Il libro getta uno sguardo affascinante su questi bambini

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Il libro getta uno sguardo affascinante su questi bambini
GIOVANI IMMAGINARI
UNA RICERCA QUALITATIVA SULLA MEDIAZIONE DELL’IMMAGINARIO INFANTILE
«A trent’anni la mia vita sarà meravigliosa sarò sposata e con due figlie, spero due gemelle femmine. Se
gli dovessi mettere il nome una la chiamerei Giada e una Francesca. Vorrei tanto fare la segretaria per
avere un ufficio tutto mio. Infine vorrei vivere in una villa con 3 piscine, una vasca idromassaggio e
giardino. Nel tempo libero andrò a fare schopping e se non avrò figlie nel tempo libero farò la barista in
discoteca.»
S., 9 anni, padre rappresentante, madre casalinga
Questa descrizione sintetizza alcune caratteristiche del futuro (tra circa venti anni) immaginato
da un gruppo di bambini e preadolescenti di Roma. Un futuro che rispecchia, come vedremo,
comportamenti, valori e aspirazioni tendenzialmente presenti nella nostra società: il benessere
economico, l’iperattivismo, il materialismo connesso al consumismo e un certo tradizionalismo
dei ruoli sessuali. Un tratto piuttosto evidente è poi la discrepanza tra l'ordinarietà - come
desiderare di fare la segretaria - e la straordinarietà – come immaginare, allo stesso tempo, di
vivere in una villa con 3 piscine, una vasca idromassaggio e giardino.
L'obiettivo dell’approfondimento qualitativo della ricerca era quello di analizzare il rapporto tra
l'immaginario di bambini e bambine “metropolitani” dai 9 ai 12 anni, e l'influenza che su di esso
possono avere le varie agenzie di socializzazione, media compresi.
Sono stati indagati in particolare quattro istituti comprensivi del Comune di Roma 1 di cui sono
state prese in esame due classi delle scuole primarie (seconda e quarta) e due delle scuole
media inferiori (seconda) per ognuno.
L’intento era quello di rilevare le rappresentazioni che durante il processo di socializzazione essi
elaborano, proiettandosi nelle vesti di giovani adulti, riguardo ad alcune situazioni di
quotidianità - in particolare la coppia/famiglia, il lavoro, lo stile di vita e la gestione del tempo
libero.
L'immaginario da noi indagato ha compreso, quindi, i progetti che il gruppo di bambini e
bambine intervistati inizia a formulare, traendo spunto dalle credenze e dalle concezioni
acquisite.
Per questa analisi abbiamo utilizzato un elaborato a traccia semi-aperta, supportato da
eventuali disegni per le scuole primarie.
Questa la traccia: immagina di avere trent’anni. Com’è la tua vita? Che lavoro fai? Dove abiti?
Cosa fai nel tempo libero?
UN PUNTO DI PARTENZA
Nonostante la ricchezza della pubblicistica sul tema dell’immaginario, non è stato semplice
individuare una definizione unitaria da cui partire per precisare i nostri strumenti di ricerca.
Valutando letteratura, psicanalisi, sociologia e psicologia, abbiamo rilevato definizioni
tendenzialmente eterogenee. Todorov (1970), per esempio, in ambito letterario, considera
l’immaginario come il concetto che, posto in relazione oppositiva al reale, serve a spiegare il
genere fantastico. Si tratta dunque di una definizione che contrappone l’immaginario al reale,
avvicinandosi all’immaginazione. In psicanalisi, invece, l'immaginario, come il simbolico, non si
oppone al reale, ma gli è complementare (Lacan 1971 cit. in Lalli 1995, pp. 287-289).
Similmente, in senso psicologico, l’immaginario è concepibile come una dimensione che
comprende le immagini mentali prodotte dall’attività immaginativa (Giani, Gallino 1990). Le
immagini mentali, a loro volta, sono astrazioni di persone e oggetti noti che avvengono a livello
cognitivo. Possono essere considerate fenomeni sia percettivi, in quanto la loro elaborazione si
basa su input sensoriali, che mnestici, perché nell’elaborarle vengono richiamate le conoscenze
sedimentate nella memoria a lungo termine (Marucci, 1995)2.
1
Le scuole romane in cui è stata effettuata l’indagine qualitativa sono state: Cassiodoro, Fontanile Anagnino,
Montezemolo e Mozart.
2
S. Capecchi, M.G. Ferrari, Una baby-sitter a Beverly Hills. Immaginario, media e dintorni: la rappresentazione di
bambini e bambine, Franco Angeli, Milano, 1998.
1
Scegliendo di adottare un punto di vista fenomenologico, abbiamo inteso per “immaginario”
l’insieme di rappresentazioni elaborate a livello individuale e collettivo, sulla base delle quali
tendiamo ad agire nel nostro reale e quotidiano contesto di vita. In questo modo,
“immaginario” e “reale” divengono dimensioni complementari, anziché antitetiche. Il reale
perde la sua valenza di oggettività, veridicità e ordinarietà, mentre l'”immaginario” perde
quella di falsità, fantasticheria e straordinarietà.
Nell’elaborare gli strumenti di ricerca prima e nell’osservare i dati raccolti poi, abbiamo
ipotizzato che fin da piccoli i bambini costruiscono un’immagine della realtà quotidiana, su cui
basare i progetti futuri partendo dalle risorse e dalle opportunità colte ogni giorno nell’ambiente
circostante. Queste immagini o rappresentazioni - termini qui usati come sinonimi - possono
apparire più o meno ordinarie/realistiche o straordinarie/fantastiche in relazione all'attività
immaginativa e alla creatività più o meno ricca di bambini e bambine.
«La mia vita è un pò movimentata, sono sposato con una bellissima moglie, ho tre figli (due femmine e
un maschio), abito in centro in via bocca di leone 64 e sono un astronauta andato a viaggiare con la mia
navicella spaziale (chiamata ADRY 007) personale in diversi satelliti (come la luna) e/o in diversi mondi
sparsi nell’universo. Di solito nei weekend viaggio o sulla luna o su marte e sui meteoriti; mentre
d’estate e/o d’inverno viaggio insieme alla mia famiglia nell’universo in cerca di forme di vita aliene.
Nelle feste, tipo pasqua, rimango a mangiare a più non posso.
P.S. Scusate se non ho detto i nomi dei miei figli ma si chiamano: Fabio, Lucrezia e Ginevra.»
M., 12 anni; padre notaio, madre avvocato.
Per comprendere la misura in cui l’immaginario giovanile è modellato dai media, abbiamo
prestato attenzione al ceto, al tipo di opportunità culturali presenti nella famiglia e nel contesto
sociale del nostro campione. Riteniamo infatti che questi fattori possano concorrere al pari delle
immagini mediate al processo di rielaborazione del reale e incentivare o meno l'attività
immaginativa.
Considerando la varietà degli agenti di socializzazione, tra cui includiamo i vecchi e i nuovi
media, si può constatare che, al di là della classe sociale di appartenenza, i ragazzini di oggi
dispongono potenzialmente di una grande quantità di modalità per conoscere, esplorare e
sperimentare molteplici mondi.
Sono sostanzialmente tre i contesti con cui essi agiscono: quello dell'esperienza diretta, con cui
siamo a contatto personale, senza alcuna mediazione; quello della conoscenza tratta
indirettamente, per sentito dire o per interposta persona; infine, il mondo mediale che offre
esperienze filtrate e organizzate a priori dai media. Tenendo presente la pervasività di
quest'ultimo mondo, abbiamo approfondito l’analisi delle visioni del futuro più marcatamente
condizionate dall’ambito mediale.
Benché sia impossibile quantificare il contributo sull’immaginario del mondo mediale, a noi
questo è sembrato, comunque, prevalere rispetto all'apporto del mondo dell'esperienza diretta.
Sorge allora il dubbio che, al di là delle critiche obsolete mosse ai media, i bambini siano
lasciati fondamentalmente soli nel processo di conoscenza della realtà e che questo avvenga
soprattutto in modo indiretto e mediato. Il mondo mediale - e questa è un'ipotesi - finirebbe
così per divenire la subcultura di riferimento principale per i più giovani, fatta di specifici
linguaggi, argomenti e valori di riferimento, più o meno traslati rispetto quotidianità.
Se l'universo dei media tende a prevalere su quello dell'esperienza diretta, questo non significa
necessariamente che i suoi contenuti vengano assorbiti tutti e in modo passivo. Per verificare
tale eventualità, abbiamo sondato l'uso che i bambini fanno di alcuni mezzi, uso che emerge
nella prima parte della nostra analisi quantitativa. Essa lascia intuire l’opportunità di rivedere la
prospettiva apocalittica, che tende a domandarsi solo cosa fanno i media e la televisione ai
bambini e non anche cosa fanno i bambini con i media e la televisione. Rifiutando di
sottolineare, in modo schematico, solo gli aspetti potenzialmente positivi della Tv - come lo
sviluppo di certe capacità cognitive 3 - e senza all’opposto sopravvalutare quelli negativi - per
esempio i suoi contenuti violenti o l’effetto passivizzante – dalla nostra analisi emerge una
posizione intermedia. Da una parte, abbiamo rilevato che la televisione eserciti un forte fascino
sui piccoli spettatori, così da diffondere subculture, mode, linguaggi, e rafforzare valori,
credenze e opinioni. Dall'altra, crediamo che, come ha dimostrato la prima parte di questa
ricerca e non solo4, i bambini siano un pubblico attivo, capace di selezionare i contenuti e
3
Cfr. S. Johnson, Tutto quello che fa male ti fa bene. Perché la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono
intelligenti, Mondadori, Milano 2006.
2
distinguere i piani della realtà e della fiction, confrontando ciò che vedono in Tv con le loro
conoscenze personali e le esperienze già acquisite.
