E hai ottenuto quello che volevi da questa vita
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E hai ottenuto quello che volevi da questa vita
“E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E cos'è che volevi? Sentirmi chiamare amato, sentirmi amato sulla terra“ Raymond Carver "BENNY E JOON" (Benny & Joon) di Jeremiah Chechik Produzione: Usa 1993 - Soggetto: dal racconto di Barry Berman e Leslie McNeil Sceneggiatura: Barry Berman - - Fotografia: John Schwartzman - Montaggio: Carol Littleton - Musica: Rachel Portman - Scenografia: Neil Spisak - Interpreti e Personaggi: Johnny Depp (Sam); Mary Stuart Masterson (Joon); Aidan Quinn (Benny); Julianne Moore (Ruth); Oliver Platt (Eric); CCH Pounder (Dr. Garvey); Dan Hedaya (Thomas); Joe Grifasi (Mike); William H. Macy (Randy Burch) - Durata: 98’ LA STORIA Dalla tragica morte dei genitori, avvenuta molti anni prima per un incidente stradale, Benny si è totalmente dedicato alla sorella minore, Joon, una ragazza intelligente e sensibile, dotata di un notevole talento per la pittura ma emotivamente disturbata, che accudisce e protegge amorevolmente. Nonostante il parere favorevole della dottoressa Garvey, la psicologa che da sempre la segue, l’iperprotettivo Benny si ostina a non voler mandare Joon in una casa - famiglia, anche se la ragazza fa scappare tutte le governanti che il fratello, proprietario di un’officina meccanica e perciò fuori casa per molte ore al giorno, assume regolarmente. Di trovarsi una fidanzata, neanche a parlarne, nonostante Benny sia un ragazzo molto attraente e non gli manchino di certo le occasioni, per questo l’amico e socio Eric prova a farlo riflettere sul fatto che forse è lui per primo a non volersi costruire una vita propria e ad avere paura dell’amore, invitandolo a darsi più da fare. L’unica evasione che Benny si concede sono i venerdì sera a poker con gli amici di sempre, dove la posta in gioco non è in denaro, bensì in oggetti personali (un disco d’annata, uno stetoscopio, un’insalatiera, una maschera da sub con boccaglio, e così via). Una sera, mentre si sta recando con Benny a casa di uno di loro, Mike, per la solita partita, Joon nota, appollaiato su un albero davanti alla casa dell’amico, un ragazzo dall’aspetto alquanto bizzarro che la fissa intensamente. Quando, più tardi, Joon decide di giocare una mano al posto del fratello, Mike mette sul piatto proprio quel ragazzo, che si chiama Sam ed è un cugino capitatogli fra capo e collo di cui non vede l’ora di disfarsi, e Joon perde. A nulla valgono le proteste di Benny, regola vuole che i debiti di gioco si devono sempre onorare, costretto a portarsi a casa la singolare vincita. Il misterioso giovane si rivela un profondo conoscitore e amante del cinema, in particolare quello del muto di Charlie Chaplin e Buster Keaton, di cui sa imitare alla perfezione movenze e gag, con cui conquista all’istante la ragazza. Il suo arrivo porta una ventata di aria fresca nella monotona esistenza dei due fratelli. Sam possiede la capacità di cogliere e assecondare le manie e le esigenze di Joon, sintonizzandosi con il suo mondo come nessuno finora è riuscito a fare, al punto da convincere Benny che una nuova governante non serve più, dal momento che Sam se la sa cavare benissimo con lei. Le giornate trascorrono così serenamente, tra Joon che si dedica alla pittura e al giardinaggio e Sam che pulisce la casa a ritmo di rock e prepara toast al formaggio utilizzando il ferro da stiro, o il purè schiacciando le patate con una racchetta da tennis. Anche la dottoressa Garvey è molto compiaciuta dei miglioramenti in Joon. La ritrovata libertà spinge Benny a tentare un approccio con Ruthie, una cameriera con alle spalle una carriera di attrice e un matrimonio entrambi falliti, dalla quale è sì attratto, ma con cui fatica a relazionarsi, combinando pasticci a non finire e mettendo in grande difficoltà la donna, desiderosa di un legame serio e duraturo, a causa della sua goffaggine e impaccio. Sempre più sorpreso dal talento di Sam per la mimica e i giochi di prestigio, Benny ne parla con un amico impresario per farlo entrare nel mondo dello spettacolo, ma Sam non vuole lasciare Joon, perché nel frattempo fra i due è sbocciato un amore fino al quel momento tenuto segreto. Sconvolto dalla notizia Benny, in un impeto di rabbia, caccia Sam di casa e minaccia per Joon il ricovero nella casa-famiglia sempre rifiutato. Per realizzare il loro sogno d’amore Sam e Joon decidono allora di scappare e si infilano sul primo autobus, ma la ragazza si sente male senza che lui possa fare nulla per calmarla. Costretti a far intervenire un’ambulanza, Joon viene ricoverata in ospedale, seguita da Sam che però non viene ammesso nel reparto e deve attendere in corridoio. Raggiunto dall'agitatissimo Benny, anch’egli escluso dalla stanza della sorella, secondo i precisi ordini della dottoressa Garvey, Sam riesce con uno dei suoi stratagemmi clowneschi a farlo entrare, mentre viene accompagnato di peso fuori dall'ospedale da un paio di energici infermieri. Poco dopo, con una spericolatissima trovata, eccolo riuscire ugualmente a raggiungere la finestra della camera di Joon e a farsi vedere da lei, restituendole il sorriso. Benny si rende conto finalmente di aver commesso molti errori nel rapporto con la sorella e di essersi sbagliato sul conto di Sam, e comprende che Joon non ha bisogno delle sue cure, bensì dell’amore del suo ragazzo. Dimessa dall'ospedale con il parere favorevole della Garvey, Joon va a vivere con lui, mentre Benny può riprovarci con