L I B R E T T O - Route Nazionale Agesci 2014

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L I B R E T T O - Route Nazionale Agesci 2014
IL CORAGGIO DI AMARE
I CONFLITTI
L’OBBEDIENZA E LA VIRTU’
San Rossore 6 - 10 agosto
Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani
M.A.S.C.I. Verona 20
www.mascivr20.it - [email protected]
ed. 2014 per Laboratorio Route Nazionale Agesci
animatori: Luisa Zanelli & Marco Cometti
COSA C’E’ NELLA NOSTRA VITA
Inizio con una domanda: “Avete tante cose da fare in una
giornata?” “Si!”. “E riuscite a fare anche qualcos’altro” “A volte si”.
“Siete contenti a sera perché avete fatto tutto quello che dovevate
fare?”
Vogliamo vedere un po’ la nostra giornata?
Prendiamo un vaso; è la nostra giornata, la nostra vita.
Riempiamolo con dei sassi. Ci sta dell’altro? Sì, possiamo aggiungere
della ghiaia, fino a riempirlo. Ci sta dell’altro? Si; scuotendolo, possiamo
aggiungere della sabbia, fino all’orlo. Pieno? No; possiamo aggiungere
dell’acqua, fino all’orlo. Ora è proprio pieno del tutto. Non ci sta più
nulla.
Prendiamo un altro vaso, uguale al primo. Questa volta, però,
mettiamo dentro prima l’acqua, poi la sabbia, poi la ghiaia e poi i sassi.
Alcuni sassi non entrano, restano fuori. Possiamo dire che il vaso è
pieno? No, non è pieno. Ciò significa che non abbiamo riempito con
criterio il vaso.
Ovvero, non abbiamo riempito con criterio la nostra giornata, la
nostra vita.
Se i sassi sono i nostri punti di riferimento, e li mettiamo per
primi nella nostra giornata, nella nostra vita, allora vi possiamo
aggiungere quello che vogliamo, saranno sempre presenti; ma se li
mettiamo per ultimi, qualcuno, o tanti, rimarranno fuori.
Allora, cosa sono i sassi? Sono le Virtù, quelle Teologali (Fede,
Speranza, Carità), e quelle Cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza,
Temperanza)
“Virtù” da “Vir”, uomo, perché sono i principi fondanti, i punti di
riferimento della persona. Devono entrare per primi nella nostra vita,
sennò si corre il rischio che non ci stiano più
Cosa è la ghiaia? Sono le virtù umane: ascolto, attenzione,
servizio…
Cos’è la sabbia? E’ la vita, la sensibilità, che entra dappertutto,
magari scuotendo un po’ il vaso.
Per riempire tutto il vaso, però, ci vuole pazienza; l’acqua, che
tutto unisce e circonda, imbeve tutto, ed è la preghiera.
Tutto questo sta nella nostra giornata. Ma solo se ci entrano per
primi dei solidi principi, i sassi grossi. Come in una casa, in cui posso
mettere quel che voglio, se le fondamenta sono solide.
LE VIRTU’ UMANE
Le virtù umane sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni
abituali dell'intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti,
ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la
ragione e la coscienza. Esse procurano facilità, padronanza di sé e
gioia per condurre una vita moralmente buona. L'uomo virtuoso è
colui che liberamente pratica il bene.
Quattro virtù hanno funzione di “cardine”. Per questo sono dette
“cardinali”; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la
prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
La prudenza è la virtù che permette alla ragione di
scegliere in ogni circostanza il nostro vero bene e i
mezzi adeguati per compierlo. L'uomo prudente allora
non è tanto l'indeciso, il cauto, il titubante, ma al
contrario è uno che sa decidere con sano realismo,
non si fa trascinare dai facili entusiasmi, non tentenna
e non ha paura di osare.
La giustizia La giustizia consiste nella volontà costante
e ferma di dare alla società e al prossimo ciò che è
loro dovuto e quindi, per mezzo di essa, intendiamo e
conseguentemente operiamo ciò che è bene nei
riguardi della società, di noi stessi e del prossimo.
La fortezza assicura, nelle difficoltà, la fermezza e la
costanza nella ricerca del bene. La fortezza è la
capacità di resistere alle avversità, di non scoraggiarsi
dinanzi ai contrattempi, di perseverare nel cammino
di perfezione, cioè di andare avanti ad ogni costo,
senza lasciarsi vincere dalla pigrizia, dalla viltà, dalla
paura.
La temperanza è la virtù morale che modera
l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio
nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio
della volontà sugli istinti e mantiene i desideri
entro i limiti dell'onestà.
La temperanza è l’autoeducazione della volontà.
Il credente, per mezzo della sua fede, esalta il cammino morale delle
virtù, indirizzandosi verso la santità (comunione con Dio e i fratelli)
PRUDENZA
GIUSTIZIA
FORTEZZA
TEMPERANZA
Cosa faccio io nel mio quotidiano per dare attuazione pratica alle
virtù ?
E’ / NON E’
Prudenza (rispondere “è” o “non è”)
Fuggire sempre i pericoli
Fumare uno spinello, per una volta soltanto
“Ma chi me lo fa fare?”
Non intervenire in situazioni pericolose
Favorire, fra le mie relazioni, quelle che mi aiutano a
crescere
Giustizia (rispondere “è” o “non è”)
Pagare le tasse
Applicare le leggi, in qualsiasi situazione
Avere un comportamento…”perché così fan tutti”
Le legge “occhio per occhio”
Pagare sempre il biglietto dell’autobus
Fortezza (rispondere “è” o “non è”)
Avere successo
Avere forza fisica o potere di convincimento
Esercitare potere sulle cose o sulle persone
Avere forza d’animo
Non lasciarsi turbare dal male
Rassegnarsi di fronte agli insuccessi
Temperanza (rispondere “è” o “non è”)
Rispettare la natura
Indebitarsi per una cosa che si desidera tanto
Trascorrere molto tempo al computer o alla televisione
rinunciare a tutte le cose che ci danno piacere
evitare lo spreco di acqua e carta
usare il linguaggio scurrile (le parolacce, le allusioni volgari)
della “compagnia”
RILEGGERE DON MILANI
L’11 febbraio 1965, a Firenze, i cappellani militari della
Toscana firmano un ordine del giorno, pubblicato l'indomani sul
giornale “La Nazione”, in cui affermano che «considerano un insulto
alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che,
estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di
viltà».
