Documento allegato - Turin DAMS Review

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Il senso del nulla. Ritualità e retorica della ripetizione in Dillinger è morto e La
grande bouffe
Gabriele Rigola
Il saggio propone un percorso nel cinema di Marco Ferreri, in particolare sulle pellicole
Dillinger è morto (1969) e La grande abbuffata (1973), per evidenziare i caratteri rituali e di
ripetizione retorica racchiusi nell’organizzazione del racconto e nella scrittura filmica.
Ripetizione, reificazione, antiracconto
L’intera filmografia di Marco Ferreri è difficilmente classificabile in orientamenti comuni, o
generi; ogni sua opera sfugge a incasellamenti e diviene una scheggia anarchica, libera, che trattiene
forze che le respirano attorno, e al contempo le rilancia in nuovi orizzonti, nuove forme. Se La
donna scimmia (1963) risente dei primissimi film spagnoli, del clima dei primi anni ’60, e mette in
scena elementi naturalisti, non si può però definire un film realista; allo stesso modo Chiedo asilo
(1983), vent’anni dopo, si modella intorno alla linearità e all’assenza, proseguendo con l’interesse
verso gli spazi della desolazione, la dualità maschio/femmina, l’insondabile.
Sulla scorta di queste poche battute sul cinema di Ferreri, e della difficoltà di intendere come
unico un corpus diversificato e volutamente contraddittorio, obiettivo di queste pagine è di mostrare
però le molteplici ricorrenze interne al lavoro ferreriano, prendendo a modello due film di un
periodo fecondo della sua attività, Dillinger è morto (1969) e La grande bouffe (La grande
abbuffata, 1973), ricorrenze che si sviluppano intorno ai meccanismi del rito e della ripetizione.
Perché se è vero che l’individuazione di un filo conduttore pone paradossi e avallamenti – tanto più
in un’opera come quella ferreriana –, è anche vero che il regista milanese si è sempre interessato a
certi temi e soprattutto a certi modi di rappresentazione, nei quali (soprattutto nei decenni ’60 e ’70)
sono rintracciabili specularità, consonanze e ritorni.
È dunque partendo da questi presupposti che vorrei soffermarmi soltanto su determinati elementi
nella struttura dei due film, riconoscendo nella ripetizione retorica di alcuni atti, nel carattere rituale
delle strategie del racconto e degli stili di scrittura, diverse cadenze autoriali.1 Le due pellicole
rappresentano anche i definitivi successi, di pubblico e critica, del regista, al di là dell’Italia
(soprattutto in Francia2) e negli Stati Uniti.3
La grande abbuffata si regge sul meccanismo per nulla implicito di un unico atto reiterato e di
poco variato: mangiare. Atto accompagnato dal sesso, talvolta come alternativa e più spesso come
completamento.4 Da un punto di vista narrativo, gli eventi sono precisi e circoscritti, anche perché il
film procede in una sorta di gorgo antinarrativo nel quale più che una storia narrata si palesa una
crescente autodistruzione, che pietrifica le storie dei personaggi e al contempo si fa apologo.5 La
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narrazione procede per accumulo e non per scioglimento, per ripetizione e non per dramma:
l’antiracconto si avvita, come spesso in Ferreri, attorno ad un’idea fissa (Break-up, 1968), un gesto,
un simbolo, un’azione, i quali assumono i connotati di un monito sull’esistenza, tuttavia ben lontano
dal moralismo, ma frutto di una concezione propriamente cinematografica.
Lo stile di Ferreri si misura appieno in questo divario inconsulto,
inconcepibile, fra premesse e conseguenze; in un sordo lavorio della
ripetizione per uscire da se stessa e scoppiare all’improvviso in qualcosa di
imprevisto e di incontenibile, ma sempre senza dramma.6
Le caratteristiche che per Maurizio Grande sintetizzano un certo andamento ricorrente in Ferreri,
funzionano altresì in Dillinger è morto, dove gli atti si ripetono meccanici, uguali, seguendo schemi
precisi (cui farò riferimento nell’ultimo paragrafo) fino allo scoppio di violenza finale, che però
risulta – nell’economia del film, e nel contesto ferreriano – uno dei tanti scoppi posticci, uno dei
finali in-sensati, dove cioè il significato non è rivelato. Anzi il finale non ha un significato e non lo
vuole avere, proprio perché il lavoro dei segni filmici per tutta la pellicola disinnesca
quest’aspettativa, evira i contenuti dietro agli atti, per organizzare un banchetto sul nulla. Eppure
questo nulla è, se vogliamo, il vero carattere delle pellicole trattate, nelle quali la scrittura
antidrammatica si fa forza attraverso un’azione singola e reiterata (ma anche reificata, nel senso di
idea mentale che si concretizza, come nell’ossessione dell’aria nel palloncino in Break-up), che
diventa rito.
