Gianni Riotta, L`Adorno del Giambellino
Transcript
Gianni Riotta, L`Adorno del Giambellino
Gianni Riotta, L’Adorno del Giambellino Questo monologo è una summa senza “imprimatur” del pensiero di Giorgio Gaberscik, detto Gaber, attore e cantante milanese. Celebre per le sue canzoni degli anni ‘60 (Non arrossire, La ballata del Cerutti, Goganga, La Balilla, Torpedo Blu) alla fine di quel decennio, Gaber uscì dal mondo della musica leggera e preparò una serie di spettacoli teatrali. Nel ‘70 Il signor G., antologia delle frustrazioni di un borghese piccolo piccolo, tre anni dopo lo spettacolo dal titolo programmatico “Far finta di essere sani”, critica della normalità e dei suoi stereotipi. In collaborazione per i testi con il pittore Sandro Luporini, Gaber porta poi sul palcoscenico Anche per oggi non si vola (1974) con la direzione musicale di Giorgio Casellato. Cominciano le frecciate nel proprio campo, quello del Movimento, che diventano autoanalisi aperta in Libertà obbligatoria del ‘76, la sfottitura degli Attila della Statale di Milano diventati poi tranquilli consiglieri regionali. Critiche ancora più aspre arrivano per l’ultimo spettacolo Polli di allevamento, del 1978. Gaber schizza tic e tabù dei suoi compagni e molti non glielo perdonano battezzandolo “qualunquista e intimista”. Lontano per dieci anni dagli schermi televisivi Gaber torna nelle prossime settimane sulla Rete Uno con un montaggio dei suoi spettacoli. Adesso sta lavorando – con Luporini – a una nuova lettura dell’Italia ‘80. Lo spettacolo si chiamerà Io se fossi Dio. Ci sono dentro le Br, Moro, gli amori difficili, le storture e i condizionamenti del sistema e della personalità. Oggi Gaber la pensa così. Milano. “Sì, infatti, torno in televisione, dopo dieci anni. È un montaggio dei miei spettacoli, a partire dal Dialogo fra un impegnato e un non so in avanti. Sono due recital registrati dalla Tv, con molta discrezione al Teatro Lirico. C’eravamo fermati, io e Sandro Luporini che è il mio partner per i testi, anzi molto di più, dopo lo spettacolo Polli d’allevamento, del 1978. Abbiamo cercato a lungo l’appuntamento con il “discorso generale”, quella “cosa” che è indispensabile per montare uno spettacolo, altrimenti fai un disco, ma non uno spettacolo. Adesso forse questo appuntamento è scattato, c’è un brano molto bello, te lo faccio sentire. Si chiama Io se fossi Dio: potrebbe essere il risultato della nostra fatica”. “… io se fossi Dio non sarei mica così ingenuo da farmi fregare dal modi furbetti della gente, non sarei mica un dilettante... io se fossi Dio maledirei davvero i giornalisti e specialmente tutti che certamente non son brave persone e dove colpisci colpisci bene, compagni giornalisti avete troppa sete e non sapete approfittare delle libertà che avete, avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate e In cambio pretendete la libertà di scrivere e di fotografare...”. “Questi versi, e tutto Io se fossi Dio, è nato ascoltando quello che chiamiamo il brusio che esce dalla gente. Tu vai in giro, lo raccogli, filtri. Frequenti le esperienze degli altri, gente con cui stabilisci un’intesa, magari per un momento solo. Non è che posi a sociologo, ma cerco la gente che cerca di vivere in modo non imbecille. Così noti le tendenze dei piccoli gruppi, trascuri altri segnali che ti sembrano sgradevoli, e registri il brusio”. “Certo noi polemizziamo soprattutto con i nostri simili. Tralasciamo, o facciamo appena intuire, il disprezzo per il mondo che non frequentiamo e non amiamo. Sandro Luporini è un pittore che conosco da anni. Lontani d’inverno lavoriamo insieme solo d’estate. I nostri spettacoli sono tutti nati dopo la separazione invernale, io qui e lui a Viareggio. Parliamo e parliamo e cerchiamo l’appuntamento, l’elemento che unisce le nostre osservazioni e traduce il brusio in spettacolo. Se non lo troviamo diciamo pazienza. Oggi Io se fossi Dio potrebbe essere