RICCARDO PAMPURI - Ordine di Pavia
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RICCARDO PAMPURI - Ordine di Pavia
medico. Ambedue studiano all’Università di Pavia; lei è laureata in Medicina e specializzata in Pediatria, lui è laureato in Chimica, in Farmacia e in Biologia. “Curiose” alcune affermazioni nei loro riguardi. Il marito di Gianna, ingegner Pietro Molla, proprietario di una fabbrica con tremila operai, dichiara: “Io non mi sono mai accorto di vivere con una santa”. I compagni di università di Marcello, erede unico di una serie di fabbriche di acido carbonico, dicono di lui: “È buono, ma, con i soldi che ha, tiene in piedi una doppia vita”. Gianna è una donna bella, moderna, elegante, amante del teatro, della musica e dei fiori; guida l’automobile, ama la montagna, scia molto bene. Il marito è spesso all’estero per lavoro e l’unico regalo che lei chiede sono le riviste di moda, per poter scegliere dei buoni modelli. Marcello è un marcantonio, alto, forte, intelligente, ricco, bravissimo. Suo padre è un uomo dall’onestà cristallina, ma non è nè credente, nè tantomeno praticante; in tutta la sua vita “sarà entrato in chiesa si e no un paio di volte” e dice che “la fede ardente di sua moglie basta e avanza anche per lui”. Gianna si sacrifica nel corso della sua quarta gravidanza, privilegiando in modo esclusivo la vita di sua figlia rispetto alla propria; muore di shock settico - tossico post-partum. Marcello, ad un certo punto della vita, vende tutto, si occupa di medicina e si mette a costruire ospedali nei paesi del terzo mondo; muore povero in canna, come i poveri che lui ha deciso di aiutare. Gianna Beretta e Marcello Candia diventano due moderni medici santi. Quella dei medici è una santità fuori da ogni schema comune. Essa nasce nel silenzio, in un ambulatorio, in una casa, in una camera d’ospedale, al telefono, per strada; la santità prende il via da quel misterioso ed affascinante miracolo, o enigma, che è il rapporto medico - paziente. Continuare è difficilissimo, perchè, da quel momento, la scelta eroica è quella di accantonare ogni altro interesse se non quello esclusivo del malato. I primi medici santi sono S. Luca, S. Biagio, S. Pantaleone, S. Ciro e tanti altri; c’è anche una dottoressa, S. Zenaide. I primi chirurghi santi sono i S.S. Cosma e Damiano; sono i primi medici “anargiri”, così chiamati perchè, sia dai ricchi che dai poveri, hanno sempre rifiutato qualunque compenso, anche il più banale, comprese “tre uova offerte da una malata”. Cosma e Damiano sono i santi protettori anche dei trapiantologi, per il miracolo del trapianto della gamba necrotica di un sacrestano con l’arto di un moro appena morto. L’episodio è immortalato da molti grandi artisti: il Beato Angelico, Berruguete, Gallego, Tintoretto, Lorenzo di Bicci, Wechtlin, Figueroa. Cosma e Damiano sono gemelli, sono arabi di Egea in Cilicia e sono seguaci della scuola di Galeno, di Ippocrate e di Platone. Sono due medici molto saggi ed uno dei loro pensieri è passato alla storia come verità sacrosanta: “A volte la malattia è più insopportabile della stessa morte”. Poveretti, fanno una brutta fine, perchè Diocleziano, dopo varie torture, senza alcun motivo, li condanna alla decapitazione, insieme ai loro tre fratelli. Due grandi poeti colgono l’essenza della santità: Ugo Foscolo nei “Sepolcri” e Thomas Stearns Eliot nel “Delitto nella cattedrale”. Il primo scrive che i Santi “fan bella la terra che li ricetta”; il secondo, scrive che “dai Santi scaturisce ciò che rinnova la terra”. La terra è il segno dei santi. Eraclito dice che “il destino dell’uomo è la sua terra, cioè il suo animo”; l’animo di Pampuri, appunto, è quello di un medico santo. Il suo messaggio è semplice: fare le cose ordinarie in modo