Il “principio metafisico e metaforico” di Ferreri è inarticolato, arbitrario e
non dialettico, tale da produrre ripetizioni e non evoluzioni. 7
In questo procedere di fissità e ripetizione, le immagini di Ferreri rappresentano soltanto loro
stesse: questa retorica che depotenzia il senso, però, non fa altro che mitizzare temi e contenuti fino
all’apologo. Gli atti ripetuti, in Dillinger come in altri film, da una parte rimandano a una
presentazione acritica di avvenimenti comuni (rientrare dal lavoro, cucinare, guardare la
televisione), dall’altra vengono investiti di un potere metaforico che rinvia alle leggi della società
industriale, che schiacciano l’individuo e trasformano le cose in surrogati. Più sottilmente rinvia
anche all’implicito meccanismo cinematografico: una ripetizione costitutiva del dispositivo (in
Dillinger chiamato in causa in mille maniere), incentrata sul riprendere/montare/vedere, sempre
uguale e sempre diversa.
Da alcuni considerato come un film-passaggio da un certo indistinto realismo all’astrazione della
metafora, La grande abbuffata rappresenta – tra le altre cose – una parentesi fisiologica, che però da
un lato esalta quel gusto per l’orrido, il grottesco e il mostruoso già visto in film precedenti8,
dall’altro organizza su nuove strade un percorso di allegorie. Ed è il lavoro sullo stile dei film,
inteso come ampio spettro di elementi e sistema segnico complesso 9, ad evidenziare maggiormente
questo aspetto di continuità nel cinema ferreriano, dagli esordi agli anni Settanta. Ad esempio il
lavoro svolto sul narrato, intendendo fatti raccontati e modo di organizzare il senso del racconto, è
emblematico fin dal principio della filmografia ferreriana, fin dagli esordi spagnoli. El Cochecito
(1960), suo terzo film, ha già in nuce modalità espressive di distrazione temporale, che qui tendono
a rimarcare soltanto i fatti, mentre in seguito saranno da ricondurre a una più ampia libertà di
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narrazione. L’uso dell’ellissi in La donna scimmia mantiene questo stesso procedimento, ponendo
l’attenzione soltanto sui punti salienti del racconto (racconto che interessava al Ferreri di quegli
anni, che faceva parte della sua visione), evitando spiegazioni minuziose sul passare del tempo e la
concatenazione degli eventi. Del resto tutti i fenomeni dell’antiracconto e della temporalità, in
Ferreri, anche nelle dilatazioni e nelle assenze, sono da leggere proprio come ricerche teoriche sul
tempo, l’attesa, la durata (Dillinger ne è un esempio). Con La grande bouffe, evidentemente, Ferreri
s’è spinto più in là, realizzando appunto un film incentrato sulla coazione a ripetere mortifera di un
unico, divorante ed ombroso gesto.
«Perché mangiate se non avete fame?». Iconologia del cibo e degli oggetti
L’azione coatta e ripetuta dell’ingurgitare cibo, senza sosta, nella Grande abbuffata è
inequivocabilmente annodata al tema della morte, in molteplici sensi che – a mio avviso –
complicano le occorrenze tematiche più comprensibili, e spesso direttamente chiamate in causa.
Prima di tutto la morte come assenza, e quindi graduale (e naturale) perdita. La questione della
perdita, così com’è stata studiata dalla psicoanalisi, si collega con evidenza al tema del vuoto e del
mancante, in un duplice significato: come oggetto del desiderio da ricercare, e come parte del sé
perduta e non raggiungibile. Un vuoto che, programmaticamente, i personaggi del film si trovano a
voler colmare proprio attraverso il suo contrario, la pienezza del cibo. L’atto ripetuto del mangiare è
l’esasperazione/esagerazione del vuoto, che vede nell’oggetto cibo l’eternamente mancante 10: il
pieno, la finta sazietà che corrode i corpi, riduce in putredine la carne (dei personaggi e degli
animali abbandonati in giardino, pronta per essere divorata dai cani), sembrano così essere l’unica
soluzione ad una mancanza eccessiva da
sopportare.
La dicotomia vuoto/pieno, oltre ad essere un
elemento di deriva esistenziale11, diviene materia
di raffigurazione nel sistema stilistico, e in
particolare nella composizione delle immagini,
cifra-chiave del cinema di Ferreri. La struttura
visiva della Grande abbuffata si ordina in
inquadrature sature di sollecitazioni, dove lo
spazio si organizza tra corpi, ombre e soprattutto
oggetti: il vortice autodistruttivo è anche
suggerito dalla ritualità compositiva delle
inquadrature, nelle quali la pienezza colma non soltanto l’immagine stessa, ma la porzione di senso
che il film evoca. Le “inquadrature-mondo” ferreriane appaiono composite e multiformi: grazie
all’operazione sul profilmico, nell’Abbuffata esse sono spesso divise da lumi, paraventi, credenze,
oppure sezionate dalle linee del tavolo, dei tendaggi, delle scale, che moltiplicano gli spazi e
disseminano le figure (Fig. 1).
