il mio viaggio con antonioni

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il mio viaggio con antonioni
Saggi
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IL MIO VIAGGIO
CON ANTONIONI
Carlo di Carlo*
Era il 1961. Da alcuni anni cominciavo a imparare il cinema promuovendo iniziative e attività cinematografiche per la Provincia e per il Comune di Bologna. Da due anni avevo fondato e dirigevo
assieme a Giuseppe Ferrara la rivista «Filmselezione» con la collaborazione di un gruppo di critici
romani.
Era un momento delicato e difficile per la situazione politica del nostro paese ed io cominciavo
il mestiere di regista con la realizzazione del mio primo documentario sulla strage di Marzabotto che
veniva negata da un libello neonazista appena uscito nella Germania Federale.
In quei giorni si proiettava sugli schermi L’avventura, che assieme a Rocco e i suoi fratelli era stato
colpito dalla censura per iniziativa dei procuratori milanesi Trombi e Spagnolo che avevano predisposto di oscurare le sequenze incriminate con i celebri «velatini» (un vetro opaco che le anneriva).
E dunque, nel febbraio 1961, un mese prima di girare il mio documentario, in un incontro promosso da «Filmselezione» e dal Circolo di cultura incontrai e conobbi Michelangelo Antonioni.
Antonioni arrivò a Bologna con Monica Vitti con la sua Aurelia Sport bianca – con la quale aveva
battuto in gara Jean-Louis Trintignant – ed ebbe luogo questo incontro memorabile al Circolo di
cultura.
Il cinema di Antonioni era già entrato in me: alla sua uscita, avevo visto L’avventura e pochi giorni
dopo, recuperato in un cineforum, Il grido.
Sei mesi dopo, mi trasferii a Roma e, come mi aveva chiesto, lo chiamai per fargli vedere il materiale girato.
Antonioni venne in moviola e mi diede alcuni consigli. In lui mi colpirono subito la sua disponibilità nei miei confronti, la lucidità, il rigore e la semplicità delle sue argomentazioni. Mi chiese
dove avessi imparato a fare cinema, visto che non avevo frequentato scuole ed io rimasi imbarazzato
e stupito dal suo giudizio e dall’incoraggiamento.
Nell’estate del 1962, incontrai nuovamente Antonioni mentre girava L’eclisse. Gli dissi che era
maturata in me l’intenzione di scrivere un libro su di lui e gli parlai dell’interesse manifestato da
Floris Luigi Ammannati, allora presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, che col mio
libro intendeva inaugurare una nuova collana delle Edizioni di Bianco e Nero. Probabilmente con
l’intima convinzione che questo era un mezzo per avvicinarmi a lui, iniziai dunque questo lavoro che
durò due anni con la frequentazione quasi quotidiana di casa Antonioni. Ma lui in casa non c’era
quasi mai quando trascorrevo giornate intere con la segretaria a fare ricerche, a reperire materiali, a
prendere appunti e trascrivere testi (l’era delle fotocopie era ancora lontana), a consultare i grandi
album su cui faceva raccogliere e incollare continuativamente e con meticolosità tutti gli articoli che
lo riguardavano e che riceveva periodicamente dall’allora prezioso «Eco della Stampa».
Nel 1964, e nello stesso mese, il suo volume Sei film (Einaudi) e il mio (Bianco e Nero) uscirono
insieme. Una curiosa concomitanza. Andai alla presentazione del suo libro alla libreria Einaudi di
Via Veneto (ricordo tra i presentatori Angelo Guglielmi). Antonioni non venne alla presentazione
* Regista cinematografico.
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Michelangelo Antonioni sul set di Professione: reporter (1975) con Jack Nicholson
del mio volume al Salone Margherita, ma ebbe a dirmi comunque che era rimasto molto soddisfatto
del mio lavoro. Nel porgermi il suo libro Sei film mi scrisse la dedica: «A Carlo con amicizia e professionale stima».
