E hai ottenuto quello che volevi da questa vita

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E hai ottenuto quello che volevi da questa vita
“E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos'è che volevi?
Sentirmi chiamare amato, sentirmi
amato sulla terra“
Raymond Carver
"BENNY E JOON"
(Benny & Joon)
di Jeremiah Chechik
Produzione: Usa 1993 - Soggetto: dal racconto di Barry Berman e Leslie McNeil
Sceneggiatura: Barry Berman -
-
Fotografia: John Schwartzman - Montaggio: Carol
Littleton - Musica: Rachel Portman - Scenografia: Neil Spisak - Interpreti e Personaggi:
Johnny Depp (Sam); Mary Stuart Masterson (Joon);
Aidan Quinn (Benny);
Julianne
Moore (Ruth); Oliver Platt (Eric); CCH Pounder (Dr. Garvey); Dan Hedaya (Thomas); Joe
Grifasi (Mike); William H. Macy (Randy Burch) - Durata: 98’
LA STORIA
Dalla tragica morte dei genitori, avvenuta molti anni prima per un incidente stradale,
Benny si è totalmente dedicato alla sorella minore, Joon, una ragazza intelligente e
sensibile, dotata di un notevole talento per la pittura ma emotivamente disturbata, che
accudisce e protegge amorevolmente. Nonostante il parere favorevole della dottoressa
Garvey, la psicologa che da sempre la segue, l’iperprotettivo Benny si ostina a non voler
mandare Joon in una casa - famiglia, anche se la ragazza fa scappare tutte le governanti
che il fratello, proprietario di un’officina meccanica e perciò fuori casa per molte ore al
giorno, assume regolarmente. Di trovarsi una fidanzata, neanche a parlarne, nonostante
Benny sia un ragazzo molto attraente e non gli manchino di certo le occasioni, per questo
l’amico e socio Eric prova a farlo riflettere sul fatto che forse è lui per primo a non volersi
costruire una vita propria e ad avere paura dell’amore, invitandolo a darsi più da fare.
L’unica evasione che Benny si concede sono i venerdì sera a poker con gli amici di
sempre, dove la posta in gioco non è in denaro, bensì in oggetti personali (un disco
d’annata, uno stetoscopio, un’insalatiera, una maschera da sub con boccaglio, e così via).
Una sera, mentre si sta recando con Benny a casa di uno di loro, Mike, per la solita partita,
Joon nota, appollaiato su un albero davanti alla casa dell’amico, un ragazzo dall’aspetto
alquanto bizzarro che la fissa intensamente. Quando, più tardi, Joon decide di giocare una
mano al posto del fratello, Mike mette sul piatto proprio quel ragazzo, che si chiama Sam
ed è un cugino capitatogli fra capo e collo di cui non vede l’ora di disfarsi, e Joon perde. A
nulla valgono le proteste di Benny, regola vuole che i debiti di gioco si devono sempre
onorare, costretto a portarsi a casa la singolare vincita. Il misterioso giovane si rivela un
profondo conoscitore e amante del cinema, in particolare quello del muto di Charlie
Chaplin e Buster Keaton, di cui sa imitare alla perfezione movenze e gag, con cui
conquista all’istante la ragazza. Il suo arrivo porta una ventata di aria fresca nella
monotona esistenza dei due fratelli. Sam possiede la capacità di cogliere e assecondare le
manie e le esigenze di Joon, sintonizzandosi con il suo mondo come nessuno finora è
riuscito a fare, al punto da convincere Benny che una nuova governante non serve più, dal
momento che Sam se la sa cavare benissimo con lei. Le giornate trascorrono così
serenamente, tra Joon che si dedica alla pittura e al giardinaggio e Sam che pulisce la
casa a ritmo di rock e prepara toast al formaggio utilizzando il ferro da stiro, o il purè
schiacciando le patate con una racchetta da tennis. Anche la dottoressa Garvey è molto
compiaciuta dei miglioramenti in Joon. La ritrovata libertà spinge Benny a tentare un
approccio con Ruthie, una cameriera con alle spalle una carriera di attrice e un matrimonio
entrambi falliti, dalla quale è sì attratto, ma con cui fatica a relazionarsi, combinando
pasticci a non finire e mettendo in grande difficoltà la donna, desiderosa di un legame
serio e duraturo, a causa della sua goffaggine e impaccio. Sempre più sorpreso dal talento
di Sam per la mimica e i giochi di prestigio, Benny ne parla con un amico impresario per
farlo entrare nel mondo dello spettacolo, ma Sam non vuole lasciare Joon, perché nel
frattempo fra i due è sbocciato un amore fino al quel momento tenuto segreto. Sconvolto
dalla notizia Benny, in un impeto di rabbia, caccia Sam di casa e minaccia per Joon il
ricovero nella casa-famiglia sempre rifiutato. Per realizzare il loro sogno d’amore Sam e
Joon decidono allora di scappare e si infilano sul primo autobus, ma la ragazza si sente
male senza che lui possa fare nulla per calmarla. Costretti a far intervenire un’ambulanza,
Joon viene ricoverata in ospedale, seguita da Sam che però non viene ammesso nel
reparto e deve attendere in corridoio. Raggiunto dall'agitatissimo Benny, anch’egli escluso
dalla stanza della sorella, secondo i precisi ordini della dottoressa Garvey, Sam riesce con
uno dei suoi stratagemmi clowneschi a farlo entrare, mentre viene accompagnato di peso
fuori dall'ospedale da un paio di energici infermieri. Poco dopo, con una spericolatissima
trovata, eccolo riuscire ugualmente a raggiungere la finestra della camera di Joon e a farsi
vedere da lei, restituendole il sorriso. Benny si rende conto finalmente di aver commesso
molti errori nel rapporto con la sorella e di essersi sbagliato sul conto di Sam, e
comprende che Joon non ha bisogno delle sue cure, bensì dell’amore del suo ragazzo.