la risposta alle cose che ci sentiamo pesare sopra. E dico pesare, una parola sgradevole. Una volta – proprio sull’«Espresso» – Nico Orengo ha detto che io sono il cantante del riflusso. Macché. Certo, io non credo alla talpa che scava cieca e fiduciosa. Credo però alla “razza”, quella del ‘68-’69. Credo che non sia perduta, o forse solo in parte; è solo un po’ ferma”. “E se lo dico io che alla “razza” sessantottesca mi sono unito tardivamente puoi crederci. Fino al ‘70, quando ho fatto per il Piccolo Teatro Il signor G., io sono stato solo un cantautore. Eravamo tutti degli sfigati all’inizio, negli anni ‘60. Un periodo bellissimo e anche orrendo: a ventiquattro anni la casa discografica mi fa: “grazie tante, sei troppo vecchio per noi. Ed erano delusioni atroci. Suonavamo la sera, qui a Milano, al Santa Tecla; eravamo un gruppo legato dal discografico Nanni Ricordi, c’erano Endrigo, Paoli, Bindi, Jannacci. Solo Tenco era comunista, capiva la politica: poi un’ansia oscura lo attrasse a Roma, all’angoscia. Cambiava sempre nome, nelle prime incisioni, come se temesse qualcosa. Vivevamo tutti insieme, era un gruppo, era bello. Oggi fanno la nostra apologia in tanti saggi. Allora eravamo sempre battuti a Sanremo, non riuscivamo a percepire che, invece, tanti ragazzi ci seguivano, e ci sentivamo isolati. A Roma ci fronteggiavano i “modugnini”: Meccia, Vianello, Fidenco. Poi il ‘63, la pallottola di Paoli al cuore, Sapore di sale e fine del gruppo”. “Con la fine degli anni Sessanta arriva il Movimento e io esco da questo mondo. Basta giornalisti, basta fotografie, basta televisione. Solo scrivere e cantare. Gli anni della speranza li ho attraversati tutti fino alle cose grosse che ci sono cadute addosso. Oggi c’è appiattimento, certo, ma non è riflusso. La razza del ‘68 non è estinta, forse s’è addormentata, o forse, ecco, s’è solo presa una piccola pausa. È giusto, no?” […] “Il teatro è, tutto sommato, una realtà elitaria. E le duemila persone che lo affollano mentre registro gli spettacoli magari non sono neppure un campione completo. Perché Milano oggi, nella sua verità, è una città vuota, noiosa. C’è la Palazzina Liberty di Fo, quel che resta delle radio, e poco altro. Perciò mi annoio. E me ne sono andato in campagna. Dove vivo da isolato, e lo sono, in un certo senso. Ascolto i cantautori di oggi, ma non riesco a vedere che cosa abbiamo in comune. Io e Luporini scriviamo canzoni da teatro: è il loro pregio e il loro confine. Sono spigolose, pungono non ti lasciano nell’abbandono del relax. Non sappiamo più fare canzoni che, a forza di ascoltarle, ti piacciano”. “De Gregori, Dalla e Guccini sono validi, certo, e li ascolto per capire anche il loro pezzo di “brusio”, ma con me non c’è possibilità di confronto, non nel meglio, non nel peggio. Io, anche adesso, voglio fare uno spettacolo e non solo un disco. Anche in sala di registrazione mi annoio. Gli altri invece fanno cose da matti, registrano in Inghilterra, in America, prima i violini, poi i soli contrabbassi. Se vuoi proprio affibbiarmi dei riferimenti parla di Fo e di Beckett. E di Jacques Brel: da lui ho imparato molto”. “Adesso, ti ho detto, guardo e ascolto tutti. Seguo anche il nuovo cinema tedesco. Abbiamo dei temi comuni, la critica alla coppia di Fassbinder e gli americani che ci hanno colonizzato l’inconscio di Wim Wenders. Certe volte pensando che li ho perfino anticipati mi chiedo: dove sto? Chi si occupa di me? La politica o la musica leggera, «Sorrisi e Canzoni» o «L’Espresso»? Nell’incertezza magari nessuno dei due. Chi se n’è accorto quando abbiamo infilato l’Adorno di Minima Moralia dentro Libertà obbligatoria? La canzone Cancro, l’inno “agli assassini di dentro”, quelli che ognuno si porta chiusi in sé, viene da lì o no? “Ma queste etichette non hanno risparmiato nulla a me e Luporini. Nel ‘73 il mio spettacolo Far finta di essere sani ha espresso l’identificazione più profonda