kapuscinski, addio a uno degli ultimi grandi inviati

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kapuscinski, addio a uno degli ultimi grandi inviati
KAPUSCINSKI, ADDIO A UNO DEGLI ULTIMI GRANDI INVIATI
Giovedì 25 Gennaio 2007 01:06
di Agnese Licata
Ryszard Kapuściński, dopo aver trascorso una vita viaggiando da una nazione all’altra, da un
continente all’altro, con la sola compagnia di una macchina fotografica, un taccuino e una
penna, è morto martedì notte nella sua terra, la Polonia, in un ospedale di Varsavia. Non
aveva fatto una scelta facile nella sua lunga carriera da giornalista, Kapuściński. Aveva scelto di
dare voce a chi voce non ha, a quei milioni di poveri che affollano e hanno sempre affollato il
Terzo Mondo. Aveva preferito essere testimone del loro dramma anonimo e silenzioso,
piuttosto che parlare del ricco e invasivo Occidente. “ …i poveri, di solito, stanno zitti”, aveva
scritto. “La miseria non piange, non ha voce. La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria
non si ribella. I poveri insorgono solo quando sperano di poter cambiare qualcosa. Di solito si
sbagliano, ma solo la speranza è capace d’indurre la gente ad agire. La principale caratteristica
di un mondo perennemente in miseria è l’assenza di speranza”. E così, per raccontare eventi
storici come le guerre africane d’indipendenza, la fine dell’impero sovietico, la rivoluzione
iraniana, Kapuściński partiva sempre dalla gente comune, con la quale condivideva, spalla a
spalla, un pezzo d’esistenza. Non era certo un frequentatore di alberghi internazionali, il
giornalista polacco.
Ai tanti che gli chiedevano il perché di una scelta così difficile e
pericolosa, rispondeva: “Perché sono scrittore? Perché tante volte ho rischiato la vita e sono
stato a un passo dalla morte? Per dimostrare l’esistenza del fato? Per guadagnarmi lo
stipendio? Il mio lavoro è una vocazione, una missione. Non mi sarei esposto a rischi del
genere se non avessi sentito che si trattava di qualcosa che riguardava la storia e noi stessi,
qualcosa di talmente importante da costringermi ad affrontarli”. Una missione che Kapuściński
ha portato avanti ininterrottamente per oltre cinquant’anni: con il lavoro quotidiano in un’agenzia
di stampa polacca (la Pap), ma anche, e soprattutto, attraverso i suoi numerosi libri-reportage.
E saranno proprio pagine come quelle di “Ebano”, “Imperium”, “Il Negus”, venerate da migliaia
di aspiranti giornalisti di tutto il mondo, a non far spegnere il suo ricordo.
Anche il paese d’origine di Ryszard Kapuściński, Pińsk, ha una vita “vagabonda”. Nel 1932,
quando vi nasce, fa parte della Polessia, nella Polonia Orientale. Ma gli accordi di Jalta, che
stabiliscono il nuovo assetto mondiale dopo la seconda Guerra Mondiale, ne spostano a
occidente i confini. Oggi, Pińsk fa parte della Bielorussia.
Gli anni della guerra e delle invasioni (sia da parte dell’esercito sovietico sia di quello tedesco)
hanno un ruolo fondamentale nella vita del futuro giornalista, come dimostra la scelta di aprire
uno dei suoi libri più importanti e difficili - “Imperium” - proprio con i suoi ricordi di bambino
costretto ad andare a letto vestito e con le scarpe a portata di mano, per essere pronto alla
fuga. La sua, infatti, è una delle tante famiglie povere che tentano di sopravvivere, in qualche
modo, alla fame e ai rastrellamenti. “Nato in Polessia, sono sostanzialmente uno sradicato”,
racconta di sé. “Partito da bambino da Pińsk, mia città natale, per tutta la guerra sono stato
sballottato di qua e di là. Non facevamo che scappare: prima da Pińsk in direzione dei tedeschi,
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poi nella direzione contraria. Ho cominciato a vagabondare a sette anni e ancora non ho
smesso”.
È forse da quella esperienza che nasce l’esigenza intima, etica, del giornalismo, inteso come
testimonianza di una “storia in divenire”. Quella storia che, a partire dalla seconda metà degli
anni 50, sembra subire un brusco cambio di rotta, dando speranza ai sogni d’indipendenza ed
emancipazione di tanti popoli africani. Così, nel 1956, dopo aver definitivamente abbandonato il
suo sogno di “diventare portiere della nazionale polacca”, decide di partire per l’Africa come
corrispondete per l’agenzia polacca Pap. “L’Africa era un enigma, un mistero, nessuno sapeva
che cosa sarebbe successo quando trecento milioni di individui avrebbero rialzato la schiena e
chiesto il diritto di parola”, scrive ne “La prima guerra del football e altre guerre dei poveri”.
Copre ben cinquanta nazioni, con le enormi difficoltà di un’era in cui l’unico strumento possibile
per la comunicazione è il telex. Vive e racconta le prime elezioni libere del continente nero
(Ghana, 1957), l’uccisione di Patrice Lumumba (1961) e, con lui, delle speranze di un Congo
unito; la sanguinosa lotta algerina contro i francesi e il successivo colpo di Stato ai danni di Ben
Bella (1965), e altro ancora.
L’amore per l’Africa (o meglio, come sottolinea in “Ebano”, per le tante Afriche) non impedisce
alla sua curiosità e alla sua missione di rivolgersi anche verso altri continenti. “La mia casa è
altrove, in un altro stato. Appena mi fermo in un posto, anche fuori dalla Polonia, comincio ad
annoiarmi, sto male, devo partire”, si legge nella sua ultima opera apparsa di recente in Italia,
“Ryszard Kapuściński. Autoritratto di un reporter”. Così, nel 1969 si ritrova testimone della
feroce guerra tra Honduras e Salvator, che in sole cento ore causa seimila vittime, mentre
50mila persone perdono tutto ciò che possiedono. E poi c’è l’Asia di “Shah-in-shah”, con la
rivoluzione iraniana di Khomeini. Cambia la nazione, il continente, ma l’obiettivo di Kapuściński
è sempre lo stesso: trarre messaggi universali, sulla natura umana, che vadano ben oltre la
cruda e inutile cronaca dei fatti.
Quello che Ryszard Kapuściński lascia a chi, negli anni avvenire, avrà ancora voglia di leggere
le sue pagine, è tutto questo e molto altro. È, soprattutto, un modello di giornalismo che rischia
sempre più di scomparire. Perché etico, faticoso, costoso, poco spettacolare, molto rischioso e
che dà poca notorietà. In Italia, l’ultimo contratto nazionale dei giornalisti ha relegato la figura
dell’inviato a “clausola provvisoria”, permettendo, inoltre, all’editore, di imporre agli inviati anche
il cosiddetto lavoro di desk, seduti a una scrivania, osservando il mondo da un computer o da
una televisione. Quella stessa scrivania che aveva convinto Ryszard Kapuściński a scegliere le
vie di Erodoto e della realtà vissuta piuttosto che mediata.
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