Dimessa dall'ospedale con il parere favorevole della Garvey, Joon va a vivere con lui,
mentre Benny può riprovarci con Ruthie.
ANALISI CRITICA
Uno sguardo tenero e gentile per esplorare i temi dei legami familiari (il complicato
rapporto fra un fratello e una sorella che crescono da soli) e amorosi (le difficoltà per
trovare un’intesa da parte di un uomo e di una donna che non sanno come prendersi, la
commovente spontaneità con cui, di contro, un’altra giovane coppia riconosce i reciproci
sentimenti e s’incontra su un medesimo terreno), esprimendone tutta la complessità con
leggerezza e intelligenza, delicatezza e tolleranza, attraverso i dettagli e le sfumature,
l’attenzione alle piccole cose, l'importanza dei gesti più spontanei, elevando la fantasia e
la creatività ad antidoto contro una realtà difficile e dolorosa, rivoluzionandone la visione.
In questo senso “Benny & Joon” è un film poetico, coraggioso e anticonvenzionale, che in
virtù del suo taglio fiabesco e surreale, un’atmosfera senza tempo e un po’ naif, arriva in
maniera diversa a ciascun spettatore, libero di cogliervi ciò che desidera, dove la diversità
costituisce una ricchezza e un’occasione per guardare sé stessi e gli altri da una
prospettiva differente, liberare l’esistenza quotidiana dal peso schiacciante delle
imposizioni e degli alibi che a volte ci si costruisce per non dover scegliere, per paura di
sbagliare, di ferire e di ferirsi, di non essere all’altezza. Come Benny, che si è
completamente estraniato dalla vita sociale e sentimentale: non ha rapporti, se non quelli
con gli amici di una vita e i colleghi dell’officina e, quando si ritrova al primo appuntamento
con Ruthie, pronta ad amarlo e a condividere la vita con lui, entra in crisi perché non sa da
che parte cominciare, avendo da troppo tempo congelato le proprie emozioni e sentimenti.
In nome di una distorta concezione del senso del dovere nei confronti della sorella, a suo
dire così bisognosa della sua protezione in un mondo che non accetta la diversità, ha
infatti imparato a limitare la sua vita, a chiudersi al mondo e all’amore. Ma, pur animato
dalle migliori intenzioni, Benny sbaglia nel voler impedire che Joon vada a vivere con Sam,
perché con le sue eccessive premure rischia di far perdere alla ragazza l’occasione di
assumersi le proprie responsabilità, di stabilire autonomamente dei rapporti con le persone
e di vivere una storia d’amore. Benny inoltre sembra sottovalutare l’intensità e la serietà
dei sentimenti di Sam e Joon, come se non ne fossero capaci, e soprattutto il progetto di
vita che vogliono provare a costruire insieme, e invece saranno proprio loro a insegnargli
cosa vuol dire innamorarsi. Soprattutto Sam, che gli fa capire che è tempo di lasciarsi
andare, di pensare a se stesso, di liberarsi dai fantasmi del passato e di andare avanti
separatamente dalla sorella, perché c’è una donna innamorata che lo aspetta di cui
anch’egli è innamorato, com’è successo anche a lui. E che Sam e Joon si completino a
vicenda appare evidente fin dal loro primo, emozionante e magico incontro. Sam ha
talento e affetto da vendere, riesce a portare allegria e ottimismo nell’esistenza della
ragazza, trovando la giusta chiave per interagire con lei, arrivando a concordare
pienamente sull’infelice destino delle uvette che Joon scarta rigorosamente dal suo gelato
e su tutti quegli aspetti dell’esistenza e delle cose che solo loro sono capaci di notare,
dotati come sono entrambi di quello sguardo speciale che contraddistingue gli artisti e i
sognatori. La predisposizione di Sam alla leggerezza e all’incanto, la sua libertà, il suo
rifiuto della cosiddetta “normalità” e dei luoghi comuni salva Joon, ne sminuisce le manie e
le ossessioni, la libera dalla propria prigione emotiva, e il legame con lui le consentirà di
trovare un equilibrio e gestire un’esistenza indipendente dalla presenza oppressiva del
fratello. Ma se la possibile causa dei problemi di Joon si intuisce nella perdita dei genitori
nel terribile modo che un breve e unico flash back rievoca, nulla invece ci viene detto su
che cosa spinge Sam a essere ciò che è. Ne vediamo spuntare il volto all’improvviso dal
finestrino di un treno mentre tiene fra le mani un libro sul suo idolo, Buster Keaton, e poi
nascosto fra le fronde di un albero la sera in cui conosce Joon, e questo non fa che
aumentare il mistero e il fascino sulla sua provenienza. Sam parla poco, ma è molto
empatico. Il suo approccio alla vita è buffo e stralunato, esattamente come i personaggi
portati sullo schermo da Keaton e Chaplin, di cui rivisita la gestualità e la mimica in
maniera irresistibile, usandola per comunicare con il mondo e suscitando in chi interagisce
con lui stupore, tenerezza e meraviglia. Un Johnny Depp prima maniera incarna con Sam
uno dei personaggi che diventeranno, nel corso della sua lunga carriera, il suo marchio di
fabbrica. Dono assai raro quello dell’attore, capace di iperboliche metamorfosi del volto, di
sostenere la macchina da presa soltanto roteando le palpebre, oppure dondolandosi
pericolosamente
su un’altalena improvvisata. Bravissima Mary Stuart Masterson nel
tratteggiare una splendida e toccante Joon, a rappresentarne il disagio emotivo e
psicologico senza saccheggiare il repertorio di smorfie ed enfasi di un ruolo ad alto rischio
in questo senso. All'innegabile livello tecnico che contraddistingue in genere la
cinematografia americana, il regista Jeremiah Chechik ha saputo aggiungere sfumature di
gusto e di sensibilità maturate in anni d'intenso lavoro a Milano come fotografo e pittore,
riuscendo a conferire alla vicenda e ai suoi personaggi venature d'ingenuità e atmosfere
suggestive, fuori dal tempo. “Benny & Joon” propone un’idea della vita aperta agli altri e
alla creatività, riconosce diritto di cittadinanza a modi diversi di realizzare il proprio
progetto esistenziale anche quando non rientra nei cosiddetti schemi normali. L'amore di
Sam per Joon è una piccola e dolce rivoluzione che contagia positivamente anche Benny
e Ruthie, e che profuma di fiori e di pane tostato con il ferro da stiro.
