Vincenzo Scamozzi a Monselice

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Vincenzo Scamozzi a Monselice
VINCENZO SCAMOZZI A MONSELICE
LOREDANA OLIVATO
Percorsi devozionali ed esibizione del potere:
Vincenzo Scamozzi a Monselice
Certamente il 1582 fu per le fortune veneziane di Vincenzo
Scamozzi un anno cruciale. Il 5 aprile, infatti, le autorità serenissime accoglievano il progetto per l’edificazione, nella platea marciana, il luogo più prestigioso della Capitale, del primo tratto delle
Nuove Procuratie che l’architetto aveva presentato1. Si trattava di
un’affermazione di consistente evidenza: Vincenzo veniva, infatti,
a proporsi, dopo il prestigioso precedente di Jacopo Sansovino e
venendo prescelto dagli stessi protettori e sodali di Andrea Palladio,
come privilegiato interlocutore per la definizione ultima dell’invaso su cui si affacciava la basilica di San Marco, il più significativo
spazio pubblico della città, destinato a perenne celebrazione della
grandezza veneziana, ma in rapporto diretto e scopertamente
emblematico con i valori di religiosità e devozione di cui la basilica era investita anche a livello di memoria e cultura collettive. Lo
scontro che avverrà sulle scelte da operare nel rinnovamento e nel
completamento della piazza metterà in campo forze politiche ben
precise (e i cui epigoni ritroveremo nel seguire la carriera di Vincenzo) che si affronteranno, vuoi sostenendo le ragioni di fedeltà
e adeguamento ai principi emanati dalla curia di Roma, vuoi affermando le ragioni dell’indipendenza e dell’autonomia, giuridiche
nonché legislative, della Repubblica.
Ma perché fu proprio il nome di Vincenzo a prevalere? Fino a
quel momento aveva lavorato fuori dalle lagune, progettando per i
Pisani la splendida Rocca o per i Trissino, a Vicenza, il palazzo nei
1
Basti citare l’ancor validissimo M. TAFURI, Venezia e il Rinascimento, Torino
1985, in partic. le pp. 252-271.
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pressi del duomo2. Ma senza mai apparire fra la folla dei proti veneziani cui toccavano le opere di ordinaria manutenzione locale.
Certamente una parte non secondaria nel designare il nome
dell’architetto vicentino dovette toccare a Marcantonio Barbaro
che, nel 1581, era stato eletto Provveditore sopra le Nuove Fabbriche ed era il fratello di quel Daniele che aveva edito, con un
fitto commento e giovandosi appunto della collaborazione di Andrea Palladio, nel 1566, I dieci libri sull’architettura di Vitruvio.
Ed entrambi erano stati committenti di Andrea per la splendida
residenza suburbana di Maser e l’adiacente tempietto. Non solo:
sul nome di Vincenzo vedremo convergere anche l’assenso dei
Contarini – ove Jacopo era stato in rapporti di stretta amicizia con
Andrea al punto da venir designato come destinatario dei disegni
lasciati dal maestro – che, per quasi trent’anni, risultano impegnati nel tentativo di stabilire, con i destini architettonici e di sviluppo urbano della città, anche l’asse di un possibile sviluppo politico; e che sono comunque legati ai Barbaro dalla comune vocazione antiquaria, da un interesse esplicito e ribadito per la tradizione
e il recupero dell’antichità romana.
E il nodo è, a mio giudizio, proprio qui.
Le ragioni della concordanza su Vincenzo vanno ricercate, al
suo rientro in quel provvidenziale momento, proprio nel suo precedente soggiorno nell’Urbe che era iniziato a partire dal 1578. E non
era rientrato a mani vuote.
Egli recava con sé non solo i preziosi rilievi e gli appunti sulla
tipologie di una romanitas trionfante, cioè di un’architettura ‘parlante’ anche sotto il profilo politico o, almeno, di patente politica
culturale, ma anche l’inedito (e oggi scomparso) trattato di prospettiva che Jacopo Contarini ebbe agio di leggere e di apprezzare
al punto di ritenere proprio Vincenzo il vero erede dell’architettura palladiana e il destinatario ideale di quei disegni che Andrea gli
aveva a suo tempo legato3.
