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Miriana Signori
CASA KOLL
Miriana Signori, Casa Koll
Copyright© 2014 Edizioni del Faro
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via Verdi, 9/A – 38122 Trento
www.edizionidelfaro.it – [email protected]
Prima edizione: luglio 2014 – Printed in EU
ISBN 978-88-6537-245-6
Immagine di copertina: Sentiero nel bosco – Trentino 2012
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o persone
della vita reale è puramente casuale
CASA KOLL
Q
uando Loreta, una calda mattina di giugno, ritirò una
lettera raccomandata indirizzata a suo marito, non
sapeva che da quel momento la sua vita sarebbe cambiata.
Guardò l’intestazione, chi scriveva era il Comune di Pergine
Valsugana. Suo marito era nato lì, ma non vi era mai tornato
da oltre trent’anni. Poggiò la lettera sulla mensola e tornò alle
sue occupazioni. Oggi sarebbe tornata Gaia, studentessa a Firenze alla facoltà di architettura, che dopo l’esame sostenuto
con successo due giorni prima, rientrava a casa per godersi
un periodo di riposo e di vacanza, e come sempre sua madre
tirava a lucido la sua cameretta, che per altro era sempre in
perfetto ordine. Stava passando l’aspirapolvere, quando sentì
Dario, suo marito che la chiamava a gran voce. Nei trenta
anni del loro matrimonio non lo aveva mai sentito alzare la
voce, perciò si precipitò al piano di sotto.
Dario era stravolto, aprì la bocca, ma le parole non uscirono; tese la lettera a sua moglie, e con voce rauca disse: “Leggi”.
Loreta dovette leggere la lettera due volte, per capire il suo
contenuto. In pratica, depurata dal linguaggio burocratico,
la lettera invitava il signor Dario Koll a mettersi in contatto
con l’ufficio patrimonio del comune perché a seguito della
rinunzia degli eredi legittimi, Giovanni e Sara, e dei loro figli,
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dell’asse ereditario di Antonio Koll, l’unico erede, in base ai
loro accertamenti, deputato a succedergli, era appunto Dario
Koll, salvo se altri. Nella lettera si precisava che anche in caso
di rinunzia, questa doveva effettuarsi a norma di legge, perché solo dopo l’acquisizione di questo documento, e in mancanza di altri, potenziali eredi, potevano essere avviate le procedure affinché i beni potessero essere incamerati dallo stato.
Il sorriso di Loreta si spense, davanti alla faccia di suo marito, stravolta, sembrava dalla sofferenza. Dario non aveva mai
parlato molto di sé, l’unico legame familiare, dopo la morte
di sua madre, erano i due cugini Sara e Giovanni, da molti
anni trasferiti in Canada, con i quali, ormai, si scambiavano
una telefonata per Natale e in qualche altra rara occasione.
Dopo un lungo silenzio, Dario strinse la mano di Loreta
e finalmente parlò: “In quel maso, ogni pietra potrebbe raccontare l’avarizia, la cattiveria, l’ignoranza, la stupidità, ma
soprattutto le sofferenze di mia madre, i soprusi e i maltrattamenti che lei e di riflesso io, abbiamo subito. Io non voglio
più entrare in quella casa”.
Loreta si sedette a sua volta, posò la sua testa sulla spalla di
Dario e disse: “Amore mio, ora devi riprenderti dalla sorpresa, poi potrai ragionare più lucidamente, sappi che qualunque
sia la tua decisione, io l’accetterò, perché ti amo, sei mio marito e sai quello che fai; non dimentichiamoci però che abbiamo una figlia già grande, che deve essere messa al corrente di
tutto questo, anche perché, lei potrebbe in teoria, e laddove
tu voglia rinunciare, essere l’ultima erede di casa Koll”.
Dario rimase silenzioso, a pranzo non toccò quasi cibo.
