RICCARDO PAMPURI - Ordine di Pavia

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RICCARDO PAMPURI - Ordine di Pavia
medico. Ambedue studiano all’Università di Pavia; lei
è laureata in Medicina e specializzata in Pediatria, lui è
laureato in Chimica, in Farmacia e in Biologia. “Curiose”
alcune affermazioni nei loro riguardi. Il marito di Gianna,
ingegner Pietro Molla, proprietario di una fabbrica con
tremila operai, dichiara: “Io non mi sono mai accorto
di vivere con una santa”. I compagni di università di
Marcello, erede unico di una serie di fabbriche di acido
carbonico, dicono di lui: “È buono, ma, con i soldi che ha,
tiene in piedi una doppia vita”.
Gianna è una donna bella, moderna, elegante, amante
del teatro, della musica e dei fiori; guida l’automobile,
ama la montagna, scia molto bene. Il marito è spesso
all’estero per lavoro e l’unico regalo che lei chiede sono
le riviste di moda, per poter scegliere dei buoni modelli.
Marcello è un marcantonio, alto, forte, intelligente, ricco,
bravissimo. Suo padre è un uomo dall’onestà cristallina,
ma non è nè credente, nè tantomeno praticante; in tutta
la sua vita “sarà entrato in chiesa si e no un paio di volte”
e dice che “la fede ardente di sua moglie basta e avanza
anche per lui”.
Gianna si sacrifica nel corso della sua quarta
gravidanza, privilegiando in modo esclusivo la vita di sua
figlia rispetto alla propria; muore di shock settico - tossico
post-partum. Marcello, ad un certo punto della vita, vende
tutto, si occupa di medicina e si mette a costruire ospedali
nei paesi del terzo mondo; muore povero in canna, come
i poveri che lui ha deciso di aiutare. Gianna Beretta e
Marcello Candia diventano due moderni medici santi.
Quella dei medici è una santità fuori da ogni schema
comune. Essa nasce nel silenzio, in un ambulatorio, in una
casa, in una camera d’ospedale, al telefono, per strada; la
santità prende il via da quel misterioso ed affascinante
miracolo, o enigma, che è il rapporto medico - paziente.
Continuare è difficilissimo, perchè, da quel momento, la
scelta eroica è quella di accantonare ogni altro interesse
se non quello esclusivo del malato.
I primi medici santi sono S. Luca, S. Biagio, S.
Pantaleone, S. Ciro e tanti altri; c’è anche una dottoressa,
S. Zenaide. I primi chirurghi santi sono i S.S. Cosma e
Damiano; sono i primi medici “anargiri”, così chiamati
perchè, sia dai ricchi che dai poveri, hanno sempre rifiutato
qualunque compenso, anche il più banale, comprese “tre
uova offerte da una malata”. Cosma e Damiano sono i
santi protettori anche dei trapiantologi, per il miracolo
del trapianto della gamba necrotica di un sacrestano con
l’arto di un moro appena morto. L’episodio è immortalato
da molti grandi artisti: il Beato Angelico, Berruguete,
Gallego, Tintoretto, Lorenzo di Bicci, Wechtlin, Figueroa.
Cosma e Damiano sono gemelli, sono arabi di Egea in
Cilicia e sono seguaci della scuola di Galeno, di Ippocrate
e di Platone. Sono due medici molto saggi ed uno dei loro
pensieri è passato alla storia come verità sacrosanta: “A
volte la malattia è più insopportabile della stessa morte”.
Poveretti, fanno una brutta fine, perchè Diocleziano,
dopo varie torture, senza alcun motivo, li condanna alla
decapitazione, insieme ai loro tre fratelli.
Due grandi poeti colgono l’essenza della santità: Ugo
Foscolo nei “Sepolcri” e Thomas Stearns Eliot nel “Delitto
nella cattedrale”. Il primo scrive che i Santi “fan bella
la terra che li ricetta”; il secondo, scrive che “dai Santi
scaturisce ciò che rinnova la terra”. La terra è il segno dei
santi. Eraclito dice che “il destino dell’uomo è la sua terra,
cioè il suo animo”; l’animo di Pampuri, appunto, è quello
di un medico santo. Il suo messaggio è semplice: fare le
cose ordinarie in modo straordinario.
broncofil. Qualche anno dopo, chissà, con una bella cura
di antibiotici, Pampuri sarebbe forse guarito.