L’analisi dell’immaginario dei nostri bambini e preadolescenti va letto, dunque, alla luce delle
interazioni che, complessivamente, essi intrattengono ogni giorno con le tante agenzie di
socializzazione - famiglia, scuola, chiesa, gruppi amicali, media – per comprendere come
queste, nella loro globalità e in un'ottica di comunicazione circolare e continua, prendono parte
all'elaborazione di rappresentazioni sociali e progetti di vita.
IMMAGINARIO, RAPPRESENTAZIONI SOCIALI E MEDIALI
Senza mettere in dubbio l’esistenza di una realtà fisica e fattuale, dobbiamo ammettere che si
sono differenze nel modo in cui ogni persona percepisce, descrive e valuta anche gli stessi
oggetti, entità o eventi.
Le differenze sono di tipo sia percettivo che valutativo e riguardano, inoltre, la lettura del
mondo nella sua totalità, così come l'interpretazione dei suoi singoli componenti, fino agli stati
non tangibili - emozioni, sentimenti, paure, ecc.
Così come un critico, uno storico e un artista vedono spesso cose diverse osservando la
medesima opera, allo stesso modo ogni persona può elaborare un'immagine singolare del
“mondo”, per cui alcuni fatti ed eventi vengono posti in primo piano, mentre altri possono
essere del tutto ignorati.
Con questo non si intende ammettere il relativismo assoluto: la realtà non può essere
concepita come un insieme di elaborazioni assolutamente individuali. È attraverso costrutti di
natura psicosociale, come le rappresentazioni sociali - nel senso proposto da Farr e Moscovici
(1989) - che si riesce a conciliare il punto di vista soggettivo con la realtà oggettiva, così da
spiegare per quale ragione il mondo, anziché apparire uguale per tutti, viene descritto piuttosto
come un agglomerato di molteplici e mutevoli fenomeni ed eventi5.
Grazie all'idea di rappresentazione sociale diventa superflua ogni discussione sull'oggettività o
meno della realtà, dato che gli individui, pur partendo dalla stessa entità fattuale, finiscono per
rielaborarla in base al proprio vissuto, all’appartenenza etnica e geografica, alle caratteristiche
biologiche, genetiche, cognitive, psicologiche, sociologiche, culturali, economiche. Il prodotto di
questa rielaborazione sono appunto le rappresentazioni sociali. La loro funzione principale è
quindi quella di costruire la realtà - come sostenevano Berger e Luckmann (1969) - o, meglio,
di ricostruirla, come ha poi puntualizzato Moscovici (1989). Gli individui del mondo colgono e
notano solo o soprattutto alcuni fatti, che tendono poi a rivalutare secondo i propri punti di
vista, dimostrando di interagire con la realtà in modo attivo, senza prescindere da essa. Così,
la percezione individuale della realtà è orientata da un terreno di confronto univoco e collettivo,
che la sociologia della conoscenza definisce senso comune (Jedlowski, 1994).
Questo substrato di conoscenze ovvie per tutti, convenzionali e pertanto condivise esiste grazie
ad un insieme complesso di fattori, fra cui la proposta cumulativa e continuativa nel tempo, da
parte di più agenzie – tra cui sicuramente i media – di immagini, azioni, comportamenti,
credenze e valori, in cui componenti di una comunità riconoscono l'identità e la forza del
proprio gruppo di appartenenza.
La trasmissione di determinate immagini, azioni, credenze e la loro “introiezione” (Palmonari
1989) durante il processo di socializzazione permette alle persone di sentirsi approvate e
accettate dalla collettività di riferimento, così da acquisire un'identità sociale, oltre che
individuale6.
Nel caso della nostra ricerca, lo abbiamo detto, abbiamo voluto indagare le rappresentazioni
elaborate da alcuni bambini e preadolescenti a proposito della loro futura vita familiare e
lavorativa, la loro cultura e sottocultura di riferimento, l'universo simbolico che costituisce il
loro comune terreno di confronto. L’obiettivo era comprendere il tipo di realtà costruita alla
4
Cfr. le ricerche condotte dall’Osservatorio Mediamonitor del Dipartimento di Sociologia e Comunicazione della
Sapienza, Università di Roma. www.discuniroma1.it/minori.
5
Attraverso il concetto di rappresentazione sociale si riescono a evitare eccessivi schematismi teorici, per cui diventa di
secondaria importanza capire se è il pensiero che dà forma alla realtà, oppure se è quest'ultima che, agendo sul
pensiero, degrada ogni sua espressione a una passiva e meccanica risposta all'ambiente.
6
Come gli schemi cognitivi, anche le rappresentazioni sociali offrono indicazioni per leggere e ricostruire il mondo.
Fornendo criteri di categorizzazione e interpretazione della realtà, portano generalmente ad associare una certa
immagine a un certo significato, e ad attribuire un determinato senso a certi fatti e fenomeni.
3
base dell’agire di questi giovani attori sociali, partendo dal presupposto che le rappresentazioni
circolanti contribuiscano a modellarle.
Dall’analisi è emerso che i giovani tendono a trarre spunto, nel raffigurarsi il mondo, oltre che
dalla comunicazione e dalle interazioni dirette, soprattutto da un tipo di comunicazione
indiretta, virtuale. Di conseguenza le idee, le immagini, le opinioni e le credenze, su cui
riadattare la scala dei valori, i comportamenti e il modo di agire, devono basarsi anch’esse su
un intreccio di conoscenze sia dirette e personali, che indirette e mediali.
Ma il nostro obiettivo era in particolare quello di vedere come le rappresentazioni vengono
trasformate e/o completate per effetto soprattutto dei meccanismi mediali. Vedere cioè quali
credenze e valori “passano” perlopiù dalla società dell'immagine e della multimedialità
nell'immaginario giovanile.
D’altronde è noto che un bambino socializzato alla società contemporanea, contrassegnata
dalla moltiplicazione delle risorse (Lalli in Lalli, Dino 1996) e dalla complessità (Bentivegna
1994) vive un processo di ricostruzione della realtà particolarmente laborioso.
Fra i vari mondi dell’esperienza diretta e indiretta con cui entra in contatto, quello mediale, e
televisivo innanzitutto, è il più «ubiquo e ambiguo» (Livolsi 1992, p.17). L’ubiquità è data dalla
sua massiccia offerta, tanto che i media sono in ogni luogo e tutti o quasi ne sono fruitori.
L’ambiguità, invece, dipende dal fatto che:
«Ciò che si vede in televisione è quanto di più prossimo alla realtà (o la rappresentazione più attendibile
anche se non fedele) (…). L’ambiguità si presenta con una parvenza di oggettività-realismo: si vede,
come se si fosse presenti, cosa sta avvenendo. Apparentemente nessuno si frappone (…) tra chi guarda
e ciò che si vede (…). L’ambiguità sta nella quasi-realtà così come è proposta» (Livolsi 1992, p. 18).
Da questa prospettiva, il mondo mediale diventa la massima espressione del connubio e
dell’intreccio tra il reale – ovvero la sua rappresentazione - e il fantastico.
Il mondo mediale contiene, infatti, entrambe le dimensioni, creandone una terza, definibile
come “quasi-realtà”. L’atteggiamento nei confronti di questo nuovo mondo, nonostante la sua
evidente ambiguità, è tuttavia perlopiù di fiducia (in particolare rispetto al genere informativo)
o di blanda accettazione/censura, in base alla presenza, più o meno palese, di elementi
verosimili o inverosimili.
Il mondo mediale, comunque, per la sua ubiquità e parvenza di quasi-realtà, può arrivare a
meta-rappresentare la realtà7. Pensiamo all’attenzione che sanno provocare le notizie narrate
dai telegiornali o, ancora, alla capacità dei media di far apparire del tutto ordinari e normali
personaggi, fatti e ambientazioni assolutamente straordinari. Qui – è il caso delle fiction o delle
soap operas - è l’inverosimile a rivestirsi di verosimile.
Nonostante la sua ambiguità, il mondo mediale dà l’idea di sconfinare nel mondo
dell’esperienza diretta, mischiandosi e sovrapponendosi in parte ad essa, fino ad apparire in
alcuni casi più reale della vita vissuta e della quotidianità.
Al mondo mediale, alle sue rappresentazioni e alla sua scala di valori, di conseguenza,
sembrerebbero riferirsi molte persone, bambini compresi.
Così, le rappresentazioni mediali finiscono non solo per intrecciarsi a quelle circolanti
globalmente a livello sociale, ma anche per invaderle. A questa ognuno di noi potrebbe trovare
facile e immediato rimandare per ottenere indicazioni, spiegazioni, motivazioni e, in ultimo, il
“senso” delle proprie azioni. Dato tuttavia che i media non riescono, necessariamente, a
riprodurre la complessità del reale e del vissuto quotidiano, questa meta-rappresentazione
potrebbe avere l’effetto o il “meta-effetto” (Livolsi 1992, p. 27) di ipersemplificare la realtà.
È quello che accade, per esempio, nelle soap opera, nei serial, nelle fiction, ma talvolta anche
nell’informazione.
In questi generi, la comunicazione mediale arriva infatti spesso a esaltare solo certi aspetti
della realtà. In tal modo si può rischiare di tematizzare il nostro ambiente e contesto di vita e
di riprodurlo per stereotipi, enfatizzandone a volte soprattutto l’amore piuttosto che il lavoro, il
denaro, la politica, la bellezza, il successo (Capecchi, Ferrari, 1998). Il reale, così staccato ed
epurato dalla sua complessità, appare più semplice, “iperreale”, ossia eccessivamente centrato
su pochi elementi, enfatizzati e ripetuti.
