Recensioni e schede
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Recensioni e schede Agricoltura e società rurale lu ig i faccini, Uomini e lavoro in risaia (Il dibattito sulla risicoltura nel 700 e nelV800), Milano, Angeli, 1976, pp. 225, lire 5.000. L ’introduzione della coltura risicola rap presentò uno degli stimoli più potenti allo sviluppo capitalistico dell’agricoltura setten trionale — padana in particolare — a par tire dai secoli X V II e XV III. Essa infatti innescò tutta una serie di reazioni a ca tena sul corpo delle preesistenti strutture produttive: l’ingente quantità di investi menti richiesti evidenziò in primo luogo la sua incompatibilità con forme di conduzio ne quali la mezzadria e la piccola proprie tà, sprovviste dei capitali necessari all’im pianto e alla gestione delle risaie. N e con seguì la disgregazione dei vecchi nuclei co lonici e la proletarizzazione di vasti strati contadini che in un breve arco di tempo si videro trasformati da produttori autono mi o semiautonomi in semplici possessori di forza lavoro da immettere sul mercato capitalistico. Proletarizzazione e pauperizzazione proce dettero d’altra parte parallele, suscitando le preoccupazioni di alcuni settori della bor ghesia che vedevano in questo peggioramen to oggettivo delle condizioni di vita delle masse contadine un pericolo per la con servazione di « quella graduata ed equa bile distribuzione della proprietà, che man tiene l’ordine e la soddisfacente conviven za » (così scriveva nel 1861 Quirino Bigi). Componenti organiche dell’economia risi cola furono il rapporto diretto con malat tie quali malaria, febbri reumatiche, tifo e scorbuto, l’estrema precarietà delle con dizioni igienico-alimentari delle popolazio ni interessate e la durezza spesso disumana delle condizioni di lavoro, il largo impiego di manodopera minorile e femminile, oltre che di bracciantato stagionale per la mon da, la mietitura e la trebbiatura del riso. D a parte sua, la borghesia non fu inizial mente unanime nel favorire lo sviluppo del la nuova produzione: nel periodo della Restaurazione infatti le sue componenti più conservatrici fecero marcia indietro sulla strada intrapresa negli anni napoleo nici dai settori più avanzati della borghesia agraria. M a intorno alla metà dell’800 r a f fermarsi del liberismo abbattè le preesi stenti regolamentazioni proibitive o restrit tive della coltivazione del riso, che da al lora si sviluppò senza più ostacoli, assu mendo particolare importanza nell’area pa dana del Piemonte orientale e della Lom bardia occidentale. Luigi Faccini ha il merito non indifferente di aver fatto luce su uno degli aspetti più importanti della storia agraria italiana, peraltro fino ad oggi oggetto di scarsa at tenzione da parte degli storici. Il contri buto dell’autore è tanto più rilevante se si pensa all’impianto complessivo della sua analisi, che non si limita ad una disamina puramente tecnico-agronomica, ma è insie me storia del lavoro, del paesaggio agrario, delle condizioni di vita delle masse conta dine ecc. È questa del resto l’unica strada da seguire per il rinnovamento degli studi sull’agricoltura italiana, facendoli uscire dalle secche di uno specialismo troppo spesso ristretto, incapace di inserirsi in quella dinamica pluridisciplinare capace di articolare la ricerca nella maniera più am pia. Francesco Bogliari 118 Rassegna bibliografica Alberto DE Bernardi, Questione agraria e protezionismo nella crisi economica di fine secolo, Milano, Angeli, 1977, pp. 229, lire 5.500. L ’autore di questa antologia segue con lu cidità il complesso intrecciarsi dei molte plici fattori che concorsero a fare della crisi agraria uno degli spartiacque fondamentali della storia italiana contemporanea e ci fornisce di questo fenomeno estremamen te articolato un’immagine chiara, sostenuta da salde basi teoriche. Particolarmente fe lice ci sembra la scelta dei brani, tutti in terventi « militanti » dell’epoca, che rie scono nell’intento di ricostruire la comples sità del dibattito sviluppatosi allora in va rie sedi e a vari livelli sui problemi inne scati dalla crisi agraria. Infatti, all’atto dell’apertura del dibattito parlamentare sulla crisi agraria — nel febbraio 1885 — il prezzo del granturco era sceso del 42 per cento rispetto al 1880 e quello del frumento del 33 per cento. Bastano questi dati a dare un’idea della violenza con la quale la crisi si era ab battuta su una struttura produttiva — come quella italiana — già largamente inadeguata alle esigenze del mercato in ternazionale. L ’inizio della crisi era stato ritardato di qualche anno rispetto agli altri paesi europei grazie alla azione protettiva esercitata dal corso forzoso, che mantenen do la lira su livelli più bassi delle altre mo nete garantì ai produttori cerealicoli mar gini di guadagno ancora rilevanti. M a quando il corso forzoso venne abolito, anche in Italia l’afflusso di grano america no e orientale provocò un immediato crol lo dei prezzi agricoli, che coinvolse ben presto tutte le più importanti produzioni, ad eccezione di quella vinicola. L e conseguenze furono profonde e com plesse. Si creò innanzi tutto un antagoni smo tra rendita parassitaria e profitto ca pitalistico, che si mantenne sempre vivo anche se in un secondo tempo lasciò pro gressivamente il posto al conflitto ben più drammatico tra queste categorie e il sa lario. L a soluzione della crisi anzi si orien tò proprio su una linea nettamente clas sista, caratterizzata dall’espropriazione ed espulsione dei contadini dalla terra, dal l’emigrazione e dalla disoccupazione, oltre che dal drastico peggioramento dei livelli di vita delle masse lavoratrici. Vi fu però anche un’altra conseguenza di ordine strutturale: da parte dei settori più lungimiranti dell’imprenditorialità capitali stica, fu colta l’occasione per iniziare un processo di riconversione e razionalizzazio ne produttiva, che portò sia ad una diversa dislocazione geografica delle colture (pro duzioni specializzate al sud, creali, forag gi e allevamento al nord), sia ad una più forte concentrazione della proprietà fondia ria e quindi ad una maggiore disponibilità di capitali d’investimento. Questi profondi mutamenti delle strutture produttive furono accompagnati — in un rapporto di reciproco condizionamento — da una altrettanto radicale revisione delle coordinate teoriche all’interno delle quali si era mossa fino ad allora la politica eco nomica italiana. Il dibattito parlamentare cui si accennava all’inizio fu il primo atto di un più ampio scontro teorico tra i li beristi (inizialmente in maggioranza) e i fautori dell’intervento statale; questi da una posizione di inferiorità passarono ben pre sto — nel giro di due anni — ad una cla morosa vittoria « pratica », che portò con sé l’abbandono dell’ideologia liberista cui la borghesia agraria italiana aveva sempre ispirato le proprie scelte: ci riferiamo alla svolta protezionistica del 1887-88. Essa fu la premessa indispensabile del de collo industriale italiano e segnò al con tempo l’inizio dell’egemonia del capitale finanziario. M a le sue conseguenze furono decisive anche in agricoltura: l’aumento progressivo del dazio sul grano, oltre a di fendere la grande proprietà dai pericoli di una prolungata crisi dei prezzi e ad incrementare le entrate fiscali dello stato, fu lo strumento determinante per la crea zione di un blocco rurale, comprendente tanto la grande che la piccola proprietà, disposto pur di sopravvivere ad accettare un rapporto di subordinazione nei con fronti dell’industria e del capitale finanzia rio. L o sviluppo capitalistico dell’agricol tura italiana non subì rallentamenti o interruzioni, ma la salvaguardia della ren dita parassitaria ne fece gravare il peso unicamente sulle classi lavoratrici e colpì allo stesso tempo le colture specializzate meridionali, che dalla guerra doganale con la Francia ricevettero un colpo mortale. L e conseguenze più immediate furono l’e spropriazione in massa dei piccoli proprie tari e l’ulteriore peggioramento delle con dizioni di vita dei contadini senza terra: in questo contesto matureranno i Fasci siciliani e gli altri elementi di crisi che esploderanno all’interno della società ita liana sul finire del secolo. Francesco Bogliari Rassegna bibliografica Giorgio giorgetti, C a p i t a li s m o e a g r i c o lt u r a in I t a l i a , Rom a, Editori Riuniti, 1977, pp. XXVI-591, lire 8.500. 1968 su A g r i c o l t u r a e s v ilu p p o c a p it a lis t ic o n e lla T o s c a n a d e l 7 0 0 a un intervento, sempre occasionato dal convegno cui si ri ferisce la comunicazione ora ricordata, su P r o b le m i Riproporre gli scritti di uno studioso da poco scomparso assume per solito un va lore di omaggio; non è certo questo il caso di C a p i t a li s m o e a g r i c o l t u r a in I t a l i a di Giorgio Giorgetti, che contribuisce util mente a fermare l’interesse, al di là della cerchia ristretta degli addetti ai lavori, su un’attività di ricerca presumibilmente de stinata a crescere di importanza nel tem po, a rivelare, insieme alla solidità del l’impianto critico e alla ampiezza degli orizzonti storiografici, una non consueta capacità di suggestione e di proiezione nel futuro. Nella prefazione, Giorgio Mori traccia dell’autore un profilo intellettuale egualmente attento alla dimensione scien tifica e pubblica, cogliendo lucidamente quei nessi di necessità tra studio e impe gno politico che di Giorgetti sono una delle caratteristiche più proprie. N é si tratta di un dato generico o del sempli ce accostarsi e intersecarsi di livelli di versi. Basterebbe l’ampio riferimento al costante interesse per il pensiero di M arx, travasato in una lunga fatica editoriale e in saggi che il volume ora ospita, al ruolo che que sto interesse ha rivestito per la cultura ita liana di derivazione marxista per sottoli neare una delle più robuste articolazioni di quei nessi cui prima si accennava. Ciò che qui più conta è rilevare come, per usare le parole di Mori, quella « ripresa di contatto con M arx e con il marxismo ri guardasse, in via diretta, solo pochissimi fra gli storici di mestiere » (p. 15), e come l’interesse allora manifestato costituirà un elemento centrale per la impostazione teo rica del lavoro di ricerca. Il saggio, che apre il volume, su L a r e n d it a f o n d i a r i a c a p i t a l i s t i c a d i M a r x e i p r o b le m i d e ll’e v o lu z io n e a g r a r i a i t a li a n a , del 1972, suffra ga meglio di ogni altro contributo questa evidenza, ad esempio nei riferimenti al l’utilizzazione dell’analisi marxista sul per manere di forme di transizione, quali la mezzadria, entro un contesto capitalistico e il tema della abolizione dei « residui feu dali » come motivo conduttore dell’elabo razione programmatica da parte dei par titi di sinistra e dello sviluppo delle lotte agrarie nei decenni centrali del novecento italiano. Sono quesiti che tornano del re sto in altri saggi, dalla comunicazione del 119 d e l l ’e v o lu z io n e d e lla m e z z a d r ia , che approfondisce il discorso sui criteri di applicazione delle categorie di capitalismo e mercato, di rendita differenziale e pro fitto. Entro questa serie di interventi cor re quindi una questione d’ordine generale, che può essere proficuamente ripresa sul la scorta delle ricerche dedicate alla To scana e che costituiscono, ove si accetti l’importante volume del 1974 sui contratti agrari dal XV I secolo ad oggi (vedi fase. 117 di questa rivista), il nucleo centrale dell’opera di Giorgetti. N el volume che ora segnaliamo questi con tributi risaltano in tutta la loro ampiezza seguendo un filo diretto che va dalle re censioni e rassegne storiografiche alle più puntuali ed estese indagini archivistiche. L e prime sono una chiave preziosa per intendere l’impostazione e la condotta delle seconde. Anzitutto, Giorgetti fa i conti con la tradizione storiografica del moderatismo toscano, impegnata