Ruthie. ANALISI CRITICA Uno sguardo tenero e gentile per esplorare i temi dei legami familiari (il complicato rapporto fra un fratello e una sorella che crescono da soli) e amorosi (le difficoltà per trovare un’intesa da parte di un uomo e di una donna che non sanno come prendersi, la commovente spontaneità con cui, di contro, un’altra giovane coppia riconosce i reciproci sentimenti e s’incontra su un medesimo terreno), esprimendone tutta la complessità con leggerezza e intelligenza, delicatezza e tolleranza, attraverso i dettagli e le sfumature, l’attenzione alle piccole cose, l'importanza dei gesti più spontanei, elevando la fantasia e la creatività ad antidoto contro una realtà difficile e dolorosa, rivoluzionandone la visione. In questo senso “Benny & Joon” è un film poetico, coraggioso e anticonvenzionale, che in virtù del suo taglio fiabesco e surreale, un’atmosfera senza tempo e un po’ naif, arriva in maniera diversa a ciascun spettatore, libero di cogliervi ciò che desidera, dove la diversità costituisce una ricchezza e un’occasione per guardare sé stessi e gli altri da una prospettiva differente, liberare l’esistenza quotidiana dal peso schiacciante delle imposizioni e degli alibi che a volte ci si costruisce per non dover scegliere, per paura di sbagliare, di ferire e di ferirsi, di non essere all’altezza. Come Benny, che si è completamente estraniato dalla vita sociale e sentimentale: non ha rapporti, se non quelli con gli amici di una vita e i colleghi dell’officina e, quando si ritrova al primo appuntamento con Ruthie, pronta ad amarlo e a condividere la vita con lui, entra in crisi perché non sa da che parte cominciare, avendo da troppo tempo congelato le proprie emozioni e sentimenti. In nome di una distorta concezione del senso del dovere nei confronti della sorella, a suo dire così bisognosa della sua protezione in un mondo che non accetta la diversità, ha infatti imparato a limitare la sua vita, a chiudersi al mondo e all’amore. Ma, pur animato dalle migliori intenzioni, Benny sbaglia nel voler impedire che Joon vada a vivere con Sam, perché con le sue eccessive premure rischia di far perdere alla ragazza l’occasione di assumersi le proprie responsabilità, di stabilire autonomamente dei rapporti con le persone e di vivere una storia d’amore. Benny inoltre sembra sottovalutare l’intensità e la serietà dei sentimenti di Sam e Joon, come se non ne fossero capaci, e soprattutto il progetto di vita che vogliono provare a costruire insieme, e invece saranno proprio loro a insegnargli cosa vuol dire innamorarsi. Soprattutto Sam, che gli fa capire che è tempo di lasciarsi andare, di pensare a se stesso, di liberarsi dai fantasmi del passato e di andare avanti separatamente dalla sorella, perché c’è una donna innamorata che lo aspetta di cui anch’egli è innamorato, com’è successo anche a lui. E che Sam e Joon si completino a vicenda appare evidente fin dal loro primo, emozionante e magico incontro. Sam ha talento e affetto da vendere, riesce a portare allegria e ottimismo nell’esistenza della ragazza, trovando la giusta chiave per interagire con lei, arrivando a concordare pienamente sull’infelice destino delle uvette che Joon scarta rigorosamente dal suo gelato e su tutti quegli aspetti dell’esistenza e delle cose che solo loro sono capaci di notare, dotati come sono entrambi di quello sguardo speciale che contraddistingue gli artisti e i sognatori. La predisposizione di Sam alla leggerezza e all’incanto, la sua libertà, il suo rifiuto della cosiddetta “normalità” e dei luoghi comuni salva Joon, ne sminuisce le manie e le ossessioni, la libera dalla propria prigione emotiva, e il legame con lui le consentirà di trovare un equilibrio e gestire un’esistenza indipendente dalla presenza oppressiva del fratello. Ma se la possibile causa dei problemi di Joon si intuisce nella perdita dei genitori nel terribile modo che un breve e unico flash back rievoca, nulla invece ci viene detto su che cosa spinge Sam a essere ciò che è. Ne vediamo spuntare il volto all’improvviso dal finestrino di un treno mentre tiene fra le mani un libro sul suo idolo, Buster Keaton, e poi nascosto fra le fronde di un albero la sera in cui conosce Joon, e questo non fa che aumentare il mistero e il fascino sulla sua provenienza. Sam parla poco, ma è molto empatico. Il suo approccio alla vita è buffo e stralunato, esattamente come i personaggi portati sullo schermo da Keaton e Chaplin, di cui rivisita la gestualità e la mimica in maniera irresistibile, usandola per comunicare con il mondo e suscitando in chi interagisce con lui stupore, tenerezza e meraviglia. Un Johnny Depp prima maniera incarna con Sam uno dei personaggi che diventeranno, nel corso della sua lunga carriera, il suo marchio di fabbrica. Dono assai raro quello dell’attore, capace di iperboliche metamorfosi del volto, di sostenere la macchina da presa soltanto roteando le palpebre, oppure dondolandosi pericolosamente su un’altalena improvvisata. Bravissima Mary Stuart Masterson nel tratteggiare una splendida e toccante Joon, a rappresentarne il disagio emotivo e psicologico senza saccheggiare il repertorio di smorfie ed enfasi di un ruolo ad alto rischio in questo senso. All'innegabile livello tecnico che contraddistingue in genere la cinematografia americana, il regista Jeremiah Chechik ha saputo aggiungere sfumature di gusto e di sensibilità maturate in anni d'intenso lavoro a Milano come fotografo e pittore, riuscendo a conferire alla vicenda e ai suoi personaggi venature d'ingenuità e atmosfere suggestive, fuori dal tempo. “Benny & Joon” propone un’idea della vita aperta agli altri e alla creatività, riconosce diritto di cittadinanza a modi diversi di realizzare il proprio progetto esistenziale anche quando non rientra nei cosiddetti schemi normali. L'amore di Sam per Joon è una piccola e dolce rivoluzione che contagia positivamente anche Benny e Ruthie, e che profuma di fiori e di pane tostato con il ferro da stiro. SPUNTI PER COMPRENDERE, RIFLETTERE, CONDIVIDERE -C’è una frase-chiave che passa quasi inosservata, pronunciata, all’inizio del film, da un cliente dell’officina di Benny, che dice: “Ma che cosa significa avere bisogno di qualcuno?”