L’inquadratura-mondo nella Grande abbuffata mostra l’accumulo e l’horror vacui, ma svela
anche il senso di quella che Maurizio Grande ha definito scrittura celibe:
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L’inquadratura è celibe perché non ha bisogno di “accoppiarsi” a un’altra
inquadratura. […] Le inquadrature non vengono concepite come elementi
parziali di un insieme (la sequenza) da ricostituire mediante le operazioni di
montaggio; […] il montaggio in Ferreri è congiuntivo, senza per questo
essere meramente additivo: congiunge e non coniuga, accosta e non salda,
avvicina e non fonde.12
Un’inquadratura piena, perciò, e bastevole. Questa ricchezza compositiva era già presente in
Dillinger, malgrado l’organizzazione delle inquadrature-mondo fosse diversa. Nel film del ’69 le
immagini hanno tutt’altra sostanza, non si punta sull’accumulo bensì sulla dilatazione scenica e
sulla sottrazione, che però hanno il potere – come vedremo – di evocare ugualmente un eccesso
simbolico (pensiamo anche agli interni nella Cagna). Un diverso utilizzo dei medesimi oggetti nel
profilmico, verso una critica alla società di massa e all’individuo alienato.
In una società industriale, dominata dalla tecnica e dalla produzione di massa,
il consumatore, l’utente finale, manca di un’identità precisa e individuale, è
un attore anonimo, una figura astratta, senza interiorità. 13
In questo senso nel film il «soggetto non è più l’uomo bensì tutto ciò che prima era il suo
consueto “completamento”, le cose […]»14; lo stesso Michel Piccoli, «attore anonimo», incarna una
presenza mobile e agita, schiacciata dall’inutilità dei gesti ripetuti, dove persino l’omicidio e la fuga
verso destinazioni esotiche sono simulacri di scelte, moti involontari e artificiosi. Nel film
l’artificiosità del personaggio è evidenziata in diverse forme, non ultima la presenza attoriale: il
continuo riferimento va al dispositivo, alla finzionalità del cinema, ai gesti, quasi come se fossero
gesti di un artista (l’intervento fisico sui filmini della vacanza, la gestualità delle mani, ecc.).
Tutto ciò dimostra come Ferreri non lavori verso una direzione finalistica, e il suo percorso
registico non segua un andamento teleologico; l’intenzionalità del regista vive proprio nel
mutamento di stile e argomentazione, che non rappresenta un caos ma piuttosto una libera (nel
senso di sciolta, dispiegata) visione del cinema e del mondo.
Insieme al tripudio visivo e orgiastico del cibo, nell’Abbuffata ben presto viene dato risalto ai
disturbi organici dei convitati. Il doppio rito godereccio (l’osservazione, come nell’iniziale sfilata
della carne in giardino, e la preparazione delle pietanze) si unisce non solo ai funerei rituali della
morte, ma al travaglio che li precede, tutto inerente al corporeo e al fisiologico: i peti, l’inondazione
di feci, il vomito, lo sperma, i cedimenti, ecc. L’aspetto sontuoso delle pietanze preparate con cura e
stile, dai rognoni alla Bordolese fino alle quaglie, dai tortellini panna e funghi al dolce a forma di
seni, viene accompagnato da un anelito di impostura mortale: il rito del cibo viene svuotato del suo
senso ancestrale (nutrirsi) e di quello borghese (il piacere), verso un’unica rotta di inaridimento,
dove mangiare diviene segno di antivitalità. Rimane, come nota Simsolo, un certo risvolto politicosociale legato al cibo:
La grande abbuffata non poteva che essere francese. Gli italiani hanno un
rapporto con il cibo molto diverso da quello dei francesi. Per loro mangiare è
una funzione naturale, mentre in Francia costituisce da sempre una
manifestazione legata alla classe sociale. Più si è ricchi e meglio (e più
complicato) si mangia: mentre in Italia più si è ricchi e più si può mangiare.
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[…] I personaggi del film si uccidono consapevolmente da esteti privilegiati
della gastronomia intesa come elemento rappresentativo del loro successo
sociale.15
Il cibo, il sesso, le esibizioni scatologiche formano un insieme di riferimenti che rimanda a quella
retorica della ripetizione che stiamo delineando, a quel finto movimento che invece di irrompere
ripiega in se stesso:
Il cibo, lo sperma, il vomito, la merda hanno perso qui quella tensione
liberatoria e irridente che possiedono nella cultura del grottesco popolare.