a pre sentare le riforme leopoldine come una illuminata marcia di avvicinamento allo stato moderno capace di sottrarre la To scana alle lacerazioni rivoluzionarie. T ra dizione che senza difficoltà si ambienta nel fascismo, sollecitando la corda ruralistica e paternalistica del regime, quella appun to che trova uno dei propri simboli più conclamati nei rapporti di produzione mez zadrili. Ripercorrere le tappe delle revi sione di tali giudizi — si veda S u lle o r ig in i d e lla s o c ie t à t o s c a n a c o n t e m p o r a n e a — si gnifica per Giorgetti affrontare il modo stesso delle sue proiezioni interpretative, porre dialetticamente a confronto il tema delle sviluppo capitalistico con la partico lare impronta che esso riceve dalla presen za di un ceto terriero dominante che ha ben presente il problema del controllo so ciale e che, di fronte ai momenti di svol ta, mostra tutta la propria disponibilità a sacrificare obiettivi più remunerativi sul piano economico a favore della stabilizza zione, o, se si vuole, del ristagno dei rap porti di classe. Il secondo elemento ri guarda l’attenzione sempre viva che Gior getti pone alle correlazioni tra l’evoluzione dell’economia toscana e i contemporanei rivolgimenti del quadro nazionale ed eu ropeo. L a distinzione, riportata alla deci siva radice settecentesca, tra sviluppo agri colo secondo il modulo inglese o lombardo 120 Rassegna bibliografica e le soluzioni che si realizzano in Toscana ha un carattere non artificiosamente pre giudiziale, ma illuminante per tutto il cor so successivo, così come essenziali sono le osservazioni in merito al liberismo tosca no e alle sue valenze sociali. Queste linee maestre si trovano sistematicamente svolte nei saggi sulle aliivellazioni leopoldine e sul grande affitto in Toscana nel XV III se colo, ma la loro impronta non è meno evi dente in scritti apparentemente minori, le gati ad occasioni più esterne. Valgano di esempio le L i n e e d i e v o lu z io n e d e lle c a m p a g n e t o s c a n e c o n t e m p o r a n e e , del 1974, una relazione nella quale il fine espositivo non impoverisce la problematica, e che soprattutto offre, nella dimensione del pro filo sintetico, quelle proiezioni sui tempi lunghi che permettono di misurare meglio le capacità di autoconservazione prima e il tracollo brusco poi dell’istituto mezza drile. L a spinta combinata dei settori capitali stici avanzati e della reazione antipadro nale dettata dalle condizioni di progres sivo sfruttamento del lavoro contadino nel le forme imposte dalla volontà di mante nere in vita, per ragioni di dominio so ciale, strutture ormai troppo arretrate, di venta veramente il momento qualificante del discorso. Riemerge qui quel problema centrale cui s’è accennato sopra a pro posito del dibattito sui « residui feu dali ». Giorgetti sembra assumere un atteggiamen to almeno apparentemente contradditorio. Da un lato richiama con forza gli effetti dirompenti delle trasformazioni capitalistiche, dall’altro, nel corso stesso delle sue analisi, sottolinea le strozzature di questo processo, lo sforzo di deviarlo, di piegarlo ad esigenze che, in un disegno astratto di esso, non si presentano necessariamente come dettate da un obiettivo strettamente economico, ma da più complesse e gene rali ragioni di rapporti di classe. Quali sono allora i limiti di quello svilup po capitalistico e come si istituzionalizza il rapporto tra la trasformazione economi ca e un assetto sociale di segno largamente diverso? È probabile che l’indagine con giunta sugli agrari toscani e sul movimento contadino, restituendo al problema tutto il suo spessore di storia sociale possa se gnare ulteriori avanzamenti, rispetto ai quali le acquisizioni di Giorgetti appaiono, giova ripeterlo, veramente essenziali. Massimo Legnani renato zangheri, A g r i c o l t u r a e c o n t a d in i n e l la s t o r i a d ’I t a l i a . D is c u s s io n i e r ic e r c h e , Torino, Einaudi, 1977, pp. XIII-290, lire 3.400. È probabile che il recente infittirsi di ti toli sulle lotte contadine de! 1945-1950 ab bia avuto qualche parte nello spingere Zangheri a raccogliere in volume alcuni dei maggiori contributi da lui dedicati, ne gli ultimi vent’anni, alle questioni agra rie. L o attesta, del resto, il saggio d’aper tura sulla storiografia del dopoguerra, sul quale torneremo più avanti. Ma, al di là di questa circostanza, v’è una motivazione più generale di cui il libro offre testimo nianza e che si riassume nella diffusa in soddisfazione per la lentezza con la quale procedono le ricerche in questo settore nevralgico della storia d’Italia. V ’è stata, è vero, tra la fine degli anni cinquanta e gli anni sessanta una fiammata di interesse intorno ai temi del decollo industriale e del dualismo nord-sud ricca di indicazioni e di dibattiti appassionati. Gli scritti, fra gli altri, di Romeo, Cafagna, Gerschenkron e dello stesso Zangheri costituiscono tutto ra un punto di riferimento obbligato della elaborazione storiografica, anche se l’in teresse sembra essersi sensibilmente affievo lito nell’ultimo decennio. Infatti, al confronto sui modelli interpre tativi è raramente seguita una adeguata verifica di ricerche su singoli momenti e situazioni. Proprio per questo la relazione su A g r i c o l t u r a e s v ilu p p o c a p it a lis t ic o , pre sentata nel 1968 all’omonimo convegno pro mosso dall’Istituto Gramsci e ora inclusa in questa raccolta, conserva un interesse proporzionale al mancato scioglimento di molti dei nodi interpretativi che essa pone. Zangheri vi ribadisce con forza il nesso strettissimo tra i modi assunti dal proces so di industrializzazione e la mancata rea lizzazione di una autentica rivoluzione agraria. L e radici lontane di questa peculia rità del caso italiano sono individuate nel la strozzatura che agli inizi dell’età moder na aveva bloccato lo sviluppo delle campa gne lombarde, già attrezzate per procedere ad una radicale trasformazione in senso capitalistico. «C rescita regionale», «m an canza di uno stato nazionale », « impossibi lità di concepire un mercato interno ade guato » (p. 50): questi i limiti allora non superabili e poi non superati attraverso un processo di unificazione nazionale che avrebbe saltato il passaggio della rivoluzio ne agraria. II senso e l’eredità di questo Rassegna bibliografica « salto » fanno da filo conduttore del sag gio su L a m a n c a t a r iv o lu z io n e a g r a r i a n e l R is o r g i m e n t o e i p r o b le m i e c o n o m i c i d e l l ’u n ità . Redatto nel 1957, esso ci riporta al primo tempo della stagione di dibattiti già ricordata, e in particolare agli echi della tesi di Romeo sul ruolo dell’agricol tura nel promuovere l’accumulazione ori ginaria e nel contribuire alla formazione del capitale industriale. Oggi, il rilievo re trospettivo di quella disputa non è tanto nella « contestazione sulle cifre », quanto nel riferimento — che Zangheri ribadisce anche a pag. XI dell’introduzione al volu me — ad una valutazione più larga e quali tativamente diversa del fenomeno, al ruo lo che il blocco di potere allora in gesta zione giocò come « fattore di riunifica zione delle realtà umane », all’alleanza sancita tra industriali settentrionali e agra ri meridionali all’ombra del protezionismo: « un accordo che può anche apparire, sulla scorta di un astratto schema di sviluppo, in c o n g r u o alle esigenze della industrializza zione, ma che fu in effetti la forma impo sta a quel tipo di industrializzazione, sten tato e distorto come esso riuscì » (p. 143). Occorre aggiungere che questa via di marginalizzazione del settore agricolo trova prepotenti conferme, salvo limitati settori, nelle vicende del novecento, dagli anni trenta alle grandi trasformazioni della me tà del secolo? Se si è convinti della cen tralità di questo processo per l’evoluzione non solo del sistema produttivo, ma del l’intera società italiana il nesso sottoli neato da Zangheri e l’incidenza degli schie ramenti di classe sulle scelte economiche di lungo periodo non possono certo esse re rubricati — secondo una suggestione prevalente negli anni del « miracolo eco nomico » — tra gli inevitabili costi umani dell’avvento di una società industriale, ma, più correttamente, come l’insieme dei pro blemi irrisolti che un dato modello di svi luppo porta con sé e che alla fine concor rono, in misura rilevante, a determinare la crisi. Si apre qui uno spazio storiografico che in tanto appare fecondo in quanto è consacrato non alle occasioni mancate, ben sì all’approfondimento delle scelte compiu te, all’analisi delle loro ripercussioni sul l’immediato come sui tempi lunghi. Con questa ottica vanno lette anche le consi derazioni dedicate all’intensità delle trasfor mazioni capitalistiche conosciute dall’agri coltura italiana e che Zangheri tende, ta lora in polemica con Sereni, a ridimen sionare. 121 Tra gli altri saggi della raccolta — alcuni dei quali mostrano inevitabilmente, in par ticolare quello sul moti del macinato nel bolognese, i segni del tempo trascorso dal la loro redazione — merita qualche rifles sione la rassegna della storiografia sul se condo dopoguerra. Molte delle considera zioni che Zangheri sviluppa sulle singole opere sono condivisibili. In effetti, ci tro viamo di fronte a contributi che, spesso, sembrano preoccupati più di ribadire a vi cenda visuali politiche contrapposte che non di recare elementi nuovi e consistenti in appoggio alle rispettive tesi. Purtuttavia, alcuni interrogativi emergono: sulla distribuzione geografica e nel tempo delle lotte contadine; sui loro scopi; sul rappor to tra queste e il quadro politico. Qui Zan gheri compie un’operazione riduttiva gra vida di pericoli. Egli, in sostanza, sottolinea il ritardo di elaborazione, da parte di par titi operai, di un’ipotesi generale di rifor ma agraria e parallelamente ribadisce il carattere essenzialmente non anticapitali stico delle lotte per la terra sviluppatesi nel dopoguerra: « portavano indubbiamente — leggiamo — una carica rivoluzionaria; ma democratica, non socialista. Puntavano a trasformazioni dei rapporti di proprietà, e neppure dappertutto, non nella valle pa dana » (p. 32). A me pare che con questo tipo di valutazioni restiamo pur sempre all’interno delle impostazioni seguite dai partiti, dai sindacati e dagli altri organismi a questi strettamente legati. L a motivazio ne delle lotte agrarie, e principalmente di quelle dell’area meridionale, cade al di fuori dell’analisi, la impoverisce e la settorializza. Si può essere a ragione perples si di fronte a certe troppo semplicistiche contrapposizioni, ad esempio, tra movimen to di lotta e partito comunista, ma il su peramento di questa insoddisfazione im pone il recupero integrale della realtà so ciale di quegli anni e l’analisi in profondità dei modi e dei contenuti della mediazione partitica. L a stessa rilevata assenza di « un’ipotesi generale di riforma agraria » va addebitata ad un complesso di fattori che in parte attengono proprio al tipo di quadro politico operante nei primi anni del dopoguerra e al modo in cui furono ge stite, dalla sinistra, le alleanze di governo. Prescindere da tale circostanza, significa precludersi la comprensione del livello al quale le componenti di sinistra dei gover ni di coalizione ritennero di poter stabiliz zare i conflitti di classe sprigionati dalla caduta del fascismo e, in particolare, dai 122 Rassegna bibliografica sintomi di declino del blocco agrario me ridionale. È un tema che, accanto a quel lo della genesi interna delle lotte contadi ne, andrà indubbiamente ripreso anche at traverso una più generale riproposizione del nesso tra la dinamica del quadro poli tico e i suoi referenti sociali. D a ultimo, un’osservazione sulla presen tazione editoriale, che appare singolarmen te insufficiente. E infatti difficile capire qua le accessibilità presenti per un lettore non specialista il ristampare, ad esempio, il saggio