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Per esempio, possiamo giudicare il mondo dell’informazione “più reale” del “reale” – il termine “Tv verità” non è
casuale – senza accorgerci invece di quanto i suoi personaggi, fatti ed eventi siano riportati in modo distorto e/o
spettacolare. In questo caso il verosimile si investe di inverosimile e diviene coinvolgente, affascinante.
4
Per quanto riguarda la nostra ricerca, abbiamo cercato di rilevare nell’immaginario da noi
indagato l’effettiva compresenza di elementi tratti dai tanti tipi di “mondi” oggi a disposizione.
Rispetto poi alle rappresentazioni del lavoro e della gestione del tempo libero – gli argomenti
da noi analizzati – è possibile rilevare in esse, intrecciati in modo inscindibile, tratti ricavati da
esperienze e conoscenze di varia natura, diretta, indiretta e mediale. Questo insieme di tratti
risente ovviamente del vissuto individuale, psicologico e sociale, ma anche di quello mediato
collettivamente condiviso. Le rappresentazioni risultano, dunque, differenti da bambino a
bambino. Rimandano a “mondi” diversi: l’uno più vicino a quello della quotidianità, l’altro più
prossimo al mondo mediale. E nella nostra ricerca sono numerosi i quadretti di vita
familiare/lavorativa che rinviano a quelli visti, per esempio, in Tv.
IPOTESI E OBIETTIVI DI RICERCA
Le premesse citate sono alla base dell’elaborazione della nostra ipotesi di partenza, ossia che il
reale sia il prodotto di un processo di ricostruzione che risente delle intimazioni oggettive
dell'ambiente, delle istanze soggettive degli individui e delle interazioni fra di essi. La
ricostruzione della realtà comporta poi la divulgazione di idee, credenze e concezioni
riguardanti vari aspetti della vita e della quotidianità. A queste, in forza degli scambi che
avvengono nel sociale, viene attribuito un significato convenzionale che permette la reciproca
comprensione e getta le basi per la condivisione del senso comune. Nel precipitato vengono
individuate le rappresentazioni sociali. Le stesse poi, insieme alle rappresentazioni mediali,
confluiscono nel più ampio immaginario collettivo. A quest'ultimo infine si rimanda per
orientare il nostro agire, oppure per elaborare ulteriori credenze e immagini, che tornano ad
arricchire l'immaginario.
Il titolo del primo elaborato che abbiamo sottoposto ai bambini e ai preadolescenti di Roma
serviva per invitarli a immaginare loro stessi nel futuro, nei panni di persone adulte, per
scoprirne fantasie, desideri, aspettative e sogni.
L’obiettivo era duplice: osservare quali rappresentazioni hanno della realtà che li circonda, e
rilevare, all’interno di queste rappresentazioni e progetti di vita, l'influenza delle varie agenzie
di socializzazione, mondo mediale in particolare. Questi sogni a occhi aperti rivelano molti
aspetti dei preadolescenti di oggi: danno l'idea dei valori-indici della contemporaneità a cui le
nuove generazioni fanno riferimento e fanno riflettere su tendenze di comportamento e stili di
vita verso cui si stanno orientando.
REALISMO
Inaspettatamente il realismo si è configurato come una qualità più diffusa presso i bambini
delle scuole primarie che presso i ragazzi delle scuole medie inferiori.
Inoltre, indipendentemente dall’età, sono soprattutto le femmine ad avere un’immagine del
loro futuro verosimile e piuttosto vicina alla realtà.
Gli esempi sono molti, ma non costituiscono l’orientamento predominante.
«Forse sarò una studentessa o forse un lavoratore, questo non lo so. Ora come ora credo proprio che farò
la studentessa che lavora e studia come tale per laurearsi.
Io penso che nel tempo libero uscirei per vedermi con gli amici, fare due chiacchiere qualche risatina
insieme e magari anche mangiare una pizza».
M. 12 anni, padre manager, madre impiegata
«A trent’anni la mia vita sarà felice, avrò una moglie e due bambini. Farò l’impiegato e avrò uno
stipendio fisso. Abiterò in Via Marconi in una villa a tre piani con un cavallo e una scimmia. Nel mio
tempo libero starò con i miei figli e giocherò con loro».
L. 9 anni, padre impiegato, madre impiegata.
«La mia vita sarà movimentata. Io farò il carabiniere. Io abiterò in Spagna. Andrò in moto.»
A. 9 anni, papà archivista, mamma impiegata.
«A trent’anni la mia vita sarà felicissima con una bella famiglia numerosa; porterò le lenti a contatto.
Farò il calciatore e abiterò a Roma …, praticamente dove abito ora. Sicuramente aiuterò i poveri e gli
ospedali. Sarà una vita bellissima!»
C. 9 anni, padre chimico, madre insegnante.
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Le contraddizioni e la commistione di elementi immaginari e fantastici resta comunque la
prerogativa di quasi tutte le proiezioni del nostro campione, legata probabilmente alla normale
propensione verso l’esercizio della fantasia propria dell’infanzia.
Non è esclusa però una certa influenza delle rappresentazioni mediali, in cui è spesso difficile
distinguere gli elementi “ordinari” da quelli “straordinari”.
D’altronde, l’immaginario dei bambini può essere meno vario, parlando dei contenuti, di quello
degli adulti. In effetti, i più piccoli dispongono di un minore numero di elementi per produrre
rappresentazioni, progetti e sogni, dato che per la loro giovane età hanno accumulato meno
conoscenze ed esperienze. Per questo motivo, l’immaginario preadolescenziale può apparire
agli occhi di un adulto piuttosto omogeneo e ripetitivo.
Inoltre, se i bambini possono elaborare immagini meno complesse e ricche rispetto a quelle di
persone adulte, tendono anche a ricorrere più frequentemente alla fantasia e ai suoi
meccanismi, dando origine così a rappresentazioni anche molto originali e spesso caratterizzate
dalla mancanza di senso della misura, caratteristica tipica sia del pensiero giovanile, che
collegabile alla spettacolarizzazione della realtà operata dai media.
Il fatto di credere e immedesimarsi più degli adulti in situazioni e personaggi immaginari
dipende, infine, dal bisogno dei preadolescenti di ricerca e costruzione della propria identità e
di affermazione del proprio sé. Questi bisogni spingono i ragazzi a calarsi con piacere nei panni
di molteplici personaggi, fino a rendere l’”io” anche molto flessibile: alcuni di essi possono
proiettarsi in innumerevoli ruoli, spesso contraddittori tra loro o ambivalenti, per il desiderio di
soddisfare aspirazioni differenti. È il caso della bambine che vorrebbero diventare
contemporaneamente segretarie, forse per prossimità alla professione, fotomodelle per vanità
e medici-chirurghi per ambizione. E ancora, è il caso dei bambini che pensano di fare i muratori
per necessità, dopo aver immaginato di essere stati calciatori per passione.
«Spero che a trent’anni io sarò scienziato o calciatore, ma preferisco scienziato. La mia vita sarà normale e
piena di soddisfazione. Abiterò a Roma nei pressi del Colosseo e dei Fori imperiali. Nel tempo libero mi
dedicherò alla mia famiglia. Comunque il mio vero sogno è scrivere e lavorare a Londra, ma so che è
impossibile comunque io ci proverò.»
J. 13 anni, padre insegnante , madre casalinga
Anche in questa volubilità abbiamo letto, oltre a una tendenza propria della preadolescenza, un
altro aspetto della contemporaneità. La multimedialità e l’offerta di consumi e opportunità che
la contrassegnano non possono infatti che favorire la tendenza alla “liquidità” dell’io 8.
Questa fase della ricerca aveva proprio lo scopo di capire come le caratteristiche della
contemporaneità interagiscano con alcune peculiarità della preadolescenza, quali la limitata
conoscenza del mondo, l’abitudine a credere nei propri sogni e a ricorrere spesso alla fantasia,
(dissociando-associando-combinando elementi in modo strano, oppure ingigantendolirimpicciolendoli) l’egocentrismo, il principio di realtà non del tutto strutturato, una certa
mancanza di senso della misura, da rapportare alla tentazione di esprimersi e comportarsi in
maniera iperbolica ed eclatante, la volubilità e l’ambivalenza dei desideri.
Dall’analisi effettuata sembra che il processo di socializzazione che porta i più piccoli a far parte
del mondo adulto, avvenga velocemente nei bambini contemporanei, constata la loro generale
attitudine a ragionare come i “grandi”, in un vortice di apprendimento che genera quello che è
stato variamente definito fine dell’innocenza dell’infanzia (Giroux, 1999), scomparsa
dell’infanzia (Postman, 1982) o socializzazione di corsa (Morcellini, 2007).
Così, per esempio, essi parlano del loro presente e del loro futuro in modo calcolato, avveduto,
pragmatico come negli esempi che seguono.
«La mia vita è molto organizzata e ordinata. Ho una bella famiglia con tre figli. Sono un portiere di una
serie dove si guadagnano pochi soldi, quelli che bastano per arrivare a fine mese. Abito in una bella
città, Roma, dove possiamo osservare molti resti archeologici. Nel tempo libero gioco con i miei
compagni di squadra, gioco a biliardo e con la playstation. Mi dedico molto anche ai miei tre figli, a cui
bisogna dare una buona educazione che potrà servire loro sempre.»
S., 13 anni, padre avvocato; madre impiegata.
«Ciao sono Ivan, ho trent’anni e sono sposato con un figlio piccolo. Faccio il chirurgo e abito in una
villetta fuori Roma e nel tempo libero gioco a calcetto con i miei amici. Mi sono sposato il 12 Dicembre
8
Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Roma - Bari, Laterza 2003.
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del 2016 a 22 anni con una ragazza della mia stessa età che ho conosciuto all’università nella facoltà di
medicina. Ho iniziato a lavorare a 28 anni e mi sono subito trovato bene, l’anno prima di sposarmi. Ho
comprato una villa con un bel giardino e una piscina. Durante il tempo libero gioco a calcetto con i miei
amici e gli amici dei miei colleghi.»
