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Previsioni del tempo:
farà un caldo pazzesco
I cambiamenti del clima nei prossimi vent’anni domineranno le scelte politiche, influiranno pesantemente sul sistema economico, saranno all’origine di grandi flussi migratori.
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Tutti i Pae-
si, almeno quelli nei quali i governi sono in grado di guardare al medio e lungo termine, si stan-
nalzamento del livello del mare, alla Cina che dedica
grande attenzione ai rischi di scioglimento del “Terzo Polo”, i grandi ghiacciai dell’Himalaya. Col dubbio di essere in ritardo rispetto a fenomeni che già si stanno scatenando, come dimostrano le terribili alluvioni che hanno
colpito il Pakistan lo scorso anno.
In un suo approfondimento recente (25 novembre
2010), l’Economist si è interrogato, con linguaggio insolitamente poco paludato, sulle ragioni che hanno frenato
le politiche di adattamento: “I gruppi di pressione verdi
e i politici che hanno condotto il dibattito sui cambiamenti di clima sono stati riluttanti a dedicare attenzione agli
adattamenti, pensando che più la gente si dedicava a que-
no preparando a questo sconvolgimento, con grandi opere interne e con mutamenti nelle politiSOTTO Alla luce dei cambiamenti climatici, i ghiacciai dell’Himalaya,
che di aiuto verso le aree del mondo più esposte al climate change.
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C
Il mondo degli affa-
ri ha capito da tempo che la Terra sta cambiando, modificando polizze assicurative (per far
fronte ai grandi disastri), rotte navali (per attraversare l’Artico) e dando vita a un ricco fat-
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di Donato Speroni
Getty Images / P. Bronstein
turato di consulenze.
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’è ancora chi si arrabbia a sentir parlare di adattamento ai cambiamenti climatici: molti ambientalisti sono convinti che non si stia facendo abbastanza per combattere il riscaldamento del pianeta e temono
effetti tanto sconvolgenti da minacciare la civiltà così come noi la conosciamo. Si spera che abbiano torto, ma oggi comunque somigliano sempre più ai soldati che non
accettano l’idea di convivere col nemico e non si arrendono anche quando la guerra è persa. Il riscaldamento,
infatti, ci sarà: i due gradi centigradi di aumento di cui si
è parlato finora nei consessi internazionali saranno certamente raggiunti e forse superati. I cambiamenti del clima nei prossimi vent’anni domineranno le scelte politiche, influiranno pesantemente sul sistema economico,
saranno all’origine di grandi flussi migratori. Tutti i Paesi, almeno quelli nei quali i governi sono in grado di guardare al medio e lungo termine, si stanno preparando a
questo sconvolgimento, con grandi opere interne e con
mutamenti nelle politiche di aiuto verso le aree del mondo più esposte al climate change.
Il mondo degli affari ha capito da tempo che la Terra
sta cambiando, modificando polizze assicurative (per far
fronte ai grandi disastri), rotte navali (per attraversare
l’Artico) e dando vita a un ricco fatturato di consulenze.
east ne aveva già parlato in un dossier del 2007, sul n. 14.
Adesso sono invece i pubblici poteri ad aver compreso
che bisogna muoversi in fretta: dall’Olanda che ha varato un programma di rafforzamento delle dighe contro l’in-
che costituiscono la principale risorsa d’acqua per il Pakistan,
potrebbero scomparire nel giro di mezzo secolo.
Il ghiacciaio Rakaposhi, una montagna della catena del Karakorum.
Il suo nome significa “muro splendente”.
sto, meno sarebbe stata disponibile ad accettare le riduzioni delle emissioni. Parlare di adaptation per molti anni è stato sconveniente, come una scoreggia al tavolo da
pranzo, dice un accademico che da un decennio ha lavorato su questi temi”.
n realtà la gente ha dimostrato assai poca disponibilità a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica, principale responsabile del riscaldamento ambientale. Il protocollo di Kyoto, che regola questa materia, fu approvato nel 1997, ma entrò in
vigore soltanto nel 2005 perché molte nazioni tardavano
a ratificarlo e i suoi limitati effetti scadono comunque nel
2012. Il rinnovo è ancora in alto mare: il vertice di Copenaghen nel 2009 è stato un fallimento e quello di Cancun,
nel dicembre 2010, ha dato risultati modesti, ottenuti grazie alla maggiore disponibilità ambientalista del governo americano con Obama, alla preoccupazione cinese di
non far la parte degli avvelenatori del mondo (com’era
I
Getty Images / P. Bronstein
CLIMA
Una falda di ghiacciaio in movimento dal Rakaposhi (7788 mt)
visto da Minapin, frontiera nordoccidentale del Pakistan.