2 Sull’attività di architetto di Vincenzo si veda il catalogo della mostra, allestita
dal Centro internazionale di studi di architettura “A. Palladio” di Vicenza (7 settembre 2003 - 11 gennaio 2004): Vincenzo Scamozzi 1548-1616, a cura di F. BARBIERI G. BELTRAMINI, Venezia 2003, passim, cui si rimanda anche per ogni precedente referenza bibliografica.
3
Sulle vicende dei disegni palladiani si veda il dotto e ricchissimo saggio di
L. PUPPI, Palladio. Corpus dei disegni al Museo Civico di Vicenza, Milano 1989.
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Di questa importante esperienza primo frutto erano state le
due tavole incise da Marco Cartari e raffiguranti le Terme di Antonino e di Diocleziano dedicate a Giovanni Cornaro, ambasciatore
della Repubblica presso papa Gregorio XIII. Impresa ambiziosa
che mirava proprio a qualificare Scamozzi, entro l’ambito della
possibile committenza veneta, come il più aggiornato interprete
del linguaggio architettonico “moderno”, quello cioè ispirato alla
“vera bellezza e leggiadria degli antichi”.
In quest’ordine il secondo esito sarà ben più dirompente e
consisterà nella pubblicazione dei Discorsi sopra l’antichità di Roma,
che l’editore Girolamo Porro dava alle stampe proprio nel 1582,
dedicando l’opera – la circostanza non è da trascurarsi – proprio
al “Carissimo Signor Giacomo Contarino”.
Tralasciamo in questa sede – ne abbiamo già ampiamente trattato4 – il problema delle illustrazioni al testo, dovute al bulino di
Giovan Battista Pittoni. Si tratta di una spregiudicatissima operazione di mercato che consistette nel furto di immagini precedentemente e da altri incise e stampate. Le pur affascinanti tavole risultavano (anzi, risultano oggi) riprese pari pari dai Precipua aliquot
Romanae antiquitatis ruinarum monimenta..., stampati ad Anversa
da Hieronymus Cock nel 1551 e successivamente ripubblicati dieci anni dopo con una nuova serie di dodici tavole aggiunte.
Ma ciò che ci interessa osservare è lo straordinario e dottissimo corredo di annotazioni con cui Vincenzo arricchisce il volume. Che attestano la sua qualifica indiscussa di studioso competente ed agguerrito sul mondo dell’antichità, su Roma, i suoi scrittori, la sua storia.
Ma non vorremmo indugiare oltre.
In sostanza, e per riassumere quanto siamo venuti sin qui osservando, la conoscenza della romanitas e la competenza scientifica
ed erudita ci appaiono come le ragioni di fondo che possono aver
4
Sui complessi problemi relativi all’edizione delle Antichità di Roma, mi permetto di rimandare alla mia introduzione alla ristampa anastatica del testo del 1582:
“Quantum Roma fuit ipsa ruina docet”. L’itinerario romano di Vincenzo Scamozzi, in
V. SCAMOZZI, Discorsi sopra l’antichità di Roma. 1582, Milano 1991, pp. IX-XXVIII, integrato dal più recente L. OLIVATO, Attorno a Vincenzo Scamozzi: Girolamo Porro editore delle Antichità di Roma, in Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci,
a cura di D. LENZI, Bologna 2004, pp. 175-182. Per un approccio squisitamente ed
esclusivamente ‘archeologico’ all’edizione cfr. M. DALY DAVIS, Discorsi sopra le antichità di Roma (1582), nel catalogo Vincenzo Scamozzi..., cit., pp. 234-236, n. 15.