SPUNTI PER COMPRENDERE, RIFLETTERE, CONDIVIDERE
-C’è una frase-chiave che passa quasi inosservata, pronunciata, all’inizio del film, da un
cliente dell’officina di Benny, che dice: “Ma che cosa significa avere bisogno di qualcuno?”.
É proprio attorno a queste parole che il film è costruito. A vostro parere che cosa vuol dire,
in amore, “avere bisogno” di qualcuno?
-“Tu hai bisogno che io sia malata. Sono stufa di sentirmi dire cosa devo fare”, è l’accusa
che Joon rivolge al fratello, che ostacola il suo amore per Sam. Come avete vissuto il
personaggio di Joon, la sua fragilità e il suo talento? Perché Benny non vuole che la
sorella viva finalmente una vita propria? In che cosa ha ragione e in che cosa torto?
-Di fronte alla rabbiosa reazione di Benny alla scoperta della sua relazione con Joon, Sam
commenta: “Tu hai paura, Benny, e io so perché?”. Che cosa intende dire il ragazzo con
queste parole?.
-Il film inneggia al potere di guarigione dell'amore. Quali riflessioni emergono dalla sua
visione in questo senso? Quale aspetto di questa storia vi ha maggiormente colpito,
emozionato, fatto riflettere e magari insegnato qualcosa?
-Tanto l’amore fra Joon e Sam nasce spontaneamente e l’uno si dona all’altra con
naturalezza, quanto quello fra Benny e Ruthie fatica a esprimersi e a rivelarsi. Per quali
ragioni a vostro parere?
-Qual è stato il vostro impatto emotivo nei confronti della vicenda? Quali sentimenti vi ha
suscitato?
-Quale immagine del film vi è rimasta maggiormente impressa? C’è una scena che avete
amato in particolare?
-“Credo che Sam sia uno di quegli individui che da piccoli erano dislessici, avevano
difficoltà d'apprendimento e non hanno ricevuto l'attenzione di cui avevano bisogno.
Intimidito dalle dure prove della vita fugge in un altro mondo. Il suo modo di affrontare la
realtà lo fa interagire con il mondo nel modo in cui vediamo” (da un’intervista al regista del
film Jeremiah Chechik). Come avete vissuto il personaggio di Sam, quali emozioni vi ha
trasmesso?
-Dotato di una naturale grazia fisica, Johnny Depp sostiene quasi da solo una narrazione
costruita proprio intorno al suo estro creativo e alla sua capacità espressiva venata di
sottile malinconia. Per questo ruolo di mimo stravagante, ma di straordinaria delicatezza,
attinge al repertorio del cinema muto, rinnovandolo con la propria originale capacità
espressiva. Tra le gag c’è la celebre danza dei panini ispirati da “La febbre del’oro” (1925)
di Charlie Chaplin. I quadri dipinti da Joon sono invece opera dell’attrice che la interpreta,
Mary Stuart Masterson.
Scheda realizzata da: Lucia Caratti
Progetto: “Educare alla sessualità – Schermi del cuore” – Usl 9 Treviso – Responsabile
dott.ssa Teresa Rando
IL GIARDINO
Qui, ai piedi sdrucciolosi d’ una fonte,
O alla muscolosa radice d’un albero da frutto,
Liberandosi di sua veste corporea,
la mia anima s’insinua lieve tra i cespugli:
Lì come un uccello siede e canta,
Poi affila, e liscia le sue ali d’argento;
E, finché’è pronta per un più lungo volo,
Intesse tra le piume le differenti luci.
Andrew Marvell
LA FAMIGLIA BELIER
(La famille Bélier)
di Eric Lartigau
Produzione: Francia 2015 – Soggetto: Victoria Bedos - Sceneggiatura: Victoria Bedos,
Stanislas Carré de Malberg, Eric Lartigau, Thomas Bidegain -
Fotografia: Romain
Winding - Montaggio: Jennifer Auge - Musica: Evgueni Galperine, Sacha Galperine –
Scenografie: Olivier Radot - Costumi: Anne Schotte - Interpreti e Personaggi: Karin Viard
(Gigi), François Damiens (Rodolphe), Eric Elmosnino (Thomasson), Louane Emera
(Paula), Roxane Duran (Mathilde), Ilian Bergala (Gabriel), Luca Gelberg (Quentin),
Stephan Wojtowicz (il sindaco), Bruno Gomila (Rossigneux), Céline Jorrion (la giornalista
televisiva), Jérôme Kircher (il dottor Pugeot), Clémence Lassalas (Karène), Manuel Weber
(il veterinario) - Durata: 105 - Distribuzione: Bim.