. É proprio attorno a queste parole che il film è costruito. A vostro parere che cosa vuol dire, in amore, “avere bisogno” di qualcuno? -“Tu hai bisogno che io sia malata. Sono stufa di sentirmi dire cosa devo fare”, è l’accusa che Joon rivolge al fratello, che ostacola il suo amore per Sam. Come avete vissuto il personaggio di Joon, la sua fragilità e il suo talento? Perché Benny non vuole che la sorella viva finalmente una vita propria? In che cosa ha ragione e in che cosa torto? -Di fronte alla rabbiosa reazione di Benny alla scoperta della sua relazione con Joon, Sam commenta: “Tu hai paura, Benny, e io so perché?”. Che cosa intende dire il ragazzo con queste parole?. -Il film inneggia al potere di guarigione dell'amore. Quali riflessioni emergono dalla sua visione in questo senso? Quale aspetto di questa storia vi ha maggiormente colpito, emozionato, fatto riflettere e magari insegnato qualcosa? -Tanto l’amore fra Joon e Sam nasce spontaneamente e l’uno si dona all’altra con naturalezza, quanto quello fra Benny e Ruthie fatica a esprimersi e a rivelarsi. Per quali ragioni a vostro parere? -Qual è stato il vostro impatto emotivo nei confronti della vicenda? Quali sentimenti vi ha suscitato? -Quale immagine del film vi è rimasta maggiormente impressa? C’è una scena che avete amato in particolare? -“Credo che Sam sia uno di quegli individui che da piccoli erano dislessici, avevano difficoltà d'apprendimento e non hanno ricevuto l'attenzione di cui avevano bisogno. Intimidito dalle dure prove della vita fugge in un altro mondo. Il suo modo di affrontare la realtà lo fa interagire con il mondo nel modo in cui vediamo” (da un’intervista al regista del film Jeremiah Chechik). Come avete vissuto il personaggio di Sam, quali emozioni vi ha trasmesso? -Dotato di una naturale grazia fisica, Johnny Depp sostiene quasi da solo una narrazione costruita proprio intorno al suo estro creativo e alla sua capacità espressiva venata di sottile malinconia. Per questo ruolo di mimo stravagante, ma di straordinaria delicatezza, attinge al repertorio del cinema muto, rinnovandolo con la propria originale capacità espressiva. Tra le gag c’è la celebre danza dei panini ispirati da “La febbre del’oro” (1925) di Charlie Chaplin. I quadri dipinti da Joon sono invece opera dell’attrice che la interpreta, Mary Stuart Masterson. Scheda realizzata da: Lucia Caratti Progetto: “Educare alla sessualità – Schermi del cuore” – Usl 9 Treviso – Responsabile dott.ssa Teresa Rando IL GIARDINO Qui, ai piedi sdrucciolosi d’ una fonte, O alla muscolosa radice d’un albero da frutto, Liberandosi di sua veste corporea, la mia anima s’insinua lieve tra i cespugli: Lì come un uccello siede e canta, Poi affila, e liscia le sue ali d’argento; E, finché’è pronta per un più lungo volo, Intesse tra le piume le differenti luci. Andrew Marvell LA FAMIGLIA BELIER (La famille Bélier) di Eric Lartigau Produzione: Francia 2015 – Soggetto: Victoria Bedos - Sceneggiatura: Victoria Bedos, Stanislas Carré de Malberg, Eric Lartigau, Thomas Bidegain - Fotografia: Romain Winding - Montaggio: Jennifer Auge - Musica: Evgueni Galperine, Sacha Galperine – Scenografie: Olivier Radot - Costumi: Anne Schotte - Interpreti e Personaggi: Karin Viard (Gigi), François Damiens (Rodolphe), Eric Elmosnino (Thomasson), Louane Emera (Paula), Roxane Duran (Mathilde), Ilian Bergala (Gabriel), Luca Gelberg (Quentin), Stephan Wojtowicz (il sindaco), Bruno Gomila (Rossigneux), Céline Jorrion (la giornalista televisiva), Jérôme Kircher (il dottor Pugeot), Clémence Lassalas (Karène), Manuel Weber (il veterinario) - Durata: 105 - Distribuzione: Bim. LA STORIA Nel villaggio rurale di Lassay, nella Francia settentrionale, i Bélier sono proprietari di una fattoria dove allevano e coltivano prodotti che poi vendono al mercato locale. Mamma Gigi, papà Rodolphe e il figlio minore Quentin sono sordi dalla nascita, mentre la maggiore, Paula, sedici anni, è perfettamente udente, per questo svolge il ruolo indispensabile di tramite nell’organizzazione della vita quotidiana, in particolare della fattoria: è lei infatti che intrattiene i rapporti con i fornitori, le banche, i clienti. Paula è una ragazza seria, matura e responsabile, ma è un pur sempre un’adolescente, che non ha ancora avuto le mestruazioni, cosa che la preoccupa non poco, e ha una cotta per Gabriel, capelli ricci, occhi azzurri, aria sicura di sé, che sta con la più carina della scuola, rispetto alla quale si sente un brutto anatroccolo. Nessuno invita Paula alle feste, né lei fa molto per inserirsi nella vita scolastica, ma meno male che c’è Mathilde, la sua amica del cuore, che adora i Belier, ha molta più esperienza di Paula in fatto di ragazzi, e la sprona costantemente a essere meno riservata e a buttarsi con Gabriel. Per questo Paula decide di iscriversi nello stesso corso di canto promosso dalla scuola, e già dalla prima