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motivato la scelta di Vincenzo come quella del prosecutore aggiornato del programma di rinnovamento urbano che Venezia imposta ancora a partire dagli anni del dogado di Andrea Gritti e che,
proprio sullo scorcio dell’ottavo decennio del secolo, andava caricandosi di ulteriori significati a motivo del contrasto che opponeva, nella classe politica veneziana, i “zoveni” ai “vecchi”: contrasto che di lì a poco sarebbe esploso nella correzione del 1582, con
il ridimensionamento del potere del Consiglio dei Dieci e, conseguentemente, con una grave perdita di prestigio da parte degli
esponenti delle famiglie maggiormente legate alla corte pontificia,
di cui facevano parte, appunto, Marcantonio Barbaro, Giacomo
Contarini e Giovanni Cornaro.
Ma sospendiamo per il momento questa lunga premessa.
Nel lontano 1974 Lionello Puppi ed io rinvenimmo nei fondi di
disegni della Biblioteca del Museo Correr a Venezia una sequenza
di grafici (schizzi progettuali, planimetrie, appunti per il cantiere
ovvero disegni puliti da presentare ai committenti) riconducibili alla
mano di Vincenzo (o comunque di matrice scamozziana) e a una
specifica committenza, quella dei Duodo; disegni in particolare dedicati alla residenza extra-urbana da questi posseduta in Monselice5.
Non credo sia il caso di tornare su una puntuale esegesi di
quei testi grafici che sono di recente stati ulteriormente ragionati
in occasione della mostra scamozziana dedicata dal Centro “Andrea Palladio” di Vicenza al nostro architetto6. Con alcune ulteriori e condivisibili specificazioni; e anche sulla base di nuove
acquisizioni documentarie apportate dalla ricerca di Nadia Munari
che identificava ben otto delle planimetrie – su cui a suo tempo
noi avevamo solo avanzato delle timide proposte di lavoro – riuscendo a collegarle con un acquisto avvenuto nel 1598 di una proprietà Gritti a Monselice (di cui si prevedeva il riassetto che Vincenzo, appunto in quei disegni, propone).
Ripercorrere l’analisi dei testi grafici di cui sopra sarebbe ozioso
e, in questa sede, eccessivo. Mi permetto, tuttavia, di soffermarmi,
anche solo brevemente, su alcuni dettagli.
5 Cfr. L. PUPPI - L. OLIVATO, Scamozziana. Progetti per la ‘Via Romana’ di Monselice
e alcune altre novità grafiche con qualche quesito, “Antichità Viva”, XIII (1974), 4,
pp. 54-80.
6 Cfr. nel catalogo Vincenzo Scamozzi..., cit., le schede redatte da A. Augusti,
G. Beltramini, S. Vendramin, pp. 301-319, nn. 34.1-34.3e.
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Problematica appare la recente retrodatazione della villa che,
sempre sulla base delle acquisizioni documentarie della Munari7
(che non ci sembrano tuttavia definitive e inappellabili), viene spostata a momento situato fra 1589 e 1590 (mentre per noi si poneva
al 1592), sulla base di un programma edilizio complessivo che i
Duodo avrebbero organizzato in corrispondenza con i lavori che
in quegli anni stavano finanziando nella chiesa veneziana prescelta
come sede funeraria familiare, cioè in Santa Maria Zobenigo, nei
cui pressi sorgeva il palazzo domenicale di loro pertinenza fin dal
Trecento.
Beninteso il problema – che non è poi così sostanziale – riguarda, almeno in apparenza, il committente, che non sembra essere
più Pietro di Francesco Duodo bensì i fratelli, all’epoca ancora in
vita, Francesco appunto (morirà nel 1592), e Domenico (morirà
nel 1597)8.
Senza volerci addentrare in minuzie filologiche e nella lettura
efferata di documenti, a mio avviso non decisivi, mi pare che la
questione sia facilmente risolvibile9.
Certamente l’impresa che prevede la ristrutturazione della villa e della chiesetta di San Giorgio viene portata a termine sulla
base di un preciso compito di autocelebrazione familiare che i
Duodo si assumono nel momento in cui si decide (e certo avviene
molto per tempo e prima del 1592 o addirittura del 1589) il riassetto del complesso di Monselice. Ed è un programma che di sicuro coinvolge i fratelli Francesco e Domenico ma che il figlio Pietro
e, tanto più avanti, nel XVIII secolo, l’ambasciatore Nicolò ulteriormente modificano. Programma che noi oggi leggiamo come
un’esplicita dichiarazione politica, una presa di distanza – si direbbe – dal consueto esercizio di governo della Repubblica sul
piano strettamente giurisdizionale che porterà fatalmente alla crisi dell’Interdetto del 1606.