LA STORIA
Nel villaggio rurale di Lassay, nella Francia settentrionale, i Bélier sono proprietari di una
fattoria dove allevano e coltivano prodotti che poi vendono al mercato locale. Mamma Gigi,
papà Rodolphe e il figlio minore Quentin sono sordi dalla nascita, mentre la maggiore,
Paula, sedici anni, è perfettamente udente, per questo svolge il ruolo indispensabile di
tramite nell’organizzazione della vita quotidiana, in particolare della fattoria: è lei infatti che
intrattiene i rapporti con i fornitori, le banche, i clienti. Paula è una ragazza seria, matura e
responsabile, ma
è un pur sempre un’adolescente, che non ha ancora avuto le
mestruazioni, cosa che la preoccupa non poco, e ha una cotta per Gabriel, capelli ricci,
occhi azzurri, aria sicura di sé, che sta con la più carina della scuola, rispetto alla quale si
sente un brutto anatroccolo. Nessuno invita Paula alle feste, né lei fa molto per inserirsi
nella vita scolastica, ma meno male che c’è Mathilde, la sua amica del cuore, che adora i
Belier, ha molta più esperienza di Paula in fatto di ragazzi, e la sprona costantemente a
essere meno riservata e a buttarsi con Gabriel. Per questo Paula decide di iscriversi nello
stesso corso di canto promosso dalla scuola, e già dalla prima audizione il professor
Thomasson, un tipo burbero e frustrato, convinto di non riuscire di cavare niente di buono
da adolescenti brufolosi e demotivati, così li definisce, si accorge che Paula possiede uno
straordinario talento vocale, tanto da metterla in coppia proprio con Gabriel, dotato
anch’egli di una bella voce, per un duetto da eseguire in occasione del saggio di fine
anno. Il brano che ha scelto per loro è una canzone d’amore ardente e passionale, ma i
due si sentono impacciati e non riescono a interpretarla con il trasporto che egli vorrebbe.
Per questo propone loro di esercitarsi dopo la scuola e di farlo ballando, per riuscire a
tirare fuori tutta la sensualità che il brano deve trasmettere. Ma il loro primo incontro si
risolve in un totale disastro, con l’arrivo improvviso delle mestruazioni per Paula e gli
esuberanti genitori che sbandierano l’evento in sua presenza. Evento che il giorno dopo è
sulla bocca di tutti a scuola, e questo Paula non glielo perdona a Gabriel (tanto da
appioppargli un plateale ceffone), motivo per cui le prove di canto fra i due s’interrompono
sul nascere, mentre Thomasson, esaltato dall’aver finalmente trovato, dopo tanti anni, un
vero talento da plasmare, propone alla ragazza di partecipare alla selezione per entrare in
una rinomata scuola canora di Parigi per la quale vorrebbe prepararla privatamente. Sulle
prime Paula non ne vuole sapere perché non se la sente di lasciare la sua famiglia, che
dipende da lei, tanto più da quando suo padre ha deciso di candidarsi come sindaco del
paese, e deve tradurne i comizi, i discorsi e le interviste. “Ma sei matta? Come pensi
abbiano fatto i tuoi genitori prima che tu nascessi?”, taglia corto Mathilde per spingerla
invece ad accettare un’occasione imperdibile per dare una svolta alla sua vita. Così,
almeno per il momento, Paula sceglie per un po’ di non dire nulla a casa e di andare a
lezione da Thomasson di nascosto, mentre
Mathilde, per darle una mano, vende i
formaggi al mercato al posto suo, con scarsissimi risultati, e Quentin scopre di essere
allergico al lattice del profilattico che ha usato per vivere con lei la sua prima esperienza
sessuale. Nel frattempo la situazione fra Gabriel e Paula, dopo che il ragazzo ha avuto un
piccolo incidente automobilistico che ha fatto emergere una difficile situazione familiare, si
chiarisce, e i due riprendono la preparazione del famoso duetto per lo spettacolo di fine
anno scolastico. Anche se ancora non lo vuole ammettere, Gabriel si sente attratto da
questa ragazza intelligente e orgogliosa, che non si lascia incantare dalla prospettiva di
una bravata inutile e stupida. Quella sera si esibiscono con grande successo (dietro le
quinte, alla fine dello spettacolo, si sono scambiati un tenero bacio d’amore che li ha
lasciati senza parole), emozionando e commuovendo il pubblico, tranne i genitori di Paula,
i quali non hanno preso affatto bene le lezioni di canto della figlia, e men che meno la
possibilità che se ne vada a studiare a Parigi, tanto da indurre la ragazza a rinunciare a
presentarsi all’audizione dell’indomani per la sua ammissione, con grande disappunto del
suo insegnante. E invece sarà proprio papà Rodolphe, dopo una notte insonne, a decidere
che invece ci andrà eccome, e che sarà la sua famiglia ad accompagnarla insieme a
Gabriel e a Thomasson. Paula tradurrà per i suoi cari il testo della canzone che ha scelto
di eseguire con la lingua dei segni. Emozionati e orgogliosi, mamma e papà la rassicurano
sul fatto che possono organizzarsi ugualmente senza di lei, lasciandola libera di andare
incontro al suo futuro, con grande gioia e soddisfazione del professor Thomasson.