su A g r i c o l t u r a e s v ilu p p o d e l c a p i t a lis m o senza sciogliere le citazioni che in essa sono contenute, soprattutto se si tien conto che il testo risale al 1968 e che in più di un caso sono riportati giudizi succes sivamente rielaborati dai rispettivi autori. Chi non tiene presente questa circostanza, e nemmeno che — la presentazione non lo dice — si tratta di una relazione ad un convegno, ha non poche difficoltà ad orien tarsi attraverso la problematica del saggio, e rischia di restare un lettore passivo. Massimo Legnani Vittorio ronchi, G u e r r a e c r i s i a lim e n t a r e in I t a l i a ( 1 9 4 0 - 1 9 5 0 ) : r ic o r d i e d e s p e r ie n z e , Rom a, Scuola arti grafiche Istituto maschi le Umberto I, 1977, pp. 447, lire 3.500. L a storiografia contemporanea ha dedicato ben poco spazio al ruolo e alla fisionomia dei « tecnici », ai caratteri e significati del loro presunto o effettivo potere. Ben ven gano quindi le testimonianze degli stessi tecnici ad illuminare, anche se il più delle volte inconsapevolmente, questa ambigua materia, rinsanguando la storiografia me morialistica del dopoguerra monopolizzata, com’era del resto naturale, dai politici. È il caso di Vittorio Ronchi, personaggio non secondario dell’agricoltura italiana, le cui vicende appaiono per molti versi em blematiche anche nella loro particolarità. Interventista democratico, nell’immediato primo dopoguerra egli visse a stretto con tatto con il gruppo veneziano di Democra zia sociale raccoltosi attorno a Silvio Trentin. M a ciò che appare come più interes sante nella sua militanza non è l’attività politica in sé, quanto la trasposizione in campo agronomico ed economico-agrario dei professati ideali di democrazia laica e di « mazzinianesimo risorgimentale ». Egli stesso, in una commemorazione di Silvio Trentin, ricorda come tra i tecnici agrari « democratici » la bonifica apparisse non solo la redenzione dal disordine idraulico, dall’arretratezza fondiaria ed agraria, dalla miseria e dalla malaria, ma anche l’unica risposta praticabile — in una prospettiva di evoluzionismo pacifico e senza condiscen denze alle « facilonerie rivoluzionarie » — da far seguire alle promesse di terra e di vita migliore fatte ai contadini durante la guerra. Sono già evidenti, mi pare, tutti gli ele menti suscettibili di trasformazioni in sen so tecnocratico, ossia di un progressivo spodestamento della funzione politica da parte di quella tecnica. Durante il fasci smo, pur con qualche inconveniente non lieve, è sempre la competenza tecnica a ritagliare a Ronchi uno spazio ed un’au tonomia non irrilevanti, prima come di rettore dell’Ente di rinascita agraria delle Venezie dal 1921 al 1930, e poi come ispettore compartimentale del ministero dell’Agricoltura per le Tre Venezie. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale Ronchi fu nominato direttore generale del l’Alimentazione e rimase a capo di tali servizi, con sempre maggiori responsabi lità, fino al 1950. Il libro è la trattazione diaristica, onesta mente apologetica, della politica alimentare condotta da Ronchi e dai governi succe dutisi nel decennio: ma esso è anche un esempio concreto e circostanziato, non ge nerico e polemico, di come si operò real mente la saldatura tra fascismo e dopo guerra, quali furono i connotati della si lenziosa ma vigorosa continuità realizzata si in certi settori dello stato e in certi elementi del personale dirigente per l’ap punto « tecnico ». Il racconto delle vicende personali e dei « suoi » servizi si intreccia alla descrizione dei loro meccanismi interni, del loro svi luppo e della loro crisi. Sullo sfondo inol tre, nei ricordi di Ronchi ritorna frequen temente la Maccarese SpA, la grande azien da agricola dell’IR I che egli diresse per tutto il decennio. È molto difficile entrare nel merito della politica alimentare svolta dal Ronchi, di stribuire torti e ragioni, o stabilire se si poteva — o doveva — operare diversamen te: qui è preferibile soffermarsi invece su alcuni altri punti del libro che mi paiono particolarmente interessanti perché illumi nano passaggi emblematici di tutta una condizione e un’ideologia. L ’assoluta impreparazione dell’Italia all’en Rassegna bibliografica trata in guerra è efficacemente riassunta nella descrizione dell’elenfantiasi corpora tiva, con il suo complicato sistema di Servi zi e di Uffici distribuiti, con poteri sostan zialmente analoghi, tra numerosi ministeri e contornati da Commissioni di coordina mento altrettanto impotenti. Da tanta « confusione » di poteri Ronchi riesce a trarre un servizio dotato di suffi ciente unità organizzativa e funzionalità operativa: a questo proposito sono interes santi i pochi accenni che egli dedica ai pro pri « spericolati » sistemi di reclutamento e assunzione del personale dirigente, scar tando a priori proprio gli uomini dei mini steri e cercando nelle università e negli organismi locali gli uomini ritenuti adatti per competenze tecniche, fedeltà, abnega zione e disinteresse. Il contrasto con il committente politico è ricorrente: se ne ricava l’immagine di un partito fascista composto di « fanatici » ot tusi, privi di ogni senso politico come delle più elementari cognizioni di politica eco nomica, irosamente protesi a spezzar le reni a bottegai e contadini nel tentativo di imporre prezzi politici ai generi alimen tari e di sconfiggere la speculazione con l’unico ausilio delle misure repressive. L ’ortodossia liberista del Ronchi, che co munque non gli impedirà di battersi nel dopoguerra per la sopravvivenza di una politica alimentare statale e della relativa organizzazione di controllo delle disponibi lità e delle riserve — registra con fastidio, e direi con disprezzo, questa intrusione po litica così rozzamente antieconomica e cie camente poliziesca. I primi anni di guerra sono segnati dal ri corrente « incubo » della saldatura grana ria, avvenuta spesso in condizioni di peri colosa emergenza. Nonostante la congiun tura favorevole e i buoni raccolti del qua driennio 1940-1943, gravissimi erano i pro blemi aperti dalla quasi assoluta mancan za di riserve, dall’inarrestabile e progressivo calo delle disponibilità, dal blocco delle importazioni, dai difficili rifornimenti che pure era necessario garantire al sud e alle terre invase. Una brevissima nota che l’au tore dedica a quest’ultimo punto mi pare degna d’essere ripresa: nella Grecia oc cupata l’improvvisa scomparsa dei beni ali mentari fondamentali, pur presenti, fu ri solta, riferisce il Ronchi, con una manovra di stretta creditizia « antispeculativa » so stanzialmente identica a quella che nel 1947 fu applicata all’Italia da Einaudi e Menichella. Di ambedue questi provvedi 123 menti il Ronchi si dimostra fiero sosteni tore. A l di là del dato macroscopico ma approssimativo della continuità di certi in dirizzi di politica economica, appare più suggestiva l’ipotesi — tutta da verificare — della guerra e della colonizzazione bel lica come « terreno sperimentale » per al cuni particolari interventi economici. L ’8 settembre risolse automaticamente mol ti dei problemi alimentari, — sganciando il sud affamato dal più ricco nord, nonostante tutto ancora in grado di auto approvvigio narsi — , ma non li risolve certo al Ronchi, che nel periodo a cavallo dell’armistizio subì gli attacchi più duri e corse i rischi maggiori. Con la Repubblica di Salò il ministero e la Direzione generale furono trasferiti a Treviso. Per non compromet tersi con il nuovo governo fascista e con i tedeschi che ne tiravano le fila, il Ronchi, cercando di « rendersi inutile », mise in atto una lunga manovra di sganciamento che comunque lo costrinse a trasferirsi al nord in condizioni di esilio forzato. Tale manovra prevedeva la ristrutturazione e il drastico ridimensionamento del servizio e, in pratica, il passaggio delle consegne a Pao lo Albertario, suo diretto collaboratore, e anch’egli figura di grande rilievo nel pano rama dei tecnici agrari. I passaggi più interessanti rimangono le grandi cesure storiche e politiche quali ap punto l’8 settembre, il 25 aprile e la se guente normalizzazione, il 18 aprile e il consolidamento del potere democristiano. II fascismo aveva collocato il tecnico in un ambito apparentemente neutro, politicamente semplificato e compatto, dove la sua ideologia poteva divenire proprio la sotto valutazione e l’accantonamento nel « par ticolare » di ogni ideologia; con la fine del la guerra non è più possibile sfuggire ad una autodefinizione sia in senso politico che culturale. Qui emergono nitidamente i veri significati e contorni dell’antifasci smo, dell ’indipendenza, del riformismo del tecnico, in stretta relazione con le sue con vinzioni di teoria e politica economica. Si gnificativamente è il Pd’A , atraverso una filiale della Banca commerciale, a mettersi in contatto con il Ronchi allo scopo di « assicurare i servizi nel momento del tra passo » : a Milano ancora si sparava ed egli era già reinserito, come tecnico, a capo dei servizi dell’alimentazione. Collaboratore del la Commissione centrale economica del C LN A I e in breve tempo assumerà le fun zioni di responsabile di tutti i servizi agra ri e dell’alimentazione del nord oltre che 124 Rassegna bibliografica di commissario per l’alimentazione della Lombardia. Nelle sue mani riesplodono i nuovi dram matici problemi alimentari che soprattut to rendono ardua e dolorosa la « riunifica zione » tra nord e sud ma contemporanea mente esplodono le preoccupazioni per il « prevalere delle forze estremiste » e con tinui sono i riferimenti all’incertezza del quadro politico. Con le elezioni del 1946 e la formazione del nuovo governo la scel ta del campo politico si fa più urgente: il Pd’A, giudicato ormai una «B ab e le », è uscito distrutto dallo scontro e non offre più alcuna copertura ai progetti di riforma agraria elaborati dal Ronchi nel 1944-45 e discussi all’interno del partito. Ma qui l’autore è particolarmente avaro di noti zie, e non sappiamo quali furono gli esiti di tale dibattito. Il Ronchi si definisce cri stiano e come tale gli parrebbe naturale scegliere la DC, ma la fedeltà ai « principi democratico-sociali di Giuseppe Mazzini » lo ha reso ostile ad ogni « inframmittenza clericale » ; inoltre egli teme di rimanere prigioniero dei partiti di massa. Tutto ciò lo condurrà a rinunciare alla candidatura al Parlamento offertagli dalla DC per le elezioni del 1948. I giudizi politici del Ronchi appaiono so stanzialmente sommari, frutto di un uni verso politico elementare, di « buon sen so comune», dove i governi degasperiani monocolore sono preferibili perché « tec nicamente » offrono maggiore spazio di ma novra e stabilità nel tempo; dove le oppo sizioni sono per definizione demagogiche strumentali faziose disoneste o, nel mi gliore dei casi, disinformate; dove « i co munisti » presenti nei ranghi del ministero sono « attivisti disturbatori »; dove gli aiuti americani sono necessari insostituibili e di sinteressanti; dove De Gasperi è « l’uomo della provvidenza ». Vi è qui annidato quel lo che Maynaud definisce un « punto ca pitale della mentalità tecnicistica: la cre denza che l’analisi e l’interpretazione ra zionale dei fatti siano suscettibili di pro vocare posizioni di unanimità almeno negli uomini di buona volontà ». Mi pare eviden te, inoltre, una funzionale subalternità di tali posizioni alle opinioni « dominanti », e il riscontro di maggior rilievo Io si ha nel 1947 con la formazione del quarto go verno De Gasperi. Il Ronchi viene nomi nato alto commissiario dell’Alimentazione (già dal 1946 il ministero dell’Alimentazione era stato trasformato in alto commissaria to) e insieme ad altri uomini « al di sopra della mischia » quali Einaudi, Merzagora, Del Vecchio e Grassi, entra nel governo conscio che il proprio operato da tecnico diverrà politico. L a politica alimentare in fatti viene condizionata e ispirata dalla strategia complessiva del