straordinario. broncofil. Qualche anno dopo, chissà, con una bella cura di antibiotici, Pampuri sarebbe forse guarito. La sera del 1° maggio 1930, all’età di 32 anni, “gli angeli portano in cielo” il dott. Riccardo Pampuri. Ridotto a pelle e ossa, consumato dalla tubercolosi, divorato delle febbri ricorrenti, scompare un giovane medico che, al di là delle scelte più intime e personali, ha saputo scrivere pagine “di autentica promozione umana, di cultura sociale, di alta professionalità e di eroica solidarietà”. Quella di Pampuri è la storia di un uomo semplice, minuto, umile e gracile, capace di interpretare l’arte medica come dedizione assoluta per gli altri e totale disinteresse per sè stesso. La fama della santità di Pampuri diviene subito patrimonio popolare. Il suo funerale è davvero il viaggio di un medico santo; la testa del corteo è già nella chiesa di Trivolzio, mentre la bara di Pampuri è ancora a Torrino. Portato a spalla per chilometri, Pampuri trova schierati, a lato della strada, tutti i suoi pazienti con le rispettive famiglie. Sulla tomba viene collocata una lapide: “A soave ricordo di Fra Riccardo dott. Pampuri, medico-chirurgo dei Fatebenefratelli, nel secolo e nel chiostro angelicamente puro, eucaristicamente pio, apostolicamente operoso”. Il 4 ottobre 1981, Papa Karol Woityla lo proclama beato e il 1° novembre 1989, sempre Giovanni Paolo II, “lo iscrive nel grande registro dei santi”. Ma chi sono i medici santi? E ci sono, oggi, medici santi? Siamo abituati a pensare che i santi siano dei religiosi e che i medici santi siano dei consacrati. Non è proprio così, anzi non è affatto così. Pampuri stesso non è un prete. Per diventare santi non è necessario essere sacerdoti o suore o frati, come non è necessario essere poveri, portare grandi croci, essere eroi o martiri; forse non è nemmeno necessario essere credenti o praticanti. Nel libro “La peste” di Albert Camus, Tarrou chiede a Rieux: “Mi interessa sapere come si diventa un santo”. Rieux risponde: “Ma lei non crede in Dio?” “Appunto, risponde Tarrou, voglio sapere se si possa essere un santo anche senza Dio”. Tarrou, dopo aver sacrificato la propria vita per gli altri, muore senza avere una risposta. La risposta c’è ed è una risposta antica come l’uomo: sono i “latentes sancti” o santi occulti, quelli che sfuggono agli occhi di tutti e che sanno fare, di sè stessi, uno strumento per gli altri. La medicina si presta a questo obiettivo e non è casuale che molti dei medici santi abbiano espresso la loro “eroicità” nella professione; la santità diviene una scelta e, in campo assistenziale, l’eroismo corrisponde al servizio totale per gli altri. George Eliot, pseudonimo della scrittrice inglese Mary Ann Evans, nel suo ultimo romanzo Middlemarch, scrive: “La professione medica rappresenta il perfetto equilibrio fra scienza ed arte, oltre che l’unione più diretta tra le conquiste intellettuali e il bene sociale”. Pampuri riesce nell’impresa di finalizzare tutte le qualità di un medico nell’unico grande “valore” dell’assistenza: l’attenzione al malato e a tutti i suoi problemi. Si tratta di una visione antropologica globale dell’assistenza, con il paziente veramente “al centro” rispetto ad ogni altro problema anche personale. Non è semplice vivere la professione medica come privilegio di curare un proprio simile, ma Pampuri dimostra che è pur sempre possibile e lo dimostrano anche due altri medici dei nostri giorni. Gianna Beretta è una laica, anzi, è una moglie; Marcello Candia è un laico, non è sposato e non è neppure IV Appunti di Storia della Medicina Pavese: RICCARDO PAMPURI di Luigi Bonandrini Riccardo Pampuri nasce a Trivolzio, nei pressi di Pavia, il 2 agosto 1897. In una singolare “girandola” di nomi (Erminio, Filippo, Emilio, Miliotto, Antonio, Riccardo), è raccolta la storia di un medico straordinario, fuori da ogni schema professionale. Penultimo degli undici figli di Innocente e di Angela Campari, Pampuri viene battezzato con i nomi di Erminio e Filippo, all’indomani della nascita come d’uso per la elevata mortalità neonatale. Il padre è un negoziante di vini; la madre proviene da una famiglia di proprietari terrieri. L’unione non è esemplare. La madre, chiamata Angiolina, è una santa donna, saggia e stimata; il padre, spesso alticcio e a volte anche manesco, alterna la gestione di una locanda a quella di una bottega di vini. La modesta cerimonia del battesimo si trasforma in un piccolo avvenimento: per la prima volta viene suonato il nuovo concerto, in Do maggiore, delle otto campane della Chiesa parrocchiale di Trivolzio. Il padre di Pampuri, per festeggiare il neonato, “tira giù la saracinesca del suo negozio” e alza il gomito un poco più del solito. Pampuri è orfano, orfano da sempre. La madre, sopraffatta dalle gravidanze e dalla tubercolosi, muore nel 1900; sul letto di morte l’Angiolina raccomanda il figlio alla sorella Maria che vive con il fratello Carlo, medico condotto di Torrino paesetto vicino Trivolzio. Così il piccolo Erminio, all’età di tre anni, perde contemporaneamente la madre e la famiglia. Qualche anno dopo, nel 1907, il padre di Pampuri, aspirante vinaiolo in quel di Milano, muore in un incidente di strada. Dei fratelli e delle sorelle di Pampuri, cinque muoiono in giovane età, uno muore in guerra ed uno solo si sposa; delle sorelle, una diviene suora delle “Francescane d’Egitto”, l’altra sceglie di non maritarsi. Pampuri, a Torrino, trova casa e affetti; trova anche una nuova famiglia, formata dagli zii Carlo e Maria, dai prozii Pietro e Carlo, dal nonno Giovanni Campari e dalla domestica Carolina Bersan. Trova pure benessere, derivante dalla condotta e da duemila pertiche di terreno, un terreno “fertile e generoso, coltivato con fatica e costanza”. Curiosamente Pampuri trova anche un nuovo nome: Emilio, detto Miliotto da amici e parenti. Torrino è un paese senza scuole. Pampuri frequenta le prime tre classi elementari a Trovo e le ultime due a Casorate Primo. Ogni giorno, per raggiungere la scuola, è costretto ad una “marcia” di qualche chilometro; si tempra il fisico e lo spirito, perchè, nel viaggio, il ragazzino pensa, riflette e prega. I risultati scolastici sono buoni, non eccellenti; Pampuri brilla soltanto in aritmetica pratica, geometria e contabilità, unica materia nella quale si merita un bel nove. Il suo maestro, Luigi Balbi, ricorda due aspetti umani del suo allievo: il primo è la presenza costante alle lezioni pur “con il cattivo tempo e con le strade impraticabili”, il secondo è una Riccardo Pampuri bontà solare accompagnata da “una singolare mitezza di carattere”. A undici anni Pampuri si iscrive al Ginnasio A. Manzoni di Milano; ancora una volta è costretto a cambiar casa e si trasferisce dal fratello maggiore Ferdinando. Le faccende scolastiche si mettono male per Pampuri; gli zii, preoccupati, decidono di trasferirlo al Collegio S. Agostino di Pavia, in modo da tenerlo più facilmente sott’occhio. Il profitto cambia radicalmente e Pampuri “rinasce” sul piano scolastico e su quello psicologico: “tre attestati di lode, uno addirittura col premio”. Ancora una volta affiora il talento per la matematica e ancora una volta affiora la sua passione per la lettura: Pampuri “divora” libri di avventura, di storia e di viaggi. Terminata la maturità classica al Liceo Ugo Foscolo di Pavia, Pampuri si trova di fronte ad una scelta difficile; l’impegno spirituale lo porterebbe verso il seminario, il debito di riconoscenza nei confronti dello zio lo porterebbe verso la facoltà di