All'epoca di questo scritto gli obiettori di coscienza pagavano il
rifiuto di prestare il servizio militare con il carcere.
Accade che nei giorni seguenti il giornale arriva anche nel
remoto paesino di Barbiana, sui monti della Toscana, dove un prete,
esiliato lì da una curia che lo considera scomodo, ha avviato una
scuola.
È una scuola per poveri ragazzi di montagna, ignoranti, figli di
contadini. Ma è una scuola speciale, dove un maestro altrettanto
speciale punta a fare di quei ragazzi degli uomini e dei cittadini
responsabili, piuttosto che dei dottori.
Quel maestro è don Milani.
Don Milani e i suoi ragazzi, dalla remota scuola di Barbiana, si
sentono interpellati dalle parole ingiuste dei cappellani toscani e
decidono di rispondere «perché hanno insultato dei cittadini che noi
e molti altri ammiriamo».
Lo scritto,con la sua nuda forza, ci pone di fronte ad un
dilemma: l'obbedienza è un valore a cui educare ed educarci? O è un
disvalore, un rinunciare alla propria capacità di giudizio, alla propria
responsabilità?
La verità è che l'obbedienza è difficile, sia da praticare, che da
insegnare perché significa di sacrificare il proprio personale punto di
vista, parziale, ed è il riconoscere un valore “superiore” a cui la nostra
obbedienza è dovuta. Lo scritto di Don Milani non è contro
l’obbedienza “tout court”, ma è piuttosto contro le nostre scuse.
L'obbedienza non è una virtù, quando è comodità, abitudine,
conformismo, quando ci fa da scusa nel non seguire il dettame
superiore della nostra coscienza, la prima istanza a cui dobbiamo
obbedienza.
E come l'obbedienza non può essere una scusa per impedirci di
fare il giusto per paura di una ritorsione, così non possono essere una
scusa malintesi ideali umani,
usati per giustificare divisioni e violenze.
Ecco quindi perché è importante essere educati ed educare a
scegliere dove e quali sono i valori più alti da seguire.
Dove sacrificare la propria persona nell'esercizio difficile
dell'obbedienza e dove sacrificarsi nell'esercizio, ancora più difficile e
necessario, dell'obiezione.
(tratto da : PE aprile 2011)
IL SETTIMO ARTICOLO DELLA LEGGE SCOUT
Quando Baden-Powell scrisse la prima versione della legge
scout questa diceva <obbedisce agli ordini del suo caposquadriglia e
caporeparto senza fare difficoltà>. Facendo richiamo alla disciplina
militare sottolineava che lo scout obbediva anche se riceveva un
ordine che non condivideva. Solo dopo aver eseguito l'ordine
prontamente, al momento opportuno avrebbe potuto far presente le
ragioni per cui non era d'accordo.
Ma dopo pochi decenni vennero Mussolini, Hitler, Stalin e
altri dittatori del XX secolo, che hanno rivelato come l'illuminismo
con la fiducia un po' astratta ed aprioristica nel progresso e nella
razionalità umana non proteggevano l'umanità dalle leggi e ordini
ingiusti.
Autorità, leggi ed ordine sono necessari per la crescita e la
serenità dell'uomo singolo che teme il disordine: quando la
confusione aumenta il cittadino tende a sostenere i partiti forti.
Persino Cristo per realizzare e diffondere nel mondo il suo messaggio
- benché spirituale- ha ritenuto necessario affidarlo ad una società
organizzata con gerarchie e leggi. Ma da sempre, le autorità abusano
del loro potere e le leggi possono risultare ingiuste, quindi bisogna
imparare a distinguere per obbedire prontamente e con impegno alle
leggi e agli ordini giusti.
Il settimo punto della legge scout enunciato dall'AGESCI è
stato integrato nella forma <la guida e lo scout sanno obbedire> per
evidenziare che è indispensabile essere educati a discernere il bene
ed il male. In questo contesto lo slogan di don Milani < l'obbedienza
non è più una virtù> va compreso bene. È un richiamo contro
l'obbedienza cieca che in passato era stata sostenuta da falsi
educatori.
Bisogna imparare a fare ordine tra le leggi a cui si deve
obbedire e a stabilire un corretto rapporto tra i diversi livelli della
legalità, considerando che non l'uomo è fatto per la legge, ma
viceversa è la legge fatta per l'uomo. Questo problema non è certo
nuovo, basti considerare che a Gesù stesso fu rimproverato di
guarire di sabato.
La società, e sempre più quella moderna, ha un grandissimo
bisogno di legalità per lo sviluppo dell'economia e per garantire la
crescita personale dei cittadini nel rispetto reciproco e nella pace.
Quindi, è necessario mettere ordine e capire quali sono le leggi a cui
bisogna obbedire, per evitare che il problema non venga affrontato
dal singolo cittadino, finendo nel relativismo assoluto, giustificando
qualunque scelta con la buona fede e la propria coscienza, scelta
spesso costruita sull'egoismo e sulla convenienza.
(Da : Una bussola per la vita - edizione scout - Maurizio Millo)
Confrontiamoci:
A - Quali sono i motivi che hanno indotto l'AGESCI all'attuale
formulazione del VII punto della legge scout. La formulazione in
atto <<sanno obbedire>> è ancora valida oppure si rende
necessaria una nuova formulazione, in sintonia con il tempo
attuale?
B - I giovani del 21° secolo come vivono l'ubbidienza? È ritenuta un
valore positivo o negativo?
C - Quali personaggi ci vengono in mente che, con le loro scelte
controcorrente o andando contro leggi ingiuste, hanno
rivoluzionato in maniera positiva le leggi ed il modo di pensare?
E perché?
Cenni biografici
Ghandi
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Martin
Luter
King
Malala
Yousafzai
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Don
Lorenzo
Milani
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Don
Peppe
Diana
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Nelson
Mandela
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E’ conosciuto anche con l’appellativo di “grande
anima”
Nasce il 2 ottobre 1869 e muore il 30 gennaio
1948
Apostolo della resistenza non violenta
(Satyagraha)
Nel suo Paese è stato riconosciuto come Padre
della Nazione
U.S.A., 1929- 1968
Pastore protestante e attivista dei diritti civili
Fu definito anche “redentore dalla faccia nera”
Assassinato a Menphis
Pakistan, 1997
È la più giovane candidata al Premio Nobel per la
pace,
Insignita del Premio Sakharov per la libertà di
pensiero
Firenze, 1923- 1967
Figlio di una ricca famiglia borghese. Il padre era
laureato in chimica , la mamma,di origine
ebraica, da giovane era sta a lezione da James
Joyce.