I. 13 anni, padre dirigente d’azienda, madre casalinga
«La mia vita è impegnata con dei problemi, ma felice e movimentata. Faccio il vigile del fuoco. Abito a
Roma nel quartiere dove abito adesso. Nel tempo libero andrò in barca con i miei amici e in vacanza con
la mia famiglia.»
M. 12 anni, padre architetto, madre impiegata
«La mia famiglia è formata da un marito e due figli e dal mio lavoro che amo: la pediatra. Anche se
immersa nel lavoro sono una persona spensierata e piena di vitalità. Nel mio tempo libero, oltre ad
uscire con la famiglia prendendomene cura mi scateno entrando in un supermercato e comprando più
schifezze possibili.»
F. 13 anni, padre commercialista, mamma bancaria
Il campione della ricerca, così, dà l’idea di riuscire a riconoscere con molta facilità e
immediatezza ciò che è "straordinario-fantastico" da quello che è invece "ordinario-realistico".
Questo fatto è senz'altro positivo, se consideriamo l’importanza che ha distinguere la realtà
dalla finzione. D’altra parte, nell'immaginario preadolescenziale, se non sono frequenti
rappresentazioni e progetti di vita decisamente fantastici o meravigliosi, sono invece numerosi
quelli ambigui, connotati da un misto di elementi fra il verosimile-ordinario e l'inverosimilestraordinario. Molti dei sogni straordinari hanno poi poco che fare con il pensiero creativo e la
fantasia, dal momento che la loro straordinarietà consiste perlopiù in tratti materiali e valori
capitalistici, straordinari non per originalità, ma per esagerazione.
«La mia vita è movimentata. Il mio lavoro è la moto GP.
Abito nel Quinz in un palazzo sospeso per aria, nel tempo libero sto al bar a bere la Peroni, guido
un’astronave Spaziale della Cia e fumo Sigari cibori e arresto le baby gang. E comprerò un Aston Martin
prudente che spara ai cittadini con la bomba Nucleare.»
S., 12 anni, padre ingegnere; madre medico.
«Io sono Jessica, ho 30 anni e la mia vita è bellissima, faccio l’attrice e una popstar con molti fan. Io
abito in una lussuosa villa con una piscina a Holliwood e un po’ anche qui a via torre di Morena con i
miei genitori per alcuni giorni; nel mio tempo libero vado a fare shopping con altre attrici che conosco e
con le mie amiche.»
J. 10 anni, padre custode, madre casalinga
«La mia vita sarà semplice ma divertente. Sposato con due figli. Da grande farò l’agente spia dell’fbi o il
calciatore. Abiterò al centro di Roma dove abito ora. Nel tempo libero giocherò a pallone e mi dedicherò
alla mia famiglia.»
F. 13 anni, padre impiegato, madre casalinga
Talvolta la fantasia si spinge fino a descrivere scenari da Apocalisse.
«L’effetto serra ha devastato il pianeta e il genere umano si è estinto per sempre. Le poche piante rimaste
sono tossiche, la percentuale di anidride carbonica è elevatissima, il pianeta è destinato a esplodere e
nonostante qualche migliaio di umani sia sopravvissuto è arrivata un’invasione aliena che ha soggiogato il
pianeta sterminando gli umani. Di conseguenza io sono morto all’età prematura di 22 anni.»
M., 13 anni, padre dirigente di banca, madre casalinga.
Per tutto questo, abbiamo ritenuto di scorgere nell'immaginario infantile alcuni segni della
comunicazione veicolata dai media. In essi, infatti, troviamo elementi decisamente ordinari,
mischiati a elementi assolutamente straordinari, proprio come talvolta accade nel mondo
mediale.
LAVORO E STILI DI VITA. LA MEDIAZIONE QUOTIDIANA
Le rappresentazioni presenti nell'immaginario dei giovani sono necessariamente elaborate sulla
base di quelle trasmesse loro dagli adulti e, nel complesso, dalla comunicazione circolare,
risultato della sinergia delle varie agenzie di socializzazione. È così che riusciamo a dedurre i
valori-indici e i tratti tipici della contemporaneità, che investono necessariamente ambiti
specifici della quotidianità immaginata, come la vita familiare e lavorativa.
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Per quanto riguarda per esempio la coppia/famiglia, i nostri intervistati l'hanno oggettivata
tanto in un nucleo figurativo corrispondente più al quadretto della “famiglia perfetta” o della
famiglia disgregata da terribili fatti di cronaca, entrambi topoi dei contenuti mediali, che non a
una più probabile idea della famiglia media italiana. I valori alla base della prima
rappresentazione sono quelli della tradizione - almeno rispetto agli aspetti formali della vita a
due - con qualche cenno timidamente innovativo, come la rivendicazione della parità da parte
delle bambine, in fatto di incombenze familiari.
«A trent’anni mi immagino sposata, avvocato, con una vita divertente. Due figlie femmine gemelle.
Abiterò in un bel quartiere di Roma, con un gattino e un cagnolino. Nel tempo libero mi divertirò ad
andare a cavallo e a giocare a tennis con i miei familiari. Mi vedo in sintesi una donna in carriera con una
bella famiglia benestante, una buona vita sociale ed un buon rapporto con i miei genitori.»
F. 12 anni, padre carabiniere, madre bancaria
«Nel tempo libero mi occupo dei miei figli e di mio marito, e se avanza il tempo vorrei andare a fare sport
tenendo il mio fisico in allenamento e avendo cura della mia salute.»
F. 13 anni, padre otorino, madre logopedista
«La mia vita è nè troppo semplice nè troppo difficile. Ho due figli (Giovanni e Michele) sono sposata con un
calciatore.
Il mio lavoro è il notaio o l’attrice.
Abito in una casa con 2 piani e una villa con una piscina e tanto prato e fiori come vicini ci sono i miei
genitori o i miei cugini o … amici.
Nel tempo libero faccio shopping … mi riposo un po’ sul letto guardando un telefilm, sto con mio marito e a
casa invito una mia amica.»
M. 11 anni, padre medico, madre giudice
La tradizione formale è evidente nel fatto che ben pochi bambini e preadolescenti pensano di
rimanere single spensierati, senza moglie, marito, nè figli da accudire. La vita di coppia
descritta si dipinge poi di una certa formalità dal momento che viene considerato un fatto
scontato, un evento che capita a tutti intorno ai trent'anni, a prescindere da sentimenti e
passioni. All’amore romantico, nel senso più autentico del termine, con tutti i suoi drammi e le
sue vicissitudini, accennano raramente solo le bambine; allo stesso modo raramente si accenna
all’amore fedele e per sempre, suggellato da un classico matrimonio in chiesa.
Nel declino del romanticismo e del sentimentalismo si può leggere una conferma delle tendenze
rilevate dall’analisi quantitativa a proposito dei valori dei più giovani.
In effetti, nell'immaginario preadolescenziale i riferimenti a valori come l'onestà e la fedeltà, la
sincerità, l'attenzione verso il prossimo o lo spirito di sacrificio, sono praticamente assenti.
Sono pochi anche i riferimenti all’amore incondizionato, mentre abbondano i rimandi all’amore
televisivo e pubblicitario “tutto gioia, apparenza e spensieratezza”.
Sposarsi sembra spesso per i ragazzini e le ragazzine, semplicemente andare ad abitare con
un’altra persona, con cui è fuori di dubbio avere dei figli, così come è normale riuscire a fare
tutto ciò che si vuole, proprio come se si restasse da soli, in un'atmosfera di perenne, ma forse
poco realistica, intesa serena.
«Penso e spero che a trent’anni la mia vita sarà normale. Spero di fare il notaio. Probabilmente abiterò al
centro di Roma con la finestra che si affaccia su San Pietro o magari sul Colosseo. Penso che il mio tempo
libero lo userò per giocare a calcio o a tennis, per leggere, per uscire con gli amici, stare con mia moglie,
mio figlio la mia famiglia. Comunque il mio futuro per me è sempre stato indecifrabile da capire o da
immaginare».
S., 12 anni, padre dottore, madre casalinga
Per alcuni bambini, poi, la moglie è spesso un “oggetto” da esibire e che non si può non
“possedere al pari della Tv al plasma, della piscina e della villa a tre piani.
«Sono famoso, ricco sfondato, sono l’uomo più ricco del mondo e riguardo il campo tecnologico mi
chiamano l’erede di Bill Gate.
Ho vinto Il milionario e l’Eredità e mi chiamano: l’asso dei quiz. Ho una moglie bionda alta».
L. 12 anni, padre carabiniere, madre commissario di polizia
Ogni evento della vita familiare sembra essere razionalmente programmato e calcolato senza
imprevisti o intoppi, almeno per la maggior parte dei bambini intervistati: ci si sposa, si trova
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un buon lavoro, si va a vivere in una bella casa e si fanno dei figli. Rari sono i casi in cui si
accenna a litigi o all’ipotesi del divorzio, ma quando lo si fa i riferimenti televisi alle soap operas
appaiono in tutta la loro evidenza.
«Sarò stilista e mi sposerò con un uomo ricco sfondato, bello, biondo con gli occhi azzurri, pompato
ricoperto di muscoli su tutto il corpo. Insieme faremo due figli, un maschio e una femmina, che si
chiameranno Simona e Francesca. Dopo quattro anni divorzieremo e mi sposerò (di nuovo) con un famoso
attore molto giovane e muscoloso. Con lui avrò altri tre figli che si chiameranno: Sarah, Edoardo e Silvia.
Con lui la mia vita cambierà radicalmente: vivremo in una super villa colmata da ori e chiwawa di tutti i
generi e poi due askie e quattro volpini. Insieme vivremo una vita felice e d’amore, e soprattutto di soldi!
