New York, 11 settembre. Parigi, 7 gennaio

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New York, 11 settembre. Parigi, 7 gennaio
New York, 11 settembre. Parigi, 7 gennaio
Domenica 11 Gennaio 2015 11:41
di Angelo d’Orsi da MicroMega dell'8/1/2015 - L'assalto a Charlie Hebdo è l'11 settembre
francese. Piango i suoi redattori, piango i suoi straordinari artisti (non chiamateli vignettisti, per
favore): Stéphan Charbonnier (Charb, il direttore, il primo a cadere), Jean Cabut (Cab), Bernard
Verlhac (Tignous), Philippe Honoré (Honoré), il mitico Georges Wolinski, un autentico maestro
della matita, che aveva accompagnato la protesta del maggio '68, diventandone quasi la
colonna visiva. E ancora i redattori, di varia competenza, uniti dalla medesima passione: Elsa
Cayat (la sola donna uccisa), Bernard Maris, Michel Renaud, Mustapha Ourrad. E le guardie. E
l’usciere.
Condivido il dolore dei familiari, dei colleghi, degli amici. Condivido il dolore della mia amata
Parigi, che ieri sera, attonita, quasi silenziosa, per quanto possa esserlo una grande metropoli,
ha alzato le matite al cielo. Sì, eravamo tutti Charlie, ieri, a Place de la République, anche chi,
come me francese non è, anche chi come me provava spesso disagio davanti all’umorismo del
settimanale parigino, spesso imbevuto di un fastidioso qualunquismo, talora non esente da
punte di razzismo. Nel corso degli anni la sua voce è divenuta spesso opaca, pur nelle grida
delle sue sempre efficaci copertine, e la satira è apparsa via via stanca e un po’ ripetitiva, ma
Charlie Hebdo, era ed è una istituzione, in certo senso, in Francia. Un paradosso, se si pensa
alla sua carica contestativa, al sarcasmo graffiante, alla provocazione dirompente: tutti tratti che
evidentemente poco sono consoni all’ufficiosità istituzionale della Repubblica. Eppure la retorica
che ha fatto dire al presidente Hollande che i morti di rue Nicolas Appert sono “i nostri eroi”, per
quanto comprensibile è sbagliata. Non si diventa eroi in quanto vittime.
Ma ogni riserva, politica e culturale sulla filosofia del giornale (che non può essere cancellata),
viene meno davanti agli eventi del 7 gennaio, una data che è immediatamente entrata nel
calendario dei grandi eventi, sia pure traumatici, della Francia contemporanea. Il “film”
dell’attacco, visto e rivisto innumerevoli volte su tutti i canali tv, e in Rete da subito, quasi un
memento spaventoso per l’opinione pubblica francese, e internazionale, continua a suscitare
impressioni sconvolgenti. Non passerà presto il raccapriccio provato davanti a quella sequenza:
i colpi dei kalashnikov, le grida concitate, i rumori indefiniti e inquietanti, i giornalisti che cercano
scampo sui tetti, l’attesa breve e interminabile insieme dei soccorsi.
Un cinefilo avrà evocato l’esordio dei Tre giorni del condor, il mirabile film di Sidney Pollack, ed
effettivamente tutto è apparso come un film, ma i morti sono veri, e vera è quella orribile scena
che rimarrà nella galleria degli orrori, per sempre, quel colpo di grazia esploso con gelida
fermezza da uno degli aggressori alla testa di un agente ferito, a terra, che invocava pietà. Il
sarcasmo dell’ultima copertina firmata dal direttore, Stéphane Charbonnier, non può che
apparire come un tragico esempio di profezia che si autoavvera: un grande titolo che recita
“Continuano a non esserci attentati, in Francia”, e sotto, un tizio barbuto con turbante e mitra a
tracolla replica con un sarcastico “Aspettate. C’è tempo sino a fine gennaio per fare gli auguri”.
Agghiacciante.
Eppure occorre sangue freddo e cautela a additare alla pubblica esecrazione, come fatto certo
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e indubitabile, che gli autori sono “islamisti”, anche con la precisazione “radicali”. Poi il “radicali”
si perde per strada e rimane islamisti. Che, nella opinione pubblica è equivalente a “islamici”,
che viene addirittura confuso con “arabi”, in una deriva (che non è solo semantica, ma culturale
e politica) insopportabile, quanto pericolosa.
Le scritte che si sono lette ieri sera, 7 gennaio, nella grande manifestazione parigina a
République sono la migliore risposta agli avvoltoi guidati dall'orrida Le Pen (curioso: in tanta
folla non ho scorto neppure un lepenista!), e dai suoi emuli nostrani. Ecco tre esempi:"Puniremo
il responsabile. La punizione sarà più generosità, più tolleranza, più democrazia".; "Preferisco
morire in piedi, piuttosto che vivere in ginocchio. Sono Charlie"; "L'amore più forte dell'odio". E
molti parlavano, tra sogno e speranza, della necessità di fondare un partito ispirato a Charlie,
un partito di laici e credenti di varie fedi, all’insegna della tolleranza.
