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Convegno: La città come bene comune. Una vertenza europea
Venezia, Palazzo Badoer, lunedì 24 novembre, ore 9,30-17,30
La dimensione sovracomunale in Italia e in Europa
appunti di Maria Cristina Gibelli
1. La rilevanza della pianificazione di scala intermedia
Il tema della pianificazione d’area vasta è centrale in questo momento in tutta la riflessione
europea. Com’è noto però il grado di coscienza sull’importanza della pianificazione d’area vasta
fuori d’Italia è più forte, anche se, proprio per il fatto che i problemi sono complessi ovunque, il
grado di soluzione non è così avanzato.
Due sono le ragioni fondamentali per la pianificazione di area vasta
In primo luogo, l’intervento su scala vasta è necessario in presenza di un impatto sovralocale
di decisioni locali, ed in presenza di spill-over o di esternalità negative e positive. Le esternalità
sono in genere effetti senza contropartita che nascono per esempio quando qualcuno “scarica” su
altri dei costi, senza condividerne l’onere (esternalità negative); oppure quando si creano dei
vantaggi anche per qualcun altro che, agendo da free rider, si impossessa di questi vantaggi senza
riconoscere alcuna partecipazione (esternalità positive).
Una seconda ragione che giustifica l’intervento su scala vasta si ha quando esistono esternalità
di rete (una categoria simile alla precedente), e cioè in presenza di reti territoriali la cui logica e la
cui giustificazione risultano sistemiche. Possono infatti emergere casi di antidemocraticità,
soprattutto nel momento in cui l’interesse locale impatta su una rete che viene costruita in
funzione di un vantaggio collettivo sovralocale.
Ma altre ragioni si possono portare sulla necessità di un’ottica non soltanto municipale ma anche
di area vasta per la pianificazione spaziale. Per garantire:
- la qualità degli spazi pubblici, spesso sacrificati nel nostro paese alle esigenze di sviluppo,
sia nei centri urbani che nelle periferie;
- il governo della forma urbana attraverso il contenimento dei consumi di suolo, la
densificazione e la compattezza dell’edificato, la lotta allo sprawl e alla utilizzazione del suolo
per uno sviluppo non necessario,
- una gestione sostenibile dello sviluppo urbano – dal punto di vista ambientale, sociale ed
economico – invertendo una tendenza, ormai superata in altri paesi, verso estese pratiche
deregolative;
- una responsabilità pubblica affidata una nuova governance multilivello, nella quale la
Provincia deve svolgere un ruolo di snodo chiave.
E’ infatti alla Provincia che dovrebbe spettare il compito di costruire quadri di coerenza
territoriali per l’intero territorio dell’area vasta, assumendo competenze non solo di indirizzo
ma anche normative (soprattutto in materia di sostenibilità e di solidarietà territoriale e
sociale), pur accogliendo nuovi elementi di flessibilità nella gestione urbanistica.
Sembra questa la via seguita da Parigi e dalla regione Île-de-France con lo SDRIF
recentemente approvato: ad esempio per porre sotto controllo i consumi di suolo. La regione
nel recente Schéma Directeur ha ridotto la previsione – vincolante – di espansioni insediative
dal 2005 al 2030 del 22% rispetto a quelle previste dallo Schéma precedente (che per di più
operava su un numero minore di anni, da 1994 al 2015), annullando precedenti previsioni non
ancora realizzate che si trovavano al di fuori delle linee di forza del trasporto pubblico.
Un tema cruciale per la pianificazione di livello intermedio: combattere lo sprawl e il
consumo di suolo
Pochi mesi fa la European Environment Agency ha pubblicato un rapporto sul consumo
di suolo in Europa dal titolo evocativo, “Lo sprawl urbano: la sfida ignorata”, in cui si
sottolinea che, se le attuali tendenze continueranno, nei prossimi cent’anni si verificherà un
raddoppio del suolo urbanizzato, con un impatto drammatico sui consumi di energia e di risorse
territoriali e, di conseguenza, sulle emissioni di gas serra ed i cambiamenti climatici.