Insieme la nostra storia durerà fino a quando dopo vent’anni morirà avvelenato da nostro figlio Edoardo.
Allora torno dal mio ex marito, ma lui mi caccia perché si era risposato anche lui, però dopo poco tempo
capirà che io, la sua vecchia fiamma, voglio tornare veramente con lui e uccide la sua nuova moglie.
Una volta compiuti i miei 80 anni andiamo tutti a vivere a Las Vegas. E vivremo tutti felici e contenti».
S. 12 anni, padre geologo, madre professoressa
Tutto, nei bisogni e desideri di lui e di lei, deve continuare a coincidere al millimetro proprio
come nei film, sicché le esigenze dell'uno combaciano con quelle dell'altro, pena, si potrebbe
intuire, il fallimento del matrimonio.
Niente sembra essere più importante di sé stessi e di quello che ognuno, egoisticamente,
vuole. Tutto, inoltre, dall’incontrarsi, al conoscersi, all’andare a vivere insieme, avviene a ritmi
accelerati, com'è consuetudine nella vita di oggi, cosicché ogni rapporto sembra rivestirsi di
fretta e superficialità, persino quelli che dovrebbero segnare un punto di non ritorno, come il
matrimonio. Sembra che conti, nella vita di coppia, non l'amore e la comprensione reciproci,
ma la capacità di “lasciar vivere” e il “possesso”, da parte del compagno o della compagna, di
determinate caratteristiche.
«Io a trent’anni avrò una famiglia con due figli. Mia moglie dovrà essere una straniera, preferibilmente
un’americana che lavorerà in banca. Io vorrei fare l’agente che ha i cani per trovare sostanze stupefacenti
ed esplosive.»
D. 12 anni, padre guardia giurata, madre maestra
L'importante è che il marito o la moglie rispettino non tanto la personalità dell’altro quanto il
suo individualismo e la sua esigenza di “fare” senza limiti.
La sensazione che ne deriva è che solo in questo modo possa reggere un’organizzazione
familiare e lavorativa tanto piena di impegni e incombenze. Lo spirito di sacrificio non sembra
quindi far parte del mondo previsto dai ragazzini, nemmeno in minima parte. Lo stesso senso
del dovere espresso dalle bambine nei confronti della parità in casa e nella famiglia può essere
letto più come un retaggio scontato, dovuto, che come un impegno responsabilmente assunto.
In questo quadretto idilliaco, non c'è posto per nonni o altre persone da accudire. Al massimo
si tengono volentieri in casa animali domestici.
Un ulteriore requisito richiesto al compagno o la compagna è la ricchezza necessaria per
condurre una vita agiata, piena di oggetti e passatempi. Il benessere materiale diventa
pertanto una prerogativa fondamentale per consolidare l'amore a due o quattro al massimo,
includendo la prole.
La famiglia immaginata, in quest’ottica utilitaristica, si trasforma allora in un luogo-spazio
ideale dove avere e godere di tante cose. La stessa casa in cui i bambini immaginano di vivere
perde la tradizionale connotazione di rifugio, magari piccolo, per diventare una gigantesca villa
lussuosa, completa di parchi, piscine, campi da tennis e palestre per il fitness.
La famiglia descritta dai preadolescenti trova quindi la propria fondamentale ragion d'essere nel
fatto di avere ciò che si desidera. E ciò è particolarmente evidente in quella categoria di
bambini intervistati da noi denominata “i milionari”.
«Ho una bellissima vita di lusso: sono milionario. Ho appena iniziato la mia carriera di cardiochirurgo.
Abito in America in una villa immensa con una mega piscina.
Ascolto musica e guardo la Tv».
F., 12 anni, madre insegnante; padre dirigente d’azienda.
«La mia vita sarà bellissima sarò milionario e vivrò in una casa come quella del Grande Fratello (più
grande) e avrò una piscina gigante e due cani (Labrador) e 5 figli e faccio il calciatore e nel tempo libero
andrò a fare dei ponti».
P. 12 anni, padre carabiniere, madre ristoratrice.
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«Ho trent’anni, lavoro ai computer, ho una villa all’Eur, con piscina, campo da calcio, tennis ed altri, ho un
televisore al plasma 42 pollici, 30 camere, 3 bagni, un sacco di saloni e di camere da letto, cucine ecc…
La mia vita è bella, ho un sacco di amici e nel tempo libero vado al cinema, a volte gioco a calcio, navigo
su internet».
D. 11 anni, padre poliziotto, madre impiegata.
Queste rappresentazioni, seppure caratterizzate da evidenti eccessi infantili, non sembrano
coincidere esclusivamente con quelle trasmesse ai bambini da genitori e adulti.
È piuttosto chiaro che i bambini, nell’elaborarle, abbiano tratto spunti, oltre che dalla vita
familiare di tutti giorni, anche e soprattutto dal mondo mediale. Risulta altrimenti difficile
comprendere l’abbondanza di copioni tanto stereotipati, inverosimilmente gioiosi e così in bilico
fra ordinarietà - rintracciabile nell'elenco preciso e attento delle azioni quotidiane - e
ordinarietà dei componenti la famiglia, del loro modo di comportarsi e delle abitazioni in cui si
muovono.
I riferimenti al mondo dei media sono espliciti ed evidenti nella tipologia di case descritte, nelle
carriere ipotizzate o desiderate, nello scenario sentimentale e lavorato immaginato.
«Se avessi trent’anni in questo momento avrei gli occhiali, piccoli che cadrebbero leggeri sul naso
concentrato sul computer sforzando le meningi per cercare di elaborare un buon articolo per il giornale da
me diretto. Luca, arriva a passo svelto dal salone si avvicina e mi bacia leggero sulle labbra; ha un graffio
sulla guancia e la pistola sotto la giacca ormai non dà più troppe attenzioni, sa bene che sua moglie ha
capito che fa l’agente segreto, è proprio al suo lavoro che dobbiamo il nostro portafoglio sempre pieno e la
nostra casa Holliwoodiana su piazza di Spagna».
S. 13 anni, padre dirigente Alitalia, madre medico
Infine, per il gruppo di preadolescenti intervistati, è come se non esistessero problemi come la
disoccupazione, la possibilità di trovare un lavoro confacente alle proprie aspettative, la fatica, i
sacrifici e le responsabilità. Ciò rafforza i risultati della prima fase della ricerca relativi a ciò che
importante per i bambini e i ragazzi intervistati.
La rappresentazione sociale del lavoro viene gettata in un mondo a parte, poco o per niente
noto. La sua descrizione appare così generica, non ancorata ad alcun tipo di schema, categoria
e riferimento preciso, al punto che i commenti raccolti fanno pensare che i giovani abbiano
avuto poche occasioni per conoscere direttamente, grazie a qualche racconto vero o esempio
concreto, cosa significhi lavorare, complici in questo gli adulti e le varie agenzie di
socializzazione. Si deve pertanto credere che i preadolescenti arrivino a conoscere il mondo
lavorativo in base soprattutto a come viene loro narrato e raffigurato, in modo indiretto, dai
prodotti-giocattoli per l'infanzia e dai programmi televisivi. Ciò spiega anche l’alta percentuale
di calciatori e cantanti o attrici. Tra le tante professioni esistenti vengono così citate
ripetutamente solo alcune, e di queste vengono enfatizzati certi aspetti piuttosto che altri, in
modo spesso spettacolare e necessariamente parziale.
Così, può accadere che i più giovani, stando alle conoscenze di tipo indiretto e mediale,
elaborino della realtà e di certe sue dimensioni un'idea ipersemplificata, a metà fra ordinarietà
e straordinarietà. Queste infatti viene rappresentata e riassunta in poche tipologie di coppiafamiglia e di adulti-professionisti. Fra queste tipologie non esistono grandi differenze ed è facile
individuare dei fili rossi che le percorrono trasversalmente. Accade così che su valori-indici della
contemporaneità come l'individualismo, l'edonismo e il materialismo, i nostri intervistati
modulino atteggiamenti e progetti di vita. Nell'orientamento omogeneo verso questi valori
riconosciamo, quindi, il substrato culturale che sottende nel complesso rappresentazioni sociali
non solo della famiglia o del lavoro, ma più in generale dello stile di vita attuale. In esso,
inoltre, individuiamo il sistema o il paradigma di rappresentazioni e credenze che guidano e
offrono consenso ad agire sociale e odierno. Questo sistema di rappresentazioni è
evidentemente affine all’'American way of life, stile di vita d’oltreoceano che rimanda alla
ricerca della massima realizzazione personale e del massimo benessere materiale.
Livelli di realtà e rappresentazioni diverse si mescolano, dando vita a un immaginario collettivo
caratteristico dei nostri tempi.
Fra questi tratti di natura un po' ibrida troviamo la disordinata commistione di elementi ordinari
e straordinari. Ordinario, per esempio, è sperare di diventarle un ingegnere, un veterinario o
una segretaria; è straordinario, però, pensare di diventare ingegneri, veterinari o segretarie
capaci di guadagnare molto denaro con facilità e in poco tempo, circondati da un'abbondanza di
oggetti status-symbol, abitanti di ville megagalattiche, visibili più nei film americani che nel
contesto di vita reale italiano. E ancora è normale ambire a diventare un avvocato o un
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medico; significa però ipersemplificare la realtà e averne una visione limitata e poco conforme
al vero se quasi tutti i bambini desiderano fare gli stessi mestieri; se i lavori possibili e ideali
vengono riassunti in una rosa ristretta di professioni; e se di tutti i lavoratori vengono
evidenziate aspirazioni e orientamenti valoriali molto simili fra loro. Del resto, bisogna dire che
la comunicazione circolare e mediale non fa che mostrare e mettere in primo piano
professionisti come avvocati, architetti, stilisti e medici piuttosto che operai, panettieri,
artigiani e commercianti. Nel bene e nel male, dunque, i protagonisti di racconti, fiction, serial,
film o telefilm sono perlopiù professionisti affermati, in ascesa o in rovina, ma pur sempre
professionisti. Nel mondo della “quasi-realtà” non paga infatti, in termini di pubblico, mettere in
scena la normalità e l’ordinarietà, con le sue più consuete vicissitudini.