fra noi e il Movimento: erano gli anni in cui dovevi fare i conti con la famiglia, la sua crisi, la crisi del lavoro, del ruolo. Ma quando, con Polli d’allevamento nel ‘78, arrivo a criticare anche chi sta dentro il Movimento, arrivano i musi lunghi. Il Pci invece è coerente. M’ha sempre detto cose durissime”. “Nonostante le critiche io non sono né un riflussista né un apologeta della “cultura delle collanine”. Con i giovani del ‘77 sono molto incazzato, non ho creduto in quel movimento. Sai in che cosa ho creduto invece? Nell’utopia della politica come indagine nella realtà, giù, fino in fondo. Quando questo cade resta solo il gioco politico, ed è un’altra cosa. È sopra la tua testa. lo prima ero io, poi sono diventato noi, oggi sono tornato io, ma bada: la razza c’è”. “La intuisci quando leggi che in tanti rifiutano i funerali di Stato dopo la strage di Bologna. Se sai ascoltare bene senti dei piccoli rumori, degli scricchiolii. Che sono importanti, anche se non mi schiodano da un doloroso pessimismo. Sono stati dieci anni di dolore. La gente, tu e io, abbiamo creduto in cose che poi si sono sgretolate. Non ti parlo di prudenza ma dobbiamo avere la coscienza delle possibilità di oggi”. “La razza è costretta a riflettere, schiacciata fra il coscienzone nazionale dei partiti e la violenza delle Br. L’opposizione è scomoda, eppure c’è. Che cosa diceva Pasolini, ricordi? C’è una generazione che vive l’impossibilità della propria rivoluzione”. “E l’impossibilità anche di un qualunque “aggiustamento”. Guarda alla famiglia, a proposito proprio di Fassbinder e dei suoi film tipo Il matrimonio di Maria Braun. Io non ho mai voluto proporre delle ricette, ma è evidente che la gente non sa proprio come viverle. Del resto non hai nemmeno le case, sono le follie dell’equo canone e delle speculazioni. Noi abbiamo molto ironizzato con le ricette dei rapporti, con le diagnosi e le farmacopee. Ma facciamo il tifo (e forte) per la fine della famiglia-istituzione. “Un’altra cosa è però la coppia che vive insieme perché ci crede. Nello spettacolo che abbiamo cominciato a preparare dopo le registrazioni per la Tv, questa estate, c’è un brano che si chiama Il dilemma. Eccolo: “In una spiaggia poco serena camminavano un uomo e una donna/e su di loro la vasta ombra di un dilemma./L’uomo era forse più audace più stupido e conquistatore/la donna aveva perdonato non senza dolore/il dilemma era quello di sempre, un dilemma elementare/se aveva senso o no il loro amore./Il dilemma rappresenta l’equilibrio delle forze in campo/il loro amore moriva come quello di tutti/forse il ricordo di quel maggio gli insegnò anche nel fallire/il senso del rigore e il culto del coraggio/e rifiutarono decisamente la nostra idea di libertà in amore/a questa scelta non si seppero adattare/non so se dire a questa nostra scelta o a questa nuova sorte/so soltanto che si diedero la morte./Il loro amore moriva come quello di tutti/non per una cosa astratta come la famiglia! loro scelsero la morte per una cosa vera come la famiglia./Io ci vorrei vedere più chiaro, rivisitare il loro percorso/le coraggiose battaglie che avevano vinto o perso... “Vedi, qui sottolineiamo un concetto di fedeltà che è importante. La fedeltà a se stessi, in primo luogo, contro il brividino vanitosetto della nuova conquista, l’istinto dei ragazzi di buona famiglia che mettono l’amore in gioco ogni due giorni, in una trasgressione giudicata benevolmente dal sistema sociale. Una cosa che ti fa incazzare. Quasi meglio l’autorepressione, ascoltarsi dentro, non dico viva la famiglia adesso, dico che contesto questo stile americano e narcisista che sta allagando i rapporti d’amore. Ti dico: ogni carta va rimessa in gioco. La realtà non è bina, famiglia o narcisismo, non è sì/no come vorrebbero i radicali che la mettono sempre così. Per me il referendum non è una cosa democratica. È una cosa ridicola anche la coppia aperta: la mediocrità