Sembrava immerso in profonde riflessioni. Nel tardo pomeriggio arrivò Gaia, carica di bagagli, sarebbe rientrata alla
casa dello studente, dove aveva una stanza, solo alla metà di
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ottobre, l’uomo cercò di adeguarsi al brio e alla gioia di vivere
che Gaia trasmetteva. La sua finzione durò poco.
“Mamma, papà, cosa è successo? Siate stati adorabili e affettuosi, come sempre, ma papà sorride con la bocca, e i suoi occhi sono tristi e tu mamma sei pallida e come sempre, quando hai qualche problema, il tuo naso tende ad arricciarsi, c’è
qualcuno che non sta bene?”
In silenzio Dario prese la lettera, causa del suo turbamento,
e la porse alla ragazza. Gaia era studentessa alla facoltà di architettura, ormai al quarto anno e nel suo corso di studi aveva
sostenuto anche un esame di diritto civile, lesse e rilesse più
volte la lettera, poi cominciò a saltellare come una bambina.
“Evviva, papà cosa abbiamo ereditato? Una casa, un podere,
tanti soldi?”
Il suo entusiasmo si spense davanti allo sguardo del padre e
il gesto quasi protettivo della madre nei confronti del marito
la spiazzò. In un attimo Gaia abbandonò il suo comportamento infantile e divenne una giovane donna consapevole di
dover affrontare un grosso problema.
“Papà, mamma, sediamoci e affrontiamo il problema, papà
tu sai in che cosa consiste questa eredità? E perché sei così
triste? Una volta ti ho chiesto di parlarmi della tua infanzia
e della tua adolescenza, tu mi hai risposto che mi avresti raccontato tutto quando io fossi stata abbastanza grande da capire, ora sono grande e credo che sia arrivato il momento di
sapere tutto di te. Sicuramente devi aver sofferto molto, per
non gioire per questo evento. Prima di qualsiasi decisione, ti
prego, parlaci della tua vita, di come vivevi a Pergine Valsugana”.
“Tesoro mio, è veramente arrivato il momento di parlare
di me, ti assicuro, però, che non sarà un bel racconto, dammi
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il tempo di raccogliere le idee: ne parliamo domani. Stasera
esci con i tuoi amici che ti aspettano a braccia aperte, domani
parleremo di cose serie”.
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R
odolfo Koll classe 1900, in tutta la sua vita non si era
mai allontanato da maso Koll, se non per i tre giorni
della visita militare obbligatoria e un’uscita mensile in paese,
per procurarsi sale, tabacco, fiammiferi e gli altri pochi beni
di consumo che non potevano essere prodotti all’interno
del maso. In linea d’aria il maso non distava più di quattro
chilometri da Pergine Valsugana, ma era raggiungibile solo
attraverso un viottolo sconnesso. La solitudine, la mancanza
di contatti umani, la miseria costante, avevano reso Rodolfo
padre-padrone assoluto delle persone, animali e cose all’interno della casa, dei terreni e di tutto quello che costituiva il
maso Koll. Giovanissimo a ventidue anni, dopo la morte della madre, l’uomo aveva sposato Orsola una giovane contadina di un maso vicino, affetta da un grave strabismo all’occhio
destro. A Rodolfo interessava poco, l’aspetto estetico della
sua sposa, bastava che sapesse mandare avanti la casa e gli
partorisse un figlio maschio per tramandargli la proprietà del
maso e come pretese accessorie, Rodolfo esigeva obbedienza
e remissione assoluta. Nei primi tre anni di matrimonio nacquero Maria e Giuseppina, poi finalmente arrivò Antonio il
figlio maschio che il padre voleva. Per il capofamiglia la pianificazione familiare era terminata, ma poi arrivarono, due
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bocche in più da sfamare, Gregorina e Dorina. Dorina nacque prematura, da un parto difficile; la levatrice, secondo la
sua esperienza, pensò che quell’esserino non sarebbe arrivato
al giorno dopo, perciò in base alle norme del diritto canonico
che la autorizzavano a somministrare il battesimo alla neonata, chiese al padre come volesse chiamarla.