governo: l’obiet tivo è il ritorno alla «n o rm a lità », da rea lizzarsi attraverso una politica produttivi stica ad oltranza « accantonando per ora le radicali riforme che venivano solleci tate ». Illuminante a questo proposito l’uso aper tamente elettorale della politica alimentare concretizzatosi nei primi mesi del 1948. « Per dare maggiore tranquillità al paese in piena battaglia elettorale », il Ronchi con siderava necessario — e fruttuoso — offri re la dimostrazione « che il governo ha mantenuto le sue promesse migliorando la qualità del pane e assicurando dovunque i generi da minestra. Soffrire gennaio e febbraio per dare poi respiro all’inizio del la primavera [...] ». Più in generale, co munque, l’obiettivo perseguito negli ulti mi anni quaranta è la saturazione del fab bisogno alimentare e in primo luogo del mercato granario attraverso massicce im portazioni dagli Stati Uniti e dall’Argen tina. Oltre ad effettuare quindi numerose missioni nelle due Americhe, in questo periodo il Ronchi torna ad occuparsi del la riforma agraria su invito dello stesso De Gasperi. Su questo terreno avverrà, invece, lo scontro diretto tra le istanze tecnocratiche del Ronchi e la complessa politica del gruppo di potere democristia no, rappresentato in questo frangente da Antonio Segni. Il disaccordo è profondo: difendendo la propria autonomia il Ronchi denuncia addirittura, in una lettera a De Gasperi dell’aprile 1949, « l’incredibile pre tesa dell’entourage del ministro Segni » di ridurre al silenzio il « Giornale di agricol tura » da lui diretto, che spesso aveva ospitato voci di critica sistematica agli « er rori ed alle inattività nella politica agra ria ». Purtroppo il Ronchi non dedica molto spa zio alla questione della riforma agraria e soprattutto alle forze che si muovevano die tro ad essa nel composito fronte agrario: il suo progetto, che allora fu giudicato conservatore e « di fronda » all’interno del governo, mi pare comunque riassumibile in un disegno « serpieriano » di ristruttu razione agricola di lungo periodo in chiave produttivistica, di necessità legata ad un grande rilancio della bonifica e soprattutto all’introduzione di nuove tecnologie. In al Rassegna bigliografica tre parole il progresso tecnologico, per il Ronchi unico reale « motore » per lo svi luppo delle condizioni di vita e di lavoro delle popolazioni agricole, viene contrap posto alle forme di redistribuzione della pro prietà e di trasformazione « politica » de gli equilibri economici e di classe nelle campagne. Carlo Fumian muto revelli , Il mondo dei vinti. Testimo nianze di vita contadina, 2 voli., Torino, E i naudi, 1977, pp. CXVII-167; 252, lire 7.000. Non si contano più i testi che hanno a f frontato in diverse prospettive disciplinari il problema degli effetti dell’industrializza zione nelle campagne. Su di esso esiste or mai un’ampia letteratura che ha prodotto ipotesi, elaborato modelli, raccolto dati nei differenti contesti nazionali al fine di chia rire la dinamica di un processo dalle cui modalità di attuazione dipende, in larga misura, l’assetto socio-economico, politico e culturale della società urbano-industriale nelle sue concrete specificazioni. Di tale processo, il mondo contadino è stato sovente considerato — in maniera più o meno esplicita — come il soggetto passivo e questa passività spiegata mediante il ricorso alla nozione di « cultura » con tadina, intesa genericamente come insieme di valori e di comportamenti non congruen ti con quelli della società industriale e, in quanto tali, valutati negativamente ai fini dello sviluppo e di una più razionale uti lizzazione delle risorse. Tra le ricerche che contribuiscono a sve lare la natura ideologica — in quanto ra zionalizzazione e non spiegazione della sto ria accaduta — di simile approccio ci pare vada collocata quella di Nuto Revelli sui contadini delle zone depresse del cuneese, su quella parte dei contadini che il cosid detto sviluppo ha immiserito, emarginato, condannato ad una lenta inesorabile estin zione. Revelli conosce bene i contadini del cu neese: è nato tra loro, ha fatto con loro la campagna di Russia, ha vissuto con loro l’esperienza determinante della Resisten za. Eppure ciò che colpisce innanzi tutto nella sua faticosa quanto paziente opera di documenazione è la straordinaria umiltà, propria soltanto di chi vuole realmente ca pire, con cui si avvicina al loro mondo. Capire che cosa? In primo luogo le ragioni di quella passività, di quella rassegnazione 125 che, imputate al contadino povero come una colpa, sono invece il risultato di meccanismi sociali che ne hanno fatto l’oggetto di una storia scritta non per lui ma contro di lui. Di questi meccanismi Revelli non si occupa che marginalmente. Altri li hanno analiz zati fornendo gli strumenti teorici per co noscerne il modo di funzionamento. Ciò che 10 interessa soprattutto è ascoltare dalla vo ce dei <vinti > come tali meccanismi sono stati percepiti e vissuti, con quale grado di consapevolezza, e quali le forme di resi stenza adottate. Di qui il metodo seguito, che è quello della registrazione di testimo nianze dirette (270 della durata media di tre ore, di cui 85 pubblicate) raccolte tra individui prevalentemente vecchi (« i miei interlocutori più validi [...] perché san no »), sui temi di fondo del « lavoro, l’emi grazione, la < grande guerra >, l’avvento del fascismo nelle campagne, il <ventennio), la seconda guerra mondiale, la pagina partigiana, il dopo liberazione, il mondo con tadino di ieri e di oggi ». 11 materiale che ne esce è talmente ampio che non è possibile neppure tentarne un resoconto: lo stesso Revelli, del resto non ne ha dato una sistemazione. D a quei temi di fondo, infatti, il discorso esce sovente e si allarga in modo tale da fornirci dati di notevole interesse etnologico su usanze, credenze, pratiche magiche, giochi, espres sioni dialettali ormai dimenticati e di cui i vecchi — come quelli intervistati da R e velli — sono gli ultimi depositari. Per accennare ad alcuni filoni, di impor tanza decisiva per comprendere l’atteg giamento della maggioranza dei contadini poveri rispetto ad eventi importanti della storia nazionale ci paiono le testimonianze sulla grande guerra, non voluta, non sen tita, rifuggita mediante il ricorso a pra tiche autolesionistiche o alla diserzione, ep pure pagata in prima persona con centinaia di migliaia di morti. È verosimile che, laddove non è maturata una coscienza del proprio ruolo di sfruttati, questa esperien za abbia segnato per più di una genera zione di contadini poveri il definitivo allon tanamento dalla politica, vissuta come un mondo estraneo ostile, tradottosi in defi nitiva nel sostegno alle forze della con servazione attraverso la mediazione del cle ro. È il clero, infatti, che emerge come l’unica forza in grado di controllare le mas se contadine e di impedire ogni processo di emancipazione politica e culturale. Sui temi del fascismo, della seconda guerra mondiale, della Resistenza e della guerra 126 Rassegna bibliografica di liberazione, sulle vicende dell’immediato dopoguerra l’attenzione di Revelli si fa sofferta. L ’esito del referedum istituzionale favorevole alla monarchia e l’instaurarsi dell’egemonia incontrastata della DC nelle campagne del cuneese, che pure avevano assistito in modo non ostile e in molti casi attivamente partecipe alla lotta partigiana, bruciano ancora come una sconfìtta di cui occorre rimuovere le cause. M a per rimuo verle occorre conoscerle e attraverso i lunghi colloqui si rivelano essere quelle di sempre: la miseria, l’isolamento, l’ignoran za, lo sfruttamento, l’inganno di promesse mai mantenute che generano sfiducia nel la possibilità di poter mai giungere a mu tare il corso delle cose. L e conclusioni, dunque, non aggiungono molto a ciò che già si conosce circa le cause strutturali del fenomeno analizza to. Il contributo di Revelli ci pare vada ricercato in due altre direzioni: la prima, di natura più immediatamente politica ed esplicitata nell’Introduzione consiste nell’aver voluto far parlare « gli emarginati di sempre, i «sordom uti), i sopravvissuti al grande genocidio, come parlerebbero in una vera democrazia », nella speranza che ciò contribuisca a far prendere coscienza del le dimensioni catastrofiche, per le popola zioni coinvolte a breve termine e per l’intera collettività a lungo termine, del l’abbandono delle campagne. L a seconda, di carattere scientifico-metodologico, è quel la di riproporre il problema dell’utilizza zione del materiale autobiografico nelle scienze sociali, al fine di indagare le com plesse relazioni che intercorrono tra strut ture sociali, cultura e personalità. Il mate riale raccolto, tanto dal punto di vista quan titativo che da quello qualitativo, offre un’occasione per farlo che è sperabile non vada perduta. Edda Saccomani Emigrazione angelo f ilipp u z z i , 11 dibattito sull’emigra zione. Polemiche nazionali e stampa veneta (1861-1914), Firenze, L e Monnier, 1976, pp. XXXVII 421, lire 9.500. Il volume del Filippuzzi non vuole essere una puntuale ricostruzione di un momento non secondario del dibattito politico ed economico nell’Italia unita sino alla pri ma guerra mondiale: è piuttosto, come egli stesso tiene a sottolineare nella intro duzione, una raccolta di testimonianze, una raccolta di materiali che compongono una traccia di storia dei primi cinquant’anni postunitari sviluppata intorno al tema del l’emigrazione. È pertanto entro il quadro che il lavoro del Filippuzzi si è proposto e non muovendo da altre premesse che ne vanno apprezzate e valutate l’utilità e la rispondenza al compito propostosi. L a traccia proposta dal Filippuzzi segue lo svi luppo del dibattito sull’emigrazione sotto un profilo molto particolare: l’attenzione alla tutela dell’emigrante, attraverso l’iter legislativo culminante nella legge del 1901 e nei miglioramenti apportati nell’età giolittiana. L ’avere accostato ai materiali del dibattito a livello nazionale (brani dal di battito parlamentare, da inchieste ufficiali, dalla stampa e da opere di studiosi del pro blema) larghi stralci dalla stampa veneta, ossia di una delle regioni più direttamente coinvolte nel processo migratorio, non è certo un fatto arbitrario ma l’apertura su un campione di verifica della problema tica generale singolarmente significativo. E tuttavia, detto questo, il libro suscita più di una osservazione critica. L a più importante ci pare questa: nel com plesso, nonostante non manchino i testi che stanno a significare come all’origine dell’emigrazione non vi sia stata soltanto una generica arretratezza o insufficienza della struttura economica italiana ad as sorbire un’eccedenza demografica ma che inducono piuttosto a porsi il proble ma dell’emigrazione come scelta politi ca delle classi dirigenti postunitarie — esemplari mi paiono in questo senso i due testi di Sidney Sonnino, il primo del 1879 sui benefici dell’emigrazione (pp. 98 sgg.), il secondo del 1883, al quale lo stesso F i lippuzzi ha premesso il titolo « L ’emigra zione: valvola di sicurezza per la pace so ciale » (p. 131) — , il libro privilegia i testi che si pongono essenzialmente la tematica della tutela dell’emigrazione. Si tratta di una tematica certamente importante, se si tiene presente anche la qualità della for za-lavoro espulsa dall’Italia, a differenza di quella più qualificata trasferitasi oltre oceano per esempio dalla Germania e forse, anche dalla stessa Polonia nel mede simo periodo. M a è una tematica che dà praticamente per scontata la fatalità del l’emigrazione, che non si sofferma sulle ra gioni dell’emigrazione, come parte di un dibattito sullo sviluppo economico del pae Rassegna bibliografica se. Non si tratta evidentemente di conte stare la legittimità dell’angolatura scelta dall’A. ma di segnalarne i limiti. Più che le cause di fondo il libro approfondisce quindi talune delle conseguenze dell’emi grazione, con particolare