generale ti uccide”. “È questa medietà monotona che mi fa temere i grandi incontri di massa tipo Massenzio romano. Non amo queste fotografie di massa, un po’ troppo realistiche, senza nessun progetto. Del resto Roma stessa mi spaventa. Una volta dovevo restare per due ore in città, dopo un incontro, non so più perché. Mi infilai in un cinema, da solo. Poco dopo un bisbiglio alle spalle. “Gaber, Gaber”. Mi volto: era Jannacci, anche lui milanese, solo e spaventato, a Roma. Roma è una città che non cambia mai, questi anni non l’hanno mutata, la Rai è la Rai, il cinema è il cinema. E le cose tipo Massenzio non rischiano di essere alla fine tipo i ritrovi annuali degli alpini? “Comunque qui a Milano è quasi poggio. C’è silenzio, paura, solitudine ed eroina. Per questo io sto in campagna. Sono un privilegiato, certo. Ma solo perché ho quello che milioni di persone vorrebbero e che viene loro rubato, il piacere del proprio lavoro, l’amore per le cose che si fanno. Questa è la più importante libertà. Non ci credo alla libertà tipo fauno danzante per scoscesi prati verdi. Ognuno dovrebbe cercare un ambito dove essere libero. E il sistema gli propina invece l’hobby, dopo avergli regalato un lavoro di merda. Bisognerebbe investire il proprio tempo libero come un lavoro, seriamente, che cazzo vuol dire accettare di essere sfatti dal lavoro. La divisione lavoro-vita è atroce. La gente ha voglia di crescere, arricchirsi, spostare il proprio corpo”. “Tutto questo è difficile, oggi più di ieri. Più per mia figlia Dalia che per me alla sua età. Per lei, come per i ragazzi suoi coetanei, in termini di felicità, la vita può essere addirittura meno felice. E infatti i ragazzi si rivoltano di nuovo, perfino in Svizzera. “Questo è il punto radicale del ‘68, quello di cui si parlerà per altri cento anni. Non ci si batteva allora per avere la propria fettina della gran torta di merda. Si esprimeva il desiderio di un modo di vita diverso da quello delle precedenti generazioni. Certo, c’erano un cumulo di velleità, c’era il tipo che diceva “Potere operaio”, ma cazzo proprio questo era importante: quello era stufo marcio di essere stronzo come suo padre. “Oggi siamo vaccinati per certe cose. La gente non vuole più mettere la propria vita al servizio dello sviluppo. Tu senti dire ai politici: creare lavoro per i disoccupati. Disoccupato dicono, e pensi a Ladri di biciclette. È diverso, cazzo, è “non voglia di questa occupazione”. La maggior parte dei lavori è nociva, per chi la fa e per chi deve usarne i prodotti. Come puoi desiderarlo un lavoro nocivo?” “Lo sviluppo porterà Città del Messico a 45 milioni di abitanti, nel 2000. Come ci vivranno quegli uomini? Male, puoi star certo. E come combattono tutto ciò le forze antagoniste? Con l’arma del moralismo. Che, invece, bada, è la forza dell’avversario, della Dc qui da noi. Che è moralista, amorale e immorale. E ti fa ballare fra le tre carte. Se allo sviluppo non contrapponi una carta giusta... se, per restare alla musica, rispondi ai Bee Gees con i canti delle mondine, sei fottuto, hai perso, viva i Bee Gees. Che infatti li trovi pure alle feste dell’”Unità” bilanciati dal liscio”. “Tutto questo è un gran casino. E noi ce ne siamo stati zitti un anno e mezzo. Siamo confusi. Ognuno ha un amico in carcere e non sa nemmeno perché. Anzi non se ne parla nemmeno più. “In questo paese, vedi, la gente è diversa. È tutto chiuso, dicono. Io sono stufo, sai, stufo. Non credo che rinuncerò alla fatica di essere preso in mezzo, di essere messo in mezzo. Con questo “Io se fossi Dio” noi ritroveremo il teatro, la gente. Bada, non ci sono fraintendimenti, neppure quando critichiamo Moro. Oggi se parli male delle Br entri automaticamente nel coscienzone nazionale. Se no sei un Br o un loro amico. Questo è lo spazio duro dove ti devi muovere. Ci voleva una cosa fuori dallo schema, dalla canzoncina. Ci lavoreremo ancora un po’ su, credo”.