Nella primavera del 1943 andò a trovare Don
Raffaele Bensi, sacerdote molto amato dai
fiorentini. Il 3 giugno dello stesso anno si
convertì e otto giorni dopo ricevette la cresima.
Entrò in seminario nel novembre del 1943,
contro il parere dei genitori.
Priore di Barbiana
Casaldiprincipe, 1958 da una famiglia di
proprietari terrieri - 1994
Caporeparto Agesci
Assistente ecclesiastico del Gruppo Scout di
Aversa e dei Foulard Blanc
Assassinato mentre si accinge a celebrare le S.
Messa per il suo impegno anti-camorra
Sudafrica, 18 luglio 1918, 5 dicembre 2013
Protagonista insieme al presidente de Klerk
dell'abolizione dell'apartheid all'inizio degli anni
Novanta
Parole
Ghandi
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Martin
Luther
King
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Malala
Yousafzai
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Don
Lorenzo
Milani
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“Per me è sempre stato un mistero perché gli
uomini si sentano onorati quando impongono
delle umiliazioni ai loro simili.”
“Rispondendo all'odio con l'odio non si fa altro
che accrescere la grandezza e la profondità
dell'odio stesso.”
La mia esperienza mi ha portato a constatare che
il modo migliore per ottenere giustizia è trattare
gli altri con giustizia”
“Ogni persona che incontri è migliore di te in
qualcosa: in quella cosa impara”
"...siamo stanchi di essere segregati e umiliati.
Non abbiamo altra scelta che la protesta. Il
nostro metodo sarà quello della persuasione,
non della coercizione...
“La non collaborazione al male è un obbligo
come lo è la collaborazione al bene”.
“Non è grave il clamore chiassoso dei violenti,
bensì il silenzio spaventoso delle persone
oneste.”
“La legge e l'ordine saranno rispettati solo
quando si concederà la giustizia a tutti
indistintamente.”
“Non mi importa di dovermi sedere sul
pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è
istruzione. E non ho paura di nessuno.”
“Un bambino, un insegnante, una penna e un
libro possono cambiare il mondo.
L'istruzione è l'unica soluzione”
“Questo non è il mio giorno, ma è il giorno di
coloro che combattono per una causa, io sono
qui per dare la parola anche a chi non ha voce”
"Se ai giovani non si mettono in mano le penne, i
terroristi daranno loro le armi."
“Quando avete buttato nel mondo di oggi un
ragazzo senza istruzione, avete buttato in cielo
un passerotto senza ali
“Su una parete della nostra scuola c’è scritto
grande: “I care”. È il motto intraducibile dei
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Don
Peppe
Diana
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Mandela
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giovani americani migliori: “me ne importa, mi
sta a cuore”. Esatto il contrario del motto
fascista “me ne frego”
“Ogni parola che non impari oggi è un calcio nel
culo di domani”
“Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono
tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai
più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni,
che non credano di potersene far scudo né
davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna
che si sentano ognuno responsabile di tutti”
"La felicità è la possibilità di poter sognare. È la
libertà di potersi rinchiudere nei propri pensieri
quando si vuole. L'uomo senza i sogni,
morirebbe all'istante."
“Assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie
che vedono i loro figli finire miseramente vittime
o mandanti delle organizzazioni della camorra.
Come battezzati in Cristo, come pastori della
Forania di Casal di Principe ci sentiamo investiti
in pieno della nostra responsabilità di essere
“segno di contraddizione”. Coscienti che come
chiesa “dobbiamo educare con la parola e la
testimonianza di vita alla prima beatitudine del
Vangelo che è la povertà, come distacco dalla
ricerca del superfluo, da ogni ambiguo
compromesso o ingiusto privilegio, come servizio
sino al dono di sé, come esperienza
generosamente vissuta di solidarietà”.
“Il nostro impegno profetico di denuncia non
deve e non può venire meno. Dio ci chiama ad
essere profeti.”
“I veri leader devono essere in grado di
sacrificare tutto per il bene della loro gente”
“Esseri liberi non significa semplicemente
rompere le catene ma vivere in modo tale da
rispettare e accentuare la libertà altrui.”
“Provare risentimento è come bere veleno
sperando che ciò uccida il nemico.”
“L’educazione è l’arma più potente che si può
usare per cambiare il mondo.”
Azioni
Ghandi
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Martin
Luther
King
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1919 1^ campagna di disobbedienza civile:
boicottaggio delle merci inglesi e il non
pagamento delle tasse
1921 2^ campagna di disobbedienza civile:
rivendicazione del diritto dell’indipendenza
1930 3^ campagna di disobbedienza civile: la
marcia del sale
Ha propugnato la satyagraha, cioè la resistenza
all’oppressione tramite la disobbedienza civile di
massa alle leggi del dominatore inglese.
Si è battuto dapprima contro l’apartheid in
Sudafrica, quindi si sposta in India dove inizia la
sua opera.
Sfida e disobbedisce alle leggi imposte al suo
Paese subendo le punizioni prevista senza
reagire con la violenza.
Indice lunghi scioperi dei contadini costretti a
coltivare piantagioni imposte dal governo (mal
retribuite) e non quelle necessarie alla loro
sopravvivenza alimentare
Nobel per la Pace nel 1984
sempre esposto in prima linea affinché fosse
abbattuto, nella realtà americana degli anni
cinquanta e sessanta, ogni sorta di pregiudizio
etnico
Ha predicato l'ottimismo creativo dell'amore e
della resistenza non violenta, come la più sicura
alternativa sia alla rassegnazione passiva che alla
reazione violenta preferita da altri gruppi di
colore, come ad esempio, i seguaci di Malcolm X
Leader dei diritti civili
si adoperò soprattutto per effettuare tra la
popolazione nera la cosiddetta "campagna del
voto". Tenne un discorso a Washington il 17
maggio 1957 intitolato Give Us the Ballot
uno dei suoi più famosi discorsi sull'abolizione
della discriminazione razziale inizia con le parole:
" I have a dream ! "
Nel 1957 fonda la "Southern Christian
Leadership Conference" (Sclc), un movimento
Malala
Yousafzai
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Don
Milani
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Don
Peppe
Diana
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che si batte per i diritti di tutte le minoranze e
che si fonda su ferrei precetti legati alla nonviolenza di stampo ghandiano
All'età di tredici anni apre un blog, nel quale
documenta il regime dei talebani pakistani,
contrari ai diritti delle donne ad istruirsi
Il 9 ottobre 2012 è stata gravemente ferita alla
testa e al collo da uomini armati saliti a bordo
del pullman scolastico su cui lei tornava a casa
da scuola.