ANALISI CRITICA
Un’adolescente che si trova a dover gestire il proprio corpo che cambia, il primo
innamoramento, il bisogno di arginare l’invadenza dei familiari, le decisioni sul proprio
futuro. I primi passi incerti di una ragazza il cui orizzonte si spalanca inaspettatamente e
impone una scelta difficile e sofferta. Niente di nuovo, si dirà, eppure “La famiglia Belier”
porta una ventata di aria fresca nella rappresentazione dell’età adolescenziale, sulla fatica
di crescere e sulla necessità di seguire una strada diversa da quella magari tracciata dai
genitori, attraverso un intelligente, raffinato e originale racconto che fa riflettere, sorridere e
commuovere. Sullo sfondo di una particolare condizione familiare (genitori e fratello non
udenti), di un’ambientazione sociale che mette a confronto una dimensione agreste legata
al territorio contro una cementificazione selvaggia (lo scontro politico tra Rodolphe Belier e
il sindaco uscente, che si ricandida alle elezioni proponendo la costruzione di un enorme
centro commerciale), la dolce, solare e tenera Paula Belier compie il proprio personale
cammino verso un avvenire che mai avrebbe immaginato possibile per sé. “Miei cari
genitori io vado via/ Vi voglio bene, ma vado via/ Non avete più una bambina, stasera/Io
non fuggo, io volo/Cercate di capire, io volo/ Senza fumo, senza alcool/ Io volo...“. La
musica fa da filo conduttore alla sua progressiva presa di coscienza e contribuisce a tirare
fuori sensazioni, emozioni e sentimenti finora negati e annullati per amore della famiglia,
all’interno della quale è lei quella “diversa”. Una musica che parla di amore e di libertà, di
realizzazione di sé e di talento, di quel dono che se ne sta lì fino a quando non ci pensa
qualcuno a farlo uscire, al pari di un tesoro nascosto finalmente rinvenuto. Il percorso di
Paula alla ricerca di sé, dei propri sogni, aspirazioni e desideri diventa allora il percorso di
tutti gli adolescenti che oggi come ieri devono affrontare le scelte che la vita chiede loro di
compiere, dapprima senza quasi rendersene conto, come se in prima battuta fosse la vita
stessa a scegliere per loro, per poi afferrarla e governarla. La scoperta (casuale?) di un
talento speciale e l’idea di poter per la prima volta coltivare un sogno tutto suo, mette in
crisi le sue certezze e quelle della sua famiglia. Il fatto di possedere una bella voce è
qualcosa che evidentemente ha tenuto nascosto prima di tutto a se stessa, fino a quando,
con la scusa di poter stare accanto al ragazzo del quale è innamorata, viene finalmente
svelata, spalancandole tutto un mondo dal quale si sentiva estromessa. Sembra quasi che
Paula non aspettasse altro che qualcuno la scoprisse, e quel qualcuno è un insegnante
dapprima svogliato, scontroso e poco disponibile verso i suoi alunni, che volentieri
strapazza e apostrofa nei modi più disparati e poco lusinghieri, che grazie a lei ritrova
gusto ed entusiasmo sia per il suo lavoro che per la vita. A quel punto tocca a Paula
decidere se cogliere l’opportunità che il suo professore le offre (e che le rammenta,
quando è piena di dubbi e ripensamenti, di non commettere un errore di cui pare avere
esperienza diretta e di conoscere bene le conseguenze), oppure lasciar perdere, per tutte
le ragioni legate alla famiglia che sappiamo, ma forse anche alle paure che inevitabilmente
accompagnano scelte in cui ci viene richiesto di mollare tutto e di metterci alla prova. Non
è facile per nessuno, soprattutto se si hanno sedici anni. Paula sembra infatti incastrata in
una dimensione a metà fra l’infanzia e l’età adulta. Si comporta perfettamente da grande
quando deve fare da tramite fra i suoi genitori e la società, ma torna
a essere
un’adolescente particolarmente introversa quando è a scuola, con la sua migliore amica
Mathilde a fare da ponte con il mondo dei coetanei, così come lo è lei con quello di chi ci
sente per i genitori. A complicare le cose in un già delicato percorso di crescita (Paula è
fisicamente un po’ goffa, incurvata e angustiata perché non ha ancora avuto le
mestruazioni), c’è il legame simbiotico con la sua particolare famiglia. Non soltanto i
genitori contano su di lei per la maggior parte degli aspetti della gestione quotidiana e la
coinvolgono nella loro intimità oltre ogni limite, ma è soprattutto l’attitudine di Paula per la
musica a risultare loro incomprensibile, quasi offensiva, perché non appartenente al loro
mondo. Se Rodolphe ha scelto come slogan politico, per farsi eleggere sindaco, il
significativo “Vi ascolto”, sembra invece non voler affatto “ascoltare” questa figlia diversa, il
cui dono dell’udito e della voce risulta una specie di tradimento, come emerge
drammaticamente nella scena in cui la madre ammette di aver pianto quando, alla sua
nascita, il marito le aveva rivelato che Paula ci sentiva. Il regista riesce a fondere con
equilibrio aspirazioni, sentimenti e umorismo senza mai scadere nel sentimentalismo,
agendo soprattutto sulla carica emotiva dei protagonisti e sull’empatia che si viene a
creare con lo spettatore. A momenti di efficace realismo, come quello del saggio
scolastico, quando, per far capire l’estraneità alla musica dei genitori di Paula, che
osservano gli sguardi del pubblico ammaliato, il sonoro scompare progressivamente fino
al totale silenzio, e quello in cui, dopo lo spettacolo, Paula, seduta sul prato di casa, viene
raggiunta dal padre il quale, posandole una mano sulla gola, le chiede di cantare la
canzone del saggio che non ha potuto ascoltare, si alternano altri più surreali, a tratti
grotteschi, come la visita medica dei coniugi Belier o la campagna elettorale di Rodolphe.
Paula ha il volto della giovanissima Louane Emera, vincitrice del talent The Voice, che pur
non essendo un’attrice professionista, anzi, forse proprio per questo, dona al
suo
personaggio il giusto mix di goffaggine, idealismo, tenerezza, ma anche tenacia,
tipicamente adolescenziali. “La famiglia Bélier” riesce a raccontare le speranze e le
contraddizioni del passaggio all’età adulta, del bisogno di distacco e di autonomia senza
rinunciare alle proprie radici, la sfida dell’essere genitori, in grado di proteggere i propri
figli, ma anche di lasciarli andare incontro alla vita. E’ bello che scelga di chiudersi nel
momento in cui Paula si allontana dalla fattoria, in pieno subbuglio emotivo, ma decisa a
superare le paure e le difficoltà che l’attendono, affidando invece ai titoli di coda un lieto
fine a tutto tondo dove apprendiamo che Rodolphe ha vinto le elezioni, che il professor
Thomasson è convolato a nozze con la collega di spagnolo, che Mathilde continua a
prendere lezioni della lingua dei segni da Quentin e che Paula e Gabriel hanno continuato
a frequentarsi a Parigi, e la loro storia sembra prendere sempre più consistenza.
SPUNTI PER COMPRENDERE, RIFLETTERE, CONDIVIDERE
-“L’adolescenza è ricca e contraddittoria, per questo interessa i registi. Spesso l’umore
degli adolescenti tocca gli eccessi, reagiscono in modo esagerato nel bene e nel male. I
sentimenti sono forti e il corpo non è ancora formato completamente. La grande scoperta
del proprio corpo e il passaggio verso il mondo adulto è un percorso violento e
interessante. Accompagnare questa ragazza nel superamento delle sue paure e nel
trovare se stessa mi piace e credo abbia parlato agli spettatori” (Eric
Lartigau, dal
Pressbook del film). Condividete le osservazioni fatte dal regista sull’adolescenza, e quali
emozioni e riflessioni vi ha suscitato la visione del film da questo punto di vista?