7
Cfr. N. MUNARI, Problemi scamozziani, tesi di laurea, rel. prof. M. TAFURI, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, a.a. 1984-1985.
8 Sulle genealogie dei Duodo basti rimandare alle estese e documentate voci di
G. GULLINO (su Andrea, Cristoforo, Francesco di Pietro e Francesco di Alvise, Girolamo
e Girolamo da Santa Maria Zobenigo, Nicolò di Pietro) e di G. BENZONI (su Pietro)
nel Dizionario Biografico degli Italiani, 42, Roma 1993, pp. 26-54.
9
Tengo tuttavia a sottolineare che non ho conoscenza diretta della tesi della
Munari e parlo sulla base di quanto è stato da altri riferito: in particolare nel più volte
citato catalogo della mostra vicentina del 2003-2004.
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Sappiamo che da tempo i Duodo acquistano terre nel territorio di Monselice. La denuncia d’estimo risalente al 1533 di Francesco di Pietro (padre del Pietro che poi vedremo in strettissime
relazioni con Scamozzi) parla di oltre cento campi nella zona dove
possiedono (attestata dagli estimi sin dal 1519) una casa con orto e
brolo che usano “per comodità di riscuotere le entrade delle nostre [...] possessioni”: casa, come ha provato la Munari, situata sul
colle e a partire dalla quale, e sulla quale, verrà poi realizzata la
tanto più imponente villa. Ancora, abbiamo provato che il 26 ottobre 1589 vengono acquistati altri appezzamenti “nel luogo detto la Rocchetta di San Giorgio, posta sopra il monte di Moncelese
territorio di Padova” cui si aggiunge, in novembre, il vicino “torresin” con altri appezzamenti sempre “appresso il castel di San
Zorzi” e altri “vignali” in quei pressi, acquisiti nel maggio 1590 e
nell’agosto 1591. All’interno della proprietà dovevano essere compresi anche i ruderi dell’antica chiesa di San Giorgio di cui un
breve di papa Clemente VIII il 12 novembre 1592 consentirà a Pietro Duodo la ricostruzione come “capellam privatam prout solitum
erat in palatiis et privatis aedibus” e che, viceversa, sarà poi riedificata con ben altri e più ambiziosi propositi10.
Ancora una volta sospendiamo le ipotesi su quale doveva essere l’originale progetto scamozziano che poi sarà sconvolto dai successivi, più tardi rimaneggiamenti. Certo è che nel 1597 i lavori
dovettero essere portati a termine e la fabbrica risultare agibile dal
momento che sull’altare si collocava la pala; pochi anni dopo, nel
1602, il vescovo Marco Cornaro, nella sua visita pastorale, descriveva il tempio “pulcherrimum et rotundum cum cuba”, forse vicino ad altre invenzioni scamozziane di quegli anni che costituiscono ripensamenti tipologici sul tema della pianta centrale come la
chiesa della Celestia a Venezia o quella di San Gaetano a Padova.
Né entriamo nel merito dell’intrigante disegno planimetrico
del Correr che l’Urbani, nell’Ottocento, riteneva autografo di Vincenzo e preparatorio per la riedificazione della chiesetta. Anche la
scheda della recente mostra vicentina dedicata al nostro architetto
10 Tengo a precisare che il 1592 è anche l’anno della morte di Francesco, che
tuttavia viene esplicitamente nominato nell’atto con il fratello Domenico, a significare che di una volontà familiare si trattava e non dell’exploit di un singolo. Ho il piacere di ringraziare il prof. Mario Sensi che, nell’occasione del Convegno, ha diffuso fra
gli studiosi presenti copia dell’atto originale.