Ma il mainstream non vedeva l’ora che accadesse qualcosa del genere (tanto più quando le
vittime, come in questo caso, non sono proprio allineate all’establishment perbenista). “C’è
sempre qualche avvoltoio che si bea delle tragedie”, ha scritto su Internazionale, una
musulmana italiana europea, di origine somala, Igiaba Scego. Concordo: ma non sono pochi,
gli avvoltoi, e cresceranno a dismisura nelle prossime settimane e mesi.
Sicché mentre colpi d’arma da fuoco, già ieri sera e nella giornata odierna, sono stati esplosi
contro sedi di culto musulmano, in varie località della Francia, la signora Le Pen gongola, e
richiede un referendum per istituire nuovamente la pena di morte, sicura della vittoria dei sì,
viatico alla successiva, ormai quasi inevitabile (così sento dire qui) vittoria alle Presidenziali,
sebbene non vicinissime. Intanto, mentre si sta riabilitando Oriana Fallaci, con i suoi inviti
all’odio, troppi citano Huntington e il suo “clash of civilizations”, in fondo andando vicino alla
verità, ma una verità al contrario che mi pare emerga dal 7 gennaio parigino: non un attacco
alla democrazia, neppure all’Europa, o alla “nostra civiltà”, ossia l’Occidente e il suo Libero
Mercato, bensì alla pace, e agli equilibri mondiali, o meglio quel che di essi resta. Lo ha notato
Giulietto Chiesa, mentre un osservatore indipendente, Craig Murray (sul suo sito), invita a
evitare di cadere nelle generalizzazioni, vittime della semplificazione, della retorica, e della
rinuncia alle necessarie “sfumature”.
Quali sono le certezze che abbiamo davanti all’aggressione e alla strage? E non sarebbe
comunque necessario interrogarsi sui mandanti, sui fini, e sui possibili beneficiari di questa
azione? Ragionare, insomma, prima di puntare il dito contro gli islamisti, a casaccio, un dito che
subito dopo sarà pronto a premere il bottone dei missili teleguidati.
Fra i commenti degli amici di MicroMega, se Cinzia Sciuto (la blogger “Animabella”), ha
osservato che “I fondamentalisti, e non gli ‘infedeli’, sono i veri blasfemi”, precisando: “Con le
dodici persone massacrate ieri a Parigi, e con le migliaia trucidate con cieca brutalità in giro per
il mondo, i fondamentalisti hanno ucciso anche il loro Dio, qualunque cosa essi intendano con
questa parola”; Paolo Flores ha più radicalmente sostenuto, proprio su questo nostro spazio
libero, che è comunque la fede in un qualche Dio che procura tragedie e orrori, concludendo
con un elogio della laicità: quella “più rigorosa, che esclude Dio, qualsiasi Dio dalla vita
pubblica” come “unica salvaguardia contro l’incubazione di un brodo di coltura clericale che
inevitabilmente può diventare pallottola fondamentalista”. Qui, dalla Francia, ha detto parole
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simili Daniel Cohn-Bendit, spiegando, su Libération, che l’attacco a Charlie Hebdo, è
espressione della vendetta contro la “radicalità anticlericale”.
Ma si tratta comunque di voci isolate, nella cara Italia. Odo anche a distanza il latrare dei cani
rabbiosi che come sempre si sono scatenati contro “il nemico che è tra di noi”, quel nemico
verso il quale siamo stati troppo tolleranti, e contro i cosiddetti “fiancheggiatori” italiani, i
“filoterroristi”. I terroristi sono sempre gli altri, anche quando è l’Occidente che li ha allevati,
foraggiati e armati, dai Talebani all’ “esercito di liberazione siriano”, fino ai seguaci di Al
Baghdadi (intimo di politici statunitensi fino a poco fa, come in passato Bin Laden) e del suo
sedicente Califfato. E filoterroristi coloro che, a differenza del senatore Maurizio Gasparri, il
quale, senza esitare, invoca una guerra, invitano a ragionare, a conoscere, a distinguere.
Il disprezzo totale per gli assalitori, si associa in me alla preoccupazione per le conseguenze di
questo gesto: una nuova ondata di islamofobia, la crescita elettorale dei vari Le Pen e Salvini e i
loro osceni compagni di merenda a livello europeo. Ma una riflessione è opportuna: al di là del
fanatismo intollerante degli aggressori, dobbiamo chiederci chi abbia seminato tanto odio.
Quando i governi delle "democrazie occidentali" hanno giocato alla guerra in Afghanistan, Iraq,
Libia, Siria...: quali risultati hanno ottenuto? Sì, forse il controllo di qualche pozzo di petrolio, o di
un gasdotto, qualche commessa per imprese multinazionali. Ma a quale prezzo? E, ora, quale
sarà la risposta? Chi andremo a bombardare, aspettando poi la successiva vendetta di qualche
folle "soldato di Allah" (un incolpevole Allah)? E così via, in questa guerra universale, che non
avrà vincitori, ma solamente vinti: tutti noi.
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