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accaduto a Copenaghen) e alla grande abilità di mediazione della padrona di casa Patricia Espinosa, ministro
degli Esteri messicano. I limitati successi di Cancun si sono ottenuti soprattutto perché l’Onu non poteva permettersi un altro fallimento: un fondo di 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare i Paesi in via di sviluppo a far
fronte al taglio delle emissioni, una maggiore enfasi sulla tutela delle foreste tropicali, “polmoni della Terra”, un
accordo sui trasferimenti di tecnologie pulite. Ma l’obiettivo, più volte proclamato, di contenere a due gradi l’innalzamento medio della temperatura del pianeta sembra
molto lontano dal poter essere raggiunto.
Ai ritardi nella presa di coscienza di questa situazione
hanno contribuito le polemiche che hanno investito gli
ambientalisti per aver drammatizzato gli effetti del riscaldamento globale e che hanno messo sotto accusa i vincitori del Premio Nobel per la Pace 2007: l’ex vicepresidente americano Al Gore e l’International Panel on Climate
Change (Ipcc), l’agenzia dell’Onu che studia i cambiamenti climatici. In particolare, il presidente dell’Ipcc,
l’indiano Rajendra Pachaura, è stato lì lì per andarsene,
ma alla fine è rimasto al suo posto.
La critica principale mossa al Quarto rapporto del panel di scienziati dell’Ipcc, pubblicato nel 2007, era l’in-
fondatezza della previsione di scioglimento dei ghiacciai
himalayani entro il 2035, un’affermazione subito contestata dal governo indiano. Ha ribattuto Jean-Pascal van
Ypersele, il climatologo belga vicepresidente dell’Ipcc:
«Un errore in 3mila pagine non può danneggiare la credibilità dell’intero rapporto».
In realtà l’errore ha costretto a una revisione dei metodi di lavoro (la stima sull’Himalaya veniva da una vecchia intervista di un solo esperto, a fronte delle migliaia
di scienziati che concorrono al panel) e tutti ora aspettano il Quinto rapporto, che sarà pubblicato soltanto a fine 2013.
Errori o forzature a parte, anche i due gradi di aumento della temperatura, che ormai sembrano sicuri, non sono pochi. Il giornalista inglese Mark Lynas, autore del libro del 2007 Sei gradi (da cui il National Geographic ha
tratto un documentario), prevede già cambiamenti catastrofici con una variazione di questa entità. E non si ferma qui: se il riscaldamento arrivasse a sei gradi potrebbe innescarsi un’estinzione di massa simile a quanto accadde 300 milioni di anni fa nel periodo permiano: la
mancata ossigenazione degli oceani potrebbe originare
emissioni di gas velenosi in quantità tali da sterminare
la popolazione che vive lungo le coste. Fantascienza?
SHAKYA: LAVORIAMO PER I DUE GRADI,
MA CI PREPARIAMO PER I QUATTRO.
rare misure di sostegno a favore della selvicoltura e dei Paesi
per l’accesso a tecnologie pulite. I Paesi ricchi hanno inoltre riconfermato il proprio impegno a costituire un fondo di 30 milioni di dollari per aiutare i Paesi poveri a adattarsi agli effetti
dei cambiamenti climatici che già si ritrovano ad affrontare.