medicina. Prevale “l’autorità” dello zio Carlo, che vede nel nipote “il suo erede naturale nella professione”; il ragazzo è certamente combattuto fra spirito e ragione. Nell’autunno del 1915 Pampuri si iscrive alla Facoltà di Medicina e Chirurgia all’Università di Pavia; contemporaneamente entra a far parte del circolo FUCI San Severino Boezio, che si riunisce nel convento francescano di Canepanova. I primi tempi della vita universitaria trascorrono serenamente, anche perchè I Pampuri è un tipo allegro e spiritoso. Si racconta che un giorno, di fronte al Giardino Orto Botanico, il conducente del tram si sia fermato per un bisogno fisiologico; Pampuri prende “allegramente” il posto del manovratore e guida il tram “per un certo tratto di strada”, suscitando l’ilarità generale. Scoppia la guerra e Pampuri è chiamato al servizio militare. Alla prima visita di leva viene dichiarato rivedibile; Pampuri è un longilineo ipostenico con i tratti dell’insufficienza toracica. Alla visita successiva, nel 1917, è riconosciuto abile, più per necessità belliche che per qualità costituzionali; dopo tre mesi di addestramento a Milano, Pampuri acquisisce il grado di caporale. Viene arruolato nell’86ª Sezione di Sanità della IIIª Armata e parte per il fronte. È un periodo tristissimo per lui, perchè in quello stesso anno il fratello Achille muore sul fronte bellico; amara la riflessione prospettica di Pampuri sulla tradotta che “torna vuota dopo aver scaricato le truppe al fronte”. Pampuri ha lo spirito del combattente e si merita una medaglia di bronzo al valor militare. La vicenda è singolare. Durante la ritirata di Caporetto, il 24 ottobre 1917, da solo e sotto la pioggia e le bombe nemiche, Pampuri “porta in salvo le attrezzature sanitarie”. Il prezzo che paga è altissimo: una pleurite che non lo abbandonerà per il resto della vita. Pampuri si laurea a pieni voti all’Università di Pavia il 6 luglio 1921. La tesi é di assoluta avanguardia: “La determinazione della pressione arteriosa con un nuovo sfigmomanometro”. L’argomento è uno dei fiori all’occhiello della Scuola Medica Pavese, perchè lo sfigmomanometro passa alla storia della medicina con il nome di Scipione Riva - Rocci, allievo di Carlo Forlanini. Il relatore della tesi di Pampuri è Eugenio Morelli, allievo di Forlanini e titolare della Patologia Speciale Medica dal 1919 al 1928, anno nel quale è chiamato a Roma per dirigere la prima cattedra italiana di Tisiologia. Il giudizio di Morelli su Pampuri, è significativo: “Studioso, diligentissimo, appassionato dello studio dell’ammalato; i pieni voti assoluti riportati all’esame di laurea, confermano il suo valore di medico”. Una volta laureato, Pampuri “sceglie la condotta”, una decisione coerente con il suo spirito e con la sua indole; “il dottore della mutua di Dio” esercita a Morimondo, paese della bassa milanese, a pochi chilometri dal suo paese natale. Le posizioni di Pampuri sull’assistenza sanitaria sono precise, autonome ed assolute. Pampuri difende il diritto del malato a contare e ad avere di più, ma soprattutto ad “essere” di più. Non è casuale che Pampuri, dopo aver aderito al Sindacato Nazionale Fascista, ne dia le dimissioni; non se la sente di accettare l’art. 5 dello statuto, dove si scrive che “possono far parte del Sindacato Nazionale Medici Condotti, i medici che non appartengano a partiti a carattere antinazionale (e fin qui benissimo), che siano cioè contrari alle direttive politiche del fascismo”. Quella di Pampuri è la forza dei deboli: non accetta alcuna direttiva politica che possa condizionare la sua professione di medico. È un ribelle Pampuri e insegna a tutti che la pietà (pietas), la compassione (passio) e l’umanità (humanitas) sono le grandi armi dell’assistenza. Oggigiorno