sensibilità per la realtà culturale rappresentata dall’emigran te italiano, che come ben dice il Filippuzzi in talune situazioni del continente ame ricano finiva per prendere il posto dello schiavo appena liberato (p. XVI). Ed è sempre la condizione di « miserabile » del l’emigrante italiano che induce l’A . a sottolineare la piaga dei sensali, degli agen ti e dei subagenti sfruttatori della forzalavoro cacciata dalle campagne e dallo sviluppo economico in patria. Anche in questo quadro riteniamo comun que che sarebbe stato possibile offrire una maggiore problematicità e un maggiore ventaglio di posizioni. Proprio la stampa veneta, e in particolare quella friuliana, è ricca di testimonianze di parte clericale ispirate da preoccupazioni di ordine pub blico, anche al di là di quanto prodotto in questa raccolta: forse la distinzione tra emigrazione permanente ed emigrazione temporanea avrebbe contribuito a dare un’idea più adeguata delle preoccupazioni che la circolazione degli emigranti suscitò nella chiesa cattolica, preoccupazioni che andavano dall’invettiva contro il decadi mento dei costumi alla paura dell’importa zione di idee sovversive dall’esterno. E d’al tra parte scarsamente presente ci sembra nello stesso dibattito nazionale la voce del movimento operaio e inesplicabile appare una frase come questa posta in nota a un testo di Cavallotti: « [...] d ’altra parte democratici, socialisti e radicali non erano allora nello stato d’animo più propizio per valutare serenamente il problema dell’emi grazione » (p. 227 nota). M a perché mai? Almeno una spiegazione sarebbe stata neces saria. E ra forse più sereno Ruggero Bon ghi che quale presidente della Società Dan te Alighieri non poteva lanciare agli emi granti altro messaggio che quello retorico contenuto in una promessa notoriamente poco onorata nei fatti: « [...] noi dob biamo difendere nel cuor loro la civiltà e il carattere italiano, e ostinarli a rima nerne i rappresentanti dinanzi a tutti e contro tutti » (p. 221). Tra le testimo nianze sulla condizione dell’emigrante sor prende di non trovare alcuna citazione da uno dei maggiori organizzatore dei lavora tori italiani all’estero, Giacinto Menotti Serrati. Ebbene, i suoi scritti sulla stampa 127 operaia furono tra le denunce più sferzan ti dell’inefficienza o del disinteresse delle autorità italiane all’estero dei confronti de gli emigranti. Proprio in uno scritto del 1908 intitolato U m a n it a r ia , D a n t e A lig h ie r i e e m ig r a z io n e , in polemica con fi suo compagno di partito Angiolo Cabrini, nel trarre un bilancio dei mezzi di tutela del l’emigrante, Serrati arrivava a questa si gnificativa conclusione: « Con buona tua pace, e nonostante i tuoi amichevoli con sigli, noi continueremo a sostenere che solo nella organizzazione di classe è la prote zione dell’emigrante italiano e che solo il sindacato di mestiere e la sezione socia lista possono offrirgli il mezzo del suo elevamento materiale, morale e intellettua le ». Abbiamo citato null’altro che un esem pio di un tipo di voci che a nostro avviso avrebbero offerto un’immagine più ricca del dibattito sull’emigrazione e suscitato l’approfondimento in direzioni qui soltan to marginalmente indicate. Enzo Collotti EMILIO franzina , L a g r a n d e e m ig r a z io n e . L ’e s o d o d e i r u r a l i d a l V e n e t o d u r a n t e il s e c o lo X IX , Venezia-Padova, Marsilio, 1976, pp. 314, lire 7.800. Il numero molto limitato di studi storici pubblicati nel dopoguerra sul tema della emigrazione italiana, si spiega in parte con la difficoltà di definire con precisione l’og getto e i criteri metodologici della ricerca. Il volume di Franzina non vuole essere una « storia degli italiani all’estero ». Si pone piuttosto l’obiettivo di analizzare il feno meno migratorio « nel contesto di un di scorso che riguarda i modi e i tempi della transizione del nostro paese da uno stadio agricolo e preindustriale a uno stadio di relativa e del tutto specifica maturità ca pitalistica » (p. 16). Contemporaneamente l’autore vuole tentare una ricostruzione del l’esodo di massa come « capitolo di storia delle classi subalterne ». L ’ambito della ricerca è circoscritto ad un’area, la regione veneta, da cui negli anni tra il 1876 e il 1901 (al centro del la voro di Franzina) proviene circa un terzo della emigrazione italiana. Nella prima parte del libro (E c o n o m i a e s o c i e t à r u r a le n e l l ’a r e a d i p a r t e n z a ) la scel ta di studiare in primo luogo i meccani smi di «esp u lsion e», che danno origine ed alimentano i flussi migratori, induce l’au tore ad esaminare le caratteristiche del 128 Rassegna bibliografica l’economia agraria veneta tra otto e no vecento. Nonostante la ricca bibliografìa citata nel le note e la consultazione di archivi locali, Franzina non riesce a fornire un quadro sufficientemente esauriente delle dimensio ni quantitative e qualitative dell’esodo a livello delle singole province. M anca un’a nalisi dettagliata (corredata da una docu mentazione statistica più ampia di quella utilizzata dall’autore) delle ripercussioni sul l’economia locale dell’annessione al regno d ’Italia (eliminazione delie proprietà col lettive e degli usi civici, aggravi fiscali, ecc.), della crisi agraria (indebitamenti e confische), delle trasformazioni dell’assetto territoriale e produttivo (bonifiche, mecca nizzazione, ecc.). Sono questi i nodi cen trali da approfondire (insieme ad una ve rifica dell’andamento dei redditi agricoli, in relazione alla distribuzione della proprietà fondiaria e ai modi di conduzione) per po ter individuare, area per area, i fattori che determinano l’espulsione dei contadini dal le campagne e li costringono ad espatriare. In assenza di una indagine in questa dire zione e di una documentazione dell’inci piente sviluppo industriale, che vada al di là dell’illustrazione dell’ideologia di uomi ni come Alessandro Rossi, il nucleo teo rico del libro (l’emigrazione come elemen to strutturale del « modello veneto di svi luppo »), finisce per rimanere ancora una ipotesi di lavoro. Del vastissimo materiale consultato (la stampa locale veneta, le car te di numerosi archivi comunali, di stato e privati, opuscoli, riviste, ecc.) Franzina offre una lettura tesa sostanzialmente a ri costruire minuziosamente l’ideologia dei « possidenti » veneti (i grandi proprietari fondiari). Interessanti sono le sue notazioni sulla « rifondazione della società rurale ve neta », sul « catonismo » (l’esaltazione del la piccola proprietà e della mezzadria). Si tratta di quelle componenti del mondo agra rio, che si esprimono attraverso gli inter venti di « addetti ai lavori » e di organismi come i Comizi agrari e che finiranno per convertirsi al protezionismo. L a capacità dell’autore di ricostruire e de scrivere l’ambiente culturale e politico del l’epoca si avverte in particolare nella se conda parte del libro (« l’esodo dei rurali e i dibattiti sull’emigrazione e le colonie »). Condotta sulla traccia del precedente la voro di F. Manzotti { L a p o le m ic a s u l l ’e m i g r a z io n e d e ll’I t a l i a u n it a , Milano, 1969) lo arricchisce in una prospettiva locale. Pro tagonisti del dibattito sono i «p o ssid en ti», i cattolici, i socialisti, i teorici dell’espan sione demografica. A l tentativo di inserire nella « polemica sull’emigrazione » una voce finora inascoltata è dedicato il capitolo « l’autonomia contadina e l’emigrazione » (tra le fonti utilizzate vi sono lettere di emigrati in America Latina, raccolte dal l’autore). Antiemigrazionista, anche se beneficiario insieme agli industriali della esigenza di una sovrappopolazione agricola, si dichiara il settore dei proprietari terrieri. L ’emigra zione è l’effetto « più appariscente e cla moroso » di uno sviluppo economico incen trato sulla difesa della piccola proprietà coltivatrice e sulla localizzazione degli im pianti industriali nelle campagne. Si sceglie di « condannarla e combatterla a parole » fino al momento in cui risulterà più utile ed efficace cercare di controllarla ed organiz zarla. In questa fase il compito dell’« assi stenza » verrà affidato ai cattolici, che ab bandoneranno anch’essi le pregiudiziali antiemigrazioniste. L'atteggiamento dei socialisti è incerto e spesso subalterno rispetto alle posizioni del la borghesia. L e loro difficoltà, insieme alla nascita di « utopie sociali contadine », di speranze di un « nuovo mondo » al di là dell'Oceano, ripropongono il problema del rapporto tra emigrazione e lotta di classe. Completano l’arco delle posizioni esami nate dall’autore, l’inventario della produ zione di scrittori e letterati (G. Zanella, E. Fuà Fusinato), di un teorico dell’espansio ne demografica (Pacifico Valussi) e di un propugnatore di una « nuova Italia platense » (Attilio Brunialiti). Questi ultimi due concentrano sull’America Latina le pri me aspirazioni coloniali Italiane. N ei ro manzi del veronese Emilio Salgari Franzi na vede un riflesso delle « velleità e fru strazioni dell’Italia umbertina [...] arriva ta per ultima sulla scena internazionale » (p. 278) ed esclusa dalla spartizione colo niale del mondo. Meritava di essere maggiormente appro fondito un tema cruciale come il flusso an nuale di rimesse e i risparmi degli emigrati stagionali in Sudamerica (« golondrinas »). Esso mi pare un terreno decisivo di ricer ca (su cui a livello nazionale e per il pe riodo successivo esiste il lavoro di F . Bal letta, I l B a n c o d i N a p o l i e le r im e s s e d e g li e m ig r a n t i 1 9 1 4 -1 9 2 5 , Napoli, 1972) se si vuole capire cosa si nasconde dietro i miti di una « p iù grande Italia al P ia ta ». Eugenia Scarzanella Rassegna bibliografica DELIA CASTELNUOVO FRIGESSI, Elvezia, il tU O governo. Operai italiani emigrati in Sviz zera, Torino, Einaudi, 1977, pp. CIX-473, lire 7.000. L ’immagine di una Svizzera « al di sopra di ogni sospetto » è oggi aspramente conte stata da intellettuali che, come Jean Ziegler, hanno mostrato l’intrecciarsi, dietro la facciata di paese democratico e « pu lito », di potenti interessi del mondo ban cario e finanziario. li processo della Nestlé ha riacceso il di battito sul ruolo e il potere delle multi nazionali svizzere. Questo bel libro di Delia Castelnuovo Frigessi ci ripropone, attraverso le voci degli operai italiani immigrati nella confedera zione, una nuova denuncia del mito sviz zero. L e discussioni tra i lavoratori e le interviste a militanti politici e sindacali de finiscono i contorni precisi di una dram matica condizione di sfruttamento. Questi interventi sono preceduti da un lungo e documentato saggio introduttivo dell’autrice. A partire dagli anni precedenti il primo conflitto mondiale, quando la Svizzera si afferma come paese di immigrazione (nel 1914, il 15,4 per cento della popolazione complessiva della confederazione è com posto di stranieri; percentuale che sarà di nuovo toccata alla fine degli anni ses santa) vengono adottate una serie di mi sure legislative, per regolare l’afflusso del la manodopera straniera. Attraverso di es se la classe dominante alimenta, con il principio della « lotta contro la sovrapopolazione » (di cui si inizia a parlare nei pri mi anni venti) quella xenofobia che oggi ha in Schwarzenbach e nell’Azione nazio nale i suoi paladini. M a queste leggi, come osserva Delia Castelnuovo costruiscono so prattutto una rigida gabbia normativa fun zionale alla divisione della classe operaia immigrata (speciali « s t a t u t i» , permessi di tipo A , B, C), al mantenimento della ela sticità del mercato del lavoro (autorizzazio ni di soggiorno revocabili, possibilità di espulsione), alla « prevenzione » delle lotte (divieto per gli stranieri di esprimere pub blicamente le proprie opinioni politiche). A partire dal 1963-64 la Svizzera imbocca la via della «stabilizzazione», cioè della riduzione dei nuovi flussi migratori e dell’effettivo dei lavoratori stranieri già pre senti