Il 12 luglio 2013, in occasione del suo sedicesimo
compleanno, parla al palazzo delle nazioni unite
a New York, lanciando un appello all'istruzione
dei bambini di tutto il mondo
È la più giovane candidata al Premio Nobel per la
Pace 2013
Organizzò una scuola per bambini e giovani, la
Scuola di Barbiana, a 40km da Firenze. Barbiana
mancava assolutamente dei servizi più
elementari: niente luce elettrica, niente
telefono, niente acqua, niente strada. A Barbiana
tutti i ragazzi andavano a scuola “dal prete” dalla
mattina presto fino a buio, estate e inverno.
Nessuno era “negato per gli studi”.
Fu accusato di istigazione a delinquere per aver
difeso gli obiettori di coscienza dal disprezzo di
alcuni cappellani militari
Fonda a San Donato di Calenzano una scuola
popolare serale x operai e contadini
A sua difesa scrisse la “Lettera ai giudici”, in cui
sosteneva l’esigenza di obbedire alla Verità
prima che alle Leggi stabilite
Attribuiva alla scuola il fine grande e onesto di
“dedicarsi al prossimo”, sosteneva l’esigenza di
diffondere una cultura pronta a difendere gli
ultimi anziché abbandonarli.
Scrive una lettera:”Per amore del mio popolo”,
un documento diffuso a Natale del 1991 in tutte
le chiese di Casal di Principe e della zona
aversana, un manifesto dell'impegno contro il
sistema criminale camorristico
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Nelson
Mandela
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cerca di aiutare la gente nei momenti resi difficili
dalla camorra, negli anni del dominio assoluto
della camorra casalese;
sacerdote che si è sempre scontrato con la
camorra cercando di salvare i giovani da un
futuro nella criminalità organizzata
decide di non trasferirsi a Roma, rifiuta dei soldi
dalla camorra, organizza una fiaccolata in paese
ed aiuta Teresa Capuano, figlia di un boss
destinata a sposare un ragazzo di una famiglia
rivale
aiuta anche gli immigrati clandestini, sfruttati
dalla camorra
Presidente del Sudafrica dal maggio 1994 al
giugno 1999;
Premio Nobel per la pace nel 1993.
Per la sua lotta contro l’apartheid, subì una
detenzione durata 26 anni,
Nonostante la dura oppressione e la lunga
detenzione, rinunciò a una strategia violenta e
vendicativa in favore di un processo di
riconciliazione e pacificazione.
L’OBBEDIENZA QUESTA SCONOSCIUTA
OB-AUDIRE = ASCOLTARE STANDO DI FRONTE
Sono obbediente o disobbediente se:
1.
Il semaforo è rosso, non c’è nessuno e io passo ugualmente
2.
Il semaforo è rosso, ho un ferito a bordo e io passo ugualmente
3.
Non mi sono preparato per l’interrogazione, e non vado a scuola
4.
Siamo in Quaresima, non mangio carne oggi che è venerdì, ma
stasera starò fuori fino a tardi con i miei amici, al bar dove ci
troviamo per bere e per giocare
5.
Nascondo bevande alcoliche in fondo allo zaino all’uscita scout
6.
Rivelo ai capi che un mio compagno nasconde bevande alcoliche
in fondo allo zaino
7.
Rispetto i limiti di velocità anche se ho fretta
8.
Segno un goal di mano, l’arbitro non vede e lo ritiene valido, ed
io non dico niente
In quali occasioni della mia vita mi sono trovato di fronte alla
scelta se fosse giusto obbedire o no?
Maria, donna obbediente
Don Tonino Bello
Si sente spesso parlare di obbedienza cieca. Mai di
obbedienza sorda. Sapete perché? Per spiegarvelo devo ricorrere
all'etimologia, che, qualche volta, può dare una mano d'aiuto anche
all'ascetica. Obbedire deriva dal latino "ob-audire". Che significa:
ascoltare stando di fronte. Quando ho scoperto questa origine del
vocabolo, anch'io mi sono progressivamente liberato dal falso
concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della mia
volontà, e ho capito che essa non ha alcuna rassomiglianza, neppure
alla lontana, col supino atteggiamento dei rinunciatari. Chi ubbidisce
non annulla la sua libertà, ma la esalta. Non mortifica i suoi talenti,
ma li traffica nella logica della domanda e dell'offerta. Non si avvilisce
all'umiliante ruolo dell'automa, ma mette in moto i meccanismi più
profondi dell'ascolto e del dialogo. C'è una splendida frase che fino a
qualche tempo fa si pensava fosse un ritrovato degli anni della
contestazione: "obbedire in piedi". Sembra una frase sospetta, da
prendere, comunque, con le molle. Invece è la scoperta dell'autentica
natura dell'obbedienza, la cui dinamica suppone uno che parli e
l'altro che risponda. Uno che faccia la proposta con rispetto, e l'altro
che vi aderisca con amore. Uno che additi un progetto senza ombra
di violenza, e l'altro che con gioia ne interiorizzi l'indicazione. In
effetti, si può obbedire solo stando in piedi. In ginocchio si soggiace,
non si obbedisce. Si soccombe, non si ama. Ci si rassegna, non si
collabora. Teresa, per esempio, che è costretta a dire sì a tutte le
voglie del marito e non può uscire mai di casa perché lui è geloso, e la
sera, quando torna ubriaco e i figli piangono, lei si prende un sacco di
botte senza reagire, è una donna repressa, non è una donna
obbediente. Il Signore un giorno certamente la compenserà: ma non
per la sua virtù, bensì per i patimenti sofferti. L'obbedienza,
insomma, non è inghiottire un sopruso, ma è fare un'esperienza di
libertà. Non è silenzio di fronte alle vessazioni, ma è accoglimento
gaudioso di un piano superiore. Non è il gesto dimissionario di chi
rimane solo con i suoi rimpianti, ma una risposta d'amore che
richiede per altro, in chi fa la domanda, signorilità più che signoria.
Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la
persona a cui vuol bene, che fa combaciare, con la sua, la propria
volontà. Ecco l'analisi logica e grammaticale dell'obbedienza di Maria.
Questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua
libertà neppure dal Creatore. Ma dicendo "Sì", si è abbandonata a lui
liberamente ed è entrata nell'orbita della storia della salvezza con
tale coscienza responsabile che l'angelo Gabriele ha fatto ritorno in
cielo, recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che
aveva portato sulla terra nel viaggio di andata. Forse non sarebbe
sbagliato intitolare il primo capitolo di Luca come l'annuncio
dell'angelo al Signore, più che l'annuncio dell'angelo a Maria.
Le pinze - da “Un anno sull’altipiano” di E. Lussu
In quei giorni, il maggiore Carriera, comandante del 2°
battaglione del nostro reggimento, era stato promosso tenente
colonnello. A lui fu affidato il compito di dirigere l'assalto nel nostro
settore. Egli era uomo di grande volontà. Il tenente colonnello
aveva il seguente piano: la notte, far brillare i tubi; all'alba,
mandare esploratori e far allargare le brecce dei reticolati con le
pinze tagliafili; subito dopo, attaccare. Quando io sentii parlare di
pinze, mi si rizzarono i capelli. Con le pinze, sul Carso, avevamo
perduto i migliori soldati, sotto i reticolati nemici.
Il capitano Bravini, anch'egli comandante di battaglione, ma
inferiore di grado, faceva tutto quanto il tenente colonnello gli
comandava, senza un'obbiezione.
Il tenente colonnello chiese al capitano Bravini il nome di un
ufficiale del battaglione da mandare sotto i reticolati.
Senza resistenza, il capitano suggerì il nome del tenente Santini
e aggiunse che nessuno, come lui, conosceva il terreno. Per un
portaordini, mandò a chiamare Santini.
Ora, la luce dell'alba si era fatta più viva e noi potevamo
distinguere tutto l'andamento delle trincee nemiche. Non ci voleva
molto per capire che si mandava Santini a morire inutilmente.
Io azzardai ancora un'obbiezione: “Ora c'è molta più luce, - dissi.
- Inoltre, Santini è uscito, anche stanotte, con i tubi. Non si
potrebbe rinviare all'alba di domani?”
Il mio capitano non osò dire una parola. Il tenente colonnello mi
rivolse uno sguardo ostile e mi disse: “ Si metta sull'attenti e faccia
silenzio!”
Il tenente Santini arrivò seguito dal suo portaordini. Il tenente
colonnello gli spiegò quello che si voleva da lui e gli chiese se volesse
offrirsi volontario. Egli era audace e aveva troppo orgoglio. Io avevo
paura ch'egli rispondesse di sí. Mi avvicinai alle sue spalle e gli
sussurrai, tirandogli le falde della giubba:
- Di' di no.
- È un'operazione impossibile, - rispose Santini. - È troppo tardi.
- Io non le ho chiesto, - ribatté il tenente colonnello, - se sia presto o
tardi. Io le ho chiesto se si offre volontario. Io gli tirai ancora le falde
della giubba.
- Signor no, - rispose Santini.
Il tenente colonnello guardò Santini, quasi non prestasse fede alle
sue orecchie, guardò il capitano Bravini, guardò me, guardò tutto il
gruppo di ufficiali e di soldati che erano addossati alla trincea, vicino
a noi, ed esclamò:
- Questa è codardia!
- Lei mi ha posto una domanda, io le ho risposto. Non è questione
né di codardia, né di coraggio.
- Lei non si offre volontario? - chiese il tenente colonnello.
- Signor no.
- Ebbene, io le ordino, dico le ordino, di uscire egualmente, e
subito.
Il tenente colonnello parlava calmo, la sua voce aveva
l'espressione d'una preghiera gentile, quasi supplichevole. Ma il suo
sguardo era duro.
- Signor sì, - rispose Santini. - Se lei mi dà un ordine, io non posso che
eseguirlo.
- Prenda le pinze ed esca - ordinò il tenente colonnello, con la voce
dolce e gli occhi freddi.
- Signor sì, - disse Santini.
Santini prese le pinze. Si slacciò dal cinturone un pugnale
viennese dal corno di cervo, trofeo di guerra, e me l'offerse.
- Tienilo per mio ricordo, - mi disse.
Era pallido. Estrasse la pistola e scavalcò la trincea. Il
portaordini, che nessuno di noi aveva notato, dopo il suo arrivo in
compagnia del tenente, prese una pinza e uscì dalla trincea.
Io ero ancora con il pugnale in mano. Il capitano Bravini beveva
alla borraccia. Mi buttai alla feritoia più vicina e vidi i due, dritti in
piedi, uno a fianco dell'altro procedere, a passo, verso le trincee
nemiche. Era già giorno.
Gli austriaci non sparavano. Eppure i due avanzavano allo
scoperto.
In quel punto, fra le nostre trincee e quelle nemiche, non vi
erano più di cinquanta metri.
Gli alberi erano radi e i cespugli bassi. Se si fossero buttati a terra,
sotto i cespugli, sarebbero potuti arrivare non visti, almeno fino ai
reticolati.
Santini rimise la pistola nella fondina e avanzò con in mano le sole
pinze. Il portaordini gli era sempre a fianco, con il fucile e le pinze.
Traversarono il breve tratto e si fermarono ai reticolati. Dalle
trincee, nessuno sparò.
Il cuore mi batteva come un martello. Levai la testa dalla feritoia e
guardai la nostra trincea. Tutti erano alle feritoie.
Quanto tempo rimasero dritti, di fronte ai reticolati? Io non ne
ho ricordo.
Santini fece infine, ripetutamente, con la mano, un gesto verso il
suo compagno per farlo ritornare indietro. Forse, egli pensava di
poterlo salvare. Ma il gesto era il movimento stanco d'un uomo
scoraggiato. Il soldato rimase al suo fianco.