La risposta fu poco incoraggiante, senza togliersi la pipa
spenta dalla bocca Rodolfo biascicò: “Tanto deve morire,
chiamatela come volete”.
La levatrice chiamò la bambina come lei: Dorina. A dispetto di tutto e di tutti, Dorina visse: crebbe pressoché ignorata dalla famiglia, vestita con gli abiti smessi delle tre sorelle maggiori, lavorava senza sosta, non si lamentava mai, era
come un animaletto selvatico, paurosa e tremava ogni volta
che il padre o il fratello, unico autorizzato a comandare, alzavano la voce. Rodolfo con cinque figli in casa, di cui quattro
femmine aveva un problema nuovo da risolvere; bisognava
cercare una sistemazione per le figlie; sfamarle per tanti anni,
e doverle fornire di dote al momento del matrimonio, era al
di fuori dalla capacità di comprensione per l’uomo. La soluzione per neutralizzare le pretese delle figlie più grandi arrivò
inaspettata. Maria e Giuseppina erano state autorizzate ad
assistere alla prima Messa la domenica mattina. Era una fatica enorme alzarsi a buio, ma era l’unica occasione per uscire
un paio d’ore dal maso; per di più dopo la morte del vecchio
parroco, era arrivato don Pietro, un giovane pieno di entusiasmo, che era riuscito a catalizzare l’attenzione dei fedeli.
A casa le due ragazzine riferivano con dovizia di particolari
la spiegazione del Vangelo e quanto era avvenuto durante la
Santa Messa. Rodolfo vide in questo interesse delle figlie, la
possibilità di sistemarle; un po’ con la persuasione, un po’
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con l’imposizione, convinse le due poco più che bambine,
a entrare in convento: essere suore sarebbe stata la massima
aspirazione per ogni ragazza, servire il Signore sarebbe stato
un onore per tutta la famiglia. Convincere due ragazzine che
non avevano mai visto e avuto niente dalla vita, fu facile. Le
sorelle partirono per Malcesine, furono accolte nel convento delle Orsoline, dove Maria riuscì a diventare suor Maria,
mentre Giuseppina non riuscì mai a dimostrare un’autentica
vocazione e rimase comunque lì, come suora laica, addetta
all’orto, alla cucina, alla lavanderia, ma nonostante la fatica, tutto era accettabile rispetto alla vita che si conduceva al
maso. A casa, intanto Gregorina e Dorina si erano assunte
le fatiche che fino allora erano gravate sulle spalle di Maria
e Giuseppina. Rodolfo però non era ancora soddisfatto; non
appena Gregorina compì quattordici anni, la mise a servizio
in casa di un medico dell’ospedale di Pergine, la cui moglie
aveva appena partorito due gemelli. Nella sua idea di ottenere
sempre di più dai figli, il padre pensava che Gregorina sarebbe stata nutrita, vestita e avrebbe percepito un salario che lui
avrebbe provveduto a riscuotere tutti i mesi, e se fosse stato
fortunato, la figlia si sarebbe affezionata ai bambini e sarebbe
rimasta lungo in quella casa, senza pensare al matrimonio. In
questo modo non si sarebbe posto neanche il problema della
dote. Nei suoi programmi di gestione familiare, Dorina non
fu neanche presa in considerazione. Era scontato che Dorina
sarebbe rimasta a lavorare nel maso, sgobbava e non si lamentava mai, e poi ora c’erano tante cose da fare. Su suggerimento di Antonio era stato avviato un allevamento di mucche
frisone e il daffare non mancava certo. Passarono gli anni,
finì la guerra, che non fu quasi avvertita nell’isolamento del
maso, e per Dorina non era cambiato nulla sennonché erano
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aumentati i suoi carichi di lavoro. Il matrimonio di Antonio
con Hilda, non portò niente di buono, anzi subito dopo il
matrimonio Hilda rimase incinta e a causa di una gravidanza difficile, la donna non alzò un dito per gestire almeno la
sua casa. Toccò a Dorina e Orsola, cucinare, lavare, spaccare
la legna, curare il pollaio, per tutta la famiglia. I piani di Rodolfo per Gregorina non dettero il risultato previsto, perché
Gregorina conobbe Giuseppe, un uomo un po’ più grande
di lei, che tornato dalla guerra aveva trovato già sposata la
donna di cui era segretamente innamorato. Dopo un lungo
periodo di solitudine l’uomo pensò che Gregorina fosse la
donna adatta per lui e le chiese di sposarlo. Nonostante la
giovane fosse ansiosa di sposarsi, volle fare le cose a modo e
così Giuseppe salì al maso per informare Rodolfo che nel più
breve tempo possibile, dato che lui aveva casa e un po’ di terra per poter mantenere una famiglia, avrebbe voluto sposare
Gregorina.