In sintesi, sembra che i bambini confondano o abbiano sostituito la concezione del lavoro con la
sua funzione più materialista e utilitarista. Per i nostri ragazzi le professioni sono ciò che
permetterà loro di comprare molti oggetti, passatempi e divertimenti. Il senso del lavoro
risiede così, quasi esclusivamente, nel suo servire a ottenere benessere, tanto da essere
oggettivato nel denaro e ridotto ad essere ben retribuito. Perde, in genere, qualunque
significato che rimandi non solo alla sua primaria finalità di sostentamento, ma anche alla
passione, all'interesse, al coinvolgimento, alla voglia di specializzarsi, di misurarsi, di scoprire,
di progredire.
UNO SGUARDO DI INSIEME
In genere, i preadolescenti nel costruire alcuni momenti della realtà quotidiana, ne hanno dato
una rappresentazione ipersemplificata, iperrealistica, sospesa tra verosimile e inverosimile.
Nonostante l loro immagine del futuro non rispetti la varietà del reale e sia anzi, per certi
aspetti, più vicina al mondo mediale che a quello della quotidianità, la stessa tende a diventare
la metarappresentazione della realtà, indicando di quest'ultima quali debbano essere i tratti e i
valori peculiari. Capita così che i bambini guardino a essa nel pensare e progettare il loro
futuro. Questa rappresentazione a sua volta non fa che proteggere e confermare il sistema di
valori che sottostà alla contemporaneità. Ne deduciamo che il consenso collettivo e il senso
comune si basino attualmente sul sistema di valori, tipicamente occidentale, volto soprattutto
alla massima realizzazione personale e alla ricerca del massimo benessere materiale.
Desiderio di denaro e consumismo, più o meno intensi, sono il comune denominatore dei sogni
qui riportati, così come averi e oggetti di lusso appaiono il corollario per chi è “bello” e ha
raggiunto “fama e successo”.
«La mia vita sarà piena di cose nuove e molto felice farò il calciatore o l’avvocato abiterò o a Roma o
Parma nel mio tempo libero io lavorerò e mi sposerò e farò dei figli e vado in vacanza con loro al mare in
campagna quando avrò una casa in campagna.»
G., 10 anni, padre pubblicitario, madre ricercatrice.
Dalla frequente combinazione di queste aspettative con un lavoro e uno stile di vita
tradizionalista, se non un po' sotto tono, emerge una certa distanza - altro tratto tipico di
quest'immaginario giovanile - associata a una sorta di scarso senso delle misura, per cui
ambientazioni e situazioni decisamente eccezionali o straordinarie vengono ritenute del tutto
normali o ordinarie.
In particolare, i ragazzi che appaiono più tradizionalisti rappresentano il macrogruppo più
consistente e rispecchiano, in modo più o meno pratico e spettacolare, la concezione del vivere
di un’Italia borghese, come quella attuale del centro-nord, ben ancorata ai propri privilegi e che
aspira a un benessere ancora maggiore, senza però rinunciare ai buoni sentimenti casalinghi e
alle più semplici distrazioni. Forse anche a causa di questo proverbiale provincialismo e
attaccamento alle cose domestiche tutto italiano, succede che la voglia di cambiamento e di
sviluppo si esprima perlopiù nel desiderio di consumare e stare al passo con le mode. Lo stile di
vita prevalente continua così a guardare verso valori e comportamenti collaudati pur con alcuni
cenni di innovazione - come l’esterofilia e una maggiore tendenza alla mobilità - che comunque
stentano a imporsi. La rappresentazione del futuro che emerge dalle descrizioni della maggior
parte dei bambini e delle bambine riflette insomma l’immagine di un paese in equilibrio
precario tra vecchio e nuovo.
Fa da contrappasso a quest'Italia fondamentalmente tradizionalista, rappresentando il nuovo in
modo eclatante, il gruppo meno esteso degli “sportivi, divi e ambiziosi”. La sensazione è che,
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nell'immaginario giovanile, questi tipi stiano prendendo il posto di altre precedenti tipologie
mitiche. Sono loro i nuovi emergenti, accomunati dall'essere circondati da beni e figure indici di
prestigio come macchine, abitazioni sontuose, camerieri, cuochi, mogli e mariti dalla bellezza
stereotipata.
È un “nuovo”, quello rappresentato da questi idealtipi, connotato da forte ambizione,
affermazione personale, competitività, edonismo e da una più urlata voglia di ricchezza, tanto
che, nel loro caso in particolare, il superfluo diventa necessario. Vista la forte connotazione di
spettacolarizzazione, questo gruppo probabilmente trae gran parte dei suggerimenti dal mondo
mediale.
Nonostante le differenze, i due macrogruppi individuati rivelano nei rispettivi sogni una comune
e netta prevalenza di tratti ed elementi ordinari e omogenei tra loro. Non mancano tuttavia
iperboli, esagerazioni ed eccessi, che però riguardano il lato materialistico dell'esistenza,
mentre hanno a che fare molto poco con la fantasia e la creatività.
I bambini e le bambine che invece immaginano “lavori ordinari in contesti straordinari”
rappresentano la tipologia che fa da ponte fra quelle precedenti. Chi sogna “lavori ordinari in
contesti straordinari” sta infatti a metà tra coloro che pensano in modo calcolato e utilitaristico
e quanti invece sognano in modo meno convenzionale e più fantastico. Nelle loro descrizioni si
notano pertanto diversi elementi inconsueti; alcuni di questi, tuttavia, nonostante la loro
maggiore originalità, rimangono connotati dai soliti valori materialistici. Anche in questo caso,
quindi, la realizzazione di sè sembra dipendere più dell'avere tante cose che non dall'essere e
dall'agire in qualche modo particolare. Ancora una volta, inoltre, i centri di interesse principali
sono gli oggetti posseduti, nella cui immagine simbolica i ragazzi sembrano ricercare la propria
identità, dallo sforzo di avere-fare-essere tutto.
Solo tra i ragazzini che pensano a “lavori straordinari in contesti ordinari” e i “sognatori”
troviamo una certa attenzione all'essere e una maggiore originalità, frutto, questa volta, del
pensiero più creativo e fantasioso. L’ipotesi, in tal caso, è che un contesto di vita ricco di
opportunità di ogni genere riesca a favorire l'ideazione di descrizioni tanto particolari.
Considerando poi il lavoro e lo stile di vita immaginato in relazione al genere sessuale, abbiamo
notato l'innovativa tendenza delle femmine ad aspirare a professioni gratificanti, in modo più
accentuato rispetto i maschi. Questo fatto può essere interpretato come un segno dei
cambiamenti avvenuti nella società per quanto riguarda il ruolo delle donne, e la loro stessa
percezione.
A tale proposito, è significativo che le bambine di oggi immaginino con disinvoltura di svolgere
attività un tempo considerate tipicamente maschili come quelle di avvocato, giornalista,
architetto, ingegnere, medico, o veterinario. Le ragazzine, tuttavia, nonostante questa
maggiore tendenza all'innovazione ed emancipazione, manifestano una minore esuberanza e
sicurezza di sé rispetto ai coetanei maschi. L'iperbole e le esagerazioni sono inferiori nelle loro
descrizioni, mentre sono presenti in misura superiore la preoccupazione per il proprio futuro e
più in generale per la situazione economica del paese.
Nel complesso, anche se il desiderio di lavorare è accentuato, per le ragazzine il fulcro dei
progetti continua a rimanere la casa e la famiglia. Verso le “faccende” domestiche, queste
donne di domani esprimono infatti senso del dovere, mentre tendono a pensare all'occupazione
extra domestica più in termini di gratificazione e soddisfazione personale che di vera e propria
necessità. Per bambini, al contrario, il punto obbligato del loro futuro rimane il lavoro, verso cui
versano una preoccupazione maggiore di quella esibita verso le faccende di casa e la cura dei
figli, nonostante si registrino, anche nel loro caso, indubbi atteggiamenti innovativi (senso della
paternità, disponibilità ad aiutare la moglie). L'atteggiamento e le aspettative dei maschi circa
la professione risultano quindi meno liberi di quelli delle femmine.
Riguardo, invece, alle differenze o alle analogie correlate all'estrazione socio-culturale dei nostri
intervistati, abbiamo notato che solo alcuni bambini di ceto inferiore non pensano al lavoro e
allo stile di vita con ottimismo. In essi abbiamo individuato coloro che si distinguono dagli altri
per la mancanza pressoché totale nelle descrizioni di elementi straordinari e fantastici, anche
solo in termini materialistici, e per la mancanza di interesse verso il cambiamento. Negli
elaborati di questi ragazzini si parla di passatempi abituali e diffusi come la televisione, mentre
sono pochi i riferimenti a occupazioni più originali o multimediali. Nel loro caso, prevale
l’ordinarietà e la rassegnazione verso ciò che il destino riserva.
«La mia vita è semplice e serena e sono fidanzata… farò la carabiniera o la poliziotta.
Abiterò al monte Circeo con il fidanzato. Nel mio tempo libero andrò all’università.»
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L., 10 anni, padre carabiniere, madre segretaria.
«La mia vita è tranquilla.
Faccio la barista e abito in una casa normale.
Nel mio tempo libero mi faccio una passeggia, guardo la televisione oppure vado al mare.»
V., 9 anni, padre portiere, madre figurante programmi Rai.