Santini s'inginocchiò accanto ai reticolati e, con le pinze, iniziò il
taglio dei fili. Il portaordini fece altrettanto. Fu allora che, dalla trincea
nemica, partì una scarica di fucili. I due stramazzarono al suolo.
Da “Lettera ai cappellani militari” di Don Lorenzo Milani
Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi
della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.
....................
Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste
divisioni. Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e
stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso,io non ho Patria e
reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un
lato, privilegiati e oppressori dall'altro.
Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.
....................
Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito
non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi
preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con
l'Obbedienza «cieca, pronta, assoluta» quanti mali sarebbero stati
evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti).
....................
Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le
giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma
rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che
per le loro idee pagano di persona.
....................
Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno
un «distinguo»che vi riallacci alla parola di San Pietro: «Si deve
obbedire agli uomini o a Dio?». E intanto ingiuriate alcuni pochi
coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.
....................
Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti.
Certo il luogo dei profeti è la prigione,ma non è bello star dalla parte
di chi ce li tiene.
....................
Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate:
Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e
ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le
divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia,
Libertà, Verità. Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai
giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il
bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e
quella della sua vittima.
....................
Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza
loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo
malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro
nobile ideale umano.
Da “Lettera ai giudici” di Don Lorenzo Milani
Signori Giudici, vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri
in aula. Non sarà infatti facile ch'io possa venire a Roma perché sono da
tempo malato.
....................
Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di
sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote
che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in
carcere per un ideale.
....................
Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande «I care». È il motto
intraducibile dei giovani americani migliori. «Me ne importa, mi sta a
cuore». È il contrario esatto del motto fascista «Me ne frego».
....................
In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei
ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir
loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da
osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole).
Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il
sopruso del forte) essi dovranno battersi perche siano cambiate.
....................
Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui
l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle
tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli
uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico
responsabile di tutto.
...................
Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di andare
a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi
esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho
insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da
paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una
casa di cura. Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri
d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me. Poi forse
qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e così
non riusciremo a salvare l'umanità. Non è un motivo per non fare fino
in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci
salveremo almeno l'anima.
Il Nemico e l’Uomo – da “ Un anno sull’altipiano” di E. Lussu
Il mio battaglione era sempre in linea e attendevamo che il
battaglione di rincalzo ci desse il cambio…. La notte precedente a
quella del cambio, io stesso m'ero voluto mettere in osservazione. Il
caporale era uscito molte volte di pattuglia, ed era pratico del luogo.
La luna rischiarava il bosco e, all'apparire di qualche raro razzo, la
luce improvvisa dava un'apparenza di movimento alla foresta. Era
difficile capire se si trattasse sempre d'una illusione. Potevano anche
essere uomini che si spostassero, non alberi che sembrassero
muoversi. Noi due eravamo usciti all'estrema sinistra della
compagnia, nel punto in cui le nostre trincee erano piú vicine alle
trincee nemiche. Camminando carponi, eravamo arrivati dietro un
cespuglio, una decina di metri oltre la nostra linea, una trentina
dall'austriaca. Un leggero avvallamento separava le nostre trincee dal
cespuglio, e questo coronava un rialzo di terreno dominante la
trincea antistante.
Eravamo là immobili, indecisi se avanzare ancora oppure fermarci,
quando ci parve di notare un movimento nelle trincee nemiche, alla
nostra sinistra. In quel tratto di trincea, non v'erano alberi: non era
quindi possibile si trattasse di una illusione ottica. Comunque, noi
constatavamo di essere in un punto da cui si poteva spiare la trincea
nemica, d'infilata….. Addossati al cespuglio, il caporale ed io
rimanemmo in agguato tutta la notte, senza riuscire a distinguere
segni di vita nella trincea nemica. Ma l'alba ci compensò dell'attesa.
Prima, fu un muoversi confuso di qualche ombra nei camminamenti,
indi, in trincea, apparvero dei soldati con delle marmitte. Era certo la
corvée del caffè. I soldati passavano, per uno o per due, senza
curvarsi, sicuri com'erano di non esser visti, ché le trincee e i
traversoni laterali li proteggevano dall'osservazione e dai tiri d'infilata
della nostra linea, Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano
là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su
un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo
forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per
comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch'egli era
attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro
lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava
improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi
avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la
resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose
lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili.
Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli
austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e
soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si
muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano
facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni.
Strana cosa. Un'idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora
prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto
prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che
prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche
consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può
vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la
ragione del mio stupore?
Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno….. Il
movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo con cui era
vestito, si capiva ch'era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio
giallo e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un
ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola
militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire
ancora piú giovane. Sembrava non dovesse avere neppure
diciott'anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo,
non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in
quel momento. Io non vedevo che l'ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio. Far la guerra, per anni, significa
acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra
uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo
un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante
pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era
ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà
precisa, ma cosí, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me
lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra,
come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato
immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in
ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come
una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo
prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra,
e cominciai a puntare.
L'ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella
sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il
fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi
fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio
atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti
pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che
toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a
pensare.
Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente
e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino non erano in
conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura
necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle
tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la
guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente,
due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi
contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo
che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e
tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato
io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il
dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato
mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri.
No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare.
E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero
affatto nervoso…. Forse, era quella calma completa che allontanava
il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane,
inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare.
Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne
uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al
suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà,
mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva
piú chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare cosi,
a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre
all'assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una
cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire:
"Ecco, sta' fermo, io ti sparo, io t'uccido " è un'altra. È assolutamente
un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un'altra
cosa. Uccidere un uomo, cosí, è assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è
che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s'erano formate
due coscienze, due individualità, una ostile all'altra. Dicevo a me
stesso: "Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, cosí!"
Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare
l'esame di quel processo psicologico. V'è un salto che io, oggi, non
vedo piú chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella
conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io
stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile
poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al
mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
- Sai... cosí... un uomo solo... io non sparo.
Tu, vuoi?
Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
- Neppure io.
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo
prendemmo anche noi. La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di
rincalzo ci dette il cambio.
DON LORENZO MILANI
Don Lorenzo nacque a Firenze il 27 maggio 1923 da una colta
e ricca famiglia borghese. Il padre Albano, laureato in chimica, era
cultore di studi umanistici, conosceva sei lingue, viveva di rendita; la
madre, Alice Weiss, era di origine israelita. Lorenzo aveva due fratelli
Adriano, medico, ed Elena.