Di ritorno da Londra dopo aver realizzato Blow Up, Michelangelo mi chiese se gli tenevo compagnia a vedere tutto il materiale girato. E proprio la sala buia fu la complice quasi naturale di un’accesa
dialettica per una comune intesa sulle scelte. Alla fine, Antonioni mi chiese di occuparmi assieme a
lui della versione italiana del film, incaricandomi subito di effettuare i provini-voce del protagonista
David Hemmings.
Tra l’altro, ero molto curioso e mi interessava capire la sua posizione di fronte al doppiaggio, su
cui egli stesso – capendo sin d’allora che si trattava di un nervo scoperto del cinema – aveva condotto
un’inchiesta sulle pagine di «Cinema» suscitando all’epoca (1941) un forte dibattito. Dunque ciò che
Antonioni invocava nel 1941, si materializzava ora anche per lui per la prima volta di fronte a un suo
film che per ragioni produttive internazionali, era stato girato in inglese e doveva essere doppiato.
Questo lavoro fu per me una grande scuola perché continuò nell’arco di trent’anni per tutti i suoi
film successivi fino ad Al di là delle nuvole e mi servì ad imparare gradualmente i segreti e la tecnica
della recitazione (e quindi della regia), tant’è che, una decina di anni dopo, la direzione del doppiaggio – a partire da Heimat di Edgar Reitz e dal Decalogo di Kieslowski – è diventato per me un mestiere
parallelo e di rilievo nella mia vita professionale.
Se si pensa al percorso artistico di Antonioni in quegli anni, non bisogna dimenticare le difficoltà
e la fatica della sua affermazione e ricordare come una gran parte di cineasti che in quegli anni regnavano lo sbeffeggiasse per le sue analisi dei sentimenti. C’è un esempio tra tutti, e si riferisce a Il grido.
Quando il film uscì, più di un critico, e anche di sinistra, si domandò cosa ne poteva sapere uno come
lui che si era sempre occupato della borghesia, di cosa passasse nella mente e nel cuore di un operaio.
E Michelangelo, che era riuscito anche questa volta a spiazzare gli interlocutori, rispose che non si era
occupato nel film della classe operaia e dei suoi problemi, ma aveva tentato di analizzare i sentimenti
di un operaio, la cui vita interiore non era meno importante di quella degli altri.
Attraverso la lettura fenomenologica dei suoi film l’immagine di Antonioni appariva sempre
di più come quella di un artista e di un uomo serio, pensieroso, severo, introverso, freddo, quando
invece nella realtà la sua vera faccia nascosta era il senso dell’humour. Personalmente nella vita non
ricordo di essermi mai così divertito e di avere riso tanto come con lui.
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La nostra amicizia, sanamente conflittuale anche per una differenza generazionale di fondo, da
un modo di vivere la vita insieme si trasformò nel tempo in un vero e proprio sodalizio.
A volte c’erano turbamenti e litigi anche violenti, prese di posizioni forti e assolute, a prima vista
non conciliabili, ma che fortunatamente la sua prima moglie Letizia Balboni, cognata di Francesco
Pasinetti – diventata negli anni la mia amica più cara – tentava di smussare e contemperare, spesso e
volentieri. Io ero un uomo e le sue amicizie vere erano quasi esclusivamente femminili.
A un certo punto, questa stima volle manifestarla pubblicamente. Quando la RAI trasmise dopo
dodici anni dalla loro realizzazione, due dei cinque miei film che un importante settore sperimentale
della Seconda Televisione Tedesca produsse (perché in Italia la RAI non mi faceva lavorare), li volle
rivedere in moviola e scrisse un articolo per il «Corriere della Sera» che fece scalpore.
Nella nostra amicizia un ruolo non secondario lo ha giocato anche il cibo, ma qui non era mai
messa in gioco in gioco la quantità, ma unicamente la qualità. Il mangiare assieme, a casa sua, a casa
mia o al ristorante da soli, era sempre un’occasione piacevole per scambiarci idee, per parlare dei
nostri problemi privati, per discutere o per divertirci.