La brutta notizia è che le riduzioni di emissioni dell’Accordo
di Cancun non sono sufficienti per farci imboccare il cammino
verso i due gradi. E se da un lato le intese di Cancun hanno superato le aspettative, dall’altro le emissioni sono già prossime
al tetto massimo del range dell’Intergovernmental Panel Climate Change (Ipcc). Non possiamo ipotizzare di essere sulla
buona strada per i due gradi perché questo significherebbe limitare le emissioni totali di carbonio a un trilione di tonnellate. E per raggiungere questo obiettivo – e al contempo facilitare lo sviluppo dei Paesi poveri – i Paesi ricchi dovranno attuare forti riduzioni globali entro il 2020. In realtà tutte le analisi
su ciò che il mondo ha bisogno di fare presuppongono che
emettiamo meno di quanto non stiamo facendo a questo punto, oppure che si inizi rapidamente a ridurre già dal 2011.
Vi sembro allarmista? Beh, non basatevi solo sulle mie parole; forse vi andrà di dare un’occhiata agli atti della conferenza Four Degrees and Beyond.
Cosa significa questo, dunque, per il mio lavoro con il Dfid in
Asia?
Anche mentre aspettiamo un accordo per riduzioni di emissioni più incisive i Paesi, le città, le aziende e le comunità stanno cominciando ad agire. E l’Uk Fast Start Funding sta appoggiando la loro azione.
Tra le cose che stiamo cominciando a fare vi è dare la più alta priorità a ciò che già sappiamo. Per esempio assicurarci che,
quando vengono costruiti una scuola o un ospedale, ciò avven-
ga con sistemi che ne facciano un rifugio sicuro in caso di cicloni o di inondazioni. O che possano continuare a funzionare durante un periodo di siccità o un’ondata di caldo e che rispettino criteri di efficienza energetica e idrica. Sappiamo come farlo e in Bangladesh Dfid ha dato sostegno al governo per costruire scuole che siano anche rifugi contro i cicloni. Il mio lavoro consiste nell’accertarmi che aiutiamo i governi a fare questo genere di cose come prassi.
tanti, come per esempio: il Nepal potrà immagazzinare acqua
in un modo che ridurrà le inondazioni dell’India? Oppure: che
possibilità abbiamo di aumentare la disponibilità di acqua a
uso agricolo, potabile e industriale? Abbiamo cominciato a studiare tutto questo nel bacino del Gange, una delle più importanti regioni dell’Asia del Sud in quanto a produzione alimentare, popolata da 500 milioni di persone.
Stiamo offrendo supporto al Third Pole Project, che crea collegamenti tra climatologi, policy maker e media per sensibilizzare la gente sulle sfide che stiamo fronteggiando, nonché sulle opzioni per passare all’azione.
Lavoriamo anche con l’Asia Development Bank sull’analisi
economica dei cambiamenti climatici, in modo che i Paesi dell’Asia del Sud capiscano quali politiche riducono le emissioni
– e con quale impatto sull’ambiente – e aumentino la loro resistenza ai cambiamenti climatici.
Di recente ho avuto l’onore di parlare con il professor Swaminathan, che mi ha raccontato come la sua fondazione stia
dando sostegno a una “rivoluzione verde” in cui terreno, acqua e biodiversità siano conservati, ma in cui al tempo stesso
la produttività risulti aumentata. Svolge quest’attività assegnando alle comunità manager locali esperti in rischi climatici, che forniscono agli agricoltori sia informazioni sul clima sia
una gamma di possibili opzioni in caso di piogge tardive, inondazioni o rischio siccità.
Perciò l’azione è in corso e noi sappiamo dove cominciare.
Stiamo imparando come gestire l’incertezza e trovare occasioni per rovesciare le sorti dei popoli più poveri dell’Asia. Dobbiamo imboccare la strada di uno sviluppo a basso carbonio per
massimizzare le possibilità di un mondo a due gradi, ma anche
per cominciare a prepararci per un futuro a quattro gradi.
Vive e lavora a Delhi, come Regional climate change
adviser for Asia, per conto del Department
for International Development (Dfid), la struttura
del governo britannico che si occupa di cooperazione
allo sviluppo. Fino al 2009 è stata in prima linea:
40 anni, un marito nepalese e due figli, Claire Shakya
ha lavorato sui cambiamenti di clima da Kathmandu,
dove l’effetto dello scioglimento dei ghiacciai himalayani
è già fortemente avvertito.