Nel Rapporto si evidenzia ripetutamente la stretta correlazione che si è instaurata negli ultimi
decenni fra deregolamentazione urbanistica e dispersione insediativa. Una volta di più si
auspicano modelli compatti e policentrici di sviluppo urbano, già più volte invocati nei documenti
relativi alle politiche di sviluppo territoriale dell’UE e, in particolare, nello Schema di Sviluppo
dello Spazio Europeo. Ma si sottolinea altresì che compattamento e policentrismo potranno essere
effettivamente ed efficacemente realizzati soltanto attraverso piani elaborati alla scala
pertinente (ovviamente la scala vasta) e con indirizzi forti e condivisi.
Il consumo di risorse territoriali è dunque problema che affligge molti paesi europei. Ma ciò
poco ci consola: infatti l’Italia è uno dei paesi più a rischio, perché questa emergenza non ha
ricevuto, e continua a non ricevere, una attenzione adeguata, mentre i consumi di suolo
proseguono a ritmi elevatissimi.
Anche se non disponiamo, a differenza di molti altri paesi europei, di statistiche ufficiali
estese al territorio nazionale (e già questo è un fatto significativo), bastano pochi dati per
evidenziare l’entità del problema: fra il 1951 e il 2001 gli italiani sono cresciuti di 10 milioni, ma
le stanze sono quasi triplicate (da 36,3 milioni del 1951 ad oltre 130 milioni nel 2001); per quanto
riguarda il consumo di territorio aperto, dal 1951 ad oggi si è asfaltato e cementificato oltre un
terzo della superficie non urbanizzata (11 milioni di ettari). Nella ben amministrata Emilia
Romagna dal 1976 al 2000, a fronte di una popolazione sostanzialmente stabile, l’urbanizzazione
si è raddoppiata.
Inoltre si deve riconoscere che, al di là del titolo pessimistico ed esortativo del rapporto
dell’EEA, molti paesi europei, a fronte degli inquietanti e ripetuti annunci di collasso ambientale
planetario prossimo futuro, si stanno muovendo con più lungimiranza dell’Italia.
Dopo l’infatuazione per la deregolamentazione e la flessibilizzazione urbanistica che ha
percorso l’Europa negli anni ‘80/primi anni ’90, stiamo assistendo ad un rilancio della
pianificazione urbanistica e territoriale; un rilancio supportato da principi (e quindi da regole) di
coesione territoriale e sociale che pongono al centro proprio il controllo del consumo di suolo: in
particolare direttive determinate e cogenti di “urban containment” ed un rinnovato impegno per il
rilancio di un’offerta abitativa di edilizia sociale e di alloggi a prezzi calmierati che consenta ai
gruppi a basso e medio livello di reddito di rimanere in città.
Questa è la direzione che si sta seguendo in Gran Bretagna e in Germania; ma altrettanto si
può dire per Francia, Spagna e, naturalmente, per i paesi del Nordeuropea.
In Italia stiamo accumulando un drammatico ritardo e dobbiamo chiederci se il nostro
paese riuscirà ad allinearsi rapidamente agli altri paesi avanzati europei. Sicuramente
occorrerebbe una più lungimirante pianificazione locale.
2. I nemici della Provincia
In Italia tre sono oggi i nemici di un equilibrato governo del territorio.
A. Coloro che negano ruolo e necessità stessa delle Province, adducendo motivi di risparmio
pubblico (che a ben vedere non ci sarebbe, perché i dipendenti pubblici non possono essere
licenziati). Si tratta di una posizione assai superficiale, che emerge con sempre maggiore
frequanza nel dibattito politico e che incontra sostenitori non solo fra i livelli istituzionali che
sarebbero favoriti da questa prospettiva, quello comunale e quello regionale, ma anche fra
esponenti del milieu tecnico-culturale.