La sera del 1° maggio 1930, all’età di 32 anni, “gli
angeli portano in cielo” il dott. Riccardo Pampuri. Ridotto
a pelle e ossa, consumato dalla tubercolosi, divorato delle
febbri ricorrenti, scompare un giovane medico che, al di
là delle scelte più intime e personali, ha saputo scrivere
pagine “di autentica promozione umana, di cultura sociale,
di alta professionalità e di eroica solidarietà”. Quella di
Pampuri è la storia di un uomo semplice, minuto, umile
e gracile, capace di interpretare l’arte medica come
dedizione assoluta per gli altri e totale disinteresse per
sè stesso.
La fama della santità di Pampuri diviene subito
patrimonio popolare. Il suo funerale è davvero il viaggio
di un medico santo; la testa del corteo è già nella chiesa
di Trivolzio, mentre la bara di Pampuri è ancora a Torrino.
Portato a spalla per chilometri, Pampuri trova schierati,
a lato della strada, tutti i suoi pazienti con le rispettive
famiglie. Sulla tomba viene collocata una lapide: “A soave
ricordo di Fra Riccardo dott. Pampuri, medico-chirurgo dei
Fatebenefratelli, nel secolo e nel chiostro angelicamente
puro, eucaristicamente pio, apostolicamente operoso”.
Il 4 ottobre 1981, Papa Karol Woityla lo proclama
beato e il 1° novembre 1989, sempre Giovanni Paolo II,
“lo iscrive nel grande registro dei santi”.
Ma chi sono i medici santi? E ci sono, oggi, medici
santi?
Siamo abituati a pensare che i santi siano dei
religiosi e che i medici santi siano dei consacrati. Non è
proprio così, anzi non è affatto così. Pampuri stesso non
è un prete. Per diventare santi non è necessario essere
sacerdoti o suore o frati, come non è necessario essere
poveri, portare grandi croci, essere eroi o martiri; forse
non è nemmeno necessario essere credenti o praticanti.
Nel libro “La peste” di Albert Camus, Tarrou chiede a
Rieux: “Mi interessa sapere come si diventa un santo”.
Rieux risponde: “Ma lei non crede in Dio?” “Appunto,
risponde Tarrou, voglio sapere se si possa essere un santo
anche senza Dio”. Tarrou, dopo aver sacrificato la propria
vita per gli altri, muore senza avere una risposta.
La risposta c’è ed è una risposta antica come
l’uomo: sono i “latentes sancti” o santi occulti, quelli
che sfuggono agli occhi di tutti e che sanno fare, di sè
stessi, uno strumento per gli altri. La medicina si presta
a questo obiettivo e non è casuale che molti dei medici
santi abbiano espresso la loro “eroicità” nella professione;
la santità diviene una scelta e, in campo assistenziale,
l’eroismo corrisponde al servizio totale per gli altri.
George Eliot, pseudonimo della scrittrice inglese Mary
Ann Evans, nel suo ultimo romanzo Middlemarch, scrive:
“La professione medica rappresenta il perfetto equilibrio
fra scienza ed arte, oltre che l’unione più diretta tra le
conquiste intellettuali e il bene sociale”.
Pampuri riesce nell’impresa di finalizzare tutte
le qualità di un medico nell’unico grande “valore”
dell’assistenza: l’attenzione al malato e a tutti i suoi
problemi. Si tratta di una visione antropologica globale
dell’assistenza, con il paziente veramente “al centro”
rispetto ad ogni altro problema anche personale. Non è
semplice vivere la professione medica come privilegio di
curare un proprio simile, ma Pampuri dimostra che è pur
sempre possibile e lo dimostrano anche due altri medici
dei nostri giorni.