nel paese. Negli anni seguenti si mo difica la composizione della manodopera straniera, il governo favorisce un aumen 129 to proporzionale delle categorie degli sta gionali e dei frontalieri, cioè delle cate gorie più deboli e senza diritti, rispetto a quelle dei lavoratori annuali e domiciliati. Le norme dello « statuto » degli stagionali sono la spia impressionante di uno dei « se greti » dello sviluppo economico svizzero: la possibilità di disporre di un esercito in dustriale di riserva, di una forza-lavoro a basso costo (esclusa dal sistema assicurativo e dai servizi sociali) da poter facilmente inserire ed espellere, secondo l’andamento congiunturale, dal processo produttivo (nel l’edilizia il padrone può licenziare l’ope raio stagionale con ventiquattro ore di preavviso). Un altro pilastro della stabilità del capi talismo svizzero è « l’istituzionalizzazione della pace sociale tra capitale e lavoro ». R i sale al 1937 la convenzione tra la FOM O, principale federazione sindacale, e il go verno con cui il movimento operaio rinun cia allo sciopero. Il rapporto tra sindacati svizzeri e classe operaia immigrata è, per questa ragione, molto difficile: nelle interviste ai lavora tori italiani emerge costantemente la sfi ducia e la diffidenza verso le organizzazio ni operaie. L a crisi economica e l’attacco all’accupazione sembrano però spingere ora il sindacato a tener conto delle rivendica zioni della base. Alla ripresa del movimento operaio multi nazionale è dedicata l’ultima parte del li bro. Attraverso le testimonianze dei prota gonisti ne sono ripercorse le tappe: dallo sciopero della Murer (un’impresa di co struzioni, che impiegava 200 operai spa gnoli) nel 1970 a quello della M atisa (im presa metallurgica) nel 1976. Attraverso queste lotte si sta faticosamente (« Siamo quattro lingue. Io non posso lottare », dice uno stagionale calabrese) cementando l’uni tà tra operai svizzeri, italiani, spagnoli, portoghesi, jugoslavi, turchi e greci. Il saggio introduttivo di Delia Castelnuovo affronta efficacemente, insieme a questi ora accennati, altri temi: il significato e le contraddizioni delle iniziative xenofobe; l’esportazione della disoccupazione nei mo menti di crisi e l’atteggiamento subalterno e complice del governo italiano; i problemi dell’integrazione forzata; l’attività dei par titi e dei sindacati italiani e delle organiz zazioni dell’emigrazione. Sono gli stessi problemi discussi nelle inter viste agli operai. In esse si misura tutto lo spessore delle difficoltà di ricomposizione di una classe divisa, ricattata e discrimi 130 Rassegna bibliografica nata. Contemporaneamente emerge l ’impor tanza delle sue lotte (che non sono lotte di marginali o sottoproletari) in un paese, che, non diversamente dalla Germania, ve de accanto alla repressione dell’iniziativa operaia lo svuotamento delle istituzioni de mocratiche. Eugenia Scarzanella Movimento contadino e questione meridionale g . fisso re , g . meinardi, L a questione meri dionale, Torino, Loescher, 1976, pp. 288, lire 2.850. L ’antologia L a questione meridionale di Fissore c Meinardi tenta di porsi in manie ra nuova rispetto alla prevalente produzione bibliografica del settore; l’analisi, infatti, è condotta fino ai nostri giorni, agli anni settanta, alle rivolte di Reggio Calabria e di Eboli superando un atteggiamento, pre valente nel filone meridionalista, che in duce a « storicizzare » tale problematica giungendo, nel migliore dei casi, alla poli tica dei « poli di sviluppo » degli anni ses santa. Interessanti sono i criteri con cui sono stati scelti i brani da riportare; accanto alle fonti ufficiali (statistiche, atti parlamenta ri, ecc.) ampio rilievo viene dato alle po sizioni dei partiti di sinistra, con un atten to sforzo, però, a ripercorrere il cammino difficile e non sempre lineare della elabo razione di una strategia per il mezzogiorno da parte delle forze di sinistra. Di volta in volta quindi si riporta il dibattito sulla que stione meridionale sviluppatosi nel PSI agli inizi del ’900, si dà ampio spazio all’elabo razione gramsciana, si analizzano le tesi comuniste sulla riforma agraria nel secondo dopoguerra, si propone il giudizio di G. Amendola sul ruolo del mezzogiorno nel ciclo di lotte operaie del 1968-69 contempo raneamente all’analisi formulata dalla «nuo va sinistra » sulle rivolte di Reggio Calabria e di Eboli. Oltre a questo tipo di documentazione si utilizzano fonti giornalistiche ed una cer ta attenzione è rivolta agli atteggiamenti culturali determinatisi verso il mezzogior no, siano essi pregiudizi e luoghi comuni oppure schemi ideologici con una pretesa base «scien tifica». A ssai incisivo, in tal senso, è il brano Una razza inferiore di Niceforo che offre agli autori lo spunto per una puntuale analisi sulle tesi positivistiche antropologiche: « Irrimediabilmente prive di qualsiasi base scientifica, pur nella loro pretesa scientificità queste teorie svol sero di fatto la funzione di deviare il di battito sul problema meridionale In fatti i concetti di sfruttamento e squilibrio svaniscono; la natura dei rapporti sociali viene trascurata, il sottosviluppo ridotto a fenomeno naturale (l’inferiorità razziale) non modificabile, e solo lentamente grazie all’intervento « civilizzatore » del progre dito settentrione » (p. 278). Per le caratteristiche accennate l’antologia appare fruibile non soltanto da un ristret to pubblico di specialisti, ma suscettibile di un’utilizzazione molto più ampia, in par ticolare di tipo didattico. L ’analisi della questione meridionale viene condotta sulla base di una periodizzazione temporale (1860-1887; 1887-1915; 1915-1945; 1945-1975) che trova la sua ragione d ’esse re nelle differenti articolazioni con cui si determina il rapporto tra sottosviluppo me ridionale, sviluppo economico nazionale ed equilibri politici del paese. Precisa è la definizione della fase storica in cui si viene a costituire la « questione m eridionale»; essa si fa risalire all’unifi cazione del 1860 chiudendo rapidamente con una vivace polemica storiografica aper tasi tra coloro che attribuiscono al perio do borbonico la matrice dell’arretratezza del sud dopo l’Unità e quanti invece, al contrario, pensano che il mezzogiorno giun se al 1860 in floride condizioni produttive deterioratesi successivamente. « Anche se un certo divario di sviluppo preesisteva al l’unificazione, e soltanto dopo di essa che nasce « la questione meridionale » nel sen so che da allora il sud giocò un ruolo su bordinato nel processo di sviluppo capita listico » (p. 28). In quest’ottica vengono proposti numerosi brani sul brigantaggio meridionale, di cui si evidenzia il carattere sociale, coordinati a quelli sulle condizioni economiche dei contadini tratti dalle inchieste di Franchetti e Sonnino. Circa il periodo successivo se è vero che si analizzano le conseguenze delia politica protezionistica governativa sull’economia, l’accento viene posto prin cipalmente sugli aspetti sociali e politici. Si evidenziano gli elementi di continuità della condotta governativa verso il mezzo giorno « L ’epoca giolittiana si espresse nel mezzogiorno in linea con l’età precedente con la repressione dei moti di classe, con l’emarginazione della partecipazione alla vi Rassegna bibliografica ta politica del paese [...] » (p. 67). M a si evidenziano anche gli aspetti nuovi, propri di questa fase della questione meri dionale; in particolare gli autori si soffer mano sul ruolo dell’emigrazione, quale « scelta obbligata » contro la miseria e la degradazione sociale, e sottolineano l’im portanza dei primi tentativi di organizza zione di classe delle popolazioni meridionali. In rapporto a quest’ultimo elemento si svi luppa l’analisi del Partito socialista che pone in rilievo come la politica riformista da esso condotta fosse in contraddizione con le istanze espresse dai moti contadini meridionali che si esprimevano attraverso forme di lotta spontanee e violente, ri manendo di fatto prive di direzione poli tica. Numerosi brani, che riportano sia le analisi del PSI che la polemica salveminiana, confermano tale giudizio storico. Il rapporto tra mezzogiorno e storia d’Ita lia assume caratteristiche parzialmente di verse in un momento di crisi dell’intero si stema capitalistico e di apertura verso differenti soluzioni capitalistiche come fu quello del primo dopoguerra. Il movimen to di classe si espresse nel sud attraverso le occupazioni di terra dei contadini e le agitazioni popolari contro il carovita. Viene rilevato come non si verificasse un processo di saldatura tra lotte operaie del nord e moti contadini e popolari del sud; bisognerà attendere l’elaborazione gram sciana per avere un’adeguata analisi poli tica. Inoltre chiara appare l’incapacità del Partito socialista massimalista di saper co gliere « quanto di rivoluzionario vi era nel nuovo rapporto che le classi oppresse ve nivano ad impostare per la soddisfazione dei loro bisogni» (p. 131). Rispetto al ventennio fascista l’analisi si fa più sommaria e risente della carenza di una sistematizzazione storiografica del rap porto fascismo-mezzogiorno. D a approfon dire sembra infatti il giudizio che viene dato: « la stagnazione economica in agri coltura per la conservazione sociale ad un livello arretrato fu il compromesso poli tico sostanziale del fascismo » (p. 137), anche in rapporto ad alcune conseguenze che da esso scaturiscono « L a scelta del regime privilegiò la classe più vincolata all’immobilismo della struttura sociale. L a lotta contro la mafia fu infatti dura ed in transigente e portò in carcere centinaia di gabellotti, cioè gli agenti economici più dinamici ed eterogenei del capitalismo in sulare » (p 137). Circa l’ultimo trentennio, significativa 131 mente intitolato 1945-1975: i nuovi ter mini della questione meridionale, l’antolo gia illustra un insieme di aspetti e proble matiche acquisite dalla storiografia di que sto periodo (caratteristiche delle lotte con tadine nel secondo dopoguerra, ruolo del la Cassa per il mezzogiorno, politica dei poli di sviluppo, ecc.) evidenziando, quale giudizio conclusivo, che il sottosviluppo del sud non soltanto è ben lontano dall’es sere risolto, ma, anzi, viene aggravato dall’acutizzarsi delle contraddizioni capitali stiche degli anni settanta. Il processo di organizzazione e ricomposizione di classe dei ceti popolari meridionali può avanzare soltanto nella misura in cui esso si salda con le istanze operaie espresse su scala nazionale, in particolare con i contenuti emersi dal ciclo di lotte operaie del 196869 e con i nuovi equilibri politico-istitu zionali di questi anni settanta. L e conclu sioni a cui pervengono gli autori sono sor rette da alcune considerazioni: la fine del le « velleità riformatrici » in seguito alla ripresa sia della lotta di classe nel paese che della crisi economica del 1973 che ha comportato nel sud un drastico ridimen sionamento dell’intervento statale; la pos sibilità di rivolte popolari strumentalizza bili da forze reazionarie (v. Reggio Cala bria) anche in conseguenza dell’incapacità di direzione politica delle forze di sinistra; il ruolo significativo della classe operaia meridionale « È quello di una giovane clas se operaia che si va rafforzando e può di ventare momento di aggregazione fra tan te forze sociali oppresse » (p. 197). Gloria Chianese pasquale coppola, Geografia e mezzo giorno, Firenze, L a Nuova Italia, 1977, pp. 192, lire 2.500; c. caldo - F santalu cia , L a città meridionale, Firenze, L a Nuova Italia 1977, pp. 141, lire 2.500. Il rapporto tra indagine geografica e mez zogiorno viene analizzato dall’A. in base ad una metodologia che si richiama espli citamente alla geografia del sottosviluppo. L a tematica della funzionalità del sottosviluppo allo sviluppo capitalistico in un quadro che si estende su scala internazio nale costituisce la premessa per un ribal tamento della tradizionale impostazione dei problemi