Sono ormai funzioni vitali rivolte contro se stessi e non più verso l’esterno.
Perciò si trasformano automaticamente in riti di morte. La fisiologia si nega
esaltandosi, portandosi all’eccesso autopunitivo; proprio mentre si espande
oltre ogni limite, il corpo si rinchiude in se stesso e perisce. 16
Anche la fisiologia più esibita, perciò, e la sessualità reiterata, vivono un loro oscuro soffio
fittizio: riempire col cibo e col sesso il vuoto è soltanto uno dei tentativi che questi «sacerdoti
ironici di un rito»17 compiono nel consapevole autoesorcismo che conduce alla morte. Il sesso
necessita spesso di una mediazione tattile, ancora una volta con cose. Il corpo e la cosa. Si pensi a
Michel e l’ambiguo rapporto col pianoforte, Ugo e l’amore/eros per i piatti cucinati, fino
all’orgasmo fatale. E soprattutto a Marcello, con il collettore della Bugatti infilato tra le gambe a
una delle ospiti, o le mutandine di un’altra ragazza, prima annusate e poi indossate come benda
piratesca. Più che feticci sessuali, anche in questo caso, rappresentano simboli di privazione,
elementi di sconfitta.
La grande bouffe e il tema della vanitas
La morte nella pellicola del 1973 prende un ulteriore connotato, esplicitato non solo nella
rappresentazione, ma anche nei dialoghi e nel contenuto. In una sequenza fondamentale per i
continui riferimenti alla falsità e all’imitazione (Ugo fa il verso a Marlon Brando travestendosi da
Vito Corleone, e una prostituta gli giura fintamente amore eterno), Michel cita l’Ecclesiaste, e in
particolare il tema biblico della vanità: ogni cosa è «epifenomeno», dice il personaggio, dall’amore
al letto, da Brando alla sabbia, al lavoro. Vanitas vanitatis. Nel frattempo ingozza una delle
prostitute con pezzi di carne, e subito dopo lancia fette di torta ad un’altra ragazza, il cui corpo nudo
non è altro che un ennesimo involucro vuoto, figurante l’assenza.
Il tema della vanitas, appunto riferibile al libro del Qohèlet18 e ad una precisa cultura nichilista,
artistica e sociale, nasce da una concezione per cui l’esistenza ha un’inconsistenza e
incomprensibilità innate, soprattutto in riferimento al fatto che con la morte ogni realizzazione
umana, ogni disparità e diversità, giuste o ingiuste, vengono annullate. Questa visione esistenziale è
perciò permeata da un profondo senso della morte, vissuta come l’assurdità per eccellenza
dell’esistenza umana; ogni cosa avrà allora un’ombra vana e fatua.
Uno dei motivi ricorrenti nella Grande abbuffata è proprio la vanità, l’inutilità dei gesti, la
coazione costretta, la vacuità dei corpi, per permettere di disporsi già in una dimensione ricettiva
rispetto alla morte. Eppure già si è notato come sia questo un falso movimento imposto da
«intenzioni inesistenti»19, che fanno da sfondo a una ricerca immobile, circolare, statica.
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Quattro ritratti […] colti in una sintesi di gesti abitudinari e quotidiani che,
nel momento stesso in cui li caratterizzano li tolgono per sempre alla nostra
comprensione fissandoli nella ontologicità allucinatoria dell’esistenza
corporea.20
Maurizio Grande, nella monografia dedicata all’autore, aggiunge:
[Essi] decidono per il nulla-pieno, illusorio, immaginario: una
immaginazione reificata nel fenomenismo di una morte che deve
sopraggiungere, di cui ci si deve impossessare, in cui ci si deve immergere,
come nel ventre caldo e misterioso del sesso.21
Il nulla di questa circolarità tautologica e retorica ci viene restituito da un meticoloso lavoro sulla
concatenazione delle sequenze, sul senso del racconto e sugli attori, portati a una fissità recitativa, a
una mobilità ridotta in uno spazio chiuso e monolitico, organizzata intorno ad atti regolati. Anche i
momenti che si svolgono all’aperto, in particolare nel giardino della villa, che scandiscono tempi
precisi della narrazione, rispettano questa immobilità – nei segni e nei significati –, una mortifera
impossibilità di cambiamento: esempio efficace è il viaggio senza esito della Bugatti, che al di là
del vialetto non arriverà mai, e con lei del suo demiurgo, Marcello, sorpreso dalla morte mentre
vagheggia una fuga impossibile. In questo senso il lavoro sugli (e con gli) attori, sui loro ruoli ma