Gianna Beretta è una laica, anzi, è una moglie;
Marcello Candia è un laico, non è sposato e non è neppure
IV
Appunti di Storia della Medicina Pavese:
RICCARDO PAMPURI
di Luigi Bonandrini
Riccardo Pampuri nasce a Trivolzio, nei pressi di
Pavia, il 2 agosto 1897. In una singolare “girandola”
di nomi (Erminio, Filippo, Emilio, Miliotto, Antonio,
Riccardo), è raccolta la storia di un medico straordinario,
fuori da ogni schema professionale. Penultimo degli
undici figli di Innocente e di Angela Campari, Pampuri
viene battezzato con i nomi di Erminio e Filippo,
all’indomani della nascita come d’uso per la elevata
mortalità neonatale. Il padre è un negoziante di vini; la
madre proviene da una famiglia di proprietari terrieri.
L’unione non è esemplare. La madre, chiamata Angiolina,
è una santa donna, saggia e stimata; il padre, spesso
alticcio e a volte anche manesco, alterna la gestione di
una locanda a quella di una bottega di vini. La modesta
cerimonia del battesimo si trasforma in un piccolo
avvenimento: per la prima volta viene suonato il nuovo
concerto, in Do maggiore, delle otto campane della
Chiesa parrocchiale di Trivolzio. Il padre di Pampuri,
per festeggiare il neonato, “tira giù la saracinesca del suo
negozio” e alza il gomito un poco più del solito.
Pampuri è orfano, orfano da sempre. La madre,
sopraffatta dalle gravidanze e dalla tubercolosi, muore
nel 1900; sul letto di morte l’Angiolina raccomanda il
figlio alla sorella Maria che vive con il fratello Carlo,
medico condotto di Torrino paesetto vicino Trivolzio.
Così il piccolo Erminio, all’età di tre anni, perde
contemporaneamente la madre e la famiglia. Qualche
anno dopo, nel 1907, il padre di Pampuri, aspirante
vinaiolo in quel di Milano, muore in un incidente di
strada. Dei fratelli e delle sorelle di Pampuri, cinque
muoiono in giovane età, uno muore in guerra ed uno
solo si sposa; delle sorelle, una diviene suora delle
“Francescane d’Egitto”, l’altra sceglie di non maritarsi.
Pampuri, a Torrino, trova casa e affetti; trova anche
una nuova famiglia, formata dagli zii Carlo e Maria, dai
prozii Pietro e Carlo, dal nonno Giovanni Campari e
dalla domestica Carolina Bersan. Trova pure benessere,
derivante dalla condotta e da duemila pertiche di terreno,
un terreno “fertile e generoso, coltivato con fatica e
costanza”. Curiosamente Pampuri trova anche un nuovo
nome: Emilio, detto Miliotto da amici e parenti.
Torrino è un paese senza scuole. Pampuri frequenta
le prime tre classi elementari a Trovo e le ultime due a
Casorate Primo. Ogni giorno, per raggiungere la scuola,
è costretto ad una “marcia” di qualche chilometro;
si tempra il fisico e lo spirito, perchè, nel viaggio, il
ragazzino pensa, riflette e prega. I risultati scolastici
sono buoni, non eccellenti; Pampuri brilla soltanto in
aritmetica pratica, geometria e contabilità, unica materia
nella quale si merita un bel nove. Il suo maestro, Luigi
Balbi, ricorda due aspetti umani del suo allievo: il primo
è la presenza costante alle lezioni pur “con il cattivo
tempo e con le strade impraticabili”, il secondo è una
Riccardo Pampuri
bontà solare accompagnata da “una singolare mitezza di
carattere”.
A undici anni Pampuri si iscrive al Ginnasio A.
Manzoni di Milano; ancora una volta è costretto a cambiar
casa e si trasferisce dal fratello maggiore Ferdinando. Le
faccende scolastiche si mettono male per Pampuri; gli
zii, preoccupati, decidono di trasferirlo al Collegio S.
Agostino di Pavia, in modo da tenerlo più facilmente
sott’occhio. Il profitto cambia radicalmente e Pampuri
“rinasce” sul piano scolastico e su quello psicologico:
“tre attestati di lode, uno addirittura col premio”. Ancora
una volta affiora il talento per la matematica e ancora
una volta affiora la sua passione per la lettura: Pampuri
“divora” libri di avventura, di storia e di viaggi.