geografici « un termine, cioè, di geografia del sottosviluppo che richiede prospettive e strumenti interpretativi col legati ad una concezione e ad una stra 132 Rassegna bibliografica tegia sovranazionali del recupero delle di verse porzioni di spazio — e dei diversi gruppi umani — a vario titolo emargi nati » (p. 3). Vi è quindi un tentativo di esaminare la problematica dell’arretratezza del sud su perando il divario che viene di solito trac ciato tra problemi specificamente geogra fici — ed in quanto tali considerati « na turali » — e quelli economico-sociali at traverso una ricomposizione dei due pia ni di indagine sulla base di una metodolo gia che tenta di essere marxista; l’accen tuazione della matrice internazionale del le cause del sottosviluppo meridionale im plica accenti polemici verso l’elaborazio ne gramsciana « Il recupero di un’inter pretazione della problematica delle regio ni meridionali che si fondi sul metodo marxista, superando per necessità storica, la stessa posizione gramsciana, s’impone come un fatto irrinunziabile » (p. 15). Il tentativo viene condotto su due piani: — attraverso una rapida carrellata su come si sono andati evolvendo gli studi di geografia sul mezzogiorno, funzionale a dimostrare la correlazione — e la fre quente subalternità — dei diversi indiriz zi culturali verso la politica governativa, l’insistenza sulle cau se. « naturali » della miseria del sud, la prolungata influenza del positivismo, il rapporto tra geografia e politica colonialistica, la mancanza as soluta di impegno meridionalista da parte dei geografi durante il fascismo sono tutti elementi che risultano utili per una collo cazione storica di tali filoni di ricerca; — attraverso un’analisi puntuale, svilup pata sul piano economico — politico, di alcuni grossi problemi che hanno sempre fatto sentire la loro incidenza sul sud, qua li, ad esempio, l’assetto della rete idrica e la carenza di energia. L ’insufficiente azio ne per attuare l’imbrigliamento delle ac que, l’accaparramento da parte delle in dustrie create nel sud dell’acqua disponi bile (10.000 litri di acqua per raffinare una tonnellata di petrolio!), le conseguen ze della scelta governativa di privilegiare le termocentrali a nafta sono tutti ele menti che l’A . esamina per evidenziare i limiti storici della cosiddetta politica di sviluppo del mezzogiorno. Un tema particolarmente approfondito è il ruolo del tessuto urbano nella storia del mezzogiorno. Intanto l’istanza di un sud cittadino viene vista come il perno di più recenti indirizzi meridionali, sensibili agli orientamenti della scuola francese di geografia volontaria; è il caso della rivi sta napoletana «N o rd e su d » , che è stata convinta sostenitrice della politica gover nativa dei poli di sviluppo e delle conse guenti necessità di potenziamento dei centri urbani. Il rapporto tra strutture economi che e l’assetto delle città viene successi vamente ripreso nella rassegna antologi ca dai saggi di R . Manheim e di E. M an zi. L ’analisi della città meridionale costitui sce il tema di fondo del libro L a città meridionale di C. Caldo - F. Santalucia. Qui l’attenzione degli studiosi si indiriz za verso il tessuto urbano in quanto espressione più significativa della struttu ra economico-sociale del mezzogiorno a partire dagli anni sessanta, dopo il dra stico ridimensionamento dell’agricoltura e gli effetti delle ondate migratorie ed in quanto luogo privilegiato delle tensioni politiche delle popolazioni meridionali; non a caso le lotte nel sud hanno sempre più frequentemente un carattere cittadi no anche quando assumono l ’aspetto di rivolte « incontrollate ». Delle città nel mezzogiorno gli A. met tono in luce due elementi salienti: il carattere complesso e contraddittorio del rapporto centri urbani/provincia ed il ruo lo clientelare che esse svolgono nell’am bito del sistema politico tipicamente me ridionale. Il ruolo parassitario viene ana lizzato in tutte le sue implicazioni, sia rispetto all’abnorme sviluppo del terzia rio nei centri urbani meridionali sia in merito al rapporto città-campagna « le città non come centri di propulsione per la campagna [...] ma come centri paras siti del territorio circostante, ossia come centri che consumano ed attraggono mer ci, reddito e persone senza ricambiare » (p. 48), sia nell’individuazione della fun zione di centri di consumo che le città del sud svolgono in misura sempre cre scente rispetto alla produzione settentrio nale. Se attenta è l’indagine sul carattere pa rassitario della rete urbana meridionale, alcune imprecisioni e semplificazioni si possono notare nell’analisi della stratifi cazione sociale; lascia infatti perplessi il giudizio espresso sulla classe operaia del sud « I nuclei operai vengono costituiti su basi clientelari e spesso agiscono in una realtà degradata sia dal punto di vista materiale che da quello ideologico in as senza, cioè, di una qualsiasi forza allea ta » (p. 22). Rassegna bibliografica L a rassegna antologica presenta nume rosi brani assai agili e incisivi. Due tema tiche sembrano affrontate in maniera più dettagliata. In primo luogo i problemi ur banistici dei centri storici; la loro degra dazione nelle principali città del sud, da Bari a Palermo a Napoli, il conseguente processo di sfaldamento delle attività eco nomiche ivi esistenti (artigianto, lavoro a domicilio), la continua espulsione degli strati popolari che vi risiedono, l’avvio di processi di ristrutturazione con finalità speculativo-residenziali sono tutti temi am piamente trattati. In secondo luogo note vole spazio è dato alle lotte per la casa sviluppatesi nelle città, sia nelle realtà dove sono maggioritari gli strati sociali sottoproletari che in quelle dove più con sistente è la presenza di settori operai. Entrambi i saggi infine sono corredati da un’accurata bibliografia attenta anche alla produzione di riviste specifiche e con un ampio rilievo dei contributi stranieri, spe cialmente francesi. Gloria Chianese nino calice , P a r t i t i e r ic o s t r u z io n e n e l m e z z o g io r n o . L a B a s i l i c a t a n e l d o p o g u e r r a , Bari, De Donato, 1976, pp. 176, lire 2.000. Un primo grosso merito del volume è quello di uscire dai termini sterili del di battito tra impostazioni recriminatorie e giustificazioniste della storia del movimen to contadino meridionale del secondo do poguerra, attraverso l’intreccio tra anali si sociale e politica e l’indagine sulla que stione centrale e finora trascurata della formazione del nuovo blocco dominante nel mezzogiorno. Calice sottolinea anzi tutto un elemento in genere dimenticato: la continuità con la tradizione pre-fascista, da lui stesso studiata nel volume di due anni precedente a questo, L o t t e p o lit ic h e e s o c i a li in B a s il ic a t a . 1 8 9 8 -1 9 2 2 . Tale continuità è indicata sia per le classi su balterne, nelle rivolte del 1943 nelle zone del materano di forte organizzazione so cialista fin dagli inizi del secolo, sia per le classi dominanti, nel predominio ini ziale del personale politico nittiano. Que st’ultimo, che ha la sua figura più rap presentativa in Vito Reale, nominato da gli alleati sindaco di Potenza, garantisce la continuità dello stato nella misura in cui questa era strutturalmente legata al 133 consolidamento avvenuto in Basilicata du rante il fascismo della grande azienda la tifondista. Se già alla fine del 1944 il gruppo di Reale, che aveva attaccato vio lentemente il decreto Gullo proprio men tre si sviluppavano in Basilicata vaste oc cupazioni di terre, non è più adeguato a mediare il nuovo rapporto tra rendita fondiaria e stato che lo scontro di classe esige e che si tradurrà in un «uso diver so e contrattato in maniera più ravvici nata dell’intervento del capitale pubblico in agricoltura » (p. 48), il fatto importan te che si deduce è che la ricomposizione del blocco dominante al sud si avvia im mediatamente, mentre è in atto la disgre gazione di quello tradizionale, anche se i due processi potranno dirsi compiuti solo col congresso democristiano di Napoli del 1954. Calice non accenna a questi futuri sviluppi, ma evidenzia il passaggio della rappresentanza politica del blocco egemo ne lucano, dopo la breve fase liberale e demo-laburista, alla DC, che tra il 1946 e il 1948 si concentra sull’« occupazione » di tutti i gangli decisivi del potere, dai Consorzi agrari alle banche alla Camere di commercio. Si pone qui un grosso pro blema, che Calice non affronta: se e come l’assenteismo delle sinistre in que sto campo come in quello della « ridu zione amministrativa dei C LN » (p. 90), che sono al sud meri organi consultivi dei prefetti, si leghi al fenomeno (mai prima definito da uno storico comunista con tanta nettezza) di « vera e propria divari cazione fra movimento e aspettative del le masse e politica del partito » (p. 55). Ci sembra cioè che Calice non tragga le conclusioni implicite nella sua analisi, che da un lato coglie gli spunti di una dina mica di classe anziché appiattirli, come ad esempio aveva fatto Ragionieri nella S t o r i a d ’I t a l i a Einaudi, nella generica ed equivoca categoria di « disgregazione so ciale » del mezzogiorno, dall’altro ha il merito di sottolineare la valenza politica sia delle iscrizioni in massa dei conta dini alle Camere del lavoro, sia delle ri volte lucane della primavera-estate 1945. Questo tema della richiesta di p o t e r e da parte delle masse contadine è centrale — e non a caso Chiaromonte, nella pre fazione al volume, rimprovera Calice di averlo sottolineato —, ma non nel sen so frainteso per diversi motivi da Tarrow anni fa e oggi da Chiaromonte e Amen dola di abbattimento rivoluzionario del lo stato, ma di trasformazione di tutti gli 134 Rassegna bibliografica equilibri — contrattuali, fondiari, sala riali e amministrativi — su cui si basa va la tremenda oppressione dei contadini meridionali; la loro richiesta di rottura di quegli equilibri poneva un problema di potere politico. Ci sembra che in que sto tipo di analisi Calice si fermi in qual che modo a metà strada, anche se por tarla fino in fondo è un compito difficilis simo, che esigerebbe, tra l ’altro, un chia rimento e approfondimento, anche me diante l’uso di altre scienze sociali e di altri tipi di approccio, del termine « aspettative delle masse », affrontando an che la dimensione soggettiva del comples so intreccio che nelle lotte contadine si manifesta tra elementi tradizionali (il mes sianismo, ora magari applicato all’U nio ne Sovietica, l’antico diritto all’uso delle terre demaniali) e la nuova presa di co scienza. Un altro grosso merito del volume è quel lo di sottolineare, oltre alla radicalità del lo scontro di classe, anche la sua com plessità; per due fondamentali ordini di ragioni; 1) la struttura sociale del capi talismo rurale monoculturale fa sì che, grazie all’acquisto di terra da parte del ceto medio dei paesi, il latifondo trovi « un baluardo ideologico e politico di no tevole resistenza nella estesa fascia di una miriade di coltivatori diretti» (p. 110); 2) nel mezzogiorno gli effetti dell’inflazione continuano a manifestarsi, e anzi si ag gravano, dopo la stretta deflazionistica del 1947, con il contemporaneo aumento della disoccupazione e della circolazione mone taria, che si triplica in Basilicata tra il 1948 e il 1949; questo fa sì che si creino « innaturali alleanze tra contadini anche poveri, grossi proprietari, affittuari, spe culatori » (p. 118) prima contro il decre to Gullo e gli ammassi poi con il voto alla DC del 18 aprile. In questa situazione, dopo il 1947, mentre le sinistre devono « registrare e gestire la sconfìtta sul ter reno delle riforme, dei rapporti di classe e di potere » (p. 123) — e anche un’affer mazione di questo tipo è del tutto inso lita nella storiografìa del PCI — , la DC di Emilio Colombo crea il suo dominio in Basilicata sostituendo all’eversione del latifondo la ripresa della politica