anche sulle potenzialità espressive, è emblematico: nella difficoltà di rendere conto di tale
problema, centrale nel film, basti ricordare l’evolversi della recitazione del quartetto nel corso della
pellicola. Non è un cambiamento strutturale, bensì una modulazione su toni sempre diversi,
costruita su gesti e reazioni a volte inspiegabili: per esempio i toni dell’enfasi che
contraddistinguono Mastroianni (la sua esplosione di collera prima dell’esplosione dello scarico),
quelli via via più regressivi di Philippe (che delira e alla fine si esprime sempre più come un
bimbo), o il momento in cui netta si coglie la lacerazione mentale di Michel, quando trova l’amico
Marcello morto. Un urlo primordiale e senza parole, un’esagitazione senza precedenti per il
personaggio, anticipano una delle immagini più complesse del film: Piccoli nella Bugatti, ripreso
fissamente in lontananza, come un bambino in una macchinina di un parco giochi, accanto alla
desolazione di una lampada e di un cane seduto (Fig. 2). Immagine di grande efficacia – una delle
poche sgombre di elementi – per la capacità riassuntiva di temi tanto diversi: il senso d’abbandono,
la perdita, l’amore omosessuale, la disfatta per ciò che si riteneva impossibile, ossia la prima morte
del gruppo avvenuta realmente.22
Il nulla ci viene restituito, infine, da un’istanza metariflessiva sottintesa in tutto il film: la
staticità del cinema, la sua falsità (pensiamo alla sequenza del materiale fotografico “gustato”
insieme alle ostriche), la sua continua circolarità, ma soprattutto la possibilità connaturata alla
settima arte di lavorare con il reale. È così che Tognazzi si chiama Ugo e cucina per tutti, che il
cinese delle prime battute del film è un reale cinese sopraggiunto sul set, che le pietanze vengono
cucinate, servite e mangiate “in diretta”, come in un ritrovo tra amici.
Rito e stili del rito in Dillinger è morto
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Nel film del 1969 vi sono almeno tre delineazioni
di percorsi metalinguistici: il primo, di più immediata
comprensione, riguarda il rapporto creato e sollecitato
con i mezzi di comunicazione, gli apparati di
riproduzione, i dispositivi. Michel Piccoli guarda alla
televisione interviste a ragazze o frammenti di un
documentario su Fausto Coppi, ascolta la radio, e
soprattutto rivede (e rivive) vecchi filmini di una
vacanza spagnola.23 Qui l’atto del guardare non basta,
Piccoli entra nell’immagine, la commenta con il
corpo, dopo averla distorta allargandola o restringendola; l’ubiquità del meccanismo filmico gli
permette di essere inquadrato gigantesco sulle pareti di casa, e reale mentre osserva e mima gesti
fittizi, come nuotare nel mare o imitare un torero. Il secondo percorso metalinguistico investe in
particolare il prologo, che non ha un inizio ma irrompe come se fosse una storia sempre esistita ed
esistente: il discorso iniziale, le prime battute del film, non fanno altro che rimandare al film stesso,
al suo farsi prima di cominciare, a temi quali l’isolamento, la produzione (e le maschere antigas), il
capitale.24 Un metalinguaggio peculiare perché si discute di ciò che viene mostrato con i mezzi
propri del cinema (l’alienazione attraverso ambienti asfittici e modalità espressive alienate, e così
via).
Il terzo percorso di metadiscorsività, già accennato nelle pagine precedenti, riguarda il carattere
intrinseco dei gesti e delle ripetizioni di Piccoli, che riporta al nichilismo e alla debolezza generale
del senso. Ed è su questo punto che vorrei brevemente soffermarmi, anche attraverso analisi più
precise dello stile di due sequenze collegate tra loro, speculari. Una metadiscorsività che rivela
come la macchina metaforica costruita in Dillinger si riveli uno studio sull’essenza stessa del
cinema, nelle sue varie motivazioni.
Dopo una breve ellissi Piccoli è in cucina25 che – leggendo una ricetta – prepara da mangiare.
Indossa una camicia bianca e un vistoso grembiule rosso con delle decorazioni bianche: la macchina
a distanza riprende un eterogeneo insieme di oggetti, forme, colori, dimensioni, mentre alla radio si
ode la canzone Qui e là di Patty Pravo. Quando Piccoli cerca un condimento da aggiungere alle
pietanze in preparazione, la cinepresa passa in rassegna i vari oggetti sulle mensole e i mobiletti.
