LA LOGICA DEL “MURO” O QUELLA DEL PONTE?
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LA LOGICA DEL “MURO” O QUELLA DEL PONTE?
LA LOGICA DEL “MURO” O QUELLA DEL PONTE? d. davide schiavon Da pochi giorni sono rientrato con Davide (operatore caritas) da una breve missione in Togo, precisamente a Niamtougou. Lì da quattro anni stiamo portando insieme alla chiesa locale un progetto di accoglienza per i bambini abbandonati, in modo particolare per coloro che vengono detti sorcier (cioè posseduti da spiriti cattivi). La progettualità è certamente importante, ma ciò che ha più valore è il cammino tra chiese sorelle, è la condivisione della stessa fede, di gioie e dolori, di paure e speranze. Sono stati giorni intensi, di relazioni profonde alla luce della Parola. In un periodo in cui si parla ovunque di muri, è stato veramente bello sperimentare la logica del ponte, la gioia di sentire che siamo una sola famiglia umana e che sotto la guida dello Spirito Santo vengono valorizzate le differenze, ma accorciate le distanze. Siamo tornati a casa con molta speranza nel cuore e con la consapevolezza che un mondo migliore è possibile, ma dipenda da ciascuno di noi. Molti chiedono perché andare in Togo con tutte le difficoltà che ci sono anche qui? Non è per realizzare un progetto di cooperazione, ma per vivere una fraternità che è universale, che non conosce confini. È ricordarci sempre che siamo profondamente uniti gli uni agli altri. Ed è proprio alla luce del Vangelo della Carità che è possibile leggere la nostra vita, le nostre esperienze con occhi diversi, con uno sguardo illuminato dal desiderio di bene. Ci sono incontri nella vita che restano impressi in maniera indelebile nel cuore di chi li vive. Sono momenti che cambiano radicalmente il cammino della propria esistenza, che dischiudono orizzonti di speranza e di fiducia dove ormai sembrava le tenebre avessero la meglio. È l’ora della salvezza, della rinascita e di quest’ora particolare resta impresso nel cuore il profumo, il colore ed il sapore. È vita che riaffiora e che esplode come nuova primavera, è il deserto che fiorisce in maniera del tutto inaspettata. Presso il cuore ferito del povero è necessario fermarsi, rimanere in ascolto, sospendere il giudizio e lasciare che l’Amore sani ogni ferita. Dinanzi alla sofferenza, alla povertà, agli scenari di morte che si levano davanti ai nostri occhi, è facile lasciarsi vincere dalla tentazione di scappare via, di rinunciare. Gesù ci ricorda che quando abbiamo lasciato entrare nel nostro cuore le fatiche e le sofferenze degli altri, cambia radicalmente il nostro punto di vista. Si guarda all’altro in modo diverso, si comincia ad assaporare la dolcezza di vedere fiorire il bene dentro e intorno a noi. Prima di tutto è importante allora rimanere, restare dentro la realtà senza paura di sporcarsi le mani e di dover faticare. Rimanere significa affermare che la vita dell’altro mi interessa (I Care di don Lorenzo Milani), che viviamo la fraternità non solo a parole, ma nella concretezza delle scelte. Significa gioire con chi gioisce e piangere con chi piange. È stare fermi solo per amore, anche quando tutto ciò che ci circonda ci stringe attorno e ci spinge alla fuga. Rimanere nella storia delle persone vuol dire togliersi i calzari dei piedi, per onorare il percorso e la dignità di ciascuno, anche se segnata da qualche difficoltà. È custodire la vita, è prendersi cura di quel “prezioso tesoro che è contenuto in fragili vasi di creta”, sapendo che è un dono per tutti. Rimanere è dare fiducia alla credibilità di ciascuno, è vivere la fedeltà all’uomo. Questo dimorare nell’incontro con l’altro diventa stimolo importante ad abitare i luoghi dell’umano. È dare dignità, è umanizzare la sofferenza e la povertà, imparando ad abitarla nella nostra impotenza e nella nostra debolezza. È dire con Pietro “Non abbiamo né oro, né argento, ma quello che ho te lo dono: in nome di Gesù alzati e cammina”. È incoraggiare alla vita. Purtroppo, oggi, tante volte i poveri e le loro storie destano profonda attenzione solo quando fanno aumentare l’audience o si trasformano in fenomeni da baraccone. Abitare la storia dell’uomo di oggi, con le sue solitudini, le sue angosce, i suoi drammi e le sue ferite, significa scendere con coraggio nell’infermo tenebroso di molte persone offrendo una vicinanza che assicura che nessuno è mai solo e mai verrà abbandonato dal Signore. Abitare è farsi carico della storia dell’altro con la consapevolezza che l’ultima parola sulla nostra esistenza e su quella degli altri è la Resurrezione, è l’Amore. Abitare in definitiva chiede di fare spazio dentro di noi, perché il povero possa trovare sempre accoglienza e riparo nel nostro cuore. Significa non vergognarsi della propria debolezza, ma metterla nelle mani di Gesù, sotto la sua mirabile custodia. Come Chiesa è importante che sia vissuta questa fedeltà all’uomo e alla sua storia. Abitare significa entrare con delicatezza nei gangli vitali dell’esistenza dell’uomo, per sussurrare al suo cuore che ogni realtà viene recuperata