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non prende posizione al riguardo, limitandosi a considerare plausibili le proposte da noi avanzate: o che si tratti di un ben più
avanzato progetto relativo agli interventi di Girolamo ovvero che
ci si trovi davanti ad una variante progettuale di Scamozzi che
prevedeva un ribaltamento e una revisione del primitivo (e appena rifatto) tempietto in vista del nuovo significato che il complesso, per volontà di Pietro Duodo, veniva ad assumere.
Si data al 12 novembre 1605 il breve di Paolo V che consente
al “diletto figliuolo Kavalier Pietro Duodo patrizio veneto [affinché] faccia edificare a proprie spese una certa chiesa sotto il titolo
di San Giorgio Martire nel castello di Monselice”. Il documento
risulterebbe ben oscuro (ma la chiesetta non era appena stata ricostruita?) se non lo leggessimo integralmente e non cogliessimo
che, oltre alla rifabbrica, veniva concesso al richiedente uno specifico beneficio. Chiunque infatti avesse visitato il tempietto (non più
cappella privata, ma luogo di culto aperto al pubblico) e le sei cappelline votive che costituivano le tappe di un itinerario sacrale di
pellegrinaggio, “erectas seu erigendas” (dunque già in fase di definizione), avrebbe goduto, purché avesse pregato Dio “per la concordia de Principi Christiani, estirpazione delle eresie et esaltazione della Santa Madre Chiesa”, degli analoghi benefici spirituali
accordati ai pellegrini che a Roma compivano il percorso delle sette basiliche maggiori, di cui appunto le cappelle assumevano – emblematicamente – il nome: Santa Maria Maggiore, San Giovanni
in Laterano, Santa Croce di Gerusalemme, San Lorenzo, San Sebastiano, Santi Pietro e Paolo11.
Un cambiamento non da poco in rapporto al primitivo impianto di pura autocelebrazione familiare unita alla sorveglianza e
allo sfruttamento del territorio – che costituiva una parte non irrilevante dei cespiti della famiglia – che il primo intervento scamozziano comportava.
Cosa era accaduto nel frattempo per imporre siffatto virage?
Le ragioni di tale metamorfosi sono forse recuperabili nel leggere
le trame che la storia ha composto.
11
A proposito delle indulgenze concesse si veda quanto ragiona, in questo stesso volume, Mario Sensi. Ma, ancora, sui problemi della devozione religiosa relativa al
Monte di Monselice cfr. l’interessante volume di R. VALANDRO, Il monte sacro di Monselice. Un itinerario giubilare euganeo, Monselice 2005.
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Soffermiamoci brevemente sul cursus honorum e le imprese di
Francesco, padre di Pietro. Sappiamo dei suoi prestigiosi incarichi politici e militari che lo coinvolsero in particolare nelle lotta
contro il Turco e che lo videro protagonista nella vittoria di Lepanto. Son noti anche i suoi interessi ‘scientifici’ per l’arte militare
e l’artiglieria in particolare, ove restano suoi scritti tecnici sul modo di migliorare la resa delle armi di cui dotare la flotta e sul più
corretto uso dell’Arsenale veneziano. Ma val la pena rilevare come,
eletto fra i Procuratori de ultra nel 1587 per gli importanti servizi
resi alla patria, ebbe fino all’ultimo l’opposizione del partito dei
“giovani” che gli rimproveravano apertamente le prese di posizione a favore della Roma papale. Nel suo testamento, steso nel 1592,
chiedeva che il busto in marmo che lo raffigurava, opera del Vittoria (come il modello in terracotta del Museo Correr), allora conservato nel palazzo di Venezia, fosse esposto sopra la sua tomba in
Santa Maria Zobenigo, accanto all’altare di San Francesco, con le
bandiere che ricordavano le sue vittorie militari12. E se lo Stringa
ci assicura che, a lato dell’altare in questione, le bandiere furono
di fatto appese tanto da essere infatti da lui segnalate, il busto non
fu traslato nel luogo sacro, ma rimase bensì nel palazzo domenicale per passare poi alla villa di Monselice, dove fu esposto nel
memorial di famiglia accanto a quelli di Pietro e di Domenico per
volontà del nipote, Alvise, nel 1663; e fu poi donato, all’inizio del
secolo scorso, dai conti Balbi Valier, allora proprietari della villa,
alle Gallerie dell’Accademia (oggi alla Ca’ d’Oro). Una curiosa
vicenda che lascia intravedere, forse, il timore delle autorità veneziane per un’eccessiva esaltazione della figura del condottiero, tanto
eterodosso nelle convinzioni politiche da non meritare una pubblica consacrazione in un tempio che già era stato oggetto di perplessità ed aperte proteste (la facciata è dedicata all’apoteosi del
generale Antonio Barbaro).