-Paula possiede un grande senso di responsabilità, è sempre pronta a sacrificarsi per la
famiglia, anche a costo di mettere in un cassetto il suo talento. Cosa pensate del
personaggio di questa ragazza, il suo carattere, personalità, atteggiamenti? Condividete la
sua scelta di andare a studiare canto a Parigi, oppure pensate che avrebbe dovuto restare
a casa ad aiutare i suoi?
-Il padre e la madre faticano ad accettare non solo le scelte di Paula ma il fatto stesso
che stia diventando grande. Come giudicate il loro atteggiamento nei confronti della figlia?
Come arriveranno a comprendere e ad accettare la sua scelta di partire per Parigi?
-Nel film possiamo forse cogliere, nella condizione di non udenti dei genitori della
protagonista, una metafora dell’ascolto fra genitori e figli, che nell’età adolescenziale si fa
sempre più difficoltoso, fino talvolta a diventare assente. Che cosa gli adulti, genitori,
insegnanti e così via, dovrebbero “ascoltare” di voi adolescenti che a vostro parere non
fanno?
-Se non ci fosse stato il professore di musica a scoprire il talento di Paula, a vostro parere
sarebbe rimasto per sempre inespresso, oppure prima o poi sarebbe saltato fuori
ugualmente? Secondo voi Paula sapeva di avere una bella voce e aveva scelto
deliberatamente di mortificarla a causa della sordità dei suoi familiari, oppure ne era
totalmente inconsapevole?
-“Mi ricordo che in un determinato momento della mia vita, la mia prima professoressa di
teatro ha svolto un ruolo decisivo: è stata lei a guardarmi e a notare che il mio posto era là,
sul palcoscenico. Ricevere su di sé uno sguardo come quello è miracoloso e ti sconvolge
la vita. Quando il mio personaggio sente per la prima volta la voce di questa ragazza,
capisce subito che potrà realizzare quello che lui non ha mai potuto fare. In quel preciso
istante avviene qualcosa di bello” (Eric Elemosino, dal Pressbook del film). Che rapporto si
instaura fra il professor Thomason e Paula? Perché l’uomo ci tiene così tanto che lei coltivi
il suo talento? Vi piace come insegnante?
Scheda realizzata da: Lucia Caratti
Progetto: “Educare alla sessualità – Schermi del cuore” – Usl 9 Treviso – Responsabile
dott.ssa Teresa Rando
SE SAPRAI STARMI VICINO…
Se saprai starmi vicino,
e potremo essere diversi,
se il sole illuminerà entrambi
senza che le nostre ombre si sovrappongano,
se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo
e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere.
Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo
e non il ricordo di come eravamo,
se sapremo darci l’un l’altro
senza sapere chi sarà il primo e chi l’ultimo
se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia…
Allora sarà amore
e non sarà stato vano aspettarsi tanto.
Pablo Neruda
GIRLFIGHT
(Id.)
di Karyn Kusama
Produzione: USA, 2000 - Soggetto e Sceneggiatura: Karyn Kusama - Fotografia: Patrick
Cady - Montaggio: Plummy Tucker - Musica: Theodore Shapiro - Scenografia: Stephen
Beatrice - Costumi: Marco Cattoretti - Interpreti e Personaggi: Michelle Rodriguez (Diana);
Jaime Tirelli (Hector); Ray Santiago (Tiny); Paul Calderon (Sandro); Santiago Douglas
(Adrian); Elisa Bocanegra (Marisol); Shannon Walker Williams (Veronica); Victor Sierra
(Ray); Herb Lovell (Cal); Thomas Barbour (Ira); Belqui Ortiz (Karina); John Sayles
(Professor Coolidge) - Durata: 102′. Film vincitore del Premio per la Regia e il Gran Premio
della Giuria al Sundance Film Festival e Camera d’Or al Festival di Cannes.
LA STORIA
Nata e cresciuta nello squallore popolare di Brooklyn, a diciotto anni Diana Guzman ha già
imparato che nella vita o le si dà o le si prende, e lei ha deciso di darle. Scontrosa, cupa e
irascibile, è sempre in cerca di pretesti, anche i più futili, per accapigliarsi con chiunque le
capiti a tiro. Stavolta a farle saltare i nervi è stata la sua compagna di classe Veronica, che
ha portato via il ragazzo che piaceva alla sua amica Marisol. Richiamata e spedita in
presidenza per l’ennesima volta, rifiuta ogni aiuto e sostegno, ed è a un passo dall’essere
espulsa da scuola. Vive insieme al padre Sandro, che passa il tempo a bere e a giocare a
carte, occupandosi molto poco dei figli, e al fratello minore Tiny, promettente studente con
il talento per il disegno, con il quale Diana ha un rapporto di affetto e complicità. La madre
è morta suicida. In casa non se ne parla mai, e l’atmosfera è sempre carica di tensione.