audizione il professor Thomasson, un tipo burbero e frustrato, convinto di non riuscire di cavare niente di buono da adolescenti brufolosi e demotivati, così li definisce, si accorge che Paula possiede uno straordinario talento vocale, tanto da metterla in coppia proprio con Gabriel, dotato anch’egli di una bella voce, per un duetto da eseguire in occasione del saggio di fine anno. Il brano che ha scelto per loro è una canzone d’amore ardente e passionale, ma i due si sentono impacciati e non riescono a interpretarla con il trasporto che egli vorrebbe. Per questo propone loro di esercitarsi dopo la scuola e di farlo ballando, per riuscire a tirare fuori tutta la sensualità che il brano deve trasmettere. Ma il loro primo incontro si risolve in un totale disastro, con l’arrivo improvviso delle mestruazioni per Paula e gli esuberanti genitori che sbandierano l’evento in sua presenza. Evento che il giorno dopo è sulla bocca di tutti a scuola, e questo Paula non glielo perdona a Gabriel (tanto da appioppargli un plateale ceffone), motivo per cui le prove di canto fra i due s’interrompono sul nascere, mentre Thomasson, esaltato dall’aver finalmente trovato, dopo tanti anni, un vero talento da plasmare, propone alla ragazza di partecipare alla selezione per entrare in una rinomata scuola canora di Parigi per la quale vorrebbe prepararla privatamente. Sulle prime Paula non ne vuole sapere perché non se la sente di lasciare la sua famiglia, che dipende da lei, tanto più da quando suo padre ha deciso di candidarsi come sindaco del paese, e deve tradurne i comizi, i discorsi e le interviste. “Ma sei matta? Come pensi abbiano fatto i tuoi genitori prima che tu nascessi?”, taglia corto Mathilde per spingerla invece ad accettare un’occasione imperdibile per dare una svolta alla sua vita. Così, almeno per il momento, Paula sceglie per un po’ di non dire nulla a casa e di andare a lezione da Thomasson di nascosto, mentre Mathilde, per darle una mano, vende i formaggi al mercato al posto suo, con scarsissimi risultati, e Quentin scopre di essere allergico al lattice del profilattico che ha usato per vivere con lei la sua prima esperienza sessuale. Nel frattempo la situazione fra Gabriel e Paula, dopo che il ragazzo ha avuto un piccolo incidente automobilistico che ha fatto emergere una difficile situazione familiare, si chiarisce, e i due riprendono la preparazione del famoso duetto per lo spettacolo di fine anno scolastico. Anche se ancora non lo vuole ammettere, Gabriel si sente attratto da questa ragazza intelligente e orgogliosa, che non si lascia incantare dalla prospettiva di una bravata inutile e stupida. Quella sera si esibiscono con grande successo (dietro le quinte, alla fine dello spettacolo, si sono scambiati un tenero bacio d’amore che li ha lasciati senza parole), emozionando e commuovendo il pubblico, tranne i genitori di Paula, i quali non hanno preso affatto bene le lezioni di canto della figlia, e men che meno la possibilità che se ne vada a studiare a Parigi, tanto da indurre la ragazza a rinunciare a presentarsi all’audizione dell’indomani per la sua ammissione, con grande disappunto del suo insegnante. E invece sarà proprio papà Rodolphe, dopo una notte insonne, a decidere che invece ci andrà eccome, e che sarà la sua famiglia ad accompagnarla insieme a Gabriel e a Thomasson. Paula tradurrà per i suoi cari il testo della canzone che ha scelto di eseguire con la lingua dei segni. Emozionati e orgogliosi, mamma e papà la rassicurano sul fatto che possono organizzarsi ugualmente senza di lei, lasciandola libera di andare incontro al suo futuro, con grande gioia e soddisfazione del professor Thomasson. ANALISI CRITICA Un’adolescente che si trova a dover gestire il proprio corpo che cambia, il primo innamoramento, il bisogno di arginare l’invadenza dei familiari, le decisioni sul proprio futuro. I primi passi incerti di una ragazza il cui orizzonte si spalanca inaspettatamente e impone una scelta difficile e sofferta. Niente di nuovo, si dirà, eppure “La famiglia Belier” porta una ventata di aria fresca nella rappresentazione dell’età adolescenziale, sulla fatica di crescere e sulla necessità di seguire una strada diversa da quella magari tracciata dai genitori, attraverso un intelligente, raffinato e originale racconto che fa riflettere, sorridere e commuovere. Sullo sfondo di una particolare condizione familiare (genitori e fratello non udenti), di un’ambientazione sociale che mette a confronto una dimensione agreste legata al territorio contro una cementificazione selvaggia (lo scontro politico tra Rodolphe Belier e il sindaco uscente, che si ricandida alle elezioni proponendo la costruzione di un enorme centro commerciale), la dolce, solare e tenera Paula Belier compie il proprio personale cammino verso un avvenire che mai avrebbe immaginato possibile per sé. “Miei cari genitori io vado via/ Vi voglio bene, ma vado via/ Non avete più una bambina, stasera/Io non fuggo, io volo/Cercate di capire, io volo/ Senza fumo, senza alcool/ Io volo...