Il Dfid ha impegnato una parte consistente
delle sue risorse nell’assistenza sui temi legati
all’adattamento al cambiamento climatico. In questo
articolo la Shakya fa il punto sul suo lavoro dopo il vertice
di Cancun del dicembre scorso e spiega come l’obiettivo
globale di contenere il riscaldamento a due gradi sia
quasi impossibile: i grandi progetti in corso in Asia
mirano a fronteggiare un’ipotesi di riscaldamento
del pianeta di quattro gradi centigradi.
A Cancun i progressi sono stati ardui. La scarsa fiducia tra le
diverse parti ha indotto ognuno ad aspettare che fosse l’altro
a fare la prima mossa. Eppure passi avanti ne sono stati fatti:
le riduzioni di emissioni offerte dai Paesi in base all’Accordo di
Copenhagen ora sono ufficialmente recepite dall’Onu.
La buona notizia è che sono emerse alcune soluzioni creative rispetto all’impasse sul tavolo: le economie emergenti ora
si impegneranno legalmente verso l’Accordo, un Green Fund
sarà gestito in ambito Onu e si è convenuta la necessità di va-
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ltre cose che ancora dobbiamo fare sono più impegnative. Non è certo se andiamo verso un mondo con due o
con quattro gradi in più. E ciò che questo significa per
ogni città, villaggio o campo è ancora più incerto. Abbiamo perciò bisogno di cominciare a gestire questa incertezza reinventando modi per cui i Paesi possono ridurre al massimo la povertà in caso di diversi scenari futuri. Per elaborare i piani di sviluppo di un Paese dobbiamo riflettere sulle implicazioni di un surriscaldamento di due e di quattro gradi. Dobbiamo pensare a
cosa potrebbe funzionare nel caso in cui un Paese dovrà affrontare un futuro più secco oppure un futuro più piovoso. E intervenire sulla sua capacità di gestire queste diverse eventualità.
Stiamo già assistendo a precipitazioni più intense e a monsoni più intermittenti. Dobbiamo aiutare i Paesi a capire come
affrontare inondazioni e siccità e aumentare la produzione di
generi alimentari per le popolazioni in crescita. Ecco perché
stiamo lavorando con la World Bank e gli australiani e i norvegesi per dare sostegno ai Paesi attraversati dai grandi fiumi dell’Asia meridionale: il Gange, l’Indo e il Brahmaputra.
Questa iniziativa contribuisce all’analisi delle possibili opzioni per gestire questi fiumi in previsione di una gamma di futuri scenari climatici. È l’analisi a porre le domande più impor-
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Afp / Getty Images / T. Karumba
Il ministro belga Charles Michel con la principessa Astrid del Belgio
e Jean-Pascal van Ypersele, docente della Ucl University
nel corso di una conferenza sui cambiamenti del clima a Bruxelles.
Forse. Ma non c’è dubbio che molti cambiamenti sono in
atto da tempo e che in qualche modo bisogna fronteggiarli. Magari in questo secolo non si raggiungeranno i sei
gradi di aumento medio, ma (vedere anche le considerazioni di Claire Sharkya nel pezzo che segue) in molti
stanno già lavorando per un’ipotesi di quattro. Four degrees and beyond è stato il titolo di un simposio della Royal Society di Londra, la più antica accademia scientifica internazionale. Quattro gradi e oltre, nella speranza
che si tratti di fenomeni lineari: che cioè non scattino
conseguenze imprevedibili, come per esempio la scomparsa della corrente del Golfo che rende vivibili le terre
europee alla stessa latitudine del Labrador.
Il presidente keniota Mwai Kibaki (quinto a destra)
e politiche di adattamento al cambiamento di clima hanno un vantaggio rispetto a quelle di contenimento dell’aumento di temperatura: mentre
la climate mitigation si gioca a livello globale e quindi richiede complicati accordi internazionali (per quanti anni discuteremo del “dopo Kyoto?”), l’adaptation può
quasi sempre essere affrontata a livello nazionale, locale, o anche individuale. È più facile mettere sacchi di sabbia vicino alla finestra piuttosto che vincere una guerra.