dall’Amore. Abitare i luoghi dell’uomo contemporaneo significa portare la luce della misericordia di Dio nella politica, nell’economia, nell’educazione, nella famiglia, nel lavoro e in ogni frangente umano. È fare nostra la logica della debolezza di Dio, della sua semplicità per arrivare in ogni angolo della terra a dire che la Carità resterà sempre sorgente inesauribile di vita. LO SCANDALO DI GORINO: “Siamo tutti in qualche modo dei migranti in cerca del nostro destino” Professor De Santis, lei è un immigrato italiano nelle Valli di Comacchio, dove ha messo su famiglia e vive. Si aspettava un episodio come quello di Gorino? È stata una sorpresa un po’ per tutti. Nel Delta del Po dove vivo ormai da quarant’anni non siamo abituati ad episodi del genere. Il clima è molto civile e il livello di solidarietà è tra i più alti in Italia. Raramente si sono verificati episodi d’intolleranza. Anzi, posso tranquillamente testimoniare che l’accoglienza è il rispetto sono valori condivisi, ben radicati nella popolazione. Però tutta quella comunità è scesa in strada, a suo avviso è ostaggio dell’ideologia xenofoba, oppure l’Italia rurale regredisce? Il fenomeno andrebbe analizzato nella sua complessità. Le cose non accadono mai per caso. Prima di tutto occorre fare una distinzione: non si tratta di Goro, ma di Gorino che è una frazione di 600 abitanti, la punta più estrema del Delta ferrarese. E serve un po’ di cronistoria del luogo: Gorino è una comunità di pescatori, vissuta con poco fino a circa trent’anni fa. Poi è giunta una ricchezza improvvisa, piovuta dall’inseminazione delle vongole: salari da capogiro per della gente abituata a tirare a campare con molta fatica che forse non hanno saputo gestire. I giovani, piuttosto che studiare, hanno preferito dedicarsi alla raccolta delle vongole, lavorando poco e guadagnando tanto, con risvolti negativi in termini sociali: aumento del tasso di tossicodipendenza, alcolismo, notti brade, incidenti stradali diffusi. Io non parlerei di xenofobia, anche se la sottocultura leghista ha prodotto danni enormi per la coesistenza pacifica e l’accoglienza tra i popoli. Perché si temono i profughi: paura di invasione, di violenze o permane l’atavica paura del diverso? Indubbiamente la paura del diverso, unita alla difesa di un benessere piovuto all’improvviso hanno contribuito a un’azione spontanea di rivolta e non meditata sufficientemente. In più ci sono stati errori della Prefettura, che non ha avvertito preparando adeguatamente la popolazione e che si è presentata con carabinieri e ordinanza da “coscrizione obbligatoria”. Non si agisce così, anche se credo che tale modalità sia figlia del tempo: là dove difetta la cultura, si supplisce con le “grida” di manzoniana memoria o le barricate contro i più deboli. Nella sua esperienza personale l’accoglienza è stata frutto di legami familiari o tempo addietro quella società era più aperta? Non ho mai avuto problemi. Anzi sono stato accolto davvero con le migliori intenzioni per farmi sentire a mio agio È vero che io ero un immigrato speciale, laureato, sposato con una donna del luogo e poi docente, ma lo stesso trattamento, che io sappia, hanno ricevuto anche immigrati di ceto sociale e provenienza diversi. Posso ancora testimoniare, per come conosco questa realtà, che i valori di tolleranza, rispetto, solidarietà e impegno civile sono ben radicati, frutto probabilmente anche di una cultura laica e socialista molta diffusa da queste parti. Lei insegna da molti anni lingua italiana negli istituti di quella provincia, come sono i diciottenni e come sono i loro genitori quarantenni, s’interessano alle vicende del mondo? I ragazzi sono sempre gli stessi, con gli stessi problemi e la stessa voglia che avevamo noi di cavalcare la vita e affermare i nostri ideali. Meno presenti e più arroganti sono i genitori che, spesso, demandano ad altri proprie responsabilità. Forse erano meglio i nostri padri che avevano e ci hanno trasmesso pochi e giusti valori. Oggi si vuole tutto e subito senza chiedersi da dove viene e come si conquistano le cose. Ciò che conta sono denaro, potere e immagine. Nel mondo iper connesso si possono verificare chiusure drastiche verso chi fugge da tragedie immani: diventiamo così superficiali, egoisti, cinici? L’uomo è per definizione superficiale, egoista e cinico. E non è detto che siano aspetti negativi se vissuti in funzione dell’esistenza. Ancora una volta è un atteggiamento che deriva da un difetto di cultura: meno si sa, meno si conosce, più si consuma e più si sta in pace con la propria coscienza. Un popolo che non sa più indignarsi di fronte a una tragedia come quella di Aleppo o per i morti in mare che fuggono in cerca di migliori condizioni, non ha più anima, è vuoto. Il nostro Paese marcia in questa direzione e i partiti che lo rappresentano ne hanno fatto la loro sostanza. Se non fosse giunto nelle Valli di Comacchio, dove sarebbe approdato? Ora so per certo che in qualsiasi parte del mondo vi è qualcosa da cercare e per cui si può lottare, anche a costo di non trovarla.