C’è infine un altro elemento che ha contribuito alla crescita del nostro rapporto e sono stati i
viaggi.
Non quelli settimanali abituali, brevi, numerosi, in campagna, al mare o altrove in occasione
di festival, o di incontri o dibattiti, oppure per andare a trovare amici, luoghi del buon cibo o nelle
campagne venete per rifornirsi di vini per l’inverno. E non c’è stata mai una ragione seria o una scusa
che impedisse di muoversi: l’importante, diceva Michelangelo, è non stare fermi, perché muoversi è
l’unico antidoto alla noia, l’unico vero problema esistenziale.
Siamo stati degli straordinari compagni di viaggio, Michelangelo ed io, nonostante le nostre
differenti e talvolta opposte abitudini quotidiane.
Ma il nostro primo vero viaggio fu a Praga nel 1965 quando, dopo aver girato un documentario
sul ghetto di Terezìn, organizzai con la Ceskoslovensky Filmexport e con l’Istituto Italiano di Cultura la prima retrospettiva di tutti i suoi film in un paese del «socialismo cosiddetto reale». Giornate
straordinarie con Forman, Ires, Storm e tutti i cineasti del giovane cinema cecoslovacco e un grandissimo successo che gli aprì le porte dell’Unione Sovietica, dove di lì a poco, fu proiettato per la prima
volta al Festival di Mosca, un suo film, Il deserto rosso.
Proprio l’Unione Sovietica, dieci anni dopo, fu la destinazione di tre nostri grandi viaggi. Il motivo dell’invito che aveva avuto dal governo, era la ricerca delle locations più disparate (dal piccolo
villaggio primitivo ai paesaggi desertici sconfinati) per un film tratto dalla «favola» che aveva scritto
con Tonino Guerra, L’aquilone.
Ma forse il viaggio più bello e unico è quello che facemmo in Iran, io e Michelangelo soli, alla fine
del 1976, l’ultimo anno del regno di Reza Palhevi prima dell’arrivo dell’ayatollah Komeini.
Un viaggio attraverso la Persia millenaria e quella moderna, da Teheran a Persepolis, da Esfahan a
Shiraz. E che ci consentì anche, tra i tanti privilegi concessi a Michelangelo, di vedere il tesoro della
corona nei caveaux del palazzo imperiale, difficile da dimenticare così come lo spettacolo osceno di
tutte le rubinetterie e maniglie in oro massiccio della villa costruita da Frank Lloyd Wright, per la
sorella dello Scià.
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ODIO E VIOLENZA A BERLINO
PER LA FUGA DI LUDWIG L.
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Michelangelo Antonioni
Venerdì prossimo, 19 novembre, e una settimana dopo, il 26, verranno trasmessi dalla rete 2 Tv due
film di Carlo di Carlo. Il primo è del 1971, il secondo del 1973. Perché la RAI abbia lasciato passare
così tanto tempo prima di decidersi a questa operazione, e perché non programmi anche gli altri film
di Di Carlo, non si capisce. Ma di tanti suoi comportamenti la RAI non lascia intendere la ragione.
Per chi non lo sapesse Carlo Di Carlo è un regista bolognese trapiantato a Roma. Ha conservato,
come tutti i bolognesi che si rispettano, l’accento della sua città natale, inquinandolo, però, ogni
tanto, con parole e inflessioni romanesche. I suoi amici non glielo perdonano. Hanno torto. È il solo
ibridismo di cui lo si possa accusare. Nel cinema, lo stile di Carlo Di Carlo è purissimo.
Il primo dei due film in programma si intitola L’inseguimento e l’assassinio del prigioniero Ludwig
L. L’idea, tratta da un fatto di cronaca, è molto bella. È bella perché è semplice: una fuga, dal momento in cui comincia a quello in cui finisce.