Ma ovviamente non è la stessa cosa.
D’altra parte non è neppure necessario credere nel riscaldamento climatico per rendersi conto che l’immedia-
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con il direttore esecutivo Aichim Steiner,
il ministro della Sicurezza interna
e facente funzioni di ministro degli Esteri,
George Saitoti, il sottosegretario generale
per l’Economia e gli Affari sociali Sha Zukang,
il ministro dell’Ambiente John Michuki,
posano per una foto di gruppo in occasione
della riunione del Consiglio d’amministrazione
dell’Unep e del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente e,
contemporaneamente, il Forum globale
dei ministri dell’Ambiente, lo scorso febbraio a Nairobi.
to futuro richiede grandi investimenti. Anche se i fattori di rischio climatico rimanessero costanti, ci sono oggi
più vite, più Paesi, più proprietà a rischio a causa dello
sviluppo economico, della crescita demografica e dell’emigrazione verso le coste del mare e le sponde dei
grandi fiumi.
Grandi opere di gestione delle acque, spostamento delle popolazioni dalle terre inaridite, migliore valorizzazione dei terreni coltivabili: sono questi i temi sui quali
si esercitano buona parte degli sforzi di adattamento. Gli
ingredienti fondamentali sono due: la ricerca e i soldi. La
ricerca è indispensabile per costruire modelli previsionali su quello che avverrà veramente, anche se non esistono e non esisteranno modelli perfetti. Nel Sudovest
degli Stati Uniti, una delle zone più a rischio di desertificazione, “a lot of people are studying what to do”, scrive l’Economist: c’è tanta gente che studia per capire che
cosa fare.
l bisogno di capitali per gli investimenti di adaptation, dopo anni di denaro facile, contribuirà a
far impennare i tassi d’interesse sui mercati internazionali. Si cercano anche canali preferenziali: Tineke Huizinga, titolare del ministero dell’Ambiente olandese, in occasione del Geneva Dialogue on Climate Finance, nel settembre 2010, ha lanciato un’iniziativa di
fast start finance per l’adattamento ambientale, destinata ai Paesi in via di sviluppo. I governi aderenti sul versante dei finanziatori sono già una ventina.
L’Unione Europea partecipa direttamente e con tutti i
maggiori Paesi, tranne l’Italia. E molti Paesi europei, tranne l’Italia, su impulso dell’Unione stanno adottando le
Nas (National adaptation strategies).
L’Olanda, che da secoli combatte contro il mare, è ovviamente all’avanguardia negli studi sulla gestione delle acque. Lo State Committee for Durable Coast Development ha dato il suo più recente responso nel 2008: il Mare del Nord potrebbe salire da 65 a 130 centimetri entro
il 2100. Tra i suggerimenti c’è quello di potenziare abbondantemente le norme di sicurezza, rafforzare le dighe, allargare le coste con riempimenti di sabbia, usare i
laghi del Sudovest del Paese come bacini di compensa-
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zione e innalzare il livello del lago Ijssel, il grande bacino artificiale creato nel 1932, per evitare che l’acqua dolce venga contaminata. Costo previsto: un miliardo di euro di oggi all’anno. Per cent’anni. Neanche troppo, meno dello 0,2% del Pil olandese. Anche altre città rivierasche come Singapore, Londra e New York stanno studiando programmi di difesa dall’aumento delle acque.
Gli effetti dei cambiamenti climatici sugli spostamenti di popolazione preoccupano gli Stati Uniti, dove uno
studio dell’università di Princeton prevede che per ogni
10% di perdita di terre coltivabili in Messico ci sarà un
2% di messicani decisi a emigrare verso nord (più di due
milioni di migranti). In Africa la crisi che ha sconvolto
la Costa d’Avorio, per quarant’anni uno dei Paesi più prosperi e tranquilli del continente, è in larga misura dovuta alla grande immigrazione dagli Stati sahariani confinanti, Mali e Burkina Faso, dove le popolazioni sono costrette a fuggire a causa della siccità.