questi valori tendono a scomparire dalla nostra società, che vede il paziente sotto l’ottica del cliente; a volte, a dire il vero, se i medici considerassero i pazienti come clienti, forse i malati avrebbero molto da guadagnare. Pampuri, nel campo dell’assistenza, propone gli stessi principi del primo santo dei Fatebenefratelli, San Giovanni di Dio, “il mendicante costruttore di Ospedali”, il quale sottolinea ”il nesso sostanziale che passa tra servire il prossimo e servire Dio”. La lezione di Pampuri è ancor più grande ed avanzata: “Un medico, facendo del bene agli altri, fa bene a sè stesso”. Poco a poco Pampuri diviene un radicale della medicina, poichè percorre la strada difficilissima delle origini e delle radici dell’assistenza. Guadagna bene Pampuri, anche più di 7-8 mila lire mensili, ma dopo la metà del mese è già senza soldi; a volte è costretto a chiedere piccoli prestiti ad amici e colleghi, quando, finiti i suoi soldi, osservi bisogni impellenti in qualche casa. Dove Pampuri vede privazioni e miseria, provvede con somme di danaro, “sul tavolo o sotto il cuscino dei malati”. Qualcuno, come sempre, ne approfitta. La risposta di Pampuri è laconica: “Io faccio la carità e non bado ad altro”. Un amico chiede a Pampuri in quale banca depositi i suoi soldi. La risposta è ironica: “In una banca speciale, che per ogni lira dà anche cento lire”. La “dedizione” di Pampuri diviene proverbiale; il “dottorino” si cura di tutti e di tutto, “con una delicatezza che commuove l’intera popolazione di Morimondo”. Medici bravi e zelanti ce ne sono, ma, come Pampuri, “non se ne trovano, perchè lui ha qualcosa in più”. Che cosa? Nessuno riesce a spiegarlo bene: “Pampuri è speciale perchè fa un bene del tutto particolare”. La caratteristica di Pampuri è “la sua passione e il suo coraggio di vivere il reale”, prendendo sempre posizione su tutti i problemi che lo circondano, ma soprattutto su quelli della malattia e dell’assistenza. Pampuri punta il dito su un aspetto fondamentale dell’assistenza: la discrezione e il riserbo della professione medica. È un messaggio attuale assai importante nella nostra società, dominata dalla vanità, dalla ostentazione e dai mass-media. Pampuri insiste su questo punto e richiama i medici alla prudenza del linguaggio, alla dignità del contegno, alla riservatezza dei comportamenti, alla finezza dei modi. Soprannominato “dottor carità”, Pampuri ha una grande capacità di riflessione e di concentrazione; è quella stessa severità di spirito che si può cogliere in uno splendido quadro che Pablo Picasso dipinge a quindici anni. È un quadro enorme, dal titolo “Scienza e carità”; rappresenta un medico in visita ad una povera inferma: Quella di Pampuri è una carità senza visibilità e senza tornaconti, una carità privata, silenziosa, nascosta. Pampuri sottolinea un aspetto negativo della professione medica: la maldicenza e la disapprovazione dei colleghi. Il medico di Besate, infastidito dall'impegno di Pampuri verso i malati, gli manda a dire: “Noi medici non siamo dei padreterni. Chi deve nascere, nasce; chi deve star bene, sta bene; chi deve morire muore. Non vale la pena prendersela più di tanto. Se noi medici ascoltassimo tutti i malati, crepiamo noi”. Pampuri è un bravo medico ed è anche un buon partito: dottore, giovane, “teoricamente ricco”, buono, bravo, riservato, raffinato. In un piccolo paese è logico che la presenza di un medico scapolo sia oggetto di attenzioni femminili e Pampuri non si sottrae a questo principio. L’ottica con la quale viene valutato, come possibile marito, è duplice. Da un lato qualche signorina lo vede come un santerello, troppo delicato per essere un buon marito; dall’altro qualcuna lo pregusta per la dolcezza e per la inconsueta sensibilità. La