Diana incolpa il padre della tragedia, provocata dagli abusi e dalla violenza esercitati nei
confronti della donna. Quando una sera va a saldare il conto alla palestra di boxe che il
padre costringe Tiny a frequentare perché impari a difendersi dai bulli del quartiere, Diana
ne rimane affascinata; osservando i pugili in azione capisce che forse quello è il suo posto
e convince Hector, uno degli allenatori, a insegnarle la boxe, e Tiny è ben felice di dare a
lei il denaro destinato alle sue lezioni, naturalmente all’insaputa del padre. Hector accetta
di allenare la ragazza più per i soldi che per convinzione; la palestra cade a pezzi e non
c’è neppure uno spogliatoio femminile. Rimediato uno sgabuzzino per cambiarsi, Diana
inizia una dura preparazione atletica, durante la quale Hector le insegna a controllare e a
canalizzare la rabbia, a prendere coscienza di sé, del suo corpo e della sua mente. Nel
giro di qualche settimana Diana ha conquistato la fiducia dell’uomo, il quale, accortosi del
suo talento e carisma, la fa combattere nella categoria dei pesi piuma sia con maschi che
con femmine. Non tutti vedono di buon occhio la cosa, ma Hector è un tipo abituato a
pensare con la propria testa e non si lascia condizionare da chi non ama vedere le donne
sul ring. Non sentendosi più sola e abbandonata a se stessa, Diana trova persino la forza
di affrontare il padre la sera in cui, venuto a conoscenza che sua figlia pratica la boxe, una
volta di più l’ha squalificata e umiliata. In palestra la ragazza conosce Adrian, un giovane
che spera di dare una svolta positiva alla sua vita come pugile professionista. Cresciuto
anch’egli in un ambiente degradato e desideroso di andarsene al più presto, sente nei
confronti di Diana un’affinità speciale; di lei lo intrigano l’aria da dura, la sbrigatività dei
modi e il fatto che abbia scelto una disciplina ritenuta “poco femminile”. Lo sguardo di
Diana diventa uno sguardo d’amore e tenerezza quando incontra quello di Adrian. I tratti
del suo bel viso si ammorbidiscono, il corpo svela la sua femminilità, e dopo qualche
incertezza dettata dal timore di un sentimento forte e impegnativo, Adrian lascia la ragazza
con cui usciva e si mette con lei. Tutto sembra andare per il meglio fino a quando, in virtù
di una legge che permette incontri misti fra maschi e femmine, Hector organizza un torneo
proprio per offrire a Diana l’occasione di mettersi in luce. Destino vuole che al termine
delle fasi eliminatorie i finalisti risultino essere proprio Adrian e Diana: lui va in crisi, si
rifiuta di disputare l’incontro, teme che il loro rapporto non possa reggere a una tale prova,
mentre lei non vuole rinunciare all’opportunità che le è stata data, e poi ritiene il suo amore
per lui sufficientemente forte. L’incontro alla fine avrà luogo e sarà sofferto ma leale, duro
ma rispettoso, non manderà nessuno al tappeto e segnerà una tappa importante nel
cammino di crescita per entrambi.
ANALISI CRITICA
Fin dalle prime scene capiamo che Diana, sotto l’ostentata scontrosità e ostilità, nasconde
un enorme bisogno di amore e di attenzione, di quel “calore”, spiegato in classe
dall’insegnante in chiave scientifica, che assume un significato simbolico nel momento in
cui la macchina da presa si sofferma sull’espressione dolente del volto della ragazza. Del
resto la vita per lei finora non è andata per il verso giusto, così si è messa sulla difensiva,
dichiarando guerra al mondo attraverso la rabbia e l’aggressività, il disprezzo e l’odio,
tenendosi in disparte e lontana da tutto e da tutti, anche se al tempo stesso questo suo
atteggiamento rappresenta una forma di resistenza e di ribellione al fallimento e alla
sconfitta cui si sente destinata e ritiene di non meritare. Come si può darle torto? La ferita
della perdita della madre, morta suicida a trentasette anni perché non ne poteva più dei
soprusi del marito, è di quelle che non si rimarginano
e ti rendono estremamente
diffidente nei confronti degli altri. “Sei la copia sputata di tua madre”, osserva l’amico di
suo padre venuto a giocare a carte a casa sua. Forse è per questo che Sandro non riesce
nemmeno a guardare in faccia sua figlia, mantenendo quell’atteggiamento odioso e
arrogante di chi ritiene di avere sempre ragione. Stranamente, suo figlio Tiny è un ragazzo
dolce e studioso. Troppo, per un padre che lo vorrebbe duro e sprezzante come lui e per
questo lo costringe a frequentare una sgangherata palestra pugilistica, che il ragazzo
ovviamente detesta. Ma a Sandro non importa affatto, perché è abituato soltanto a
comandarli i figli, non ad ascoltarli. “Lo preparo a entrare nel mondo”, sostiene, come se il
mondo fosse una campo di battaglia dove a vincere è sempre e soltanto la forza fisica.
Date queste premesse, “Girlfight" si presenta come un potente racconto di formazione, di
liberazione e di conquista personale, nel quale lo sport rappresenta uno strumento di
riappropriazione della propria dignità e identità. La scelta del pugilato non sembri poco
realistica, dal momento che, insieme al calcio,
è tipico degli ambienti più poveri e
svantaggiati, e non sorprenda neppure che a praticarlo sia una ragazza, perché,
nonostante la boxe femminile sia stata ammessa alle Olimpiadi solo nel 2012, esiste fin
dai tempi più antichi. Uscito nel 2000, il film ha fatto incetta di premi in tutti i festival, dal
Sundance a Cannes, e segna il folgorante esordio di Michelle Rodriguez nel ruolo di
Diana, a tutt’oggi la sua migliore interpretazione, nonostante il successo vero le sia
arrivato dopo con “Fast and Furious”, “Avatar” e “Lost”. Ottimamente sceneggiato e diretto
da Karyn Kusama (sì, una donna), immerso nello scenario multietnico e ad alta tensione
razziale di Brooklyn, tra palazzi anonimi, degrado sociale e ansia di riscatto, macchina da
presa a mano, colori saturi e luce smunta, primi piani intensi, un commento musicale
perfettamente calzante, “Girlfigth” è un’opera fatta con il cuore e tanta grinta, dotata di
notevole spessore psicologico, che ci regala uno splendido personaggio femminile, di
quelli che non si dimenticano. L'incontro con il pugilato innesca nella protagonista un
formidabile processo di metamorfosi e le regala insegnamenti non sono solo sportivi ma
anche di vita, laddove “la boxe è cervello che vince sui muscoli”, è leggerezza, persino
eleganza. Diana impara a incanalare quella rabbia che fino a quel momento le aveva
procurato solo guai, ottiene attenzione e considerazione, conquista il rispetto di se stessa,
trova il coraggio di affrontare il padre in una durissima resa dei conti nella quale ribalta la
posizione di potere detenuta finora dall’uomo e che aveva portato la madre a prendere la
decisione di farla finita.