I tre bambini vennero battezzati, insieme, il 29 giugno del 1923.
Nel 1930 da Firenze la famiglia si trasferì a Milano dove Lorenzo
seguì gli studi fino alla maturità classica. Dall’estate del 1941,
nonostante il parere contrario dei genitori, si dedicò alla pittura
iscrivendosi all’Accademia di Brera. Qui conobbe una ragazza, Carla,
che si innamorò di lui. D.M. dirà di lei: “è l’unica persona al mondo a
cui ho fatto del male”.
Nell’ottobre del 1942, a causa della guerra, la famiglia Milani ritornò
a Firenze dove Lorenzo scoprì il Vangelo. Disse ad un amico: “Ho letto
la messa. Ma sai che è più interessante dei “Sei personaggi in cerca
d’autore”?”
In questo periodo incontrò don Raffaello Bensi, un autorevole
sacerdote fiorentino che fu da allora fino alla morte il suo direttore
spirituale.
Nel novembre del 1943 entrò in Seminario Maggiore a Firenze.
Anche questa volta la sua famiglia non era d’accordo ma accettò la
sua scelta. Non fu uno studente modello, seguiva ciò che riteneva
utile (“se ho fame mangio, non digiuno per mostrarmi più devoto!”).
Il 13 luglio 1947 fu ordinato sacerdote. Celebrò la prima messa il
giorno seguente in San Michele Visdomini, parrocchia di don Bensi
(“ero preoccupato, adesso dove me lo mandano questo ragazzo? Se lo
mandano accanto ad un parroco che non lo capisce son dolori”).
Come prima destinazione fu mandato in via provvisoria a
Montespertoli dove iniziò a creare una specie di doposcuola.
Poi, nell’ottobre 1947, venne trasferito a San Donato di Calenzano
(FI) come cappellano del vecchio proposto don Pugi, che si affezionò,
ricambiato, al giovane sacerdote (“….Perché l’è un po’ in quella
maniera ma gli è tanto bòno”).
A San Donato Don Milani fondò una scuola popolare serale per i
giovani operai e contadini della sua parrocchia. Diceva: “il catechismo
non deve essere una cosa astratta, ma deve essere collegato alla
storia vera”.
I primi anni di Calenzano furono molto difficili per don Lorenzo, per
l’incomprensione dei giovani della parrocchia che non capivano quel
pretino. Organizzò in canonica la scuola serale dicendosi che erano
troppo ignoranti per capire. Scuola non di religione, ma scuola e basta.
Problemi come l’analfabetismo, la disoccupazione, lo sfruttamento del
lavoro minorile, la crisi degli alloggi, la proprietà privata erano per lui
semplicemente ostacoli da prendere a calci in quanto gli
ingombravano il cammino di predicatore di Dio.
Ovviamente, non piacque affatto a quei fedeli che avevano sempre
fatto il bello e cattivo tempo in sacrestia, che corsero subito in Curia.
Il 14 novembre 1954 don Pugi morì e don Lorenzo fu nominato
priore di Barbiana, una piccola parrocchia di montagna dove
mancavano i servizi più elementari: la luce, l’acqua, il telefono, la
strada…. Arrivò a Barbiana il 7 dicembre 1954.
Fin dai primi giorni cominciò a radunare i giovani della nuova
parrocchia in canonica con una scuola popolare simile a quella di San
Donato.
Nel 1956 rinunciò alla scuola serale per i giovani del popolo e
organizzò per i primi sei ragazzi che avevano finito le elementari una
scuola di avviamento industriale. Su una delle pareti della scuola
c’era scritto grande:“I CARE”: mi importa!!!
Nel maggio del 1958 dette alle stampe Esperienze pastorali iniziato
otto anni prima a San Donato. Nel dicembre dello stesso anno il libro
fu ritirato dal commercio per disposizione del Sant’Uffizio, perché
ritenuta “inopportuna” la lettura.
Nel dicembre del 1960 fu colpito dai primi sintomi del male
(linfogranuloma) che sette anni dopo lo portò alla morte.
Nel febbraio del 1965 scrisse una lettera aperta ad un gruppo di
cappellani militari toscani, che in un loro comunicato avevano
definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento
cristiano dell’amore ed espressione di viltà”. La lettera fu incriminata
e don Lorenzo rinviato a giudizio per apologia di reato. Al processo,
che si svolse a Roma, non poté essere presente a causa della sua
grave malattia. Inviò allora ai giudici un’autodifesa scritta. E’ in
questo scritto che si trova la celebre frase: “….l’obbedienza non è
ormai più una virtù…”.
Il 15 febbraio 1966 il processo in prima istanza si concluse con
l’assoluzione, ma in seguito, quando Don Lorenzo era già morto, su
ricorso del pubblico ministero la Corte d’Appello modificò la sentenza
di primo grado e condannò lo scritto.
Nel luglio 1966 insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana iniziò la
stesura di Lettera a una professoressa.
Don Lorenzo morì a Firenze il 26 giugno 1967 a 44 anni. Prima di
morire disse “ora mi sento l’ultimo anch’io”.
Fu sepolto a Barbiana con i paramenti sacri e gli scarponi da
montagna.
IF
Se saprai mantenere la testa quando tutti intorno a te
la perdono, e te ne fanno colpa.
Se saprai avere fiducia in te stesso quando tutti ne dubitano,
tenendo pero' considerazione anche del loro dubbio.
Se saprai aspettare senza stancarti di aspettare,
O essendo calunniato, non rispondere con calunnia,
O essendo odiato, non dare spazio all'odio,
Senza tuttavia sembrare troppo buono, né parlare troppo saggio;
Se saprai sognare, senza fare del sogno il tuo padrone;
Se saprai pensare, senza fare del pensiero il tuo scopo,
Se saprai confrontarti con Trionfo e Rovina
E trattare allo stesso modo questi due impostori.
Se riuscirai a sopportare di sentire le verità che hai detto
Distorte dai furfanti per abbindolare gli sciocchi,
O a guardare le cose per le quali hai dato la vita, distrutte,
E piegarti a ricostruirle con i tuoi logori arnesi.
Se saprai fare un solo mucchio di tutte le tue fortune
E rischiarlo in un unico lancio a testa e croce,
E perdere, e ricominciare di nuovo dal principio
senza mai far parola della tua perdita.
Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi
nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti,
E a tenere duro quando in te non c'è più nulla
Se non la Volontà che dice loro: "Tenete duro!"
Se saprai parlare alle folle senza perdere la tua virtu',
O passeggiare con i Re, rimanendo te stesso,
Se né i nemici né gli amici più cari potranno ferirti,
Se per te ogni persona contera', ma nessuno troppo.
Se saprai riempire ogni inesorabile minuto
Dando valore ad ognuno dei sessanta secondi,
Tua sara' la Terra e tutto ciò che è in essa,
E — quel che più conta — sarai un Uomo, figlio mio!
IF è il titolo di una celeberrima poesia di Joseph Rudyard Kipling scritta nel
1895 dedicata al figlio. La si trova nel capitolo "Brother Square Toes" del
libro "Ricompense e Fate" ("Rewards and Fairies").
Da :
Il coraggio come virtù: resistenza e resa
Gian Maria Zanoni
SERVIRE – n. 3/2013
Le “virtù cardinali”
- prudenza, giustizia, fortezza e temperanza - danno la giusta misura
e la corretta interpretazione della virtù del coraggio
Un invito è quanto di più profondamente e impegnativamente
umano si possa immaginare: sia per chi lo fa, che per chi lo riceve.
L’invito è l’apparire della possibilità, e quindi della necessità, di una
scelta.
Tra un ordine e un invito c’è un abisso. Per trasformare il primo nel
secondo ci vuole molto coraggio: analizzando la dinamica dell’invitare
si colgono infatti le manifestazioni fondamentali del coraggio:
La capacità d’immaginare un futuro : chi invita deve assumersi la
responsabilità del senso, dei contenuti e della validità di ciò che
propone, deve avere fiducia nel progetto e sicurezza nelle personali
capacità di realizzarlo. Per avere credibilità è necessario sconfiggere
la paura dell’ignoto, del dubbio, dell’ignoranza, della fragilità, sia
davanti agli altri, che, soprattutto, davanti a noi stessi.
Ma anche chi accetta l’invito, deve esercitare il coraggio sia
dell’analisi che della corresponsabilità. Un invito si può declinare,
perché non è un ordine. Gli ordini non si discutono, perché tolgono,
per definizione, ogni possibilità di scelta. Ma un invito, per sua
natura, apre alternative che richiedono discernimento e volontà. È
per questo che un ordine può essere un’autentica liberazione,
allontanando il dubbio, il rimorso, la paura.
Il saper affrontare il rifiuto: ciò che distingue l’ordine dall’invito non
è il materiale rifiuto (anche un ordine può essere rigettato), ma è
l’implicito e previo riconoscimento della legittimità del rifiuto. Chi
veramente invita, riconosce l’autonomia altrui, la responsabilità di
scegliere come fonte della dignità umana. Il coraggio di affrontare il
rifiuto dimostra anche la bontà delle proprie convinzioni, che non
trovano nell’assenso altrui il fondamento della loro validità, e,
soprattutto crea lo spazio per una libera adesione, per l’assunzione di
responsabilità, per una crescita autonoma.
La fedeltà: dire ”seguimi”, significa proporre un legame che dovrà
inevitabilmente svilupparsi nel tempo. Lungo o breve che sia il
cammino, esso sarà percorso in comune. Ogni azione futura è legata
ad un’altra presenza, libera ma duratura: l’invito impone, a quanti vi
aderiscono, il coraggio della fedeltà.
Ma nell’immaginare il futuro, nel sopportare i rifiuti, nell’esercizio
della fedeltà possono nascondersi paura o temerarietà,
atteggiamenti che alterano l’autentico invitare.
Come è possibile riconoscere la presunzione, la sfrontatezza o la
superficialità nel formulare o nell’accettare un invito, cioè nell’avere
coraggio? Si impone la ricerca di un criterio di verifica, che consenta
un solido discernimento. Per far ciò è utile ricordare, attualizzandola,
l’antica formulazione delle virtù fondamentali, delle virtù “cardinali”:
la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. L’elenco non è
casuale, perché comprende tutti gli ingredienti della corretta
socialità, cioè di una vita quotidiana vissuta con coraggio, con
l’attenzione costante all’invitare e all’essere invitato.
Le quattro virtù
formano un tutt’uno e non sono praticabili separatamente. La loro
attenta considerazione mostra che esse attribuiscono spessore ed
autenticità le une alle altre.
La fortezza, che indica solidità, costanza
e decisione, è sinonimo di coraggio e ricorda il modo e lo stile
indispensabili all’esercizio delle altre virtù. Il coraggio, senza
prudenza, giustizia e temperanza è cieco e scomposto, è sempre
inadeguato, ed è destinato a degenerare nella temerarietà o nella
paura.
La prudenza non indica l’attenta e preoccupata
considerazione dei possibili pericoli, ma è sinonimo di saggezza. È la
capacità che permette al coraggio d’interpretare il presente e di
pensare il futuro; è lo strumento che dona la vista e consente di non
confondere l’illusione, il sogno con la realtà.
La giustizia dà al
coraggio i parametri per giudicare il passato, affrontare il presente e
costruire il futuro. Delle tre virtù è quella fondamentale, perché ne
giustifica la nascita, ne plasma il carattere, ne impone l’uso. Giustizia
e coraggio si fondano a vicenda, si attribuiscono valore e contenuto,
si danno autenticità. Avere coraggio significa sempre e comunque
avere il coraggio della giustizia. La temperanza, in fine, garantisce al
coraggio, come alle altre virtù, la giusta misura. Una misura adeguata
alle situazioni ed agli scopi, evitando le sproporzioni sia per eccesso
che per difetto. È sempre possibile trasformare un ordine in un invito,
le più forti costrizioni, le situazioni più condizionanti in occasioni di
scelta, in esperienze di libertà? L’Uomo, e soprattutto il credente, ha
questa possibilità, in forza della Grazia, del coraggio, delle virtù. Ma
noi, uomini di tutti i giorni, singoli e fragili individui non possiamo e
non dobbiamo dimenticare che accanto alla resistenza esiste sempre
la resa e che il nostro coraggio non può mai prescindere dalla
considerazione della personale e riaffiorante fragilità.
CORAGGIO
L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper
convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa.
Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è
incoscienza.
Giovanni Falcone