Torniamo all’esecuzione delle cappelle che, iniziate a partire
dal 1606, dovettero certo essere concluse nel giro di pochi anni se
il testamento di Alvise Duodo, zio di Pietro, le descrive come agibili
12
Sulla scultura vedi la scheda di T. MARTIN nel catalogo della mostra tenutasi a
Trento nel 1999: “La bellissima maniera”. Alessandro Vittoria e la scultura veneta del
Cinquecento, a cura di A. BACCHI - L. CAMERLENGO - M. LEITHE-JASPER, Trento 1999,
p. 298, n. 58.
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e frequentate. Scamozzi le articola secondo un percorso ascensionale a loro riservato, che non interferisce con il transito alla villa.
Si tratta di una scalinata che si inerpica sulla collina lungo i cui
fianchi, in nicchie all’uopo ricavate, si ritrovano, ad intervalli regolari, i piccoli edifici; progettati, ancora una volta, guardando all’antico sulla base di tipologie che al mondo della Roma classica si
rifanno, variando la composizione secondo un ritmo che alterna
piante quadrate a piante a croce, muta gli ordini adottati (toscano,
ionico, composito) in modo da creare una continua alternanza di
forme e induce il pellegrino a scoprire (a voler scoprire) la tappa
successiva del percorso. Che ne risulta tutt’affatto trasfigurato nella
conferma asserita e vantata di una devozione familiare che riesce a
tramutare la natura (il colle, cioè) in una visione di trascendenza
riferita al mito perenne di Roma, Roma antica la cui gloria ancora
rifulge nella grandezza del potere papale che dell’Urbe aveva saputo raccogliere l’eredità e il significato e tramandarli nei secoli
alla luce del rinnovamento cristiano del mondo civile.
Monselice, dunque, come modello, rimpicciolito ma essenziale, della Roma cristiana dove le simboliche sette basiliche maggiori erano in grado di dispensare ai fedeli i doni – non più solo virtuali – che la devozione comportava.
L’occasione del nostro intervento non ci consente di percorrere le tappe della lunghissima e lusinghiera carriera di Pietro Duodo:
non c’è che da rimandare alla dettagliata ed illuminante voce del
Biografico, redatta, con competenza e passione, da Gino Benzoni13.
Ci basti annotare come, in una vita dedicata ai viaggi, alle ambascerie e ai rapporti con le corti straniere, egli trovi il tempo per frequentare i circoli dotti dello Studium patavino, la scuola aristotelica
che colà si esprime, risultando frequentatore di personaggi quali
il Lollino, il Pinelli, la scuola di Francesco Piccolomini, di cui sarà grande ammiratore. Come ammiratore sarà di Galileo Galilei.
E dobbiamo sorvolare sull’Accademia Delia di cui, a Padova, essendo Capitano della città nel 1607, l’anno successivo fu il fondatore. Ove ancora una volta sono le scienze a prevalere, le matematiche, la geometria e la stereometria, la meccanica, l’uso di “machine
et instrumenti”, e in cui avrà ancora una volta al fianco il fidato
Scamozzi ad approntare i disegni per la fabbrica della nuova sede.
13
Cfr. supra, n. 8.