Fra gli “sportivi, i divi e gli ambiziosi” troviamo invece bambini e bambine di ogni ceto. Nel loro
caso, è come se la cultura delle mode e dell’effimero fosse riuscita ad annullare, almeno a
livello immaginario, le barriere e le differenze sociali, proponendo a tutti le stesse immagini e
gli stessi prodotti, per cui i ricchi come i poveri possono ambire a sogni di “bellezza, ricchezza e
fama”.
«La mia vita è bellissima, il lavoro che farò è il calciatore e abiterò a Roma.
Nel mio tempo libero giocherò a calcio.»
L., 9 anni, padre direttore banca, madre direttore amministrativo di una scuola.
«Sarò sposato, avrò un figlio, sarà una bella vita.
(Farò) Il calciatore. A Roma.
Insegno ai miei figli a giocare a calcio.»
E. 10 anni, padre avvocato, madre avvocato.
«La mia vita sarà bella sarò sposato e avrò due figli, un maschio e una femmina.
Farò il calciatore, vorrei stare nella Roma.
Abiterò a Roma.
Gioco a calcio.»
A., 10 anni, padre insegnante, madre casalinga.
Questi preadolescenti, così omogenei, avveduti e materialisti, dovrebbero essere circa i figli
della generazione “beat”, idealista e innovatrice. È strano pensare che la rivoluzione
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antropologica degli anni Sessanta e Settanta, così fertile di cambiamenti e propositiva verso il
sociale, la solidarietà, la parità sessuale e l'emancipazione, abbia dato origine ad una
generazione tesa, in gran parte, verso valori utilitaristici, e, in buona percentuale, tradizionalisti
anche rispetto i ruoli sessuali.
«La mia famiglia è formata da un marito e due figli e dal mio lavoro che amo: la pediatra. Anche se
immersa nel lavoro sono una persona spensierata e piena di vitalità. Nel mio tempo libero, oltre ad
uscire con la famiglia prendendomene cura mi scateno entrando in un supermercato e comprando più
schifezze possibili.»
F., 13 anni, padre commercialista, madre bancaria
«A trent’anni mi immagino di essere una madre di due bambini che fa la veterinaria, e moglie di un
uomo simpatico che mi faccia ridere ogni giorno e che mi ami veramente. Vorrei abitare a re di roma
( zona san giovanni) perché è la zona dove sono nata e che purtroppo ho dovuto abbandonare verso i
sei sette anni. Nel tempo libero farò giardinaggio e uscirò con le amiche a fare shopping.»
V., 14 anni, padre portiere, madre casalinga
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QUALI EFFETTI SULL’IMMAGINARIO INFANTILE?
Secondo George Gerbner, sostenitore della teoria della coltivazione, elaborata negli anni 70, la
televisione è diventata per tutti una sorta di nuova religione, in quanto influisce con il suo
flusso continuo e standardizzato di immagini e suoni su un pubblico sostanzialmente passivo.
In modo particolare, influenza i bambini, fino a prendere il posto delle agenzie di
socializzazione tradizionali:
Prima dell’avvento delle televisione, le predisposizioni risultavano dall’apprendimento di gusti e valori
inculcati a casa e a scuola ed era possibile esporsi selettivamente ai media. Ma la precoce esposizione dei
bambini alla televisione può influenzare e continuare nel tempo ad imporre la formazione di queste
predisposizioni. (Gerbner 1990, p. 254)
Gerbner, nei confronti dell’audience, opera una distinzione tra chi vede molta (heavy viewers)
o poca (light viewers) televisione, ipotizzando che chi passa molto tempo di fronte al televisore
non può sottrarsi al suo fascino e non può non assorbirne i contenuti, fino ad arrivare a
sovrapporre e a confondere la realtà con la fiction. Questo capita specialmente ai più piccoli,
che della vita hanno accumulato poche conoscenze ed esperienze.
Questa posizione non tiene conto però di variabili psicologiche che intervengono nel processo di
fruizione del mezzo televisivo, anche perché ciò che si sosteneva non era supportato da
adeguate analisi sul pubblico, ma derivava quasi esclusivamente da deduzioni fatte sulla base
delle ricerche sul contenuto mediale.
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A partire dagli anni ’80 sono state invece condotte numerose ricerche sull’audience, sia adulta
che infantile, che hanno ridimensionato l’assunto e il timore di una totale passività del pubblico.
Come sottolinea Barrie Gunter, sostenitore della seletcive viewing hypotesis:
Il modello adottato dagli studiosi degli effetti in genere è stato quello per cui si pensa che la
televisione agisca su un pubblico passivamente ricettivo. Oggi sappiamo che questo modello è
troppo semplicistico. Gli spettatori esibiscono un grado di attività nel selezionare quel che
guardano in televisione, ciò a cui fare attenzione e cosa ricordare delle cose che passano
davanti agli occhi. Persino i bambini rispondono in maniera selettiva rispetto a particolari
personaggi o eventi televisivi, e le loro percezioni, ricordi e comprensione di ciò che hanno
visto possono spesso essere mediati dalle predisposizioni che portano con loro al contesto della
fruizione. (Barrie Gunter, 1986, p. 60).
Predisposizioni, informazioni, conoscenze che, in questo caso, si presume siano trasmesse
anche dalla famiglia, dalla scuola e dal gruppo amicale, considerate agenzie di socializzazione
non meno importanti della televisione e soprattutto non sostituibili da essa.
Ulteriore apporto alle ricerche sull’audience infantile è stato dato dall’approccio psicologico
cognitivistico, che è servito di mostrare come, crescendo, i bambini acuiscano molte abilità
cognitive: ad esempio distinguere i contenuti televisivi, fare delle selezioni sulla base di ciò che
preferiscono, memorizzare solo ciò che per loro ha significato, rielaborare in base ai propri
schemi cognitivi le informazioni ricevute, fare indifferenza sempre più complesse, e soprattutto
non essere assorbiti o ipnotizzati dal mondo televisivo, ma riuscire a distinguere la finzione
dalla realtà, attraverso il confronto tra ciò che viene visto e le loro, seppur estingue, esperienze
e conoscenze precedenti. Secondo questa posizione anche più giovani, come gli adulti, possono
essere considerati spettatori attivi nel senso che le loro capacità cognitive agiscono come un
filtro tra l’esposizione al contenuto televisivo e i suoi effetti (Dorr 1986, Doubleday, Droege
1993).
Il dibattito sugli effetti della televisione resta però tuttora aperto e non si risolve in una rigida
contrapposizione di punti di vista, ma semmai si rende necessario un confronto dialettico tra
questi, senza arrivare a schematizzazioni teoriche come effetti forti/audience passiva ed effetti
deboli/audience attiva. Esiste infatti oggi, a livello internazionale e anche in Italia, una sempre
più consistente posizione intermedia (o “terza via”) riguardo alla televisione che considera i
minori come fruitori attivi, senza però sottovalutare i possibili effetti della tv (Manna 1982,
Bertolini, Manini 1988, Statera, Bentivegna, Morcellini 1990, Menduni 1996, D’amato 1997).
Condividendo questa posizione, riteniamo che il problema sia estremamente complesso: se da
un lato il potere televisione, e dei media in genere, non va senz’altro ridimensionato, d’altro
canto le variabili da tenere in considerazione sono molteplici, e vanno dalle capacità individuali
di comprensione e rielaborazione del contenuto televisivo o mediale, agli stimoli culturali
passati dalla famiglia, dalla scuola e dal contesto sociale in cui bambini e bambine vivono. Non
basta quindi dare per scontata una fruizione attiva, anche perché ciò non toglie che ci si lasci
comunque influenzare dai messaggi mediali, a volte deliberatamente, più spesso
inconsciamente, nonostante le varie abilità cognitive sviluppate nel tempo, e sulla base dei
nostri gusti, dei desideri e sogni più profondi o delle nostre paure e insicurezze. Nè, al tempo
stesso, si può dare per scontata una fruizione totalmente passiva come continuano sostenere
studiosi come Karl Popper che paventano l’enorme potere assunto oggi dal mezzo televisivo,
ritenendolo capace di manipolare in particolare le menti deboli di bambini e bambine.
Così, i risultati precedentemente illustrati vanno collocati in una prospettiva più ampia,
necessariamente correlata a ciò che i bambini fanno con i media e alle molte variabili del
contesto in cui li usano. Senza negare, tuttavia, i loro possibili effetti, piuttosto evidenti
soprattutto sull’immaginario.
LE PAURE DI MARCO
Oltre alla valutazione dell’influenza dei media sull’immaginario di bambini e adolescenti
intervistati, l’analisi qualitativa della ricerca “Comunicare a scuola” aveva un secondo obiettivo
più specifico: quello di approfondire la correlazione tra paure infantili e mass media.
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Una critica spesso mossa ai mezzi di comunicazione di massa, la Tv in particolare, si concentra
infatti sui possibili pericoli fisici e psichici in cui i forti fruitori di media potrebbero incorrere per
imitazione dei comportamenti mostrati in Tv, per traumi conseguenti all’esposizione a contenuti
inadatti alla loro sensibilità, per la diseducazione morale operata da programmi e personaggi
televisivi, ecc.
A partire da queste preoccupazioni diffuse e alla luce dei risultati dell’analisi qualitativa legati
alle paure dei bambini, abbiamo deciso di costruire una seconda traccia di tema, somministrata
agli stessi bambini che hanno descritto la propri vita a trent’anni.
La traccia aveva l’intento di associare esplicitamente l’idea di paura alla televisione, per
valutate quale tipo di contenuti televisivi inducono timore e cosa fanno bambini e ragazzi per
superare l’eventuale paura.
Questo il titolo: Marco è un ragazzo di dodici anni (o un bambino di 7 o 9 anni) 9. Un giorno
accende la tv e vede qualcosa che gli fa paura. Immagina cosa può aver fatto paura a Marco,
perché ne è spaventato e come si comporta per superare la paura.