Per essere più convincente Giuseppe spiegò anche che il
Dottor Pareti aveva chiesto ottenuto il trasferimento all’ospedale di Trento, per cui Gregorina sarebbe rimasta senza
lavoro. Rodolfo taceva e Giuseppe per fare più bella figura si
spinse a dire che lui sarebbe partito per venti giorni, insieme
con altri uomini e donne di Pergine per raccogliere l’uva nei
grandi vigneti della neonata cantina Soave, lo stipendio era
buono e se avesse potuto portare anche Gregorina, avrebbero
messo insieme un bel gruzzoletto. La mente di Rodolfo funzionava velocemente e quando l’uomo aprì bocca, aveva già
calcolato che se Gregorina non aveva più uno stipendio era
meglio che si sposasse, avrebbe pensato il marito a mantenerla, ma non poteva permettere che la figlia andasse via tanti
giorni con Giuseppe prima del matrimonio.
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La sua risposta fu: “Bene allora vi sposerete non appena tu
avrai finito la vendemmia, ma Gregorina è una ragazza onorata e non viene via con te prima del matrimonio. Gregorina
rimarrà a casa del dottore fino al 15 di ottobre ed entro la fine
del mese vi sposerete”.
Mentre Giuseppe, compitamente stava ringraziando il futuro suocero, Rodolfo lo interruppe e disse: “Se ci sono altri
uomini e donne di Pergine, mando a vendemmiare la Dorina, lei è forte, lavora come un uomo, così almeno porta casa
un po’ di soldi. Tu che ora sei quasi uno di famiglia, dalle
un’occhiata perché lei non è mai uscita dal maso, e iscrivila
domattina nella lista degli operai”.
Fu così che Dorina senza neanche essere interpellata si trovò a partire con la squadra di Pergine. Il viaggio su un camion fu per lei una grande avventura, una volta sul posto di
lavoro non si risparmiò, e la prima sera era così stanca che si
addormentò di colpo. Furono i giorni successivi i più difficili,
Dorina si sentiva spaesata, aveva paura di tutto e sempre più
spesso si rivolgeva a Giuseppe finché una sera, complice forse
un bicchiere di troppo o la vicinanza sempre confidenziale
di Dorina, successe qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere. I due consumarono un frettoloso rapporto sessuale e
quando tutto fu finito, Giuseppe si premunì di dire alla ragazza che quello che era accaduto doveva rimanere un segreto
fra loro due. Dorina giurò con la mano sul cuore e la cosa
sembrò finire lì. Tornati a casa, tutto ricominciò, come se
nulla fosse accaduto, Giuseppe e Gregorina si sposarono e per
Dorina continuò la solita vita. Poco prima di Natale successe
il finimondo: si annunciò una gravidanza, ma non era quella, com’era logico pensare, di Gregorina, a essere incinta era
Dorina. Urla e schiaffoni da parte di Rodolfo, finché Dorina,
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