Pittura di luce a Brera

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Pittura di luce a Brera
Pittura di luce a Brera
La definizione “pittura di luce” è stata coniata dalla
critica in anni recenti per descrivere una breve ma
significativa stagione dell'arte centro italiana di
metà Quattrocento, legata in particolare a
Domenico Veneziano. In essa il rigore prospettico
si unisce allo studio dei percorsi luminosi, i toni
cromatici si schiariscono e le forme, rese attraverso
volumi sintetici, misurano con la loro concreta
presenza il contesto spaziale in cui sono inserite.
La fucina di queste esperienze è Firenze, dove
giungono artisti da ogni parte della Penisola,
attratti dalle possibilità di lavoro accanto a maestri
come Beato Angelico, Domenico Veneziano,
Filippo Lippi. Anche Giovanni di Francesco del
Cervelliera (il “Maestro di Pratovecchio”) si forma sui loro esempi, e la Madonna col
Bambino appena acquistata dalla Pinacoteca di Brera ne è testimonianza. Questo percorso si
svolge dunque fra dipinti braidensi che, come la tavola del Maestro di Pratovecchio, hanno (sia
pure in modo e misura diversi) comuni riferimenti alla stagione fiorentina della “pittura di luce”.
I documenti ci informano della presenza a Firenze, dal 1443, del
pittore camerinese Giovanni Angelo d’Antonio. Nel suo
polittico (7° decennio XV sec., Sala XXI) le figure umane,
costruite attraverso volumi geometrizzanti, sono investite da una
luce forte e diffusa. Sebbene le figure appaiano come compresse
nello spazio limitato delle edicole, l’impostazione prospettica è
studiata, in particolare nel trono scorciato della Vergine o, ad
esempio, nel galero di San Gerolamo (estrema destra nel registro
superiore): i due fiocchi scarlatti che pendono al di qua della
mensola proiettano la propria ombra sul davanzale, misurando
così la profondità dello spazio. L'opera è di circa due decenni
successiva al soggiorno fiorentino del suo
autore, ma porta ancora evidenti i segni di
quell’esperienza soprattutto nell’attenzione
ai percorsi della luce e nella limpidezza dei
toni cromatici. Proprio un incomprensibile
scarto in questo rigore (nel registro
superiore la luce viene da sinistra mentre in quello inferiore viene da destra)
ha fatto notare alla critica che l’opera nasce dall’assemblaggio novecentesco
di due politici differenti, ed ha permesso dunque di ricostruirne la storia.
Accanto ad essa vediamo una tavola raffigurante San Pietro (6° decennio XV
sec., Sala XXI), attribuita a Bartolomeo di Giovanni Corradini detto
Fra Carnevale.
L’artista, di nascita e formazione urbinate, è a Firenze nel 1445 come
collaboratore di Filippo Lippi. Il frutto di tale frequentazione si scorge nel
panneggio e nella barba del santo, resi con il tratto guizzante ed energico
proprio del maestro toscano. La luce viene dall’alto e scivola sulle sobrie
cornici a finto marmo dello sfondo, segnando in modo impietoso le fragilità
fisiche del santo. Anche se si tratta di un singolo pannello, dalla cura con cui il
pittore segna la disposizione spaziale dei piedi possiamo intuire l’attenzione
che doveva avere riservato all’organizzazione prospettica complessiva,
sull’esempio dell’ultima attività fiorentina di Domenico Veneziano
In questa breve rassegna l’unico pittore fiorentino di nascita è Benozzo Gozzoli, allievo e stretto
collaboratore di Beato Angelico.
Nella tavoletta San Domenico risuscita Napoleone
Orsini ucciso da un cavallo (7° decennio XV sec.,
prossimamente nella Sala XXI), proveniente da
una predella smembrata, il pittore regala un
racconto di estrema freschezza narrativa, dai colori
molto vivaci. La fonte di luce proviene da sinistra e
invade tutto l’ambiente, esaltandosi nell'intenso
chiarore delle architetture, della tunica del santo,
del manto del cavallo. La sua funzione unificatrice
è resa ancor più esplicita dall’ambientazione
esterna della scena.
Un’atmosfera più cupa pervade il Cristo in pietà tra la Vergine e San Giovanni (7° decennio XV
sec., prossimamente nella Sala XXI), opera ancora di Benozzo e parte anch'essa di una predella
andata perduta. Le figure, disposte simmetricamente, si stagliano su un paesaggio aperto, che si
perde all’orizzonte. Il Cristo è perno della scena: attraverso il gesto delle braccia, distese verso i
limiti del sarcofago, si pone al centro di una studiata piramide spaziale.
La celebre Pala di Montefeltro (Sala XXIV) di Piero
della Francesca conclude questo itinerario tra artisti
toccati dalla “pittura di luce”. Piero è testimoniato a
Firenze attorno al 1439, coinvolto proprio con Domenico
Veneziano nella realizzazione di un ciclo di affreschi in
Sant'Egidio ora perduti (le sue opere più antiche ci
mostrano l’importanza che ebbe per lui questa
esperienza). Nella tavola di Brera, che è uno dei suoi
risultati più maturi, l’artista utilizza l’olio assieme alla
tempera, restituendo magistralmente le morbide
variazioni della luce sui corpi e velando di riflessi sottili
anche le ombre. L'effetto complessivo è monumentale e
verosimile. Le figure si dispongono in uno spazio sobrio e
sontuoso allo stesso tempo, la cui struttura appare facile
solo ad un osservatore superficiale: ad uno sguardo più
attento, infatti, gli interrogativi sulle caratteristiche
spaziali dell'ambiente si moltiplicano.
L’uovo infine, che pende dalla conchiglia nell’abside,
arricchisce l’opera di rimandi simbolici e ulteriori,
facendone un meditato invito alla riflessione.
Testi di Filippo Ciavarella con la supervisione dei Servizi
Educativi della Pinacoteca di Brera