Questo della fuga è un tema ricorrente, in Di Carlo. Lo riprenderà anche nel suo lungometraggio
Per questa notte del 1977. Forse anche nella vita Di Carlo sta fuggendo, e sarebbe interessante cercare
di capire da che. Non da se stesso, probabilmente, ma da un destino al quale si sente votato. Sono
convinto che questa sua fuga personale avrà successo.
Dicevo che l’idea del film di cui stiamo parlando è bella. È un’idea aperta, nel senso che dà adito
a tanti svolgimenti. Carlo Di Carlo adotta il suo ed è su questo che vale la pena di spendere qualche
parola.
La Berlino in cui si svolge la vicenda è molto tedesca, ma potrebbe essere qualsiasi altra città dove
il meccanismo della vita quotidiana scorra sui binari – materiali e morali – di un ordine prestabilito e
controllato dai cittadini che la abitano. Una realtà spicciola, convenzionale, banale se vogliamo.
La qualità più spiccata del film consiste nel modo con cui Carlo la affronta. Egli la scompone in
simboli: la massaia, lo spazzino, l’invalido di guerra, i poliziotti, i passeggeri di un autobus, per poi
ricomporla in racconto. Senonché anche il racconto subisce il medesimo trattamento.
Fin dai primi minuti ci vengono offerte immagini – facce, gesti, espressioni, comportamenti
– che lì per lì non sappiamo come prendere, se non altro perché anticipano fasi successive della vicenda, che non conosciamo, ma che poi trovano, via via che il racconto procede, una loro collocazione
narrativa precisa ed efficace. È un procedimento che sembra attingere dall’avanguardia cinematografica francese, che so?, da un Entr’acte di Clair, se non fosse nutrito qui di una sostanza alla quale
l’avanguardia francese non pretendeva minimamente di pensare.
Qui c’è un giudizio, una ideologia, ci sono dei sentimenti: la paura primo fra tutti, espressa con
molta forza dall’attore Michel Berger, e poi l’odio con il quale i cittadini partecipano all’inseguimento del fuggiasco. Non sanno chi sia né perché fugga: chi fugge, nella loro morale civica e politica,
va inseguito. Un accanimento tra l’altro che si inserisce perfettamente nel contesto della violenza di
oggi.
Nel film di Di Carlo è portato alle estreme conseguenze: l’assassinio del fuggitivo in uno stadio,
vuoto in realtà, ma pieno di un pubblico immaginario che applaude all’operato della polizia. Questo
per me è cinema di non comune qualità.
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Michelangelo Antonioni sul set di Professione: reporter (1975) con Maria Schneider
Il secondo film si intitola Avventura di un lettore e prende le mosse da un racconto di Italo Calvino. Siamo in una stupenda scogliera della Sardegna, rocce rosa e mare azzurro trasparente. Un uomo
arriva e sceglie un punto tra le rocce dove stendersi per leggere in pace un libro. C’è una considerazione d fare subito: questo film è al tempo stesso una meditazione sulla lettura, sul sesso e sul rapporto
tra contenuto ed espressione.
Sulla lettura. Protagonista del film non è né l’uomo né la donna. È il libro. L’uomo vuole leggere
il libro che ha portato con sé, ma la donna lo distrae. Da lontano, ma con molta avvenenza e abilità
(l’attore è Felice Andreasi, l’attrice è Carla Tatò). Tutte le volte che ciò avviene è il libro a richiamarlo.
Glielo ricorda continuamente, non gli dà pace. Leggi, gli dice. Nasce dunque un dialogo non fra il
lettore e la donna, ma fra il lettore e la sua coscienza, concretizzata dal libro costantemente alzato
davanti ai suoi occhi. In questo dialogo interiore sta il senso, e anche il carattere comico, del film.
Sul sesso. È innegabile che il rapporto che si crea fra i due personaggi è di natura erotica. La
donna si offre, e si offre vistosamente, l’uomo resiste. Per un momento si ha l’impressione che sia un
omosessuale, ma questo dubbio viene poi fugato.