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Dobbiamo anche sorvolare sul suo ruolo di mediatore nel
momento cruciale della crisi dell’interdetto presso la corte pontificia. Esaltato dalle fonti come personaggio essenziale nella politica della Serenissima e ridicolizzato quasi dagli storici più recenti,
mi pare sia stato ultimamente riconsiderato con attenzione. E se il
suo ruolo presso Paolo V, con l’ambasceria straordinaria inviata
da Venezia nel 1605, non sembra di rilievo (e il nostro pare preoccupato più di assicurarsi il breve pontificio per la “via sacra” di
Monselice che di convincere il nuovo pontefice a mutar opinione
riguardo al governo serenissimo), ben diverso appare il suo impegno, l’anno successivo, quando, non per caso ma proprio per i
suoi dichiarati legami con l’Urbe, viene prescelto come ambasciatore straordinario alla Santa Sede nella speranza che la benevolenza dimostratagli dal pontefice si traduca in un meno rigido atteggiamento nei confronti dello stato ribelle. I suoi sforzi – ove la
costante del suo comportamento, nonostante i convincimenti morali e religiosi, resta tuttavia di ammirevole coerenza con la fedeltà
alla patria – furono vani ed egli fu costretto, nell’aprile 1606, al
rientro fra le lagune, a preoccuparsi per evitare lo scontro diretto
con Roma e a cercare in tutti i modi la fine della contesa.
Ma, per tornare al nostro punto di partenza, certamente fu
Pietro Duodo a influenzare e a pesare consistentemente sulla formazione e la cultura di Vincenzo Scamozzi che, dopo gli anni trascorsi nel collegio vicentino dei Padri Somaschi, ricevette dal nobiluomo stimoli importanti nella direzione di una preparazione
culturale che affiancasse gli studi letterari e dotti alle discipline
scientifiche, agli studi meccanici, alle scienze naturali. Sappiamo
che Pietro, eletto rappresentante della Repubblica presso la corte
imperiale, partiva per Praga nel 1599 con un vasto seguito cui si
affiancava, curioso ed interessato, il nostro architetto e di cui abbiamo memoria nel testo del Taccuino che ci è pervenuto14.
Sarà nelle pagine dell’Idea che Scamozzi ricorderà, con nostalgico rimpianto, gli anni del soggiorno romano spesi ad abbeverarsi con lo “studio delle Matematiche e dell’antichità”.
14
Sul Taccuino si veda la scheda riepilogativa di J. GUILLAUME nel catalogo Vincenzo Scamozzi..., cit., pp. 391-393, n. 57, con le referenze bibliografiche precedenti.
Ma, a latere, vedi anche L. COLLAVO, Sic ad aethera virtus: del Trattato d’Architettura di
Vincenzo Scamozzi, “Il Veltro”, 1-2 (2004), pp. 29-79.
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Allorachè di subito giunti, stando sulla costa del Campidoglio, e vedere
quella occhiata verso Campo vaccino, et a destra e sinistra quelle tante
rovine vicine, e lontane sino al Coliseo, e più oltre, sparse su per quei colli [...] dal che rinvenuti in noi, ci rendessimo molto certi delle cose raccontate dagli antichi scrittori [...] e perciò si può molto ben dire Roma quanta
fuit ipsa ruina docet.
La frase, che è citazione serliana, si pone a tramite tra il pensiero medievale sulla caducità della potenza e grandezza umane e
il recupero filologico delle stesse che può insegnare non solo a
ritrovare l’immagine vera della Roma antica ma anche a tradurre
nel presente e a rinnovare la lezione di quel grande passato.
Non è per caso, a mio giudizio, che nel disegno con la facciata
della villa di Monselice di cui abbiamo già detto e che riporta la
scritta “Nova Liberalitate Veteres Instauratae Ruinae” torni questo stesso termine, ruina. Che i Duodo, illuminati dalla luce della
fede nonché dalla conoscenza che lo studio dell’antico, l’erudizione,
l’uso delle tecniche e delle scienze moderne hanno loro concesso,
decidono di instaurare, per trasmettere (docere) ai propri visitatori
la grande lezione che le rovine (quelle dell’antica rocca, ma per
traslato quelle del passato comune) ancora conservano.
La tenace filologia di Vincenzo, la sua vastissima erudizione, la
molteplicità dei suoi interessi si rivelano, infatti, momento di innovazione, approdo certo ad una consolidata conoscenza del mondo
classico, base per ulteriori, ma non ravvicinati, approfondimenti.
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