Al contrario, occorre con forza affermare che la provincia è l’ente appropriato per la
pianificazione di area vasta (per “le politiche integrate di sviluppo territoriale”, nell’espressione
dell’Unione Europea). La dimensione comunale è inadatta a gestire fenomeni che hanno natura e
impatti trans-territoriali; quella regionale è adatta alla legislazione territoriale (all’interno di un
forte quadro nazionale), ma non alla gestione.
B. La deregulation urbanistica, o “liberalismo attivo” nella versione colta dei fautori
dell’approccio deregolativo. Si afferma al proposito che la pianificazione è strumento vecchio,
derivante da una ideologia non liberale che vede il “governo” dettare le regole del “bene”
comune. Essa sarebbe per questo nociva, in quanto soffoca il libero gioco del mercato – il solo
custode del bene collettivo in quanto indirettamente costruisce un ordine sulla base delle
preferenze individuali e delle conoscenze disperse fra un grande numero di soggetti.
La tesi pecca di una fondamentale sottovalutazione proprio sul terreno della teoria economica.
Si può infatti facilmente dimostrare, sulla scorta degli scritti dei grandi economisti liberali-liberisti
dell’inizio del novecento, che il libero mercato, insostituibile allorché si tratta di decisioni sulla
quantità/ qualità/ prezzo di beni, “fallisce” come allocatore di risorse in presenza di:
- irreversibilità ( il terreno urbanizzato è irrimediabilmente sottratto alla naturalità),
- esternalità (i vantaggi e gli svantaggi arrecati agli altri soggetti dalle decisioni individuali
non generano né costi né ricavi aggiuntivi, e per questo non vengono presi in considerazione in un
quadro di decisioni decentrate private),
- beni pubblici (essi non vengono per definizione forniti dal mercato),
- presenza di pochi operatori o di operatori operanti in collusione implicita o esplicita (come è
spesso il caso nel mercato immobiliare).
C. La crisi della finanza pubblica, locale in particolare. Infatti, i sindaci fanno quadrare i loro
bilanci con gli oneri di urbanizzazione e i contributi di costruzione (ci pagano anche gli stipendi,
poiché le ultime leggi finanziarie lo consentono!). Come nel caso dei paesi arretrati, in presenza di
una crisi fiscale dello stato delle dimensioni di quella attuale si è obbligati a vendere il patrimonio
di risorse locali (il suolo in questo caso) per generare reddito. Di qui l’attrazione fatale delle
amministrazioni locali per lo sviluppo insediativo, al di là delle esigenze della domanda degli
utenti potenziali.
Da questo stato di necessità, discendono due processi perversi che occorre al più presto
interrompere:
- si capovolge il percorso logico “virtuoso” che procede dalla costruzione di una visione
territoriale alla definizione di un piano e alla conseguente concessione di diritti a costruire
coerenti con la visione iniziale, in favore di un percorso vizioso: dalla identificazione del budget
necessario per equilibrare il bilancio alla matematica definizione dei mq da urbanizzare e al
conseguente accordo negoziale col privato, con conseguente casualità e disordine territoriale,
- ci si avvia alla negoziazione col privato in condizioni di debolezza: ogni comune e ogni
sindaco da solo, anziché in accordo coi sindaci dell’area vasta e in conformità con i quadri di
coerenza definiti dalla pianificazione di livello intermedio; in presenza di forte asimmetria
informativa rispetto al privato per quanto concerne condizioni di costo e di ricavo sul mercato
immobiliare, anche per l’assenza di precise professionalità all’interno dei comuni.
Dunque, il mercato non garantisce il miglior benessere collettivo; anzi, nel caso della
pianificazione, è appunto fuorviante. Dunque, occorre integrare il mercato con un “buon
governo” e, soprattutto, con buone ed aggiornate regole non negoziabili.