Si tratta comunque di una schermaglia più complessa, nella quale entrano in gioco, oltre al desiderio, il ritegno, il pudore e un sentimento ben preciso della misura. La donna si offre con troppa
sfacciataggine e così l’avventura degenera, prende un’aria di cosa poco seria e l’uomo ne è sconcertato.
L’ultima osservazione da fare riguarda, come dicevo, il rapporto fra contenuto e espressione. A me
sembra che Carlo Di Carlo imposti la sua ricerca stilistica in modo da dare significato all’insignificante. In altri termini, in modo da tirar fuori dalla sua storia quanto essa contiene di non appariscente.
Il che va benissimo, è legittimo. Senonché mi manca in questa operazione l’idea dell’autore. Non la
trovo raffigurata nelle immagini.
Il fatto è che il tema qui è molto letterario, più letterario che visivo. E dar corpo a ciò che si legge
tra le righe di un racconto (di Italo Calvino per di più) è un’impresa estremamente scomoda.
Se fossi il redattore della pagina dello spettacolo di un quotidiano, comunque, non esiterei a
mettere anche accanto al titolo di quest’avventura l’asterisco che significa: Da non mancare.
«Corriere della Sera», sabato 13 novembre 1982
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MICHELANGELO ANTONIONI:
LO SGUARDO AL DI LÀ
DELLE NUVOLE
Alberto Pesce*
«Non maestro, non chiamatemi maestro, semmai maestro di bottega». Lo ricordo ancora l’intervento di Michelangelo Antonioni, quasi a disagio come era nel suo carattere aristocratico e schivo. Era
l’estate 1983, a Ferrara, ad un seminario di studio con cui la città onorava il suo regista più illustre
per i suoi settant’anni. Antonioni intendeva rimarcare la propria vocazione di bottega, di laboratorio
permanente mai chiuso e mai definito, donde i film escono non come modelli drammaturgici, ma
momenti di un ritmo interiore, su cui, costi pure lo scontro con la tecnica come scienza del materiale
e con l’ideologia come sistema di credenze e tradizioni di una società o di una classe, il regista posa
lo sguardo per decifrare, in forme diverse, il senso del reale.
Dallo «sguardo» antonioniano, che era etica lucidamente laica ma anche visualità poetica, elusiva
di schemi e modi convenzionali di racconto e attenta più alla verità che alla logica, erano investiti
i suoi personaggi, caratterizzati se maschi da fragilità e inquietudine perplessa, se donne da voglia
d’azzardo e lacerazione con caparbietà e forza morale anche se incapsulate prima o poi da un amaro
destino dove, a voler citare la famosa trilogia degli anni ’60, anche l’«avventura» cede posto alla
«notte» e «l’eclisse» rifà tessuto di disperazione attorno all’individuo e alla società. Ne erano investite
le situazioni, e anche i paesaggi e gli oggetti, dentro quello stato delle cose che Antonioni stesso
amava definire «la malattia dei sentimenti», nell’inerzia di quelli che il francese François Debreczeni
acutamente aveva definito «temps morts», diventati nel cinema di Antonioni, più che «figura di linguaggio», addirittura la sua cifra stilistica.
Proprio per questo suo nuovo modo di vedere con l’emarginazione del momento descrittivo e
l’essenzializzazione dei raccordi narrativi e nessi logici sin dai primi film degli anni ’50 (Cronaca di
un amore, La signora senza camelie, Le amiche, Il grido), Antonioni era sembrato stare alquanto di lato
nel cinema italiano, E anche l’intellettualità dell’epoca, scrittori saggisti critici, ne aveva focalizzato il
divenire con un lento processo di avvicinamento al senso della sua opera e alla non univocità dei suoi
significati, che finiva per essere anche approfondimento epistemologico della stessa attività critica e
teorica sul cinema e maturare singolare coincidenza tra percorso semiologico e cinema antonioniano,
se non contro certo alquanto al di fuori di un cinema italiano dopo la lezione neorealistica scivoloso
tra amarezza e sberleffo verso la commedia di costume.