Terminata la maturità classica al Liceo Ugo Foscolo
di Pavia, Pampuri si trova di fronte ad una scelta
difficile; l’impegno spirituale lo porterebbe verso il
seminario, il debito di riconoscenza nei confronti dello
zio lo porterebbe verso la facoltà di medicina. Prevale
“l’autorità” dello zio Carlo, che vede nel nipote “il suo
erede naturale nella professione”; il ragazzo è certamente
combattuto fra spirito e ragione.
Nell’autunno del 1915 Pampuri si iscrive alla
Facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università di Pavia;
contemporaneamente entra a far parte del circolo FUCI
San Severino Boezio, che si riunisce nel convento
francescano di Canepanova. I primi tempi della vita
universitaria trascorrono serenamente, anche perchè
I
Pampuri è un tipo allegro e spiritoso. Si racconta che un
giorno, di fronte al Giardino Orto Botanico, il conducente
del tram si sia fermato per un bisogno fisiologico;
Pampuri prende “allegramente” il posto del manovratore
e guida il tram “per un certo tratto di strada”, suscitando
l’ilarità generale.
Scoppia la guerra e Pampuri è chiamato al servizio
militare. Alla prima visita di leva viene dichiarato
rivedibile; Pampuri è un longilineo ipostenico con i tratti
dell’insufficienza toracica. Alla visita successiva, nel 1917,
è riconosciuto abile, più per necessità belliche che per
qualità costituzionali; dopo tre mesi di addestramento a
Milano, Pampuri acquisisce il grado di caporale. Viene
arruolato nell’86ª Sezione di Sanità della IIIª Armata e
parte per il fronte. È un periodo tristissimo per lui, perchè
in quello stesso anno il fratello Achille muore sul fronte
bellico; amara la riflessione prospettica di Pampuri sulla
tradotta che “torna vuota dopo aver scaricato le truppe al
fronte”. Pampuri ha lo spirito del combattente e si merita
una medaglia di bronzo al valor militare. La vicenda è
singolare. Durante la ritirata di Caporetto, il 24 ottobre
1917, da solo e sotto la pioggia e le bombe nemiche,
Pampuri “porta in salvo le attrezzature sanitarie”. Il
prezzo che paga è altissimo: una pleurite che non lo
abbandonerà per il resto della vita.
Pampuri si laurea a pieni voti all’Università di
Pavia il 6 luglio 1921. La tesi é di assoluta avanguardia:
“La determinazione della pressione arteriosa con un
nuovo sfigmomanometro”. L’argomento è uno dei fiori
all’occhiello della Scuola Medica Pavese, perchè lo
sfigmomanometro passa alla storia della medicina con il
nome di Scipione Riva - Rocci, allievo di Carlo Forlanini.
Il relatore della tesi di Pampuri è Eugenio Morelli, allievo
di Forlanini e titolare della Patologia Speciale Medica
dal 1919 al 1928, anno nel quale è chiamato a Roma
per dirigere la prima cattedra italiana di Tisiologia. Il
giudizio di Morelli su Pampuri, è significativo: “Studioso,
diligentissimo, appassionato dello studio dell’ammalato; i
pieni voti assoluti riportati all’esame di laurea, confermano
il suo valore di medico”.
Una volta laureato, Pampuri “sceglie la condotta”,
una decisione coerente con il suo spirito e con la
sua indole; “il dottore della mutua di Dio” esercita
a Morimondo, paese della bassa milanese, a pochi
chilometri dal suo paese natale.
Le posizioni di Pampuri sull’assistenza sanitaria
sono precise, autonome ed assolute. Pampuri difende
il diritto del malato a contare e ad avere di più, ma
soprattutto ad “essere” di più. Non è casuale che
Pampuri, dopo aver aderito al Sindacato Nazionale
Fascista, ne dia le dimissioni; non se la sente di accettare
l’art. 5 dello statuto, dove si scrive che “possono far parte
del Sindacato Nazionale Medici Condotti, i medici che
non appartengano a partiti a carattere antinazionale (e
fin qui benissimo), che siano cioè contrari alle direttive
politiche del fascismo”. Quella di Pampuri è la forza
dei deboli: non accetta alcuna direttiva politica che
possa condizionare la sua professione di medico. È un
ribelle Pampuri e insegna a tutti che la pietà (pietas),
la compassione (passio) e l’umanità (humanitas) sono
le grandi armi dell’assistenza. Oggigiorno questi valori
tendono a scomparire dalla nostra società, che vede il
paziente sotto l’ottica del cliente; a volte, a dire il vero,
se i medici considerassero i pazienti come clienti, forse
i malati avrebbero molto da guadagnare. Pampuri, nel
campo dell’assistenza, propone gli stessi principi del
primo santo dei Fatebenefratelli, San Giovanni di Dio, “il
mendicante costruttore di Ospedali”, il quale sottolinea
”il nesso sostanziale che passa tra servire il prossimo e
servire Dio”. La lezione di Pampuri è ancor più grande ed
avanzata: “Un medico, facendo del bene agli altri, fa bene
a sè stesso”. Poco a poco Pampuri diviene un radicale
della medicina, poichè percorre la strada difficilissima
delle origini e delle radici dell’assistenza.