Mentre, in seguito, fruga nella dispensa26, trova la pistola impacchettata nel giornale, che titola in
prima pagina della morte del gangster Dillinger, e lascia così perdere il primo atto (cucinare, azione
A) per dedicarsi al secondo atto (smontare la pistola, azione B). Dopo i frammenti extradiegetici che
mostrano Dillinger, ritroviamo Piccoli dedito alle due azioni intrecciate: l’azione B ripresa con
diverse modalità, prima i particolari dell’oggetto, in seguito il volto dell’uomo occupato nella
pulizia dell’arma, e l’insieme dell’esecuzione (Fig. 3). Alternata, l’azione A, che Piccoli compie
interrompendo l’altra. La recitazione dell’attore è controllata, interiore, minima: le espressioni in
questo caso sono rarefatte, noi capiamo cosa pensa, cosa vuole e persino cosa succede dal modo
imploso con cui entra in contatto con gli oggetti e lo spazio. È una sorta di appendice del luogo in
cui si trova ad agire, anche e soprattutto perché le azioni sono pressoché vane, oltre ad essere
reiterate. Nel corso del film gli atti più disparati (il già ricordato momento di visione dei filmati, la
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cena, il rimontaggio dell’arma, la sua colorazione, ecc.) non offrono una spiegazione esaustiva, e
anzi si svuotano lentamente di senso. Persino la sequenza erotica con la cameriera Sabrina (Annie
Girardot) si autoripiega; la donna chiede al protagonista: «Perché mi trovi sexy?», e l’uomo ride di
gusto, esprimendo la decomposizione strutturale degli avvenimenti, la loro aerea pesantezza.
Nella seconda sequenza che vorrei commentare, quella pre-finale, vi sono vistosi cambiamenti.
Qui l’attore è seminudo, indossa solo un piccolo asciugamano rosso, ha appena caricato la pistola e
sale in camera da letto, dove la moglie dorme. La recitazione cambia rapida, e anche le posizioni
della macchina e i piani di ripresa. Piccoli, davanti allo specchio, dà vita ad un vero e proprio
spettacolo nello spettacolo, una serie di smorfie, gesti disarticolati, mosse in solitudine. Mima un
suicidio col suo doppio allo specchio, poi sul letto finge di sparare come in un film western, o di
gangster (non dimentichiamo la pistola di Dillinger). Tutti questi movimenti spettacolari, vissuti da
un uomo nel chiuso della sua stanza, non fanno altro che acuire l’irraggiungibilità di un senso,
mostrare la pura esibizione verso lo spettatore, liberarne i confini proprio per far deflagrare quel
moto rivoluzionario e potentissimo che a questo film è stato sempre riconosciuto. Ferreri smonta, in
poche inquadrature, persino le velleità gangsteristiche di un personaggio qualsiasi, proprio grazie
alla somma di riti accumulati nel film: il ritrovo casuale della pistola, lo smontaggio, il rimontaggio,
la colorazione con la pittura rossa a pois bianchi, l’asciugatura dell’arma appesa come se fosse un
capo d’abbigliamento. Con la svalutazione della ritualità, dell’oggetto-simbolo, e della potenza
gangsteristica, avviene anche la svalutazione del maschio, altro tema-monstrum ferreriano: un
maschio assente, che nel film gioca con le parti intime della moglie aiutato da un serpentello di
gomma, o è costretto a toccare immagini di donne sputate dal proiettore, simulacri di realtà.
La finta rivoluzione trova un compimento nel gesto definitivo, quando – con la stessa disinvoltura
con cui prima ha cucinato o versato del miele sulla schiena della cameriera – Piccoli spara alla
moglie tre colpi di pistola. Prima alza la radio per attutire i colpi, dopo l’omicidio rimane qualche
istante a fissarsi nello specchio, ed esce dalla stanza. La distorsione del senso è anche offerta, in
questo frammento, dalla posizione della cinepresa, che alterna vicinanza e lontananza, e dalla
direzionalità delle linee opposte presenti nella camera: quelle curve e colorate di un arazzo alla
parete, quelle rette e oblique dei muri della mansarda, quelle orizzontali – in sensi diversi – del letto
e del tappeto, che tagliano l’inquadratura, la frazionano e al contempo disperdono la ricerca. Così
avviene anche nella sequenza successiva, nella quale l’uomo prende lentamente congedo dalla casa
borghese, toccando gli oggetti, salutando un quadro (di Schifano), vagando per le stanze. Una
dilatazione temporale e concettuale che mostra la sua voragine nei momenti finali, quando Piccoli
esce nell’alba romana, corre in auto fino al mare, si tuffa e viene ingaggiato come cuoco su un
veliero che salpa per Tahiti.
La disposizione dell’arredamento (contrapposta all’ammasso di oggetti ed elementi visivi della
Grande abbuffata), i cromatismi, i simboli, la recitazione per detrazione e poi per esibizione, sono
materie di uno stile di finzionalità che nega, a tappe e con diversi artifici, il senso. Quando la
splendida ragazza-capitano, sul veliero, lo accetta a bordo, Piccoli esclama sorpreso: «Sembra
impossibile». Tutto il ripiegamento del senso è manifesto, e la nave può veleggiare verso un sole
rosso ed enorme, in un vi(r)aggio fittizio e allegorico.