Con la sua determinazione e impegno, la ragazza riesce a
scardinare convinzioni inattaccabili e a modificarle in positivo all’interno di un ambiente
prettamente maschile come quello della palestra pugilistica: il buon Hector, il vecchio Cal,
lo stesso Adrian e, naturalmente Tiny, vittima dello stereotipo opposto, impostogli dal
padre, di un maschio che è tale solo se sa tirare pugni. Il solo che non accetta di battersi
con una ragazza, Ray (“perché è da finocchi”), che si dimostra sleale e scorretto (“Ma
tanto che c’è sotto la sua cintura?”), viene giustamente cacciato dalla palestra perché
sono molti gli uomini, giovani e meno giovani, che desiderano camminare a fianco delle
donne, e condividere insieme a loro esperienze, conoscenze, abbattendo vecchi pregiudizi
e costruendo nuovi valori. In questo senso “Girlfight” è un film-manifesto per una nuova
femminilità, più consapevole dei propri diritti e capace di essere di stimolo anche per il
maschile, senza bisogno di fare necessariamente di Diana una figura ostile nei confronti
dell’altro sesso. La sua è la storia di una delle tante ragazze che crescono in un ambiente
fortemente maschilista, valutate soltanto per l’aspetto fisico e la disponibilità sessuale. Ne
sono esempio i personaggi di Veronica e Karina, dal trucco e dal look eccessivi, e la
sequenza della prova di educazione fisica nei confronti della quale, Diana a parte, le
ragazze non si spendono minimamente, prigioniere, esse stesse, di ruoli e modelli radicati.
Quando Diana incontra Adrian e se ne innamora, questi elementi emergono in maniera
ancora più evidente, aprendo una riflessione molto interessante su come questa coppia
può in questo senso funzionare. L’amore finora a lei sconosciuto le permette di liberare la
propria femminilità e vulnerabilità (“Hai la bocca dolce” osserva Adrian quando la bacia per
la prima volta. “Ho sempre pensato di essere salata” risponde sorpresa lei”), e anche, per
citare un vecchio film, una certa voglia di tenerezza. Adrian invece trova in Diana una
figura femminile completamente diversa, che non ci sta a fare la bella statuina e pretende
un’attenzione vera e un ascolto libero e autentico. Il ring diviene allora il terreno per un
confronto dialettico tra i sessi, dove si combatte finalmente ad armi pari e soprattutto
secondo le regole giuste. Battersi proprio con lui serve allora a ristabilire la fiducia nei
confronti del sesso maschile, e il loro match finale è quasi una danza, fatto più di abbracci
che di scontri. Infatti nessuno dei due va al tappeto, e la vittoria viene decisa ai punti. Più
tardi, nello spogliatoio, Diana si lascia andare a un pianto liberatorio, mentre Adrian si
sente smarrito e confuso. Ma sono ancora loro due, ed è arrivato il momento di decidere
se e come costruire qualcosa di veramente bello, importante e speciale insieme.
SPUNTI PER COMPRENDERE, RIFLETTERE, CONDIVIDERE
- In “Girlfight” c’è il tema del riscatto femminile attraversato dalla voglia di crescita e
cambiamento. La vicenda di Diana racconta un cammino di emancipazione ancora in
corso, di una realtà femminile contemporanea tuttora oggetto di discriminazione,
ingiustizia, prevaricazione e soprattutto violenza. Quali emozioni e quali valori vi ha
trasmesso la visione del film in questo senso?
-Il film parla equamente a chiunque, maschio e femmina, sia interessato alla giustizia e
all'eguaglianza e al bisogno di ciascun essere umano di sentirsi considerato, conosciuto e
apprezzato al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni. Condividete questa riflessione e
quale ritenete possa essere l’impegno di ciascuno in questa direzione?
-“Girlfight” rappresenta
una metafora doppiamente liberatoria:
oltre che contro
l'indifferenza dell'ambiente, Diana si batte contro la mentalità secondo cui una ragazza è
approvata quando pratica la danza o gli sport aggraziati, stigmatizzata se si dedica invece
a uno sport considerato violento. Quali pensieri ed emozioni vi ha suscitato il personaggio
di Diana? Quali aspetti delle sue azioni e scelte avete più o meno condiviso?
-La figura dell’allenatore di Diana, Hector, compensa con i suoi insegnamenti e con un
atteggiamento di sostegno e incoraggiamento una figura paterna che abbiamo visto
essere non solo assente ma prevaricatrice e prepotente. Come vengono rappresentate le
figure maschili del film?
- Adrian è più titubante, timoroso, Diana invece no, decisa a misurarsi con lui, perché è la
sua occasione e non vuole perderla. Perché Adrian si fa mille scrupoli e quasi si vuole
sottrarre all’incontro sul ring con Diana, mentre lei riesce a tenere separate le due cose?
Che cosa avreste fatto se foste stati al posto dell’uno o dell’altra?
-A vostro parere come andrà avanti la storia fra Adrian e Diana? Che cosa possiamo
augurare loro?
-“Quella cattiveria e durezza che nella boxe maschile sono sinonimo di coraggio, nella
disciplina femminile non sono altrettanto apprezzate… Secondo il New York Times, dietro
all’esclusione del pugilato femminile ai Giochi Olimpici c’è sempre stata una concezione
maschilista e stereotipata. Tra le motivazioni presentate in passato, per spiegare la sua
esclusione, c’era quella secondo cui l’ansia pre-mestruale rendeva le donne instabili
emotivamente. E questo era pericoloso per la loro salute…” (Il Post – 6 agosto 2012).
Scheda realizzata da: Lucia Caratti
Progetto: “Educare alla sessualità – Schermi del cuore” – Usl 2 Marca Trevigiana –
Responsabile dott.ssa Teresa Rando