I rimedi possibili che si potrebbero prendere in considerazione facendo riferimento alle
migliori esperienze internazionali son0, a puro titolo di esempio:
- dal Regno Unito: un modello fortemente dirigistico sulle possibilità di espansione degli
insediamenti, che da decenni opera con una strategia di urban containment e di costruzione e
difesa di green belts attorno alle città, basato su development permits attribuiti con forte
selettività. Si tratta del modello più difficilmente importabile nel nostro paese, in quanto implica
una planning culture diffusa di alta qualità e responsabilità etica, e regole non scritte di
comportamento virtuoso nei confronti del territorio, seguite sia dal settore pubblico che dagli
operatori privati, soprattutto con riferimento al territorio non urbano;
- dalla Germania: una pianificazione urbanistica esplicitamente orientata al benessere
pubblico (attenzione ai consumi di suolo, al verde e servizi, all’housing sociale) nonché, da una
decina d’anni, da una crescente utilizzazione di modalità concertative e negoziali col privato,
gestite in modo assai determinato da parte delle pubbliche amministrazioni: un modello molto
efficace e realizzabile anche in Italia;
- dalla Francia: nuove forme di pianificazione e compensazione intercomunale, attuate
attraverso la acquisizione di una parte delle entrate da sviluppo territoriale a livello di
agglomération e ripartite quindi anche fra i comuni che non hanno visto crescere le
urbanizzazioni sul loro territorio. Questa innovazione ha generato, da un lato, una migliore
localizzazione dello sviluppo all’interno dell’area vasta, e soprattutto ha determinato una forte
riduzione della attrazione per lo sviluppo nei singoli comuni. In Italia alcune (molto poche)
associazioni intercomunali volontarie stanno iniziando a sperimentare questo modello, anche
realizzando “piani strutturali” intercomunali compatibili con le linee strategiche e progettuali
definite dai PTCP (è ad esempio il caso del territorio della Provincia di Bologna).
E’ chiaro che, nel nostro paese, un nuovo equilibrio fra interessi pubblici e privati, che
ponga al centro il bene comune e la sostenibilità delle scelte insediative, al di là di generose buone
pratiche locali, potrà realizzarsi soltanto attraverso una nuova legislazione nazionale, che
mantenga e rafforzi il ruolo delle province nella pianificazione territoriale e ambientale; e la
diffusione di buone pratiche, che naturalmente esistono anche se non nella quantità auspicabile.
Ma purtroppo, a tutt’oggi manca una Legge Nazionale di Principi di governo del territorio
che ri-legittimi, in chiave di sussidiarietà e coesione territoriale, la pianificazione di livello
intermedio; né l’attuale contesto politico autorizza alcun ottimismo.
3. L’associazionismo volontario intercomunale
In molti paesi europei la pianificazione di area vasta si articola in due principali ambiti, cui
corrispondono tipologie differenziate di strumenti di governo e gestione:
- l’ambito territoriale esteso (corrispondente alla regione metropolitana o al sistema urbano
policentrico integrato) cui è preposta la pianificazione di inquadramento territoriale affidata ad un
ente di governo di livello intermedio. Quest’ultimo ha il compito di definire i grandi indirizzi per
lo sviluppo del territorio e di promuoverne la attuazione attraverso la concertazione con gli enti di
livello inferiore, esercitando comunque anche competenze normative e di verifica di conformità e
compatibilità delle scelte della pianificazione sott’ordinata. Nel caso italiano, il riferimento è alla
pianificazione territoriale di inquadramento in capo alle Province, anche se, come è noto, molte
leggi urbanistiche regionali di “seconda generazione” hanno di fatto ridimensionato, quando non
perentoriamente delegittimato, le competenze attribuite alle Province dalla legge 142/1990 (un
caso limite è in questo senso la Regione Lombardia)
- l’ambito dei “territori della prossimità” in cui la possibilità di realizzare scelte insediative
ottimali, attente alla tutela delle risorse territoriali e alla equa ridistribuzione dei vantaggi tra le
differenti collettività insediate, non può che essere affidata a una buona cooperazione a rete e su
base volontaria fra comuni.