L’obiettivo era, come per la prima composizione, quello di attivare un meccanismo proiettivo
che portasse bambini e adolescenti a calarsi nei panni di qualcun altro, ammettendo dunque,
con meno inibizioni, le proprie paure, emozioni e convinzioni.
La proiezione sembra aver funzionato, tanto che alcuni bambini lo dichiarano in modo esplicito,
altri parlano di Marco in prima persona.
«Io mi metto nei panni di Marco di solito una delle cose che mi spaventano di più sono le scene terribili
che fanno vedere delle guerre in Iraq di tutti quei bambini morti.
Di solito per superare la paura alzo il telefono e chiamo i miei amici oppure m’incuffio e metto la musica
a tutto volume e mi isolo dal mondo.»
L., 13 anni
«Ho acceso la Tv e mi ha colpito subito la strage del killer che ha fatto esplodere 10 bombe a Roma,
Londra, New York, Washington, Mosca, Parigi, Beffast, Amsterdam, Madrid, Lisbona.
Ho avuto tanta paura perché penso che colpisca di nuovo e per passare la paura ho spento la Tv e mi
sono addormentato.»
L., 12 anni
Le indicazioni che abbiamo ottenuto in questa fase della ricerca sono state piuttosto
eterogenee, ma estremamente interessanti. Tutte sono chiaramente – e prevedibilmente riconducibili a contenuti o personaggi televisivi.
La prima paura che si crede possa venire dalla televisione risiede nella visione di scene di film
particolarmente cruente o raccapriccianti.
«Marco ha visto un programma vietato ai minori di diciotto anni. Da quel momento è terrorizzato. Vede
scene molto violente ovunque. Cosa fare per dimenticare? marco chiede ad amici di uscire con lui per
distrarsi un po’. In quei moment si scorda di tutte le sue paure.»
F. 13 anni
«Gli può aver fatto paura un film horror. Si sarà spaventato perché ha visto una scena inquietante. Per
superare la paura si deve solo convincere che è tutta una finzione che, nelle vita vera non succedono omicidi da
fantasmi o cose così!!»
C., 13 anni
«Marco ha paura di “The Ring”: è terrorizzato e in preda al panico, perché pensa che lo acchiappi e lo porti
via durante la notte. Allora spegne la tivù, si chiude in camera, chiude la finestra e per far passare il
tempo si mette davanti ad un videogame.»
L., 9 anni
«Marco ha paura della parte che recita un attore, perché si vede che rapisce i bambini.
Oltretutto il film era un giallo e un horror messi insieme. Per far passare lo spavento va nella sua
cameretta, abbraccia il suo orsacchiottone e accende la radio, mettendo una musica calma e rilassante
così non pensa più a niente, e quindi non pensa neanche al film e si addormenta.»
B., 9 anni e mezzo
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L’età di Marco variava in funzione dell’età dei bambini componenti il campione.
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Dopo la paura per le immagini dei film, i bambini immaginano che Marco sia spaventato dalla
violenza delle immagini dei Tg.
«Secondo me Marco è stato terrorizzato da un’immagine di violenza vista al telegiornale. Una scena di
violenza fisica o morale, violenza di guerra. Secondo me Marco è spaventato perché pensa che tutte quelle
cose che vede potrebbero accadere anche a lui. Però supera la paura pensando che lui è un bambino
fortunato e che forse quando sarà grande potrà fare qualcosa per salvare il mondo da tutte le violenze di
qualsiasi tipo.»
C., 13 anni e mezzo.
«Forse ha visto un telegiornale dove c’erano delle immagini di guerra e di terrore o magari di qualche
povera donna morta. Forse ha visto un film horror. Per superare la paura può pensare che forse la guerra
un giorno avrà fine, che gli assassini verranno messi in carcere. Oppure, per sentirsi meglio potrebbe
andare dai suoi genitori e farsi rassicurare.»
M., 11 anni.
«Un’immagine che salta sotto gli occhi dei bambini spaventandoli è l’immagine della guerra, dei
bombardamenti e di città distrutte. Turba tutti, anche gli adulti, ma i bambini come i genitori superano la
paura sapendo che prima o poi nel mondo tornerà la pace, e nei volti in pianto che vedono al telegiornale
comparirà un sorriso e le lacrime spariranno come la distruzione in quella cittadella.»
F., 12 anni.
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La soluzione prospettata da quasi tutti gli intervistati per superare la paura si collega all’uso dei
media o al recupero della dimensione relazionale.
Nelle composizioni sopra citate, per esempio, Marco vince il timore uscendo con gli amici,
ascoltando musica, magari “incuffiandosi”, o giocando ad un videogame.
Rari sono stati i casi in cui i bambini hanno attribuito alla televisione e ai suoi contenuti gravi
effetti fisici o psichici. Eppure i primi studiosi di Tv si sono concentrati principalmente su questa
tipologia di conseguenze, soprattutto all’epoca della sua comparsa. Allora infatti tre
corporazioni sono intervenute in difesa delle giovani prede della televisione: i medici, i religiosi
e gli insegnanti. Ognuna di esse ha cercato di attribuirsi il monopolio della protezione legittima
- fisica e psicologica, morale e culturale - dell’infanzia e dell’adolescenza. Alcuni medici
americani, credendo di scoprire un giacimento di clientela ancora non sfruttato, hanno studiato
i molteplici sintomi del male televisivo. Così, a parere dei podologi, la Tv sembrava in grado di
deformare i piedi dei ragazzi, a causa dell’inattività prodotta da sedute troppo prolungate sul
divano. Altri specialisti hanno individuato i sintomi della cosiddetta “malattia della rana”
(frogitis) in grado di colpire i legamenti degli arti inferiori dei bambini che guardano la
televisione con le gambe ripiegate su un lato. Dalle ginocchia la malattia si è propagata alle
natiche, tanto che c’è stato chi ha studiato il dolore che provano ai glutei i bambini che stanno
seduti a lungo (in inglese questo disturbo di chiama eufemisticamente Tv bottom). Alcuni
neurologi, poi, hanno sostenuto che la presenza sullo schermo di situazioni o personaggi
terrificanti può provocare malattie del sistema nervoso e crampi allo stomaco. E certi dentisti
hanno individuato nella posizione assunta quando i ragazzi guardano la Tv, la causa di una
cattiva occlusione della mascella (Tv jaw). Anche gli psichiatri, infine, hanno messo in guardia
dalla televisione, possibile generatrice di sindromi di autismo ed ebetismo.
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Se questi sono i timori nati quando la Tv diventava una cosa seria e nascevano, con essa, le
sue malattie, la semiologia, i rimedi e gli specialisti, non bisogna cadere nell’errore di ritenere
antiquate e ormai non più diffuse queste preoccupazioni. Anche uno dei bambini del nostro
campione, d’altronde, ha attribuito alla Tv effetti che sembrano richiamare le preoccupazioni
dei primi studiosi dei media.
«Marco scappa perché vede un programma che a metà fa venire l’epilessia. Quindi va di là e aspetta che
finisce il programma.»
F., 12 anni
Si tratta comunque di una posizione decisamente minoritaria, sebbene suggestiva.
Alcune composizioni inoltre si caratterizzano per una certa originalità.
Una in particolare sembra rintracciare in alcuni personaggi e nel loro modo di fare televisione la
causa dei più terribili orrori della Tv.
«Marco è assonnato, sono le 11 di notte. Accende la TV e mette su Raidue. C’era una trasmissione
condotta da Bruno Vespa, più orrendo che mai, e da Pippo Baudo. Come se non bastasse compare Mike
Bongiorno. A quel punto Marco è spaventato e annoiato.
Mette su Canale5 e vede un film dove c’è un maniaco senza un occhio che al posto della mano ha una
vecchia e arrugginita motosega. Quest’uomo gira di notte di casa in casa e con la sua motosega uccide
tutti gli abitanti di queste case. Il sangue non viene risparmiato. Come se ciò non bastasse il maniaco
prende gli organi delle persone e li mangia.»
L., 12 anni
Sulla stessa lunghezza d’onda il tema di un bambino che immagina che Marco sia terrorizzato
dalla stupidità di alcuni programmi e dall’ignoranza dei loro protagonisti.
«Marco ogni giovedì vede “Un medico in famiglia” allora un giorno decide di cambiare canale e non vedere
la pubblicità.
Preme Canale 5 perché pensava ci fosse un telefilm divertente ma invece ascolta e vede quei senza
cervello dei partecipanti al Grande Fratello 7 (GF7).
Marco si spaventa perché sente che le persone non sanno i vari luoghi d’Italia.»
M., 13 anni
Qualunque sia la ragione della paura, che risieda in un film, nella crudezza delle scene di un Tg
o nell’immaginario dipinto da alcuni programmi televisivi, i bambini sembrano in grado di
difendersi. La famiglia è infatti la prima ancora di salvezza citata, insieme all’uso di altri media
per distrarsi dalla paura provata.
«Secondo me Marco può essere stato spaventato da immagini di guerra, violenza o di un futuro
spaventoso. Per superare lo spavento può trovare conforto nella sua famiglia.»
B., 9 anni
E i bambini spesso si dimostrano più saggi degli adulti che gli sono accanto, riconoscendo alla
Tv un potere percepibile, ma certamente limitato.
«A Marco può aver fatto paura una scena di troppa violenza o semplicemente di sangue. Marco è
spaventato perché ha paura che qualcuno possa fare la stessa cosa con lui … Per superare la paura Marco
cambia canale, pensa ad altro, si distrae telefona ad un amico o legge un libro. Ci sono tanti modi per
superare la paura; il primo è andargli addosso abbattendola.
Ma la paura non nasce dalla Tv, ma è sempre dentro di noi.»
S., 12 anni e mezzo
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