose several innovative solutions. Two of the most ambitious are: (1) Organising a basic layer
of remunerated work for those who otherwise cannot find employment, keeping them active and
engaged; and (2) the encouragement and empowerment of the elderly to stay in employment for
many years beyond age 60 or 65 — not just as a simple prolongation of existing careers but at
flexible terms (part-time work is the key component) that are more suitable to them.
About the Authors
Orio Giarini is Director of the Risk Institute in Trieste, a European research institution for the new
welfare society, and Editor-in-Chief of The European Papers on the New Welfare. He was
formerly Secretary General of “The Geneva Association”, Member of the Executive Board of the
Club of Rome and professor at the University of Geneva, lecturing on the new service economy.
Patrick M. Liedtke is Secretary General and Managing Director of “The Geneva Association”,
leading risk and insurance research organisation supported by the CEOs of the largest insurance
companies in the world. He is Member of the Executive Board of the Club of Rome, Director of
ASEC (Applied Services Economic Centre), Board Member of the European Group of Risk and
Insurance Economists (EGRIE), and Editor-in-Chief of The Geneva Papers on Risk and Insurance
— Issues and Practice.
To order copies of the book, please contact:
The Geneva Association - General Secretariat
53, route de Malagnou - CH-1208 Geneva - Tel.: +41-22-7076600 - Fax: +41-22-7367536
[email protected] - www.genevaassociation.org
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