Guadagna bene Pampuri, anche più di 7-8 mila lire
mensili, ma dopo la metà del mese è già senza soldi;
a volte è costretto a chiedere piccoli prestiti ad amici
e colleghi, quando, finiti i suoi soldi, osservi bisogni
impellenti in qualche casa. Dove Pampuri vede privazioni
e miseria, provvede con somme di danaro, “sul tavolo o
sotto il cuscino dei malati”. Qualcuno, come sempre, ne
approfitta. La risposta di Pampuri è laconica: “Io faccio la
carità e non bado ad altro”. Un amico chiede a Pampuri
in quale banca depositi i suoi soldi. La risposta è ironica:
“In una banca speciale, che per ogni lira dà anche cento
lire”.
La “dedizione” di Pampuri diviene proverbiale; il
“dottorino” si cura di tutti e di tutto, “con una delicatezza
che commuove l’intera popolazione di Morimondo”.
Medici bravi e zelanti ce ne sono, ma, come Pampuri,
“non se ne trovano, perchè lui ha qualcosa in più”.
Che cosa? Nessuno riesce a spiegarlo bene: “Pampuri
è speciale perchè fa un bene del tutto particolare”.
La caratteristica di Pampuri è “la sua passione e il suo
coraggio di vivere il reale”, prendendo sempre posizione
su tutti i problemi che lo circondano, ma soprattutto su
quelli della malattia e dell’assistenza. Pampuri punta il dito
su un aspetto fondamentale dell’assistenza: la discrezione
e il riserbo della professione medica. È un messaggio
attuale assai importante nella nostra società, dominata
dalla vanità, dalla ostentazione e dai mass-media.
Pampuri insiste su questo punto e richiama i medici alla
prudenza del linguaggio, alla dignità del contegno, alla
riservatezza dei comportamenti, alla finezza dei modi.
Soprannominato “dottor carità”, Pampuri ha una grande
capacità di riflessione e di concentrazione; è quella stessa
severità di spirito che si può cogliere in uno splendido
quadro che Pablo Picasso dipinge a quindici anni. È un
quadro enorme, dal titolo “Scienza e carità”; rappresenta
un medico in visita ad una povera inferma: Quella di
Pampuri è una carità senza visibilità e senza tornaconti,
una carità privata, silenziosa, nascosta.
Pampuri sottolinea un aspetto negativo della
professione medica: la maldicenza e la disapprovazione
dei colleghi. Il medico di Besate, infastidito dall'impegno
di Pampuri verso i malati, gli manda a dire: “Noi medici
non siamo dei padreterni. Chi deve nascere, nasce; chi
deve star bene, sta bene; chi deve morire muore. Non
vale la pena prendersela più di tanto. Se noi medici
ascoltassimo tutti i malati, crepiamo noi”.