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Note
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Rimando, per inquadrare alcune delle linee metodologiche, a testi che offrano una generale contestualizzazione: J.
Aumont, À quoi pensent les films, Nouvelles Éditions Séguier, Paris, 1996; G. Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. it.,
Raffaello Cortina, Milano, 1997; A. J. Greimas, Del senso 2: narrativa, modalità, passioni, tr. it., Bompiani, Milano,
1985.
2
La grande bouffe è uno dei film francesi di Ferreri, prodotto in coproduzione Parigi-Roma e girato in una villa in rue
Boileau, a Parigi. Per un approfondimento sul Ferreri francese, come insieme di riferimenti culturali, produttivi, e
notizie filmografiche, rimando a: N. Simsolo, La parte francese, in S. Parigi, Marco Ferreri. Il cinema e i film,
Marsilio, Venezia, 1995, pp. 111-120.
3
Tra Dillinger e La grande bouffe Ferreri realizza tre film di grande importanza ed interesse, che per certi versi
sarebbero anche utili a parte del nostro discorso. In particolare Il seme dell’uomo (1969), L’udienza (1971), La cagna
(1972). Per l’opera ferreriana rimando a: T. Masoni, Marco Ferreri, Gremese, Roma, 1998.
4
Non mi soffermo su un tratto interessante per un’innovativa lettura del film, che riguarda il rapporto tra la sessualità e
i cinque sensi. Qualche esempio: la vista connessa al personaggio interpretato da Mastroianni, che possiede la maestra
davanti allo specchio; il tatto connesso a quello interpretato da Noiret, masturbato dalla governante e toccato da Andréa
Ferréol. O ancora il senso del gusto per il cuoco Tognazzi, che associa i corpi delle prostitute a cibi vari (nel film chiede
«Posso baciarle l’ostrica?» o commenta, osservando due glutei: «Che belle meringhe»).
5
I personaggi della Grande abbuffata rappresentano già delle figure simboliche (il ristoratore Tognazzi, il pilota
Mastroianni, il produttore televisivo Piccoli, il giudice Noiret), e al tempo stesso rivisitazioni metariflessive degli stessi
attori, come si vedrà in seguito.
6
M. Grande, La scrittura celibe, in S. Parigi, cit., p. 7.
7
P. P. Pasolini, Le ambigue forme della ritualità narrativa, «Cinema nuovo», XXIII, 231, settembre-ottobre 1974, p.
347.
8
L’esegesi ferreriana ritorna con frequenza sui contenuti più immediati, ad esempio il lavoro su un corporeo in qualche
modo spesso corrotto, dagli invalidi del Cochecito (1960), ai peli della Donna scimmia, alla scatologia dell’Abbuffata,
tenendo solo in parte conto della ricerca ben più ampia che il regista conduce sul corpo maschile e su quello femminile.
È evidente che il percorso ferreriano, soprattutto negli anni presi in esame, evolva temi e questioni già incontrati, pur
spingendosi – soprattutto nelle soluzioni stilistiche – sempre in nuovi tragitti. Si rimanda, per un compendio tematico, a:
R. De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma, 1999. Per i primi film del
regista: M. Grande, Marco Ferreri, Il Castoro-La Nuova Italia, Firenze, 1974.
9
Non è possibile riassumere un panorama di studio, quello su stile e stilistica, antico ed esteso. Rimando soltanto a una
serie di interventi recenti che pongono l’argomento al centro della riflessione teorica nei Film Studies, ragionando su
una nozione di stile più complessa e fruttuosa. G. Carluccio, F. Villa (a cura), L’intertestualità. Lezioni, lemmi,
frammenti di analisi, Kaplan, Torino, 2006; E. Biasin, G. Bursi, L. Quaresima (a cura), Lo stile cinematografico, XIII
Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Gorizia FilmForum, Udine, 2007. Per un compendio sulla storia dello
stile filmico in ambito anglosassone: D. Bordwell, On the History of Film Style, Harvard University Press, CambridgeMassachussets-London, 1997.
10
Rosamaria Salvatore interpreta una parte della filmografia ferreriana proprio alla luce di questi ragionamenti. Si veda:
R. Salvatore, Il vuoto come origine e come perdita, in S. Parigi, cit., pp. 85-96. Rimando anche, per un ulteriore
approfondimento sul tema trattato secondo l’interpretazione lacaniana, a: M. Recalcati, Cliniche del vuoto: anoressie,
dipendenze, psicosi, FrancoAngeli, Milano, 2002; M. Recalcati, Fame, sazietà e angoscia, «Kainos», 7, 2007.