a corsa alle terre coltivabili, mettendo a coltura
anche quelle incolte, si è già scatenata nelle zone tropicali dell’Africa dove l’acqua non manca,
con un grande impegno sia dei cinesi che di alcune società occidentali. Ma le grandi protagoniste delle politiche di adaptation nei prossimi anni saranno le città, soprattutto se il riscaldamento dovesse avvicinarsi più ai
quattro che ai due gradi. Non solo perché le masse che
emigrano quasi mai si trasferiscono nelle campagne, ma
anche perché i fenomeni estremi del clima e anche gli
approvvigionamenti sempre più difficili di acqua e cibo
sono gestiti più facilmente nelle città. Già oggi, scrive
l’economista di Harvard Edward Glaeser nel suo libro
Triumph of the city, “persino le città peggiori del mondo, come Kinshasa, Calcutta o Lagos, offrono benefici
sorprendenti alla gente che vi affluisce, con condizioni
di salute migliori e più occasioni di lavoro rispetto alle
aree rurali che le circondano”.
Oltre allo scioglimento dei ghiacciai polari e all’effetto sul livello del mare, uno dei più grandi interrogativi
sugli immediati effetti dell’aumento della temperatura
riguarda l’Himalaya. È vero che l’Ipcc aveva esagerato,
ma non c’è dubbio che i ghiacciai si stanno ritirando.
Nell’articolo China: the third pole su Naturenews, la giornalista scientifica Jane Qiu scrive: “Il plateau tibetano riceve molto meno attenzione dell’Artico o dell’Antartico,
ma è la terza riserva di ghiaccio della terra.
L
E questa riserva si sta sciogliendo rapidamente. Nell’ultimo mezzo secolo l’82% dei ghiacciai si è ritirato.
Nell’ultimo decennio il 10% del permafrost si è degradato. Con la continuazione, o addirittura l’accelerazione,
di questi cambiamenti gli effetti si estenderanno ben al
di là dell’isolato altopiano, modificando le riserve idriche di miliardi di persone e alterando la circolazione atmosferica su mezzo pianeta”.
Miliardi di persone: India, Cina, gran parte del Sudest
asiatico. Ma come mai allora se ne parla così poco? Risponde nello stesso articolo Yao Tandong, che dirige
l’Istituto di ricerca sulle regioni fredde e aride dell’Accademia delle scienze di Pechino e autore dei primi studi
sulle variazioni di temperatura sull’altipiano, fin dagli
anni Ottanta: “La lontananza del plateau, l’altitudine e
le durissime condizioni climatiche rendono la ricerca
una sfida difficile”.
D’altra parte i problemi ambientali in Cina non riguardano solo l’Himalaya: “I costi ambientali possono incidere per il 10% sul Prodotto interno lordo cinese e gli effetti dell’inquinamento, della desertificazione e del cambiamento di clima si cominciano a sentire in Cina e anche fuori dai suoi confini”, scrive il sito anglocinese China dialogue, dedicato ai problemi ambientali. I dipartimenti per la cooperazione internazionale della Gran Bretagna (Dfid) e del Canada (Idrc) sono scesi in campo per
assistere i Paesi asiatici nell’adattamento climatico. Il
rapporto pubblicato nel 2008, con la collaborazione dell’Accademia delle scienze e di altre istituzioni scientifiche cinesi, fa il punto su knowledge gaps and research
issues in China, le carenze di conoscenza e i punti da approfondire.
In realtà contiene anche un quadro dei lavori già in corso, che sono imponenti: dal 2007 Pechino ha annunciato un grande impegno finanziario per l’adattamento climatico. Le iniziative intraprese nelle diverse province
vanno dall’inseminazione delle nuvole per aumentare le
precipitazioni al miglioramento dei sistemi di raccolta
delle piogge, dal cambiamento dei seminativi alle tecniche di risparmio nell’irrigazione dei campi.
Certo, sarebbe meglio riuscire a contenere l’aumento
di temperatura e i grandi Paesi emergenti possono fare
molto, se accetteranno regole più stringenti nel dopo
Kyoto. L’adaptation è solo un palliativo. Però il fatto che
la Cina stia prendendo il problema così seriamente offre,
forse, una speranza in più per il futuro.
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