figlia del lattaio, ad esempio, sollecitata dalle amiche a far la corte al dottore, risponde che “lei vuole un marito, non un pretino” e che, “piuttosto che sposarlo preferisce restare zitella”, La figlia del Direttore Medico dell’Ospedale II Cantù di Abbiategrasso, al contrario, attraverso un’amica, recapita a Pampuri una lettera di proposta matrimoniale; la procedura non è proprio consueta, ma, evidentemente, la distinta signorina, invaghita del dottorino, si decide al grande passo dopo altri tentativi andati a vuoto. Pampuri, pur timidissimo, non si sottrae al suo dovere e risponde con parole assai garbate. La replica è perentoria: lui ha ben analizzato la questione e “ha già definitivamente rinunciato allo stato matrimoniale”, essendo “nettamente favorevole” alla vita consacrata. Con delicato pudore Pampuri si permette di dare un consiglio alla sua ammiratrice: suggerisce alla “timida pretendente respinta” di provare a fare la sua stessa scelta. Nasce da questa reticenza al matrimonio, uno degli aspetti più discussi e tormentati della personalità di Pampuri: una presunta nevrosi freudiana nei confronti delle donne. Certamente, in particolari circostanze, Pampuri preferisce affidare alcune pazienti ad altri colleghi, fedele al principio che “l’occasione fa l’uomo ladro”; si potrebbe aggiungere “figuriamoci le donne”. La vita stessa di Pampuri smentisce però l’ipotesi di una psiche incerta e malata, chiamata in causa anche a proposito della sua reticenza a curarsi in maniera adeguata. I medici sono spesso fatalisti ed anche Pampuri non si sottrae a questo principio; quello dei medici non è un vero fatalismo, ma, per così dire, un fatalismo razionale, cioè un pensiero che considera un avvenimento come inevitabile, in quanto sequela di una realtà esiziale. In sostanza i medici scelgono di sottrarsi alle speranze e alle lusinghe che essi stessi offrono ai loro malati. Familiari, parenti, amici, compagni di scuola, colleghi di lavoro e persone comuni, concordano nel definire Pampuri un uomo dal “perfetto equilibrio psichico” e smentiscono, nel modo più categorico, ogni possibilità di “masochismo, abulia ed ipocondria”. Come sempre accade, è la normalità che stupisce il mondo. Non è affatto una anomalia che Pampuri faccia una personale scelta evangelica, eppure la gente ne resta prima sorpresa e poi sconvolta. Nei comportamenti di Pampuri, non vi è nulla che si discosti dai principi generali di una visione etica dell’uomo che lui applica sempre e dovunque allo stesso modo; in casa e in chiesa, sul lavoro e nei momenti di svago, con gli amici e con i malati, con i conoscenti e con gli estranei, nei momenti facili e in quelli difficili. Pampuri è quello che è, sempre uguale, sempre quello: gentile, rispettoso, educato, ma, al tempo stesso, profondo, coerente, “rettilineo”. Pampuri non ha mezze misure e non ha paura nemmeno di esprimere il suo pensiero sulle donne e sulla sessualità. In una lettera all’amico Benedetti Secondi, Pampuri spiega quanto sia assurdo “trovare nella donna un ostacolo” alla virtù, alla morale e alla santità; no, la colpa non è delle donne, dice Pampuri, ma degli uomini, “incapaci di frenare e di dominare gli istinti e le volubili passioni”. Gli uomini, sostiene ancora Pampuri, non sanno e non vogliono ricercare “le delicate ed ammirabili virtù proprie del sesso femminile”; essi preferiscono rincorrere “ ciò che nella donna può eccitare ed alimentare le passioni del sesso”. Non ha peli sulla lingua Pampuri, che offre una autentica ed attuale lezione di vita: “Ecco perchè spesso nel matrimonio, anzichè il benessere e la pace, si trovi la discordia ed una pesante croce”. Sul celibato, sul matrimonio e sulla sessualità, Pampuri dimostra di avere idee ben chiare e di aver fatto