“. La musica fa da filo conduttore alla sua progressiva presa di coscienza e contribuisce a tirare fuori sensazioni, emozioni e sentimenti finora negati e annullati per amore della famiglia, all’interno della quale è lei quella “diversa”. Una musica che parla di amore e di libertà, di realizzazione di sé e di talento, di quel dono che se ne sta lì fino a quando non ci pensa qualcuno a farlo uscire, al pari di un tesoro nascosto finalmente rinvenuto. Il percorso di Paula alla ricerca di sé, dei propri sogni, aspirazioni e desideri diventa allora il percorso di tutti gli adolescenti che oggi come ieri devono affrontare le scelte che la vita chiede loro di compiere, dapprima senza quasi rendersene conto, come se in prima battuta fosse la vita stessa a scegliere per loro, per poi afferrarla e governarla. La scoperta (casuale?) di un talento speciale e l’idea di poter per la prima volta coltivare un sogno tutto suo, mette in crisi le sue certezze e quelle della sua famiglia. Il fatto di possedere una bella voce è qualcosa che evidentemente ha tenuto nascosto prima di tutto a se stessa, fino a quando, con la scusa di poter stare accanto al ragazzo del quale è innamorata, viene finalmente svelata, spalancandole tutto un mondo dal quale si sentiva estromessa. Sembra quasi che Paula non aspettasse altro che qualcuno la scoprisse, e quel qualcuno è un insegnante dapprima svogliato, scontroso e poco disponibile verso i suoi alunni, che volentieri strapazza e apostrofa nei modi più disparati e poco lusinghieri, che grazie a lei ritrova gusto ed entusiasmo sia per il suo lavoro che per la vita. A quel punto tocca a Paula decidere se cogliere l’opportunità che il suo professore le offre (e che le rammenta, quando è piena di dubbi e ripensamenti, di non commettere un errore di cui pare avere esperienza diretta e di conoscere bene le conseguenze), oppure lasciar perdere, per tutte le ragioni legate alla famiglia che sappiamo, ma forse anche alle paure che inevitabilmente accompagnano scelte in cui ci viene richiesto di mollare tutto e di metterci alla prova. Non è facile per nessuno, soprattutto se si hanno sedici anni. Paula sembra infatti incastrata in una dimensione a metà fra l’infanzia e l’età adulta. Si comporta perfettamente da grande quando deve fare da tramite fra i suoi genitori e la società, ma torna a essere un’adolescente particolarmente introversa quando è a scuola, con la sua migliore amica Mathilde a fare da ponte con il mondo dei coetanei, così come lo è lei con quello di chi ci sente per i genitori. A complicare le cose in un già delicato percorso di crescita (Paula è fisicamente un po’ goffa, incurvata e angustiata perché non ha ancora avuto le mestruazioni), c’è il legame simbiotico con la sua particolare famiglia. Non soltanto i genitori contano su di lei per la maggior parte degli aspetti della gestione quotidiana e la coinvolgono nella loro intimità oltre ogni limite, ma è soprattutto l’attitudine di Paula per la musica a risultare loro incomprensibile, quasi offensiva, perché non appartenente al loro mondo. Se Rodolphe ha scelto come slogan politico, per farsi eleggere sindaco, il significativo “Vi ascolto”, sembra invece non voler affatto “ascoltare” questa figlia diversa, il cui dono dell’udito e della voce risulta una specie di tradimento, come emerge drammaticamente nella scena in cui la madre ammette di aver pianto quando, alla sua nascita, il marito le aveva rivelato che Paula ci sentiva. Il regista riesce a fondere con equilibrio aspirazioni, sentimenti e umorismo senza mai scadere nel sentimentalismo, agendo soprattutto sulla carica emotiva dei protagonisti e sull’empatia che si viene a creare con lo spettatore. A momenti di efficace realismo, come quello del saggio scolastico, quando, per far capire l’estraneità alla musica dei genitori di Paula, che osservano gli sguardi del pubblico ammaliato, il sonoro scompare progressivamente fino al totale silenzio, e quello in cui, dopo lo spettacolo, Paula, seduta sul prato di casa, viene raggiunta dal padre il quale, posandole una mano sulla gola, le chiede di cantare la canzone del saggio che non ha potuto ascoltare, si alternano altri più surreali, a tratti grotteschi, come la visita medica dei coniugi Belier o la campagna elettorale di Rodolphe. Paula ha il volto della giovanissima Louane Emera, vincitrice del talent The Voice, che pur non essendo un’attrice professionista, anzi, forse proprio per questo, dona al suo personaggio il giusto mix di goffaggine, idealismo, tenerezza, ma anche tenacia, tipicamente adolescenziali. “La famiglia Bélier” riesce a raccontare le speranze e le contraddizioni del passaggio all’età adulta, del bisogno di distacco e di autonomia senza rinunciare alle proprie radici, la sfida dell’essere genitori, in grado di proteggere i propri figli, ma anche di lasciarli andare incontro alla vita. E’ bello che scelga di chiudersi nel momento in cui Paula si allontana dalla fattoria, in pieno subbuglio emotivo, ma decisa a superare le paure e le difficoltà che l’attendono, affidando invece ai titoli di coda un lieto fine a tutto tondo dove apprendiamo che Rodolphe ha vinto le elezioni, che il professor Thomasson è convolato a nozze con la collega di spagnolo, che Mathilde continua a prendere lezioni della lingua dei segni da Quentin e che Paula e Gabriel hanno continuato a frequentarsi a Parigi, e la loro storia sembra prendere sempre più consistenza. SPUNTI PER COMPRENDERE, RIFLETTERE, CONDIVIDERE -“L’adolescenza è ricca e contraddittoria, per questo interessa i registi. Spesso l’umore degli adolescenti tocca gli eccessi, reagiscono in modo esagerato nel bene e nel male. I sentimenti sono forti e il corpo non è ancora formato completamente. La grande scoperta del proprio corpo e il passaggio verso il mondo adulto è un percorso violento e interessante. Accompagnare questa ragazza nel superamento delle sue paure e nel trovare se stessa mi piace e credo abbia parlato agli spettatori” (Eric Lartigau, dal Pressbook del film). Condividete le osservazioni fatte dal regista