Pampuri è un bravo medico ed è anche un buon
partito: dottore, giovane, “teoricamente ricco”, buono,
bravo, riservato, raffinato. In un piccolo paese è logico
che la presenza di un medico scapolo sia oggetto di
attenzioni femminili e Pampuri non si sottrae a questo
principio. L’ottica con la quale viene valutato, come
possibile marito, è duplice. Da un lato qualche signorina
lo vede come un santerello, troppo delicato per essere
un buon marito; dall’altro qualcuna lo pregusta per la
dolcezza e per la inconsueta sensibilità. La figlia del
lattaio, ad esempio, sollecitata dalle amiche a far la corte
al dottore, risponde che “lei vuole un marito, non un
pretino” e che, “piuttosto che sposarlo preferisce restare
zitella”, La figlia del Direttore Medico dell’Ospedale
II
Cantù di Abbiategrasso, al contrario, attraverso un’amica,
recapita a Pampuri una lettera di proposta matrimoniale;
la procedura non è proprio consueta, ma, evidentemente,
la distinta signorina, invaghita del dottorino, si decide al
grande passo dopo altri tentativi andati a vuoto. Pampuri,
pur timidissimo, non si sottrae al suo dovere e risponde
con parole assai garbate. La replica è perentoria: lui ha
ben analizzato la questione e “ha già definitivamente
rinunciato allo stato matrimoniale”, essendo “nettamente
favorevole” alla vita consacrata. Con delicato pudore
Pampuri si permette di dare un consiglio alla sua
ammiratrice: suggerisce alla “timida pretendente respinta”
di provare a fare la sua stessa scelta.
Nasce da questa reticenza al matrimonio, uno degli
aspetti più discussi e tormentati della personalità di
Pampuri: una presunta nevrosi freudiana nei confronti
delle donne. Certamente, in particolari circostanze,
Pampuri preferisce affidare alcune pazienti ad altri
colleghi, fedele al principio che “l’occasione fa l’uomo
ladro”; si potrebbe aggiungere “figuriamoci le donne”.
La vita stessa di Pampuri smentisce però l’ipotesi di
una psiche incerta e malata, chiamata in causa anche
a proposito della sua reticenza a curarsi in maniera
adeguata. I medici sono spesso fatalisti ed anche
Pampuri non si sottrae a questo principio; quello dei
medici non è un vero fatalismo, ma, per così dire, un
fatalismo razionale, cioè un pensiero che considera un
avvenimento come inevitabile, in quanto sequela di una
realtà esiziale. In sostanza i medici scelgono di sottrarsi
alle speranze e alle lusinghe che essi stessi offrono ai
loro malati. Familiari, parenti, amici, compagni di scuola,
colleghi di lavoro e persone comuni, concordano nel
definire Pampuri un uomo dal “perfetto equilibrio
psichico” e smentiscono, nel modo più categorico, ogni
possibilità di “masochismo, abulia ed ipocondria”.
Come sempre accade, è la normalità che stupisce il
mondo. Non è affatto una anomalia che Pampuri faccia
una personale scelta evangelica, eppure la gente ne
resta prima sorpresa e poi sconvolta. Nei comportamenti
di Pampuri, non vi è nulla che si discosti dai principi
generali di una visione etica dell’uomo che lui applica
sempre e dovunque allo stesso modo; in casa e in chiesa,
sul lavoro e nei momenti di svago, con gli amici e con i
malati, con i conoscenti e con gli estranei, nei momenti
facili e in quelli difficili.
Pampuri è quello che è, sempre uguale, sempre
quello: gentile, rispettoso, educato, ma, al tempo stesso,
profondo, coerente, “rettilineo”. Pampuri non ha mezze
misure e non ha paura nemmeno di esprimere il suo
pensiero sulle donne e sulla sessualità. In una lettera
all’amico Benedetti Secondi, Pampuri spiega quanto sia
assurdo “trovare nella donna un ostacolo” alla virtù, alla
morale e alla santità; no, la colpa non è delle donne,
dice Pampuri, ma degli uomini, “incapaci di frenare e
di dominare gli istinti e le volubili passioni”. Gli uomini,
sostiene ancora Pampuri, non sanno e non vogliono
ricercare “le delicate ed ammirabili virtù proprie del sesso
femminile”; essi preferiscono rincorrere “ ciò che nella
donna può eccitare ed alimentare le passioni del sesso”.
Non ha peli sulla lingua Pampuri, che offre una autentica ed
attuale lezione di vita: “Ecco perchè spesso nel matrimonio,
anzichè il benessere e la pace, si trovi la discordia ed
una pesante croce”. Sul celibato, sul matrimonio e sulla
sessualità, Pampuri dimostra di avere idee ben chiare e di
aver fatto scelte “equilibratamente motivate”.
Le tappe della vita di Pampuri non sono facili.