scelte “equilibratamente motivate”. Le tappe della vita di Pampuri non sono facili. Il percorso formativo medico, dopo la laurea, vede Pampuri frequentare a Milano, nel 1922, la clinica Ostetrico - Ginecologica di perfezionamento diretta da Luigi Mangiagalli; nell’anno successivo ottiene a Pavia il Diploma di Ufficiale Sanitario che abilita Pampuri ad occuparsi dei problemi sanitari territoriali. Più complesso è il percorso religioso. Nel 1921 Pampuri chiede di farsi Terziario Francescano; l’anno successivo la domanda viene accolta e gli viene attribuito il nome di Fra Antonio. Le tappe successive sono complicate perchè sia i francescani che i gesuiti bloccano l’iter religioso di Pampuri, adducendo ragioni di “cattiva salute da parte del novizio postulante”. Solo nel 1927 Pampuri viene accolto come novizio dai Fatebenefratelli con il nome di Fra Riccardo. Nel 1928 i Fatebenefratelli lo chiamano a Brescia e lo incaricano di dirigere l’ambulatorio dentistico dell’Ospedale S. Orsola; è in questo periodo che le condizioni di salute di Pampuri peggiorano al punto da essere trasferito poi nel convento - ospedale dei Fatebenefratelli di Gorizia. All’aggravarsi della malattia Pampuri verrà ricoverato all’Ospedale S. Giuseppe dei Fatebenefratelli di Milano. Quella di Pampuri è certamente una personalità originale; “leader” naturale, egli fa di tutto per non avere nessun potere e per non esercitare nessun comando. Pampuri ha “un carisma” perticolare e contagioso, nel senso che “trascina tutti con il suo esempio”; gli amici lo percepiscono come “guida arcana e misteriosa alla elevazione dei propri pensieri e delle proprie azioni”. Sul piano morale Pampuri è un forte: la sua è una superiorità “mai millantata, mai imposta, ma sempre meritata”. Sul piano fisico Pampuri è un debole: piccolo, magro, pallido e con i denti guasti. Pur severo, umile e modesto, Pampuri riesce sempre a trasmettere serenità, dolcezza e dignità. Don Luigi Pergoni, parroco di Poia presso Ponte di Legno e compagno d’armi di Pampuri, scrive: “La santità di Pampuri è quasi un rimprovero verso di me. Dicono che i dottori, lavorando di bisturi, non incontrino né l’anima, né Dio; lui invece...”. Pampuri ama riflettere su sé stesso e sul mondo. Le riflessioni di Pampuri valgono per tutti, anche per le donne che, “pur di accaparrarsi un buon partito, non dubitano di passar sopra a troppe cose”. I matrimoni di passione o d’amore, come li chiama eufemisticamente Pampuri, “son quelli che danno il maggior contributo alla falange ognor crescente delle discordie e delle divisioni coniugali, delle infedeltà e dei divorzi”. Non mancano le riflessioni neppure sulla Chiesa e sulle tenebrose insidie del mondo: “Quanti dolorosi esempi ce ne mostra la storia della Chiesa e forse dei nostri stessi ordini”. Qualche donna porta a Pampuri i propri bambini per farli curare ed anche per farli benedire; Pampuri sorridendo, offre loro qualche caramella. Quando racconterà l’episodio a un suo superiore, Pampuri si sente rispondere: “Ma che cosa volete, volete diventar prete, adesso?” “No, risponde Pampuri, peccatore come sono, è già troppa grazia quel che riesco a fare”. Pampuri è un uomo malato, malato da sempre; il suo “calvario” procede lento ed implacabile. L’inizio della fine è la prima guerra mondiale, quando Pampuri contrae la pleurite che lo accompagna per il resto della vita. Più volte la forma si riacutizza e più volte Pampuri, per assecondare parenti ed amici, prende periodi di convalescenza, durante i quali, però continua ad esercitare la professione medica. Tosse, febbri, emottisi, bronchiti, polmoniti, pleuriti, finiscono per distruggere un organismo fragile e debilitato; a nulla valgono le terapie con antipirina, chinamina, emoantitossina tripla, III