sull’adolescenza, e quali emozioni e riflessioni vi ha suscitato la visione del film da questo punto di vista? -Paula possiede un grande senso di responsabilità, è sempre pronta a sacrificarsi per la famiglia, anche a costo di mettere in un cassetto il suo talento. Cosa pensate del personaggio di questa ragazza, il suo carattere, personalità, atteggiamenti? Condividete la sua scelta di andare a studiare canto a Parigi, oppure pensate che avrebbe dovuto restare a casa ad aiutare i suoi? -Il padre e la madre faticano ad accettare non solo le scelte di Paula ma il fatto stesso che stia diventando grande. Come giudicate il loro atteggiamento nei confronti della figlia? Come arriveranno a comprendere e ad accettare la sua scelta di partire per Parigi? -Nel film possiamo forse cogliere, nella condizione di non udenti dei genitori della protagonista, una metafora dell’ascolto fra genitori e figli, che nell’età adolescenziale si fa sempre più difficoltoso, fino talvolta a diventare assente. Che cosa gli adulti, genitori, insegnanti e così via, dovrebbero “ascoltare” di voi adolescenti che a vostro parere non fanno? -Se non ci fosse stato il professore di musica a scoprire il talento di Paula, a vostro parere sarebbe rimasto per sempre inespresso, oppure prima o poi sarebbe saltato fuori ugualmente? Secondo voi Paula sapeva di avere una bella voce e aveva scelto deliberatamente di mortificarla a causa della sordità dei suoi familiari, oppure ne era totalmente inconsapevole? -“Mi ricordo che in un determinato momento della mia vita, la mia prima professoressa di teatro ha svolto un ruolo decisivo: è stata lei a guardarmi e a notare che il mio posto era là, sul palcoscenico. Ricevere su di sé uno sguardo come quello è miracoloso e ti sconvolge la vita. Quando il mio personaggio sente per la prima volta la voce di questa ragazza, capisce subito che potrà realizzare quello che lui non ha mai potuto fare. In quel preciso istante avviene qualcosa di bello” (Eric Elemosino, dal Pressbook del film). Che rapporto si instaura fra il professor Thomason e Paula? Perché l’uomo ci tiene così tanto che lei coltivi il suo talento? Vi piace come insegnante? Scheda realizzata da: Lucia Caratti Progetto: “Educare alla sessualità – Schermi del cuore” – Usl 9 Treviso – Responsabile dott.ssa Teresa Rando SE SAPRAI STARMI VICINO… Se saprai starmi vicino, e potremo essere diversi, se il sole illuminerà entrambi senza che le nostre ombre si sovrappongano, se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere. Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo e non il ricordo di come eravamo, se sapremo darci l’un l’altro senza sapere chi sarà il primo e chi l’ultimo se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia… Allora sarà amore e non sarà stato vano aspettarsi tanto. Pablo Neruda GIRLFIGHT (Id.) di Karyn Kusama Produzione: USA, 2000 - Soggetto e Sceneggiatura: Karyn Kusama - Fotografia: Patrick Cady - Montaggio: Plummy Tucker - Musica: Theodore Shapiro - Scenografia: Stephen Beatrice - Costumi: Marco Cattoretti - Interpreti e Personaggi: Michelle Rodriguez (Diana); Jaime Tirelli (Hector); Ray Santiago (Tiny); Paul Calderon (Sandro); Santiago Douglas (Adrian); Elisa Bocanegra (Marisol); Shannon Walker Williams (Veronica); Victor Sierra (Ray); Herb Lovell (Cal); Thomas Barbour (Ira); Belqui Ortiz (Karina); John Sayles (Professor Coolidge) - Durata: 102′. Film vincitore del Premio per la Regia e il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival e Camera d’Or al Festival di Cannes. LA STORIA Nata e cresciuta nello squallore popolare di Brooklyn, a diciotto anni Diana Guzman ha già imparato che nella vita o le si dà o le si prende, e lei ha deciso di darle. Scontrosa, cupa e irascibile, è sempre in cerca di pretesti, anche i più futili, per accapigliarsi con chiunque le capiti a tiro. Stavolta a farle saltare i nervi è stata la sua compagna di classe Veronica, che ha portato via il ragazzo che piaceva alla sua amica Marisol. Richiamata e spedita in presidenza per l’ennesima volta, rifiuta ogni aiuto e sostegno, ed è a un passo dall’essere espulsa da scuola. Vive insieme al padre Sandro, che passa il tempo a bere e a giocare a carte, occupandosi molto poco dei figli, e al fratello minore Tiny, promettente studente con il talento per il disegno, con il quale Diana ha un rapporto di affetto e complicità. La madre è morta suicida. In casa non se ne parla mai, e l’atmosfera è sempre carica di tensione. Diana incolpa il padre della tragedia, provocata dagli abusi e dalla violenza esercitati nei confronti della donna. Quando una sera va a saldare il conto alla palestra di boxe che il padre costringe Tiny a frequentare perché impari a difendersi dai bulli del quartiere, Diana ne rimane affascinata; osservando i pugili in azione capisce che forse quello è il suo posto e convince Hector, uno degli allenatori, a insegnarle la boxe, e Tiny è ben felice di dare a lei il denaro destinato alle sue lezioni, naturalmente all’insaputa del padre. Hector accetta di allenare la ragazza più per i soldi che per convinzione; la palestra cade a pezzi e non c’è neppure uno spogliatoio femminile. Rimediato uno sgabuzzino per cambiarsi, Diana inizia una dura preparazione atletica, durante la quale Hector le insegna a controllare e a canalizzare la rabbia, a prendere coscienza di sé, del suo corpo e della sua mente. Nel giro di qualche settimana Diana ha conquistato la fiducia dell’uomo, il quale, accortosi del suo talento e carisma, la fa combattere nella categoria dei pesi piuma sia