11
Cfr. G. Lipovetsky, L’era del vuoto, tr. it., Lumi, Milano, 1995.
12
M. Grande, La scrittura celibe, cit., p. 4.
13
Parole di B. Latour in A. Semprini (a cura), Il senso delle cose. I significati sociali e culturali degli oggetti quotidiani,
FrancoAngeli, Milano, 1999, p. 20. Il testo curato da Semprini, d’impostazione socio-semiotica ma aperto a varie
prospettive come l’Etnometodologia o l’Antropologia delle tecniche, può far luce su una questione centrale nel Ferreri
degli anni trattati, ma non solo: gli oggetti ripresi e rappresentati, e le loro interazioni con i personaggi. Cito almeno, a
questo proposito, il problema dell’accumulo presente anche nei primi film, come nell’episodio Il professore del
collettivo Controsesso (1964), o l’uso “apocalittico” dell’oggetto ne Il seme dell’uomo (1969), simulacro della
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distruzione, ma anche residuo di memoria e civiltà raccolto nel museo di rimasugli/feticci. Cfr. A. Scandola, Marco
Ferreri, Il Castoro, Milano, 2003.
14
B. Torri, Metafore e catastrofi, in S. Parigi, cit., p. 65.
15
N. Simsolo, La parte francese, cit., p. 116. Cfr. C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, tr. it., Il Saggiatore, Milano, 2008.
16
S. Parigi, Il corpo pneumatico, in Id., cit., p. 43.
17
P. P. Pasolini, cit., p. 345.
18
Sul Qohèlet, uno dei Libri Sapienziali del Vecchio Testamento, rimando a: G. Ravasi, Qohèlet. Il libro più originale e
scandaloso dell’Antico Testamento, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo, 1988.
19
P. P. Pasolini, cit., p. 346.
20
Ibid., p. 345.
21
M. Grande, Marco Ferreri, cit., p. 169.
22
L’indagine sugli attori nell’Abbuffata occupa un ruolo determinante, che in questa sede è impossibile riassumere.
Un’ulteriore ricerca, in questo senso, riguarda nel film il lavoro sui ruoli precedenti degli attori: Mastroianni, per
esempio, personaggio costruito intorno alla condizione di latin lover (pilota che non può vivere senza fare l’amore), più
d’una volta chiamato persino Marcellino, celebre nomignolo felliniano. O Ugo Tognazzi, che mantiene per tutto il film
una recitazione lineare e calibrata, con due momenti di deflagrazione del personaggio, e di conseguenza delle doti
recitative: quello della risata che quasi lo soffoca (evidente riferimento al Tognazzi comico, dal Varietà in poi), e i
lunghi momenti – tra il patetico e il grottesco – dell’abbuffata di patè e dell’orgasmo sul tavolo di cucina. Oltre ai
riferimenti già offerti, cito due saggi di studio sull’attore, utili a una comprensione generale del problema: A. Scandola
(a cura), L’attore cinematografico: modelli di analisi, Comune di Verona, Verona – Centro Audiovisivi, 2009; P.
Bertetto (a cura), Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, Minimum Fax, Roma, 2007.
23
Il lavoro metariflessivo su John Dillinger, altro percorso metatestuale del film, sarà escluso per motivi di spazio dai
nostri ragionamenti, anche se accennerò a tratti del problema alla fine dell’elaborato.
24
Per mancanza di spazio non affrontiamo questi nodi decisivi del film, come le questioni economiche e politiche che
Ferreri interpreta anche secondo il clima del ’68: tra le altre cose la produzione, le teorie di Marx, Marcuse, Sartre,
Baudrillard. Faccio riferimento, per eventuali contestualizzazioni, all’analisi di: A. Scandola, cit., pp. 73-79.
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Il film è girato, negli ambienti principali, in un appartamento di Piazza in Piscinula a Roma, appartenente a Mario
Schifano (del cui lavoro Dillinger risente, in particolare penso a Satellite, 1968); la cucina invece è quella della villa di
Ugo Tognazzi a Velletri.
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Il film è ricco di momenti d’indecisione visiva, spesso in soggettiva, che scandiscono tempi diversi di caos
rappresentativo. In questo caso mentre in soggettiva l’uomo guarda verso la dispensa, la macchina da presa sembra
barcollare, senza però un ancoraggio diegetico. Non è il luogo per approfondire tale discorso, molto utile però per
un’analisi stilistica del film ferreriano, ma anche per identificare il ruolo del protagonista rispetto a ciò che lo circonda
(in particolare attraverso uno studio sul soggetto incerto, le soggettive incerte e gli zoom).
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