di boni fica con l’Ente per lo sviluppo dell’irriga zione in Puglia e Lucania e creando così una salda alleanza sociale con la specula zione nei settori dei lavori pubblici e del le industrie boschive: esempio emblema tico di un sistema di potere che, servendo si delle leve dello stato per stabilire le gami di masse, « aderiva in maniera pro fonda all’immutato tessuto sociale ed eco nomico della regione » (p. 134). Con que sta articolazione di analisi Calice fornisce un contributo di grosso rilievo non solo alla storia delle origini del potere democristiano, ma anche a quella delle dinami che sociali e politiche che attutirono pre ventivamente le reazioni alla rottura del la tradizionale alleanza tra stato e grossi agrari, che si avrà con le leggi di riforma e consentirono in generale un passaggio graduale e in certa misura indolore dal vecchio al nuovo tipo di blocco dominan te nel mezzogiorno. Anna Rossi-Doria Francesco renda, I l m o v im e n t o c o n t a d in o in S ic ilia e l a fin e d e l b l o c c o a g r a r i o n e l m e z z o g io r n o , Bari, De Donato, 1976, pp. 120, lire 1.800. Renda, studioso delle lotte agrarie sicilia ne ottocentesche, dai moti del 1821 ai Fasci siciliani, affronta in questo volume l’esame di quelle del secondo dopoguerra, di cui egli fu anche protagonista, cer cando anzitutto di definire il nesso tra il movimento contadino meridionale nel suo complesso e quello siciliano. Quest’ul timo deriverebbe i suoi caratteri specifici dalle modalità particolari della caduta del fascismo, dal separatismo e dall’autono mismo; Renda interpreta quest’ultimo co me risposta tardiva delle forze antifasciste alle esigenze poste dal separatismo, in cui una forte spinta democratica sarebbe sta ta egemonizzata dai grandi proprietari e dal vecchio personale politico liberale di retto da Finocchiaro Aprile. Tale interpre tazione non è però ancora documentata: dopo il saggio di Giarrizzo nell’« Archivio storico per la Sicilia orientale » del 1970, mancano studi adeguati sul separatismo per cui non sono stati ancora chiariti, ad esempio, né il passaggio dei grandi agrari da quello alla DC tra il 1945 e il 1946, né la consistenza della sinistra separatista di Varvaro e Canepa. Allo stato attuale del le conoscenze, pertanto, si può legittimamente dubitare dell’ipotesi non di una ade sione degli strati popolari al separatismo, che indubbiamente vi fu, ma del fatto che non si trattasse di una loro strumentaliz zazione da parte delle vecchie classi do minanti. È anche discutibile l’altra affer mazione di Renda relativa ai caratteri di Rassegna bibliografica specifica tradizione siciliana del fenome no, comune invece a tutto il movimento contadino meridionale, che vede impegna ti nelle lotte solo i contadini poveri, sepa rati sia dai ceti urbani che dai coltivatori diretti e dalle altre classi rurali interme die. Nella spiegazione, a livello sia strut turale che politico, di questo fenomeno consiste anzi uno dei nodi centrali che la storia del movimento contadino meridio nale nel secondo dopoguerra dovrà affron tare. Ci sembra invece del tutto condivisibile la periodizzazione adottata da Renda, che, co me Rosario Villari al convegno su T o g li a t ti e il m e z z o g io r n o , proprio perché ripren de il tema della crisi del blocco agrario, non pone più l’acme delle lotte agrarie meridionali nel 1949, come da molti anni facevano politici e storici del PCI, ma an zi sottolinea come dopo il 1947 il movi mento contadino sia « in posizione di di fesa » (p. 21). Il fatto che questa impo stazione, connessa alla ricerca delle ori gini della crisi del blocco agrario già in epoca fascista, resti nel dibattito degli sto rici del PCI isolata e contestata ha, ci sembra, una chiara motivazione politica ancora apologetica, malgrado il processo autocritico avviato da tempo su quegli av venimenti, perché implica un oggettivo ri dimensionamento del ruolo di iniziativa po litica svolto dal PCI tra i contadini meri dionali nel periodo cruciale 1944-1949. Va detto peraltro che la retrodatazione del la crisi del blocco agrario, proposta da Villari sulla traccia di considerazioni svol te da Guido Dorso nel 1944, e ripresa qui da Renda, che pone la rottura tra stato e agrari siciliani nel fallimento della boni fica integrale fascista e nell’opposizione al la legge di colonizzazione del latifondo si ciliano del 1940, resta per ora allo stadio di ipotesi di ricerca. Giustamente Renda articola un giudizio positivo sui decreti Gullo come fattore di organizzazione contadina, e pone l’accen to anche su quelli meno noti del giugno e luglio 1944 e sui loro effetti sociali, ma, malgrado l’ammissione del carattere offen sivo del ciclo di lotte contadine che va dalla fine del fascismo alla svolta del 1947, esclude rigidamente ogni forma di spon taneismo del movimento contadino, e ri vendica esclusivamente il valore dell’orga nizzazione ribaltando, ma mantenendo in tatta una contrapposizione ideologica che ha finora impedito una interpretazione cor retta delle lotte contadine meridionali. Oc- 135 corre infatti, secondo noi, sforzarsi di co gliere l’intreccio complesso tra spontanei tà e organizzazione nell’ambito di una analisi sociale che veda le classi rurali non come mera espressione dei rapporti di pro duzione, ma anche dal punto di vista an tropologico e soggettivo. L a generale ca renza della storiografia di sinistra italiana in questo campo, acutamente sottolineata da Romanelli in S t o r i a p o lit ic a e s t o r ia s o c i a le d e llT t a lia c o n t e m p o r a n e a : p r o b le m i a p e r t i (« Quaderni storici », 1977, n. 34), ha pesato particolarmente nello stu dio delle lotte contadine. È anche per que sto che il dibattito su di esse non è riusci to finora ad uscire dalla sterile diatriba tra recriminazione e giustificazionismo: peccato in cui cade anche Renda quando afferma, ad esempio, che l’obiettivo della riforma agraria nel 1944-45 sarebbe ap parso massimalistico agli stessi contadini. Molto utili sono gli accenni all’Unione siciliana delle cooperative agricole (USCA), che fu l’unico tentativo di integrare il de creto Gullo sulle terre con l’assistenza fi nanziaria, tecnica e legale che alle coope rative meridionali sorte in base a quel de creto mancò completamente: non a caso quando a partire dal 1947 « alle canne mozze della lupara fu sostituita o aggiun ta la carta bollata » (p. 70), con la revo ca delle concessioni di terra alle coopera tive, anche l’U SCA fu, con una monta tura scandalistica, smantellata. Tuttavia, alle conclusioni del volume va mosso un rilievo di fondo: Renda descrive esatta mente come il disegno democristiano di divisione dei contadini riuscì a passare attraverso la legge sulla formazione della piccola proprietà contadina e la legge si ciliana di riforma agraria tra loro legate nel senso che, posponendo l’esproprio al la vendita, si rastrellarono ai contadini si ciliani circa 100 miliardi, investiti dagli agrari nell’edilizia urbana, si fecero anda re alle stelle i prezzi della terra e alla fine si fecero selezionare dagli agrari le terre da espropriare, per cui del 40-45 per cento di proprietà latifondistica che in comples so fu tolto ai vecchi proprietari, le terre buone andarono ai contadini medi e ric chi e alla borghesia professionale di paese e le terre peggiori ai contadini poveri e braccianti. Eppure, dopo aver descritte questo pro cesso, Renda dichiara che non si deve par lare di sconfitta del movimento contadino meridionale e quando poco più avanti è costretto ad ammetterla, definendola « ri 136 Rassegna bibliografica flusso », la motiva con il disinteresse per i problemi dell’agricoltura dovuto al passag gio, descritto come oggettivo e neutrale, dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale-agricolo. Ci sembra in vece vada ribadito che quella sconfitta ci fu e che soprattutto fu uno dei prezzi che, confermando ancora una volta la funzio nalità dell’intreccio tra sviluppo e arretra tezza, la ricomposizione capitalistica ri chiedeva, puntando a un modello i cui costi saranno pagati dall’agricoltura, dal sud e dai disoccupati, le tre componenti appunto delle lotte contadine. Anna Rossi-Doria A A.V V ., L a R e p u b b l ic a r o s s a d i C a u lo n ia . U n a r iv o lu z io n e t r a d i t a ? , Reggio Calabria, Casa del libro, 1977, pp. 151, lire 2.500. Questo volume riesaminerà in un vivace dibattito la storia di un paese che fu, dal 5 al 9 marzo 1945, centro di una « spon tanea » lotta contadina contro il principe ed i feudatari locali. Gli studiosi sembrano così aver scoperto nella comprensione dei motivi che porta rono alla «rivolu zione» del marzo 1945 e nella nascita di una tradizione di lotte sociali e politiche in Caulonia una chiave di volta per una analisi socio-politica del la realtà calabrese del secondo dopoguerra, dei modi attraverso i quali la Democrazia cristiana avrebbe ereditato e fatto propria la tradizione del regime fascista soffocan do le speranze, le rivendicazioni, le lotte contadine iniziate fin dal 1943. Dopo gli studi di Ilario Ammendolia e Nicola Frammartino { L a r e p u b b lic a r o s s a d i C a u lo n ia , Reggio Calabria, 1975), Mario Alcaro e Amelia Paparazzo { L o t t e c o n t a d in e in C a la b r i a , 1 9 4 3 -1 9 5 0 , Cosenza, 1976) ed E u genio Musolino ( Q u a r a n t ’a n n i d i lo t t e in C a l a b r i a , Milano, 1977), di particolare in teresse compare ora questo libretto in cui, a fianco di uno scritto ad effetto — pur con alcune stimolanti osservazioni — di Pasquino Crupi ( L ’e le g a n t e d o p p ie z z a d e l P C I , pp. 141-151), compaiono le testimo nianze dei tre principali protagonisti: E u genio Musolino, già segretario della fede razione del PCI ( U n a r iv o lt a e s c a m is a d a , pp. 121-140), Vincenzo Misèfari, già se gretario della C G IL provinciale ( N o n m o b ilit a m m o le m a s s e p o p o la r i, pp. 95-119), ma, soprattutto, quella del « capo della rivoluzione » (Sharo Gambino, I n t e r v is t a a C a v a l l a r o , pp. 7-93), polemica, vivacissi ma, ancora pervasa dall’immagine utopi ca del poeta che diventa capopopolo e gui da le « masse diseredate » alla rivolta. L a situazione di latente ed endemica ri volta nella zona circostante Caulonia (si pensi alle occupazioni di terre del 191921; al fatto che gli agrari locali avevano usurpato i tre quarti delle terre demania li; ai rigurgiti emersi già nel 1943 della violenza squadrista mascherata sotto nuo ve candide vesti, nel tentativo di affer mare la tradizionale corruzione e la dila tazione del vecchio paternalismo) trovò in Pasquale Cavallaro e nei suoi figli dei ca pi, politici « militari », innati e, con la «on orata so cietà», un collegamento che lo stesso Cavallaro ammette come legit timo e «n o rm a le », senza, purtroppo, ap profondire i termini. Diverse le interpretazioni e le valutazioni dei tre protagonisti, sia per quanto con cerne l’atteggiamento del PC I (più preoc cupato della diffìcile situazione nazionale ed internazionale in quella primavera 1945 che non della isolata « rivoluzione » di Caulonia), che in relazione al comporta mento del prefetto, il socialista Priolo, che sembrò volutamente « gonfiare » gli avve nimenti e provocare l’intervento di un co spicuo contingente di forze armate. Se la sconfittta militare non poteva mancare (ma i ponti stradali e ferroviari erano minati, mentre « alcune migliaia di contadini ar mati erano pronti a difendere la repub blica [...] »), e lo stesso Cavallaro riuscì ad evitare lo scontro consegnandosi alla tenenza dei regi carabinieri di Roccella Io nica, quella politica fu solo temporanea. Poco dopo ricominciavano le lotte per la terra che, tuttavia, innestandosi in una si tuazione politica che aveva saputo raffor zare, sotto bandiere solo apparentemente nuove, lo strapotere economico dei vecchi proprietari, non riuscirono a raggiungere i loro obiettivi. Luciano Casali