Il rilancio recente in Europa dell’intercomunalità volontaria è il risultato di una acquisita
consapevolezza dei rischi associati a politiche urbanistiche comunali autoreferenziali, sganciate da
quadri di coerenza sopralocali: questi rischi sono stati ampiamente evidenziati nel dibattito
urbanistico e affrontati nelle migliori leggi nazionali e/o pratiche locali sperimentate in ambito
internazionale; ma sono altresì ben evidenti ormai anche nel nostro paese, e non soltanto nei
contesti dove riforme urbanistiche regionali recenti hanno delegittimato la pianificazione di livello
intermedio.
Ma promuovere l’intercomunalità non è comunque un progetto semplice e richiede
innovazioni sia dall’alto che dal basso: la prima condizione per la sua efficacia consiste infatti nel
rafforzare, attraverso leggi e direttive, nazionali o regionali, i compiti di inquadramento strategico
attribuiti alle autorità competenti per la pianificazione di area vasta (nel nostro caso le Province),
destinando loro le risorse finanziarie adeguate per incentivare l’associazionismo fra comuni; la
seconda, poiché l’intercomunalità si realizza su territori che non sono riconducibili alle partizioni
amministrative esistenti, richiede lungimiranza da parte delle amministrazioni comunali e una
grande attitudine al cambiamento nelle relazioni intergovernative, poiché in cui i comuni devono
accettare di delegare alcune competenze a un ente sopracomunale rinunciando ad esercitarle in
totale autonomia.
All’opposto, l’intercomunalità avrà modeste opportunità di successo nei contesti dove le
riforme in materia di pianificazione urbanistica e territoriale, privilegiando in maniera esclusiva
l’obiettivo della semplificazione e velocizzazione dei processi decisionali, tendano non soltanto a
ridurre il numero degli attori pubblici coinvolti nel proceso decisionale (delegando alle
amministrazioni comunali poteri crescenti, e quindi legittimando la frammentazione
amministrativa e la crescente competizione intercomunale), ma anche a marginalizzare il
contributo delle comunità locali e delle reti sociali.
Il caso più di successo in Europa in materia di intercomunalità è rappresentato dalla Francia:
un paese che vanta una tradizione legislativa più che secolare in materia di promozione della
cooperazione volontaria intercomunale e che ha recentemente varato una legge (si tratta della
legge “Simplification et renforcement de la coopération intercommunale” (n. 596/1999)) che
persegue accordi duraturi su territori che corrispondono ai reali contesti spaziali in cui si
manifestano le problematiche e le sfide contemporanee per le aree urbane: spetta alle associazioni
volontarie intercomunali contenere la dispersione insediativa, migliorare l’efficienza economica
arginando la competizione atomistica fra comuni per l’attrazione di nuove attività, attenuare la
doppia velocità territoriale e sociale imponendo la continuità territoriale delle associazioni
intercomunali. Alle Communautés volontarie sono trasferite dai comuni competenze di
aménagement spaziale e in materia di sviluppo economico. Esse dispongono inoltre di rilevanti
risorse fiscali proprie attraverso la perequazione territoriale (Taxe Professionnelle Unique)
Complessivamente le associazioni intercomunali sono oggi in Francia 2.573 (32.913 comuni;
53.334.933 abitanti: l’85% della popolazione totale).
Si tratta di grande successo cha ha fatto parlare di “una rivoluzione silenziosa”: In Realtà, più
che di una rivoluzione occorre parlare di un processo virtuoso che si nutre di innovazioni dall’alto
e dal basso in cui i principali ingredienti risiedono nella compensazione statale garantita ai
comuni che hanno aderito alle associazioni volontarie rinunciando a cospicue risorse fiscali, ma
anche nella consapevolezza che si è fatta strada a livello locale in merito ai vantaggi della
cooperazione: messa in coerenza delle scelte insediative e condivisione dei rischi in epoca di
crescente competizione globale e di volatilità delle imprese.