con maschi che con femmine. Non tutti vedono di buon occhio la cosa, ma Hector è un tipo abituato a pensare con la propria testa e non si lascia condizionare da chi non ama vedere le donne sul ring. Non sentendosi più sola e abbandonata a se stessa, Diana trova persino la forza di affrontare il padre la sera in cui, venuto a conoscenza che sua figlia pratica la boxe, una volta di più l’ha squalificata e umiliata. In palestra la ragazza conosce Adrian, un giovane che spera di dare una svolta positiva alla sua vita come pugile professionista. Cresciuto anch’egli in un ambiente degradato e desideroso di andarsene al più presto, sente nei confronti di Diana un’affinità speciale; di lei lo intrigano l’aria da dura, la sbrigatività dei modi e il fatto che abbia scelto una disciplina ritenuta “poco femminile”. Lo sguardo di Diana diventa uno sguardo d’amore e tenerezza quando incontra quello di Adrian. I tratti del suo bel viso si ammorbidiscono, il corpo svela la sua femminilità, e dopo qualche incertezza dettata dal timore di un sentimento forte e impegnativo, Adrian lascia la ragazza con cui usciva e si mette con lei. Tutto sembra andare per il meglio fino a quando, in virtù di una legge che permette incontri misti fra maschi e femmine, Hector organizza un torneo proprio per offrire a Diana l’occasione di mettersi in luce. Destino vuole che al termine delle fasi eliminatorie i finalisti risultino essere proprio Adrian e Diana: lui va in crisi, si rifiuta di disputare l’incontro, teme che il loro rapporto non possa reggere a una tale prova, mentre lei non vuole rinunciare all’opportunità che le è stata data, e poi ritiene il suo amore per lui sufficientemente forte. L’incontro alla fine avrà luogo e sarà sofferto ma leale, duro ma rispettoso, non manderà nessuno al tappeto e segnerà una tappa importante nel cammino di crescita per entrambi. ANALISI CRITICA Fin dalle prime scene capiamo che Diana, sotto l’ostentata scontrosità e ostilità, nasconde un enorme bisogno di amore e di attenzione, di quel “calore”, spiegato in classe dall’insegnante in chiave scientifica, che assume un significato simbolico nel momento in cui la macchina da presa si sofferma sull’espressione dolente del volto della ragazza. Del resto la vita per lei finora non è andata per il verso giusto, così si è messa sulla difensiva, dichiarando guerra al mondo attraverso la rabbia e l’aggressività, il disprezzo e l’odio, tenendosi in disparte e lontana da tutto e da tutti, anche se al tempo stesso questo suo atteggiamento rappresenta una forma di resistenza e di ribellione al fallimento e alla sconfitta cui si sente destinata e ritiene di non meritare. Come si può darle torto? La ferita della perdita della madre, morta suicida a trentasette anni perché non ne poteva più dei soprusi del marito, è di quelle che non si rimarginano e ti rendono estremamente diffidente nei confronti degli altri. “Sei la copia sputata di tua madre”, osserva l’amico di suo padre venuto a giocare a carte a casa sua. Forse è per questo che Sandro non riesce nemmeno a guardare in faccia sua figlia, mantenendo quell’atteggiamento odioso e arrogante di chi ritiene di avere sempre ragione. Stranamente, suo figlio Tiny è un ragazzo dolce e studioso. Troppo, per un padre che lo vorrebbe duro e sprezzante come lui e per questo lo costringe a frequentare una sgangherata palestra pugilistica, che il ragazzo ovviamente detesta. Ma a Sandro non importa affatto, perché è abituato soltanto a comandarli i figli, non ad ascoltarli. “Lo preparo a entrare nel mondo”, sostiene, come se il mondo fosse una campo di battaglia dove a vincere è sempre e soltanto la forza fisica. Date queste premesse, “Girlfight" si presenta come un potente racconto di formazione, di liberazione e di conquista personale, nel quale lo sport rappresenta uno strumento di riappropriazione della propria dignità e identità. La scelta del pugilato non sembri poco realistica, dal momento che, insieme al calcio, è tipico degli ambienti più poveri e svantaggiati, e non sorprenda neppure che a praticarlo sia una ragazza, perché, nonostante la boxe femminile sia stata ammessa alle Olimpiadi solo nel 2012, esiste fin dai tempi più antichi. Uscito nel 2000, il film ha fatto incetta di premi in tutti i festival, dal Sundance a Cannes, e segna il folgorante esordio di Michelle Rodriguez nel ruolo di Diana, a tutt’oggi la sua migliore interpretazione, nonostante il successo vero le sia arrivato dopo con “Fast and Furious”, “Avatar” e “Lost”. Ottimamente sceneggiato e diretto da Karyn Kusama (sì, una donna), immerso nello scenario multietnico e ad alta tensione razziale di Brooklyn, tra palazzi anonimi, degrado sociale e ansia di riscatto, macchina da presa a mano, colori saturi e luce smunta, primi piani intensi, un commento musicale perfettamente calzante, “Girlfigth” è un’opera fatta con il cuore e tanta grinta, dotata di notevole spessore psicologico, che ci regala uno splendido personaggio femminile, di quelli che non si dimenticano. L'incontro con il pugilato innesca nella protagonista un formidabile processo di metamorfosi e le regala insegnamenti non sono solo sportivi ma anche di vita, laddove “la boxe è cervello che vince sui muscoli”, è leggerezza, persino eleganza. Diana impara a incanalare quella rabbia che fino a quel momento le aveva procurato solo guai, ottiene attenzione e considerazione, conquista il rispetto di se stessa, trova il coraggio di affrontare il padre in una durissima resa dei conti nella quale ribalta la posizione di potere detenuta finora