Del resto, pur sempre esponente di una generazione di giovani formatisi negli anni ’30 tra conformismo al regime fascista e fronda intellettuale, e maturati al cinema sulle prove documentarie di
fuga dai «telefoni bianchi» e, più in là, sulle suggestioni innovative del neorealismo, Antonioni s’era
evoluto a parte. Staccato e ben diverso dal fervore di cronaca di Roberto Rossellini, ben lontano dalla
napoletanesca sensibilità elegiaca di Vittorio De Sica, piuttosto attratto dalla radicalità drammatica al
limite del romanzo di Luchino Visconti (Gente del Po, esordio del regista ferrarese, anche se terminato nel dopoguerra nel 1947, nasceva, sia pure nella reciproca ignoranza, in contemporanea con Ossessione), Antonioni s’era mosso cauto, con una coerenza costante di forme e contenuti. Gli erano punti
sione
di riferimento alcuni canoni culturali di matrice personale, la provincia padana dietro il retroterra
di Ferrara, la borghesia vissuta ambiguamente come consolazione e insoddisfazione, la donna come
* Critico cinematografico.
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momento di solidità e libertà, la storia pubblica, guerra o dopoguerra, ridotta a momento privato.
Cautelosamente, non senza cedimenti e recuperi, andava assimilando spinte culturali diverse, il realismo di Marcel Carné da cui, come assistente sul set di Les visiteurs du soir aveva appreso accorgimenti
tecnici e soluzioni visive, un neorealismo già ibernato pur con qualche soprassalto di lezione morale,
la letteratura ferrarese alla Giorgio Bassani di fascinazione discreta. E tutto ciò, nella prospettiva critica di una reinvenzione personale e salvifica del rapporto individuo-ambiente, a riscontro di squilibri
e angosce di una vita d’alienazione neocapitalistica e borghese.
Nel 1957, Il grido fu una confessione disperata per modi di vivere e sentire di fronte a cui non
bastava (anche se purtroppo era tutto) una rivolta romantica e individuale, ma anche segno nuovo
che chiudeva una prima fase e da cui maturava, con la tetralogia, in sodalizio d’arte e di vita con
Monica Vitti, di L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso (quest’ultimo, primo film antonioniano
a colori in funzione soggettiva di riscontro alla dissociazione del reale), la capacità di superare lo
psicologismo, il rifugio esistenziale privato, la cronaca dei «tempi morti», la compiacenza preziosa
delle immagini.
L’intoppo non gli appariva più la società in quanto tale, proletaria o borghese, ma l’esistenza
stessa coi suoi moralismi soffocanti e nevrosi d’alienazione, in cui non bastano l’amore e la conoscenza e l’arte a sciogliere quell’enigma esistenziale che «agli uomini è vietato capire», come Antonioni
ebbe ad ammettere in un racconto di Quel bowling sul Tevere, «mistero più interessante di qualsiasi
spiegazione».
Forse non è un caso che, dopo i vagabondaggi all’estero, meglio in Gran Bretagna per Blow Up
(1966), sopravvivenza di finzione dentro la vita «come se» essa fosse il reale, meno in USA per Zabriskie Point (1970) col suo inquietante finale da apocalisse capitalistica, peggio in Cina con la sfortunata disavventura di Chung Kuo (1972), ed essersi sfogato autobiografico e autocritico nella possibile
alternativa identitaria di Professione reporter (1975) e in attesa di tempi migliori essersi distratto col
linguaggio elettronico di Il mistero di Oberwald (1980) da un testo drammatico di Jean Cocteau, al
di là di quello che sarebbe dovuto essere «l’ultimo film antonioniano» (Identificazione di una donna,
1982), Antonioni sia tornato per Al di là delle nuvole (1995), ai climi «enigmatici» e ai toni astratti
e sospesi di quattro suoi ineffabili racconti da Quel Bowling sul Tevere, avvertendo testamentario che
«sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di
nuovo un’altra sotto quest’ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che
nessuno vedrà mai».
Michelangelo Antonioni sul set di Professione: reporter (1975)
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