Il percorso formativo medico, dopo la laurea, vede
Pampuri frequentare a Milano, nel 1922, la clinica
Ostetrico - Ginecologica di perfezionamento diretta da
Luigi Mangiagalli; nell’anno successivo ottiene a Pavia
il Diploma di Ufficiale Sanitario che abilita Pampuri ad
occuparsi dei problemi sanitari territoriali.
Più complesso è il percorso religioso. Nel 1921
Pampuri chiede di farsi Terziario Francescano; l’anno
successivo la domanda viene accolta e gli viene
attribuito il nome di Fra Antonio. Le tappe successive
sono complicate perchè sia i francescani che i gesuiti
bloccano l’iter religioso di Pampuri, adducendo ragioni
di “cattiva salute da parte del novizio postulante”.
Solo nel 1927 Pampuri viene accolto come novizio dai
Fatebenefratelli con il nome di Fra Riccardo. Nel 1928 i
Fatebenefratelli lo chiamano a Brescia e lo incaricano di
dirigere l’ambulatorio dentistico dell’Ospedale S. Orsola;
è in questo periodo che le condizioni di salute di Pampuri
peggiorano al punto da essere trasferito poi nel convento
- ospedale dei Fatebenefratelli di Gorizia. All’aggravarsi
della malattia Pampuri verrà ricoverato all’Ospedale S.
Giuseppe dei Fatebenefratelli di Milano.
Quella di Pampuri è certamente una personalità
originale; “leader” naturale, egli fa di tutto per non avere
nessun potere e per non esercitare nessun comando.
Pampuri ha “un carisma” perticolare e contagioso, nel
senso che “trascina tutti con il suo esempio”; gli amici
lo percepiscono come “guida arcana e misteriosa alla
elevazione dei propri pensieri e delle proprie azioni”. Sul
piano morale Pampuri è un forte: la sua è una superiorità
“mai millantata, mai imposta, ma sempre meritata”. Sul
piano fisico Pampuri è un debole: piccolo, magro, pallido
e con i denti guasti. Pur severo, umile e modesto, Pampuri
riesce sempre a trasmettere serenità, dolcezza e dignità.
Don Luigi Pergoni, parroco di Poia presso Ponte di Legno
e compagno d’armi di Pampuri, scrive: “La santità di
Pampuri è quasi un rimprovero verso di me. Dicono che
i dottori, lavorando di bisturi, non incontrino né l’anima,
né Dio; lui invece...”.
Pampuri ama riflettere su sé stesso e sul mondo.
Le riflessioni di Pampuri valgono per tutti, anche per le
donne che, “pur di accaparrarsi un buon partito, non
dubitano di passar sopra a troppe cose”. I matrimoni
di passione o d’amore, come li chiama eufemisticamente
Pampuri, “son quelli che danno il maggior contributo alla
falange ognor crescente delle discordie e delle divisioni
coniugali, delle infedeltà e dei divorzi”. Non mancano le
riflessioni neppure sulla Chiesa e sulle tenebrose insidie
del mondo: “Quanti dolorosi esempi ce ne mostra la
storia della Chiesa e forse dei nostri stessi ordini”.
Qualche donna porta a Pampuri i propri bambini
per farli curare ed anche per farli benedire; Pampuri
sorridendo, offre loro qualche caramella. Quando
racconterà l’episodio a un suo superiore, Pampuri si sente
rispondere: “Ma che cosa volete, volete diventar prete,
adesso?” “No, risponde Pampuri, peccatore come sono, è
già troppa grazia quel che riesco a fare”.
Pampuri è un uomo malato, malato da sempre;
il suo “calvario” procede lento ed implacabile. L’inizio
della fine è la prima guerra mondiale, quando Pampuri
contrae la pleurite che lo accompagna per il resto della
vita. Più volte la forma si riacutizza e più volte Pampuri,
per assecondare parenti ed amici, prende periodi
di convalescenza, durante i quali, però continua ad
esercitare la professione medica. Tosse, febbri, emottisi,
bronchiti, polmoniti, pleuriti, finiscono per distruggere
un organismo fragile e debilitato; a nulla valgono le
terapie con antipirina, chinamina, emoantitossina tripla,
III