dall’uomo e che aveva portato la madre a prendere la decisione di farla finita. Con la sua determinazione e impegno, la ragazza riesce a scardinare convinzioni inattaccabili e a modificarle in positivo all’interno di un ambiente prettamente maschile come quello della palestra pugilistica: il buon Hector, il vecchio Cal, lo stesso Adrian e, naturalmente Tiny, vittima dello stereotipo opposto, impostogli dal padre, di un maschio che è tale solo se sa tirare pugni. Il solo che non accetta di battersi con una ragazza, Ray (“perché è da finocchi”), che si dimostra sleale e scorretto (“Ma tanto che c’è sotto la sua cintura?”), viene giustamente cacciato dalla palestra perché sono molti gli uomini, giovani e meno giovani, che desiderano camminare a fianco delle donne, e condividere insieme a loro esperienze, conoscenze, abbattendo vecchi pregiudizi e costruendo nuovi valori. In questo senso “Girlfight” è un film-manifesto per una nuova femminilità, più consapevole dei propri diritti e capace di essere di stimolo anche per il maschile, senza bisogno di fare necessariamente di Diana una figura ostile nei confronti dell’altro sesso. La sua è la storia di una delle tante ragazze che crescono in un ambiente fortemente maschilista, valutate soltanto per l’aspetto fisico e la disponibilità sessuale. Ne sono esempio i personaggi di Veronica e Karina, dal trucco e dal look eccessivi, e la sequenza della prova di educazione fisica nei confronti della quale, Diana a parte, le ragazze non si spendono minimamente, prigioniere, esse stesse, di ruoli e modelli radicati. Quando Diana incontra Adrian e se ne innamora, questi elementi emergono in maniera ancora più evidente, aprendo una riflessione molto interessante su come questa coppia può in questo senso funzionare. L’amore finora a lei sconosciuto le permette di liberare la propria femminilità e vulnerabilità (“Hai la bocca dolce” osserva Adrian quando la bacia per la prima volta. “Ho sempre pensato di essere salata” risponde sorpresa lei”), e anche, per citare un vecchio film, una certa voglia di tenerezza. Adrian invece trova in Diana una figura femminile completamente diversa, che non ci sta a fare la bella statuina e pretende un’attenzione vera e un ascolto libero e autentico. Il ring diviene allora il terreno per un confronto dialettico tra i sessi, dove si combatte finalmente ad armi pari e soprattutto secondo le regole giuste. Battersi proprio con lui serve allora a ristabilire la fiducia nei confronti del sesso maschile, e il loro match finale è quasi una danza, fatto più di abbracci che di scontri. Infatti nessuno dei due va al tappeto, e la vittoria viene decisa ai punti. Più tardi, nello spogliatoio, Diana si lascia andare a un pianto liberatorio, mentre Adrian si sente smarrito e confuso. Ma sono ancora loro due, ed è arrivato il momento di decidere se e come costruire qualcosa di veramente bello, importante e speciale insieme. SPUNTI PER COMPRENDERE, RIFLETTERE, CONDIVIDERE - In “Girlfight” c’è il tema del riscatto femminile attraversato dalla voglia di crescita e cambiamento. La vicenda di Diana racconta un cammino di emancipazione ancora in corso, di una realtà femminile contemporanea tuttora oggetto di discriminazione, ingiustizia, prevaricazione e soprattutto violenza. Quali emozioni e quali valori vi ha trasmesso la visione del film in questo senso? -Il film parla equamente a chiunque, maschio e femmina, sia interessato alla giustizia e all'eguaglianza e al bisogno di ciascun essere umano di sentirsi considerato, conosciuto e apprezzato al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni. Condividete questa riflessione e quale ritenete possa essere l’impegno di ciascuno in questa direzione? -“Girlfight” rappresenta una metafora doppiamente liberatoria: oltre che contro l'indifferenza dell'ambiente, Diana si batte contro la mentalità secondo cui una ragazza è approvata quando pratica la danza o gli sport aggraziati, stigmatizzata se si dedica invece a uno sport considerato violento. Quali pensieri ed emozioni vi ha suscitato il personaggio di Diana? Quali aspetti delle sue azioni e scelte avete più o meno condiviso? -La figura dell’allenatore di Diana, Hector, compensa con i suoi insegnamenti e con un atteggiamento di sostegno e incoraggiamento una figura paterna che abbiamo visto essere non solo assente ma prevaricatrice e prepotente. Come vengono rappresentate le figure maschili del film? - Adrian è più titubante, timoroso, Diana invece no, decisa a misurarsi con lui, perché è la sua occasione e non vuole perderla. Perché Adrian si fa mille scrupoli e quasi si vuole sottrarre all’incontro sul ring con Diana, mentre lei riesce a tenere separate le due cose? Che cosa avreste fatto se foste stati al posto dell’uno o dell’altra? -A vostro parere come andrà avanti la storia fra Adrian e Diana? Che cosa possiamo augurare loro? -“Quella cattiveria e durezza che nella boxe maschile sono sinonimo di coraggio, nella disciplina femminile non sono altrettanto apprezzate… Secondo il New York Times, dietro all’esclusione del pugilato femminile ai Giochi Olimpici c’è sempre stata una concezione maschilista e stereotipata. Tra le motivazioni presentate in passato, per spiegare la sua esclusione, c’era quella secondo cui l’ansia pre-mestruale rendeva le donne instabili emotivamente. E questo era pericoloso per la loro salute…” (Il Post – 6 agosto 2012). Scheda realizzata da: Lucia Caratti Progetto: “Educare alla sessualità – Schermi del cuore” – Usl 2 Marca Trevigiana – Responsabile dott.ssa Teresa Rando